Tumgik
gianlucamarziani · 3 years
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JOHN PEPPER
IL CONFINE ASSENTE Gianluca Marziani
La fotografia che riparte dal punto zero, dal rumore bianco, dal vuoto apparente. La fotografia che riconquista lo spazio e il tempo, dentro la coscienza metafisica del DESERTO, nel luogo reale che più di ogni altro contiene il luogo ideale, lo spirito aleggiante, il primo suono liberato.
Scattare fotografie davanti ad un confine assente significa riappropriarsi del proprio spazio e del proprio tempo, assumendosi la responsabilità dell’immagine, abitando la coscienza divinatoria dell’occhio. Lo spazio riconquistato è lo spazio che la Storia aveva riempito in modo bulimico, è lo spazio che il Novecento ha decostruito fino a perderne frammenti, è lo spazio che il nuovo millennio cerca di diluire nel flusso liquido delle intelligenze artificiali. Il tempo riconquistato è il tempo che la Storia aveva insanguinato in una ciclica catarsi biblica, è il tempo che il Novecento ha sradicato per ripiantare semi geneticamente modificati, è il tempo che il nuovo millennio cerca di manipolare tra mistificazioni, nascondimenti e distopie. Quel confine assente permette di riappropriarsi dello spazio e del tempo liberato, acquisendo consapevolezza del “prima” e del “dopo”, di uno spazio e di un tempo che nei deserti torna originario, limpido, sostanziale. La fotografia delle assenze, per paradosso metafisico, agisce prima di ogni origine archeologica, prima del Sapiens, prima dei graffiti dentro le grotte, captando il preumano e il postumano, muovendosi nella natura naturans che distrugge per creare. La fotografia è testimone luminosa degli elementi nascosti nel vuoto, una risonanza magnetica che eccita i protoni delle antiche storie, così da catturare frammenti fatui che il nostro occhio, reale eppure fantastico, interpreta con discrezione poetica e libertà filologica.
Quando vidi per la prima volta le stampe di INHABITED DESERTS, ebbi una scarica alla radice mentale dello sguardo, nel punto limbico in cui l’esperienza visiva partorisce l’immagine matrice, la prima luce, l’archetipo da direzionare coi propri codici culturali. John R. Pepper, per un attimo, mi stava rapendo dal rumore cromatico del quotidiano. Ero dentro il rumore bianco del punto zero, nel frangente in cui comprendi la possibilità prima del caos, il nuovo inizio ciclico, la chiave di ridefinizione dello sguardo stesso.  
Quei deserti sono il prologo dopo la Storia, una rinascita interiore che si sublima nel linguaggio fotografico. Qualcuno potrebbe dire che anche la pittura sia un linguaggio di rinascita, una chiave per ripulire il codice figurativo dal carico nozionistico. In realtà, se parliamo di rinascita nel tempo tecnologico, la pittura trattiene memorie secolari che ne inficiano la purezza, con l’aggiunta di una manualità dilatata che l’allontana dall’istante percepito; mentre la fotografia condensa, nella sintesi tecnologica, la rivelazione nell’occhio, l’impatto diretto sul nascondimento, l’immediatezza di una densità sottostante.  
Nel deserto si condensa l’origine del fuoco, il primo nominare, il disegno rivelatorio  
Il deserto aggrega genesi e miti, evocando tradizioni orali e sacre scritture, un immenso bagaglio letterario che in quel silenzio cosmico conserva la potenza di Jahvè, il seme di Adam e il suo complementare Hawwà. Nel deserto ripensiamo all’inizio biblico, a quel purissimo incipit in cui Jahvè, circondato da una terra desertificata, mette le mani nella creta (adamah) e plasma Adam, il primo uomo. Jahvè, a quel punto, crea un giardino con piante e alberi, il fatidico Eden dove Adam vive in maniera ignara, non avendo una controparte che crei il desiderio: e con esso quel senso d’incompletezza che lo porterà a cercare Lei, la parte mancante, la Ishà (Ish significa uomo) che offrirà un primo confine allo sguardo, dando pienezza al vuoto originario. Da quel momento il deserto inizia a pulsare e l’umanità, sotto le spoglie del primo connubio, tramanda la Storia.
Il deserto è lo spazio ancestrale prima dello spazio abitato, il vuoto più denso del Pianeta, geografia evocante che culla mitologie seminali. Il deserto trattiene la densità delle storie attraverso il silenzio ascetico, l’atmosfera limpida, l’impossibilità di generare caos. Perché dove non esiste rumore non può esserci mistificazione: e tutto permane in limpidezza, proprio come nel codice sorgente del Pianeta. Così tornano a galla milioni di parole tramante e di pagine scritte nei secoli, migliaia di sguardi che hanno riempito quel silenzio con le loro allegorie, i loro simboli, le loro metafore di vita. E così il deserto rivela la sua energia enciclopedica, il suo sapere originario, la sua pazienza metafisica.  
Mi sovviene la letteratura radicale di Antonio Moresco, scrittore che sradica il realismo per denudare le polarità significanti dell’umano. Un approccio che ingloba religioni e mitologie, immaginando un’origine contestuale per il Primo Uomo dopo l’umanità, dopo il caos globalista, dopo la cultura del Capitale. Per Moresco il paesaggio è un soggetto narrante che conduce i sopravvissuti alle radici geologiche, dentro un processo di mineralizzazione che attira sabbia e pelle, pietra e spirito, radici e anime. Sentivo il bisogno di uno scrittore d’appoggio marmoreo, un raccordo tra le scritture sacre e il rituale di un presente senza mediazioni. Serviva una letteratura che dilatasse la sociologia metropolitana di Rem Koolhaas, l’analisi postmediale di Jean Baudrillard, l’antropologia sullo spazio urbano di Franco La Cecla. Una cifra narrativa che superasse la progressione lineare del racconto, in grado di avvicinare i tre principali libri sacri (Bibbia, Tōrāh, Corano) alla vertigine del postumano, offrendo spazio ad una metafisica del reale, dietro il reale, oltre il reale. Ed è nel superamento di una realtà apparente che cresce l’energia nascosta del deserto, la sua storia mai interrotta, la sua capacità di conservare i semi di ogni passaggio umanitario.  
INHABITED DESERTS è una formidabile avventura umana che ha visto John R. Pepper tracciare linee rosse sulla mappa satellitare del Pianeta. Tre anni di lavoro e 18.000 chilometri percorsi tra Stati Uniti, Russia, Oman, Iran, Israele e Mauritania… luoghi e deserti che racchiudono complessità e diversità, due cose che lo rendono il più spoglio degli habitat ma anche la geografia spirituale di quel dato Paese, la sua sintesi denudata e preurbana. Esistono deserti di sabbia gialla o terra scura, deserti rocciosi, deserti dove il verde mantiene presenza, deserti pianeggianti o montagnosi, variabili nelle temperature, nei colori, nella fauna locale. Soprattutto, esiste un modus con cui l’autore ha fotografato decine di luoghi silenziosi nelle diverse ore della giornata. Un approccio che non segue il tema del reportage ma che, al contrario, pone il deserto sulla linea strategica di Monet e Cézanne, dove lo sguardo in bianconero seziona il visibile per ricostruirlo con lo strumento della luce. Pepper sfugge alle arguzie da software digitale, evitando il maquillage d’artificio e sposando il tema analogico in maniera sensibile. Modula le scale dei grigi con rabdomantica nitidezza, profilando le dune come fossero lame, sezionando i contrasti con ambivalenze semantiche, intuendo l’istante in cui il sole disegna senza sbavature.
La fotografia di Pepper crea un morbido clima pittorico, un’atmosfera di rarefazione modulata che sensibilizza le particelle dei bianchi e neri, suonando mille sfumature sul pentagramma visuale del grigio. Non era semplice comprendere le assenze silenziose, l’apertura infinita di campo, il peso del cielo, la sostenibilità gravitazionale della terra. Lo spazio sconfinato pone quesiti strategici, imponendo una scelta di perimetro, affinché nel confine dato si delinei la grammatica dell’occhio. Per il nostro autore quel confine è forza di gravità, stabilità ed equidistanza, espressione e concetto. Un confine che si rivela nella qualità luministica, nei tagli d’inquadratura, nell’istante prescelto, negli equilibri tra le parti. Pepper amalgama tutto ciò, creando un’estetica fortemente pittorica, sia nelle attitudini che nei risultati formali. Un’estetica che ingloba la pittura dentro la sua anima meccanica, così da mantenere immediatezza (fotografia) e durata (pittura), istante e memoria.    
Dentro la natura ottica si distende il presente atmosferico, la sua dimensione fisica che implica storie di passaggi reali, comunità nomadi, conflitti e nuove armonie. Il deserto ci invita al ripensamento di molte strutture del pensiero occidentale, ad un nuovo rapporto con i confini geografici, ad un’analisi dei sistemi democratici e non. Quel vuoto lunare accoglie riflessioni lente e chirurgiche, consapevoli del reale ma anche del substrato energetico che riempie l’atmosfera animistica del silenzio. Solo qui esiste lo spazio transnazionale del dialogo platonico, una specie di terra comune in cui ridurre i conflitti mentre si affrontano crisi finanziarie, epidemie, disastri naturali e tensioni geopolitiche. Se l’umanità avrà un nuovo domani si dovrà ripartire dall’immagine simbolica di un deserto, da una dottrina che ridefinisca il peso del denaro e la sua distribuzione planetaria. Si dovrà ripartire dal silenzio, dal sapere dottrinale, dalla guida di grandi menti “postumane”.
Il vuoto apparente conserva la pienezza dell’esperienza metabolizzata  
Le ombre narrano da sempre alchimie narrative, misteri fiabeschi, paure ancestrali. Sono la zona oscura dietro la luce solare, il contraltare simbolico che teatralizza i corpi nel paesaggio, esaltando il carattere ambiguo oltre l’apparenza luminosa. Nel deserto le ombre diventano giganti dal mistero solido, sorta di proiezioni panteistiche che raccolgono tracce mitologiche, passi dell’Antico Testamento ma anche zone del presente letterario, da Éric-Emmanuel Schmitt a Paul Bowles, da Joseph Conrad a Dino Buzzati. Le ombre di Pepper disegnano la luce di contrasto, sempre con granature atmosferiche dal tenore impalpabile, con quella patina gassosa che ammorbidisce le superfici, diminuendo le distanze tra una realtà percepita e un sogno ad occhi aperti. La gravità compositiva si bilancia con leggerezza aerea e spinta terrestre, sorta di cucitura tra luce e ombra per sostenere l’equilibrio iconografico dello spazio concluso. Il processo tecnico tiene assieme l’intero ciclo, dando superficie coerente ma, soprattutto, sintonia interiore alla biologia del deserto.    
Qualcuno si potrebbe chiedere se esista un suono reale nei paesaggi desertici. Il vento, strumento polifonico della Natura, è la prima voce che riempie l’aria, scorrendo con flussi ondosi d’intensità variabile. Ebbene, oltre il tangibile esistono altri suoni nascosti e microscopici. E sono quei suoni di cui si accorge una certa musica elettronica, la cosiddetta noise-ambient in cui bordoni, glitch, nastri registrati, campionamenti e synth compattano il caos microscopico dei paesaggi integri. Mi riferisco a Vladislav Delay, Rafael Anton Irisarri, William Basinski, Ben Frost, GAS, Oren Ambarchi… tutti musicisti che hanno affrontato i paesaggi estremi del Pianeta, registrando la vita micro e l’eco del macro, ricucendo il caos in disordine, definendo il suono altrimenti invisibile. Sono loro la colonna sonora dei deserti di Pepper, gli artefici involontari del suono necessario, il tappeto acustico che amplifica il fattore di potenza. Fate una prova e sfogliate il catalogo ascoltando la loro musica: la vostra percezione subirà un immediato ampliamento sensoriale, a riprova di quanto siano connessi il paesaggio e il suono, il pensiero e le note, la filosofia e il pentagramma. Ciò che sembra rumore nasconde le migliori composizioni naturistiche del nostro tempo; ed è un suono arcaico, michelangiolesco, creato in purezza tecnologica. Una musica che ci stimola ad usare un microscopio interiore, ingrandendo il poco visibile dei deserti, immaginando l’invisibile della memoria, intuendo la coscienza etica di ogni storia che nel deserto ha preso forma e contenuto.
Qualcuno potrebbe chiedere lumi sulle radici cinematografiche dei confini assenti. Partirei da “Nanuk l’eschimese”, documentario del 1922 a firma Robert J. Flaherty, esempio radiante di una rivelazione del vuoto sconfinato, in questo caso tra le comunità Inuit del Circolo Polare Artico. Aggiungerei “Stalker” di Andrej Tarkovskij, il più incredibile viaggio nello sconfinamento metafisico, nel paesaggio in cui ogni assenza conserva memorie del tempo universale. Non dimenticherei il lituano Sharunas Bartas: “Lontano da Dio e dagli uomini” indaga una delle ultime popolazioni indigene della Siberia, “Freedom” affronta il tema della droga nel contesto radicale del deserto marocchino. Due film in cui vince il flusso purificato e la nitidezza del confine distante, in cui l’uomo si fonde con la biologia del paesaggio fino a perdersi senza disperdersi. E poi citerei Chris Marker con il suo montaggio di fotogrammi statici per “La Jetée”, prova definitiva di un profilo dinamico dentro fotografie che si interrogano sui confini spaziotemporali.
John R. Pepper ha evocato e risolto la sua linea d’ombra, metabolizzando l’orizzonte conradiano con l’invenzione di un proprio confine. Ha capito la quadratura dei deserti, la loro energia metaforica, il grumo di contenuti sottotraccia. Per farlo gli serviva molta pazienza, frutto di lunghe attese e utili frangenti, brevissimi istanti in cui perimetri e luce combaciavano eroticamente. La dilatazione del tempo lo ha fatto aderire alla dimensione dello spazio, al gigantismo panoramico in cui solo l’artista può gestire il fuoriscala, quel quid così abnorme da rendere la foto una momentanea particella di Dio. Ogni stampa, conservando la linea d’ombra nel cuore, risolve il tema del vuoto con l’intuizione di una pienezza invisibile. Il bianconero si riempie di lingue arcaiche, incisioni sulla roccia, parabole e racconti, si riempie di archetipi e leggende, uomini e donne, animali e vegetali, si riempie di crudeltà e bellezza, solitudine e incontro, di sentimenti estremi e piccole storie individuali… in quelle stampe non vediamo presenze umane ma percepiamo il passaggio nei millenni, le mutazioni geologiche nei milioni di anni, indietro fino al primo granello di sabbia, fino all’inizio di ogni inizio, fino al…………………..
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gianlucamarziani · 3 years
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OBEY FIDELITY. THE ART OF SHEPARD FAIREY
Gianluca Marziani
L’artista americano SHEPARD FAIREY, nome in codice OBEY, ci introduce nel suo universo cartaceo dallo stile inimitabile, basato sulle grafiche sovietiche e futuriste di inizio Novecento, sulle pitture parietali latinoamericane, sui muralismi italiani alla Mario Sironi. OBEY crea immagini urlanti, semplificate nella palette cromatica, puro equilibrio di pesi tra testo e immagine. I formati tendono al gigantismo quando il contesto prescelto è la strada, diminuiscono nel caso di oggetti funzionali al progetto (cover di album, skateboard, poster, oggetti…), in entrambi i casi traduce nel presente i vecchi stilemi della propaganda muralista. Crea stampe cartacee bollenti, carne viva che brilla sotto il sole della civiltà, trasformando gli sguardi in un valore d’azione. Organismi caldi con una loro implicita respirazione, sembra di sentire l’urlo catartico di Angela Davis o la speranza democratica di Barack Obama, con le loro silhouette che catturano le giuste frequenze e si prendono il palcoscenico mediatico del nuovo millennio.
OBEY è il prototipo fluido del nuovo artista politico, perché ha capito che i temi scottanti si affrontano con simboli e intelligenza visiva, con l’impatto rapido di un messaggio in cui riconoscersi senza confondersi. Crea simboli virali e replicabili, produttori di icone che alzino la soglia d’attenzione, che diano messaggi politici in maniera metaforica e condivisa. Gli artisti non devono essere speculari al reale, mai troppo fotografici rispetto al mondo; OBEY, che lo sa bene, alimenta la consapevolezza di massa con una lezione di estetica laterale, tanto semplice quanto liquida, aperta nei sottotesti, un esperanto pacifista che comunica su piani concentrici. La sua è una una lezione di civiltà visuale, innestata nei gangli urbani, arte pubblica nel senso spirituale del termine, vera e propria matrice che attende la sua viralità da social media.
OBEY produce immaginari simbolici ad alto valore emozionale. La sua arte su carta attrae i nostri sensi in modo spontaneo, ampliando il linguaggio informativo dei muri metropolitani. Fairey ha capito che le pareti stradali rappresentano la prima pagina della comunicazione virale, una nuova home page da cui non puoi sottrarti e che ti avvolge nei rituali quotidiani. Non è un caso che brand come Gucci usino i muri per creare testi in forma di pittura urbana. E non è un caso se i poster di OBEY li noti in un istante, come il lampo che buca il cielo notturno. Un breve flash che resta sulla retina e produce conseguenze, più o meno immediate ma reali, piccole istigazioni alla Bellezza che usano la memoria grafica per una rinata coscienza del Tempo Estetico nelle costanti del Tempo Politico.
La mostra OBEY FIDELITY. THE ART OF SHEPARD FAIREY è un viaggio visivo che incrocia quattro punti tematici - Donna, Ambiente, Pace, Cultura - ricreando a Palazzo Ducale un’ideale passeggiata nella notte metropolitana. Le oltre quaranta opere in mostra sono parti organiche della stessa famiglia, una conversazione urbana tra messaggi militanti, visioni pacifiste, passioni solidali. OBEY stimola riflessioni sui temi umanitari, sui passaggi esistenziali, sulle utopie sociali, sui valori di giustizia al di sopra delle leggi. Il suo messaggio pacifista ed ecologista ci rende piccoli “soldati” di una nuova militanza, fatta di spazi etici del confronto, di nuovi modelli del vivere, di azioni sane e consapevoli. Fate arte al posto della guerra. Fate l’amore al posto della guerra. Celebrate la Bellezza al posto della violenza. Denigrate il Male con alti dosaggi di consapevolezza morale. É come se gli anni Settanta delle culture antagoniste tornassero a nuotare nel mare fluido del web, come se lo spirito dei nostri paladini freak rivivesse nella Politica Estetica di un mondo migliore per gente migliore. Che ci crediate oppure no, SOLO L’ARTE PUO’ ANCORA SALVARE IL MONDO…  
Biografia SHEPARD FAIREY figlio di un medico e di una agente immobiliare, Fairey cresce nella Carolina del Sud, compie studi artistici e nel 1988 si diploma presso l'Accademia d'Arte. Nel 1989 inventa e realizza l'iniziativa Andre the Giant Has a Posse, disseminando sui muri della città alcuni adesivi che riproducono il volto del wrestler André the Giant. Lo stesso Fairey ha poi spiegato che non vi era nessun significato nella scelta del soggetto, il senso della campagna era quello di produrre un fenomeno mediatico e di far riflettere i cittadini sul proprio rapporto con l'ambiente urbano. L'iniziativa che ha dato visibilità internazionale a Fairey è stato il manifesto Hope che riproduce il volto stilizzato di Barack Obama in quadricromia, diventato l'icona della campagna elettorale che ha portato il rappresentante democratico alla Casa Bianca. Il critico d'arte Peter Schjeldahl ha definito il poster “la più efficace illustrazione politica americana dai tempi dello Zio Sam”. Il manifesto apparve, sempre durante la campagna elettorale del 2008, con altre due scritte: "Change" e "Vote". Il comitato elettorale di Obama non ufficializzò mai la collaborazione con Fairey, forse perché i manifesti venivano affissi illegalmente, come nella tradizione dell’arte urbana, ma il presidente, una volta eletto, inviò una lettera all'artista, resa poi pubblica, in cui lo ringraziava per l'apporto creativo alla sua campagna. La lettera si chiude con queste parole: "Ho il privilegio di essere parte della tua opera d'arte e sono orgoglioso di avere il tuo sostegno”. Autore anche della riprogettazione della mascotte Mozilla dell'omonimo web navigator, Fairey appare nel documentario di Banksy sull'arte urbana “Exit Through the Gift Shop”.
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gianlucamarziani · 3 years
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MAX PAPESCHI
LEADER MAX(IMO) Gianluca Marziani
Partiamo dallo spazio scelto per la mostra. Il luogo si chiama WEGIL, oggi sito polifunzionale della Regione Lazio, in origine (venne inaugurato nel 1937) Casa della Gioventù Italiana del Littorio. Lo disegnò nel 1933 Luigi Moretti per ospitare diverse discipline dei giovani Balilla. Dopo la Guerra divenne il classico moloch del rimosso sociale, in bilico tra destinazioni sbagliate e anni d’abbandono, finché dal 2005 fu oggetto di un restauro filologico che ci porta diritti allo status odierno…
Il legame irrisolto tra architettura, funzione d’uso e simboli rende WEGIL un contenitore ideale per Max Papeschi. Consideriamo, in primis, le ragioni teoriche dietro il disegno architettonico, ascrivibili al razionalismo europeo che ricreava col marmo ambienti rigorosi e teatrali. Lo spazio si delineava nel suo candore essenziale, un luogo della ragione (di stato) e della disciplina (di regime), in equilibrio tra geometrie pedagogiche e cultura giovanile. Siamo tra contraddizioni poco risolvibili, nel cuore di una cultura gianotipica (da Giano, il Dio che guarda il passato e il futuro) con cui si spiegano molte ambiguità storiche. La principale contraddizione verte su un dato: la miglior architettura novecentesca italiana comprende edifici di epoca fascista, ideati in un ventennio di utopie e tragedie ma anche di visioni limpide che gli architetti elaboravano in forma morale, credendo in un presente ideale e in un futuro per l’uomo nuovo. L’arte al di sopra degli eventi, si potrebbe dire, ma anche l’arte che si contraddice nel ricercare purezze fuori dalla democrazia. La fusione tra ragioni e torti alimenta la cultura del gianotipo, ovvero, un pensare per contraddizioni risolvibili, senza univocità, dove le zone oscure si diluiscono nel tenore liquido della Storia. Accettare la contraddizione eleva la dimensione purificata del capolavoro, superando così il peso del committente iniziale. Un edificio di regime non produce colpe ma invita a riflettere sulla memoria collettiva, proprio come avviene seguendo le curvature di Moretti, tra idee flessibili ed echi di corpi ginnici, luci filtranti e stazza mirabile. Il palazzo di Largo Ascianghi si trasforma in edificio morale, contenitore post-ideologico che oggi accoglie artisti ad elevata intensità visiva. Un luogo convertito alle culture contemporanee, bianco riferimento cittadino in cui far scorrere, senza bandiere politiche, i colori sentimentali della linfa creativa.
Perché i monumenti non si abbattono ma si tutelano, così come i corpi feriti non si uccidono ma si curano.
WEGIL è uno di quei luoghi che supera la propria epoca, ripulendosi da scorie ideologiche pur conservando il germe silente dell’ambiguità d’origine. Max Papeschi è bravo a far implodere la cultura gianotipica del sito, rompendo la contraddizione al suo interno, nella sostanza di un détournement che rilegge la Grande Storia con l’occhio sagace del linguaggio Pop. Modificare un dettaglio per cambiare il senso delle cose: il situazionismo figurativo di Papeschi si rivela nella sintesi estetica, nella potenza d’impatto, nel rituale narrativo, nel candore apparente con cui contraddice la stessa contraddizione.
La contraddizione della contraddizione della contraddizione della contraddizione…
Papeschi crea un cortocircuito perfezionato, giustapponendo la sua visione sagace agli echi storici del luogo. Fin dalla facciata senti tracce che sono state vita reale e che oggi ci riportano agli antagonismi dell’epoca, a chi viveva la contraddizione per contrasti, come facevano i giovani talenti del Marc’Aurelio, rivista satirica fondata a Roma nel 1931. Le migliori penne/matite del periodo espressero qui la loro vena pulsante, usando il grottesco dietro il tragico, il comico davanti al maligno, l’irriverenza oltre il dramma. Max Papeschi potrebbe illustrare la versione 2020 della rivista, esserne portavoce digitale mentre si delineano partnership con Charlie Hebdo, Shepard Fairey, Adbusters e altri organi di critica lavica. L’impegno morale davanti al Potere stimola da sempre la creatività antagonista, formando artisti che giocano d’attacco, scorretti per natura civile, manipolatori di oggetti bollenti che l’arte restituisce in chiave critica. Papeschi
Perché il futuro, teniamolo a mente, è una possibilità di rinascita che solo la Memoria rende reale.
Papeschi segue precise regole d’ingaggio. Per prima cosa non adotta censure preventive e sfrutta l’armamentario del rimosso collettivo, usando le tragedie del Novecento come teatro di ribaltamenti semantici. L’azione digitale di Papeschi guarda in faccia gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, le storie da prima pagina, le mitologie di intere generazioni. Il suo codice sorgente tocca le memorie collettive, riviste da angolazioni preziose, meno visibili ad occhio nudo. Si parla con linguaggio educato ma radicale, scorretto ma nel rispetto delle regole, estremo ma regolamentato da una grammatica pop e da una precisa sintassi grafica.  
Il processo semantico di Max Papeschi utilizza il détournement di natura situazionista. Guy Debord lo definiva come “…l’integrazione della passata e presente produzione artistica in una costruzione di ambito superiore…” Per fare un ovvio esempio, pensate alla Mona Lisa di Leonardo reinterpretata da Marcel Duchamp in versione baffuta. Qualcosa di simile codifica oggi Banksy, il più dadaista degli artisti ad alto impatto collettivo, colui che ha messo banane al posto di pistole (“Pulp Fiction”), fiocchi rosa su elicotteri da guerra (“Happy Choppers”), fiori al posto di molotov (“Love is in the air”). Il détournement banksiano stabilisce il rientro filosofico di Debord negli antagonismi del nuovo millennio, inserendo quel glitch semantico nei canoni del linguaggio digitale. L’attualità rinnovata de “La società dello spettacolo” deve tutto alla diffusione su scala popolare della cultura elettronica, la prima che regala ad ogni utente la facoltà di ricombinare il reale in modo infinito. Un salto così definitivo ha cambiato la percezione dell’opera, diffondendola in ambiti eterogenei, inventando la sua vita virtuale, saltando le categorie dei generi classici, combinando linguaggi e stili. Siamo entrati nell’epoca del détournement digitale, sorta di elaboratore selettivo su scala globale, collante narrativo tra realtà e invenzione, metalinguaggio di una flatlandia algoritmica (da Edwin Abbott Abbott che aveva immaginato un mondo piatto a due dimensioni) per una device life dentro monitor che incarnano la nuova società dello spettacolo. Max Papeschi nasce sulle fondamenta del ritrovato Debord, evidenziando la necessità di una forbice tra l’invenzione artistica e il semplice oggetto da consumo rapido. Perché una domanda sorge immediata: dove si colloca la coscienza dell’opera digitale in un mondo che offre alta tecnologia in formato popolare? Tutti possono giocare col digitale, creare poke e meme, elaborare gif che durano il tempo di una notizia; al contempo, pochissimi saltano il piano del consumo e definiscono una strategia di allargamento (spazio) e durata (tempo) del formato digitale. Papeschi fa questo da tempi non sospetti, potremmo considerarlo un caso unico di outsider dalla forte personalità, sfuggente a qualsiasi categoria, capace di inventare fototensioni a lunga durata, icone sarcastiche di un tema epocale che si specchia in un’immagine persistente.
From Hiroshima with Love segue le virtù fotografiche del bianconero Magnum, quello alla Robert Capa per intenderci. Le fotografie d’origine appartengono agli immaginari modello Life, quando il fotoreportage informava il mondo e formava coscienze. Scorrono Hitler e parate naziste, eserciti e soldati, Stalin, elicotteri da guerra, Vietnam, Ku Klux Klan, Nixon, Kennedy… c’è la fetta più velenosa della cronaca pop americana, quella diventata pedagogia globale di un liberismo mefistofelico dai risvolti complessi. Dentro le immagini, però, accade qualcosa d’inaspettato: permane l’atmosfera d’origine ma alcuni volti sono improvvisamente diversi, hanno sembianze di Mickey Mouse, Kermit del Muppet Show, porcellini fiabeschi, volti manga, soldati da Guerre Stellari: un esercito di maskon irriguardosi e indisciplinati, disturbatori che s’intrufolano nella Storia per dissestare eventi, sabotare azioni, ridefinire il racconto tramandato. Somigliano ai rapinatori di Point Break ma non si limitano alle maschere dei Presidenti Usa, qui varcano l’entertainment educativo che Walt Disney ha offerto al mondo intero, facendo ciò che Stephen King ha realizzato in letteratura, Harmony Korine nel suo cinema indie, Sonic Youth nel loro rock alternativo. Prendere l’America e smontarla per ricostruirla in altra maniera, riconoscendo negli Stati Uniti il Paese che fa convivere ogni contraddizione. D’altronde, solo gli americani potevano eleggere Presidente un attore e rendere “attore” (da film satirico) un Presidente in carica.
NaziFuckingMouse è Walt Disney in un racconto al contrario, dalle parti de “Il complotto contro l’America” di Philip Roth e “Man in the High Castle”: due storie in cui si immaginano i nazisti vincitori della Guerra, qui trasfigurati con le sembianze di Topolino e altri tipi da cartoon vinilico. Siamo nei teatri della tragedia su scala dissacrante, dove si elude il ricatto emotivo e si raffigura la possibilità dell’impossibile. Hitler e il Dalai Lama con la bolla da chewing-gum sono la perfetta sintesi di una contraddizione risolta: due giganti del Novecento, il primo in negativo il secondo in positivo, che compiono lo stesso gesto infantile, recuperando nel tocco ludico un corso onirico della Grande Storia, tra frangenti distopici e ribaltamenti in stile Dismaland (il parco tematico di Banksy dove il divertimento si trasformava in un rituale narcolettico e melanconico).
Game of Walls parte con un’opera definitiva: l’ultima cena di Leonardo in versione svuotata ma con un solo uomo al centro, Donald Trump, colui che ha superato ogni plausibile contraddizione, varcando soglie che dovrebbero appartenere al mondo onirico e alla satira ufficiale. Il cortocircuito con la figura di Cristo diventa distillato iconografico dal valore catartico, opera risolutiva che raccoglie il nucleo energetico della storia recente. Le opere di Papeschi s’infiltrano nelle arterie del pop storico e recente, captando quei picchi iconici che plasmano l’immaginario collettivo. Si gioca con il marketing corporate e l’advertising globalista, con la gif culture e il mondo lo-fi, un grande gioco metabolico che impasta la versione umana della babele digitale. Il leader coreano Kim Soon è un altro jolly iconico per Papeschi, una specie di monello che sbuca da un taglio rosso di Fontana, si siede al tavolo del MoMA con Marina Abramovic, troneggia sulla conchiglia di Botticelli, si moltiplica nel ritratto a quattro di Warhol, fino a diventare uno stencil di Banksy… tutti personaggi in cerca d’attore, cellule impazzite di un mondo che fa marketing sulla follia globale, robot umanoidi che Papeschi mette in scena    
La Société du Spectacle inquadra il quadrato e manda in bianco il fondale abbagliante. Ballano da soli o in gruppi i presidenti americani, ballano da soli Putin e la Regina Elisabetta, ballano in coppia Fidel Castro e Che Guevara, Stalin e Lenin, Bill Clinton con Monica Lewinsky, ballano da soli Osama Bin Laden e Saddam Hussein, Gheddafi e Mussolini… Trump come Paperino, Barack Obama come Captain America, John e Robert Kennedy come Batman e Robin… al Gran Ballo sono arrivate le maschere senza maschera, gli iconici del Novecento mescolano supereroi e perfidi potenti, il teatro dell’assurdo veicola le prospettive di un mondo che legittima la coscienza incosciente del fantastico. Dopo il terribile KKK arriva il PPP, ovvero, Pop Power Plus: per deridere i potenti e farli scendere in pista versione Saturday Night Fever, tra ricordi stilizzati di Mino Maccari e George Grosz, Art Spiegelman e Robert Crumb, Federico Fellini e Altan… è l’arte che scava dentro il buco nero del rimosso collettivo, nel luogo astratto in cui il mondo assiste allo spettacolo del potere. Lo show odierno è ormai un impianto a due dimensioni, figlio dei social media, delle storie di Instagram e Tik Tok, un teatro del nuovo assurdo che risolve ogni contraddizione apparente.
Hic Sunt Leones è l’ultimo progetto in ordine cronologico. Nulla di più consono per una riflessione sui temi del fascismo nella sede che allenava i corpi dei giovani Balilla. Cinque opere in cui Topo Gigio incarna ragazzi in parata marziale, camicie nere con la mano tesa, colonialismi africani e sculture di regime. Il clima è quello delle formazioni ordinate, dei gruppi in divisa, dell’esaltazione agonistica. A rompere il tenore epico ci pensa la testa del topo antropomorfo inventato da Maria Perego, quello con grandi orecchie a padella, tipino romantico e goloso che oggi ritroviamo in un’improbabile incarnazione sociale. Gigio Balilla (anche Banksy usa spesso il topo, nel suo caso il ratto del rimosso collettivo) ci accompagna idealmente nei luoghi di Luigi Moretti (a fianco del museo si trova il cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti, strani casi del destino) per ricordarci dove siamo finiti e dove potevamo andare. Hic Sunt Leones è il confine del mondo alternativo, il luogo del grande mistero, la terra dove ogni contraddizione si risolve in una soluzione; Hic Sunt Leones è il mantra del Leader Max Papeschi, comandante digitale del mondo a due dimensioni, l’unico mondo dove ogni storia è ancora tutta da riscrivere.  
Nulla è impossibile, tutto è plausibile. L’importante è che qualcosa resti impossibile, se possibile. Sembra una contraddizione. Ma la contraddizione risponde a molte domande irrisolte. E le risposte aprono nuove domande…
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gianlucamarziani · 3 years
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IL PIU’ GRANDE CRIMINALE DI ROMA E’ STATO AMICO MIO
GIANLUCA MARZIANI Sul nuovo romanzo di Aurelio Picca...
La mano conficcata nel tubo morbido delle budella, le dita che scrivono inguainate nelle cartilagini ll te dell’intestino, le parole che nascono sanguinolente mentre gocciolano un dripping di vite digerite fino all’ultimissimo respiro, fino al secondo in cui la temperatura del corpo scende di un grado, quel secondo in cui la vita scopre la comare del ghiaccio bollente... Aurelio Picca anima la dote del marmo morbido con la flessuosita’ felina della parola, con la potenza bovina della frase, con la natura equina del racconto che diventa vita purissima, radicale e catartica come le vite degli antichi eremiti umbri o dei babas indiani... Nel libro brilla la luce mistica del criminale purissimo, arcaica muscolatura del cervello pazzo e sentimentale, quell’umano di fede sguainata e violenza mistica che trafigge il tradimento mentre insegue l’amore stordente... Romanzo epico a cuore aperto, tra pagine che schizzano sangue amaro e sperma senza eta’, una letteratura che mette faccia a faccia i cacciatori paleolitici, gli imperatori senza codardia, i criminali anni Settanta e i lottatori di ogni tempo, gli unici che salgono nudi e scalzi verso la cima della montagna, cercando la luce del nuovo sole e della stessa luna.
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gianlucamarziani · 3 years
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L’ARCA DI BANKSY
Gianluca Marziani
Gli animali sono soggetti privilegiati per Banksy, membri di una comunità aperta che rappresenta l’ingenuità istintiva, l’anarchia innata, la libertà di gridare ciò che gli esseri umani hanno perduto sotto il peso dell’anestesia sociale. Topi e scimmie trionfano per numero e narrazioni: e non è casuale che le due specie più simili a Noi siano le comunità zoofile preferite dall’artista britannico. Un favoloso bestiario di megafoni militanti che sbatte il mostro umano in prima pagina, ponendo il corpo peloso come fronte della dignità sociale, linea d’attacco che riconquista la città e la libertà di dire, fare, essere. Assieme a loro ritroviamo un alchemico serpente, diversi leopardi da quarto stato, un cane borghese, un elefante con schiena da mulo ma anche una metaforica papera di gomma, riuniti in fila ambientale a Palazzo Trinacria, sede espositiva della Fondazione Barbaro. L’architettura dello spazio riprende lo scheletro di una barca, allusione non tanto implicita al tema biblico che si connette all’immaginario urbano di Banksy, al suo codice antagonista con cui scatena azioni mediatiche e reazioni morali. Noè e Banksy dialogano idealmente prima del viaggio, nei minuti che precedono la traversata negli oceani della vita reale. La Terra del nuovo millennio è già sotto il diluvio, e questo Banksy lo capisce bene, timbrando i suoi avvertimenti etici su muri e spazi collettivi, evocando piccole apocalissi che Noè aveva intuito molto prima di lui.  
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gianlucamarziani · 4 years
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BANKSY
SUPERARE L’OPERA ATTRAVERSO L’ARTE
SUPERARE L’ARTE ATTRAVERSO L’OPERA
Gianluca Marziani
 Superare l’opera attraverso l’arte… detto così sembra lo statement concettuale di qualche monstrum enciclopedico alla Goshka Makuga, in realtà si tratta della sintesi da copertina sul più virale, impattante e iconico artista vivente (step 1). Per precisione, sul più potente e universale progetto artistico (step 2) del millennio in corso, ovvero, BANKSY.
(step 1) vivente… Banksy varca il limite biologico con l’eliminazione totale della sua immagine corporea, usando un proprio sistema binario (firma+comunicazione) per gestire la filiera artistica. Di regola i progetti nascono in segretezza, vengono quindi realizzati e poi spalmati sui media digitali, timbrando in tal modo l’autenticità autografa dell’operazione. Lo statement sui social incarna la firma d.o.c., certificazione identitaria e appropriazione debita che accende il motore mediatico. Dietro gli statement potrebbe esserci un singolo, una coppia o un collettivo, noi sappiamo soltanto che l’autore viene da Bristol, si firma Banksy, nasce nel 1974 (?) ed è di sesso maschile (?). Un’ambiguità semantica che ribalta l’identikit fotografico da artista vivente: senza faccia nessun ostacolo identitario nella trasmissione ereditaria del marchio, nella gestione connettiva del progetto, nel sistema virale del processo. Ci fidiamo dello statement, e questo ci basta, anche se non conosciamo il motore operativo, i luoghi dove le decisioni avvengono, gli spazi in cui Banksy vive, le abitudini sue e del proprio entourage. Ci atteniamo ad esili informazioni di corridoio, un vociare sparso con cui si alimenta la mitologia senza che il vivente diventi vivo. Banksy esiste, di fatto, tramite un logofirma, e forse neanche morirà visto che un logotipo (step 5) non smette di respirare. Partito da una tag, passato per la complessità radiante del logo, il marchio Banksy non ha paragoni per impatto e conseguenze; soprattutto, l’artista è tra i pochissimi ad aver investito il capitale umano nella perfetta fusione tra opera e marchio. Consideriamo quel logotipo il cervello/cuore del processo creativo, in grado di intrecciare tag (denominazione), marchio registrato (origine) e motore semantico (controllata). BANKSY D.O.C.  
(step 5) logotipo… In un mondo di necessari e catartici ghost artist, il primo richiamo esterno è la maschera bianca di Guy Fawkes per gli hacktivismi di Anonymous, il feticcio militante che annulla l’identità singola per creare anonimato virale. La differenza con il loro approccio orizzontale è che Banksy prevede una gerarchia in cui qualcuno decide in modalità blindata, fuori da qualsiasi influenza esogena. Un antagonista più calante rimane il Subcomandante Marcos, figura anonima che si nascondeva nella giungla del Chiapas, celandosi dietro video virali e passamontagna. La rivoluzione zapatista aveva un proprio sistema gerarchico, motivo per cui sarebbe stata difficile la moltiplicazione di notizie non autografe. In modo simile, il sistema Banksy alimenta l’anonimato univoco e decide cosa lasciar defluire all’esterno. Un ottimo esempio sono le mostre commerciali che l’autore non autorizza ma non ostacola, affinché si crei un sistema distributivo del pensiero con un’intuizione imprenditoriale ad alto profitto derivato e nessuno sforzo diretto.
Il suo logotipo si è trasformato in un crossbrand che può legarsi ad uno stencil, una scultura, un oggetto riciclato, un multiplo, un’installazione, uno statement: ad accomunarli è la modalità omogenea con cui agisce, la detonazione sociale che provoca, le conseguenze culturali e commerciali che produce. Si pensi ad un logo come Supreme, il progetto più accostabile alla filosofia eventualista e ipermediale di Banksy. E’ un caso di crossbrand che trasforma qualsiasi feticcio su cui viene cucito, ampliandone la preziosità limited e il valore monetario. L’artista britannico imprime le sue immagini su facciate, serrande, veicoli, fogli, insegne, creando un immediato riassetto del valore, una crescita esponenziale che simula la speculazione finanziaria su derivati e futures. Banksy somiglia ad un soggetto finanziario ad alto reddito ma con elevata sostanza etica, un crossbrand vivente alla continua ricerca di obiettivi sensibili da far implodere. Banksy è uno di quelli che produce reazioni a catena, e non è cosa da poco nell’arte contemporanea.  
(step 2) Progetto artistico Ognuno di noi tende ad attribuire un volto al nome fantasmatico che opera nei campi creativi, che si tratti di scrittori (Thomas Pynchon), musicisti (SBTRKT, Burial), designer (Martin Margiela) o artisti. Non è storia odierna quella delle identità celate, appartiene alla natura umana il desiderio di scomparire dietro un nome, privilegiando la libertà identitaria e lo sdoppiamento di un moniker ad alta sincerità. Se aggiungiamo il contesto urban in cui Banksy si è formato, si giustifica l’indole alla segretezza che, di solito, elimina ripercussioni legali e alimenta la mitologia di un’arte notturna, rapida, autarchica. Da qui il controllo inflessibile della privacy facciale, una capacità quasi leggendaria di celare l’identità pubblica per mantenere a regime il proprio sistema binario (firma+comunicazione). Artista e progetto diventano pura fusione in cui qualcuno (l’artista, un assistente o altri) agisce come cellula/matrice (step 8) ed evita gli obblighi di presenza autografa. Banksy opera per connessioni esogene, sfruttando una rete aperta ma a controllo diretto che certifichi le versioni originali e stigmatizzi i fake (o almeno ciò che l’artista decide di considerare falso).
(step 8) cellula/matrice L’opera esiste esclusivamente nella sua matrice ideativa, nel momento in cui Banksy inventa un contenuto in forma visuale. Da quel frangente l’opera può avere una singola vita in un singolo contesto ma anche moltiplicarsi per repliche o variazioni, tutto ciò dipende dagli obiettivi virali che l’autore si prefigge. Immaginate una matrice simile alla banconota che va in rotativa e produce denaro in quantità variabile: per Banksy ogni opera(zione) (step 3) somiglia a quel prezioso elemento solido del poligrafico, con la differenza che la sua matrice non necessita di hardware pesanti ma di un contesto e un’azione. Staccare una porzione di muro con un Banksy originale corrisponde alla presa (non parlo di furto) di un vero/falso, proprio perché si sta prendendo l’esecuzione senza matrice, un’immagine che lo stesso Banksy potrebbe riutilizzare in modi e contesti diversi. L’opera prelevata, a quel punto, vive come feticcio ma perde il suo valore identitario, ed è così anche nei casi in cui il mercato la certifichi e ne dichiari un peso monetario (ecco l’ambiguità costante tra vero e falso, tipica di una finanza che agisce in forma amorale). Stesso discorso per le sculture e le installazioni, dove la volumetria cambia la gestione fisica ma non il legame d’origine con la matrice ideativa. Punto di partenza sembra l’arte concettuale degli anni Settanta, quel processo mentale con cui produrre opere reali (wall drawings per Sol LeWitt, stencil testuali per Lawrence Weiner, neon colorati per Dan Flavin…). In pratica, il valore economico risiedeva nel contratto poiché il processo certificava l’esposizione e vendita di un’idea e non di un manufatto. Si rompeva il neon? Bastava ricomprarlo con le stesse caratteristiche del neon originale. Cambiavi casa? Il muro di Sol LeWitt veniva rifatto nella nuova abitazione e la precedente parete perdeva il valore d’opera, rimanendo un intonaco senza tenore economico. Banksy riparte da qui e dalle serigrafie a smalti firmate Andy Warhol, tracciando una rigenerata dimensione concettuale, un new entry level nei gangli finanziari del presente liquido, al punto da ricreare un perfetto cortocircuito sul criptovalore delle opere nell’epoca della riproducibilità digitale (step 7).
(step 7) riproducibilità digitale Il punto che rende Banksy un unicum è proprio il contesto digitale del nuovo millennio. I device tecnologici stanno plasmando costumi e habitat della comunità umana, al punto da trasformare i rituali, il gioco, gli spostamenti, le abitudini stagionali. Tutto si lega alla rapidità, al multicontrollo, ad un’apparente semplificazione dei tempi e modi vitali. In realtà l’umanità va troppo veloce se consideriamo quanto impiega il cervello per adattarsi ad un nuovo habitat antropologico. Da qui il delirio di eccessi egotici, ossessioni, superficialità, un immenso calvario del narcisismo che produce assuefazione e fa perdere di vista le urgenze reali. Banksy si infila nel limbo tra cultura analogica e digitale, diventando un tubo di connessione, un motore meccanico ad alta conduzione idraulica. Avvicina hardware e software con equilibrio dinamico, in bilico tra la sua formazione (lui è parte del Pre Millennium Tension di cui cantava Tricky) e la realtà liquida dei giovani millennial. Banksy non abbandona la stazza fisica dei progetti ma sfrutta appieno il tema virale dei social media. Il suo sistema binario armonizza memoria e futuro con prassi metodica, sfruttando i trucchi tecnologici ma contando su operazioni fisiche, caparbie, retromaniache (Simon Reynolds docet).    
Lo stencil è la matrice che storicamente permette alla street art di guadagnare spazi con rapidità esecutiva e giustezza progettuale. Significa, per artisti come Banksy, agire in squadra senza che sia l’artista in persona ad eseguire il lavoro. Teoricamente potrebbe non aver mai realizzato nessuno dei progetti conosciuti, così come non ci chiediamo se Damien Hirst o Maurizio Cattelan possiedano doti tecniche rispetto ad opere che si definiscono nell’idea. Lo stencil si propone come strumento politico in una guerriglia urbana che vede gli artisti nel ruolo di detonatori estetici, ghost dog che operano sui bordi ma conoscono bene i centri. Stencil come griglia predefinita e concettuale, un warholismo nomade che Banksy ha trasformato in un subwoofer di risonanza globale. Un basso planetario che tatua il muro per farlo riprodurre, da chiunque e ovunque, in formato virtuale e pixelato, dentro la vera stampante del nuovo millennio, ovvero, i nostri smartphone che non consumano carta e mandano Walter Benjamin in pieno cortocircuito filosofico.  
(step 3) Opera(zione)… per secoli si è parlato di opere d’arte e ancora succederà in futuro, anche se i nuovi processi di comunicazione permettono speculazioni teoriche una volta impensabili. Nel caso di Banksy, se parliamo di progetto artistico e matrice ideativa, dovremmo auspicarci un altro termine che contenga il senso ultimo dell’autore. Oper(azione) mi sembra la più sensata, quella in cui l’opera, intesa quale oggetto iconografico, apre il suo contenuto al processo dinamico che la contraddistingue.
Antagonismo è parola difficile da gestire, riguarda l’attitudine che guida un artista, il suo approccio rispetto al mondo, il coinvolgimento dell’opera su temi socialmente e politicamente forti. Qualcuno confonde il successo di alcuni autori con la perdita dell’antagonismo d’origine, come se il grande guadagno levasse l’integrità del pensiero primigenio, non considerando che l’apoteosi del culto antagonista risiede nel destabilizzare al massimo grado un obiettivo sensibile. Banksy ha visto crescere la sua fama senza mai cambiare approccio, restando lo stesso che inventava operazioni a Bristol vent’anni prima. Semmai, sono aumentate le reazioni a catena che ogni progetto provoca, al punto da incarnare un soggetto politico (step 4) che sposta interessi collettivi e smuove questioni governative. Banksy fa paura al potere che, al contempo, gode nel trovarsi al centro dei suoi target iconici. E’ una perversione che da sempre caratterizza i potentati, una specie di controcanto etico in cui l’artista stigmatizza ciò che rende tautologico il potere stesso. Si direbbe un cul-de-sac comunicativo, un meccanismo che Banksy gestisce così bene da restarne fuori in maniera proattiva, trovando sistemi speculativi che convertano il suo successo in un paradosso contro il potere che poi lo acquista in aste e compravendite. Basti l’esempio del Walled Off Hotel che porta turismo sensibile in una zona ad alto rischio militare, creando economia sulla linea del fuoco incrociato, in zona Betlemme, a due passi dal terrore reale. Banksy spinge l’antagonismo al punto di massima flessione, creando un’equazione tra l’integrità del messaggio e l’audience da rockstar planetaria. Un caso unico e raro, diverso da tutti per il modo in cui destabilizza e rimodula le regole dell’aristocrazia artistica. Il cosiddetto Art System lo tratta con distanza e snobismo ma non può farne a meno, considera troppo pop le sue operazioni eppure Sotheby’s lo vuole nell’asta più importante di stagione. Tate Modern, se facesse una sua mostra epocale, avrebbe file di spettatori per chilometri, risolvendo problemi di budget e creando nuovi target di pubblico, senza intaccare il profilo qualitativo che la contraddistingue. Ma ciò non accade e forse non accadrà a lungo, mentre qualsiasi bookshop che si rispetti riempie i suoi scaffali con libri, cataloghi, multipli e altri oggetti a tema Banksy (Indovinate quali sono i libri e gli oggetti più venduti nei bookshop dei migliori musei nel mondo?). Banksy fa saltare il banco del conformismo culturale, al punto da essere una superstar britannica che non viene omaggiata dal più importante museo del Regno Unito. Tutti ne parlano, tanti aristoguys lo collezionano di nascosto, il suo potere cresce ma la sua autonomia, la sua ragione inclassificabile, il suo menefreghismo per le regole non vengono digeriti dal Sistema. Mi viene solo un dubbio: se Banksy lasciasse tutti i diritti di sfruttamento commerciale al miglior offerente, Gagosian e Hauser & Wirth farebbero o no carte false per averlo in scuderia? La risposta la conosciamo già, e forse lo vedremmo subito nella Turbine Hall della Tate Modern. Magari con le sei lettere del suo nome in formato mastodontico, sei giganteschi rollercoaster per la più spericolata, adrenalinica, assurda operazione installativa del nuovo millennio. Per ora sono piccole speculazioni teoriche, un domani chissà…
Banksy crea fenomeni di adorazione nascosta, simili alla passione del porno che pochissimi dichiarano ma che moltissimi perseguono. Mi piace considerarlo la miglior perversione praticabile del sistema artistico, un soggetto del desiderio che mescola istinto percettivo e pratica mediale, semplicità e complessità, alto superficiale e basso profondo. Banksy pratica un’arte dove lo spettatore aderisce alle contraddizioni, ai doppi/tripli sensi dei claim, all’ironia immancabile, al catastrofismo motivato, al cinismo ridanciano, ricordandoci che sarà una risata a seppellirci, e che forse dovremmo prenderci tutti meno sul serio. Ridere, ridere, ridere: restando umani.  
Così, mentre moda e tecnologia si infiltrano nei nostri desideri attraverso la sensorialità del logo, Banksy precede i nostri desideri per instillarci il dubbio sul presente, sulle reali necessità umane, sulle patologie di un mondo con troppa finanza e poca sostanza. L’artista accende il faro sul dilemma etico, ci stuzzica e punzecchia come un grillo narrante, arrivando dove altri non riescono, dicendo ciò che molti non hanno il coraggio di affermare. Viviamo in una bolla percettiva, anestetizzati da ciò che vogliono farci credere, rincoglioniti dai riti di sopravvivenza in un mondo sempre più fagocitante. Quando uno come Banksy tira fuori il marcio attorno a noi, talvolta dentro di noi, accade qualcosa di strano ma logico: una parte ne comprende la veggenza e appoggia il suo talento, un’altra si impaurisce e prova a indebolirlo, minando una verità che toglierebbe senso al loro (poco) senso. E’ una tipica leva che, destabilizzando l’avversario, riconferma il proprio valore senza opporre una reale dialettica. Sta accadendo proprio questo nell’ambito della teoria artistica: da una parte la galassia curatoriale che ancora parla di “graffitista”, di opere da pub, di fenomeno mediatico (come se il resto non lo fosse), di epoca culturalmente debole; dall’altra coloro che ne captano la dimensione complessa, le ampiezze veggenti, la trasversalità rispetto ad ogni possibile definizione.
(step 4) soggetto politico  Banksy attiene alla sfera degli artisti con un codice di militanza etica. Non esiste una sola operazione priva di contenuti forti su questioni morali: e i temi riguardano l’infanzia e la famiglia, la guerra e il sopruso, la vecchiaia come risorsa, il gioco come fonte di salvezza e benessere interiore, l’ecologia e l’animalismo per un futuro possibile… Banksy ama l’esercizio a tempo pieno della libertà individuale, diventando una password morale che invita al dissenso, alla riflessione profonda, alla presa di coscienza su molteplici urgenze collettive. L’azione ha carattere politico ma non chiede mai aderenze drammatiche, al contrario agisce con una logica alla Monty Python, dissacrando al punto da erodere il potere stesso, come un virus che infetta le istituzioni in modo nascosto e randomico. Banksy distilla il virus iniziale, lo carezza e predispone al mondo; a quel punto, per renderlo virale, ci pensano i media, le reazioni popolari, lo sfruttamento inconsulto, le derive commerciali e l’ingordigia finanziaria. Sono gli altri a completare l’operazione, dando densità politica ad un vero detonatore visivo.    
Post Franchising Banksy realizza pochissimi progetti espositivi con la propria firma, lasciando che altri nel mondo diffondano il suo verbo attraverso le mostre. Solitamente si costruiscono esposizioni con le serigrafie (step 6) disponibili sul mercato, in aggiunta ci sono alcuni reperti ufficiali dei suoi progetti, qualche raro quadro e alcune sculture o frammenti scenografici. Non esistono mostre autorizzate in forma ufficiale, anche se l’artista alimenta indirettamente un sistema che lo supporta senza suoi costi e impegni in prima persona. Ovvio che le mostre siano materia scottante in cui cose ben fatte si alternano a pessimi progetti commerciali. Banksy si mantiene ambiguo e distante rispetto ai progetti esogeni, usando il silenzio (anche se talvolta segnala le mostre che reputa sbagliate o denuncia quando si sfrutta il merchandising senza permesso) in maniera operativa. Nel frattempo, libero da impegni espositivi, si dedica ai progetti endogeni, la parte che potremmo definire identitaria e identificabile, ciò che traccia le linee portanti del suo pensiero e apre, volta per volta, nuovi percorsi concettuali.
(step 6) serigrafie  Spesso il pubblico chiede se esistano in mostra opere originali oltre alle serigrafie incorniciate. In verità nulla è più vero e banksiano delle tirature con timbro autentico: perché nascono da un precedente illustre, Andy Warhol coi suoi ritocchi a smalto su serigrafie, il primo ad aver moltiplicato una matrice (foto di partenza) con una logica industriale e un nuovo principio di unicità seriale. Banksy ha prodotto oltre quaranta immagini nella sua stamperia londinese, una sorta di metaprogetto che traccia la geografia “militare” del suo sistema d’ingaggio mediatico. Nel gioco di paradossi a catena, le stampe diventano la forma più limpida e autografa di feticcio banksiano, la certificazione mnemonica del suo effimero occuparsi di suolo pubblico. Se consideriamo gli interventi urbani come qualcosa di giustamente temporaneo, solo le serigrafie ufficiali diventano cellule di replicazione del virus iconico, alimentando il proselitismo popolare e l’intensificazione degli effetti collaterali.  
Street Art  Chiariamo un punto di centrale importanza: Banksy non è uno street artist in senso canonico, forse non lo è mai stato, nemmeno quando la città era il suo terreno di caccia creativa. Ricalca temi canonici della grammatica street, è vero, ma solo perché gli spazi pubblici permettono un’amplificazione epica dei messaggi. Lo definirei uno street artist allo stesso modo in cui considero urban la metodologia di Jenny Holzer, Barbara Kruger, David Hammons, Gabriel Orozco… tutti artisti che hanno creato codici di comunicazione nei luoghi collettivi, senza legami con la metodica virale delle tag. Sia chiaro, i suoi stencil parietali sono metodo urbano ma il suo sistema binario è differente da chiunque altro. Banksy ha le sue ispirazioni e i suoi metodi urbani, Brad Downey in particolare, indietro fino al trip-hop bristoliano, ai testi teorici di Eduardo Paolozzi, alle incursioni londinesi di Richard Hamilton, al postwriting di Futura 2000, ai prodromi nati a New York nei primi Ottanta (Paolo Buggiani, Richard Hambleton, Les Levine)… ma al dunque sono piccole tracce di una sinusoide complessa, anomala, linguisticamente eterogenea. Mi sembra il più concettuale degli artisti ad alto impatto collettivo, vicino alla pratica curatoriale del suo amico Damien Hirst. Non è un caso che proprio loro abbiano rifiutato il monopolio dei galleristi, rompendo la filiera tradizionale in favore di uno spam gestionale sul libero mercato. Entrambi stigmatizzano il ruolo dei galleristi, la loro asfissiante speculazione rispetto alla ridotta capacità di produrre contenuti. Banksy e Hirst hanno hype differenti ma solo perché il secondo ha gravitato, fin dagli anni Novanta, tra i gangli del sistema ufficiale, mentre il primo ha sempre fatto le cose per conto proprio, fregandosene del control freak di qualche gallerista billionaire. Ha ragione Hirst? Ha ragione Banksy? Direi due facce della stessa frattura con un sistema in crisi.
Eliminazione del falso La filiera a controllo diretto implica la valutazione chiara di ogni singola operazione. In tal modo diviene impossibile, per chiunque al di fuori dell’entourage, dichiarare vero ciò che non esce da casa Banksy. Aver eliminato il divismo facciale significa maggior libertà d’azione e controllo, significa poterci essere senza che il pubblico lo sappia, significa concentrarsi sui contenuti senza dispersioni mondane. E poi con Banksy si sta trasformando l’idea stessa di vero e falso: è lo statement sui social che dichiara o meno il valore autografo, anche se permangono diverse ambiguità che lo stesso Banksy non chiarisce ma alimenta in silenzio, capendo bene il beneficio della contraddizione aperta. Il grande caos commerciale toglie l’eccesso di aura attorno al feticcio e lo assimila ad una biologia elettronica, una specie di criptovaluta dai valori fluttuanti, una sorta di Gioconda dai destinatari open source. In fondo, Banksy enfatizza il delirio odierno per l’opera come status di presenza, semplice oggetto da selfie che certifica l’obiettivo raggiunto. E foto fu, potremmo dire oggi nella febbre da museo social.    
Merchandising Qui risiede il cuore operativo del suo potere finanziario. Tramite la Pest Control, Banksy controlla permessi, licenze e produzioni di oggetti che utilizzano immagini e claim visivi sotto copyright. Esiste contraddizione, è vero, tra le sue idee sul copyleft e lo spregiudicato monopolio del patrimonio creativo. Ma contraddirsi in maniera lineare è un’altra lezione banksiana, un gioco che utilizza le stesse meccaniche della comunicazione istituzionale, ormai capace di affermare due polarità opposte con la medesima coscienza del vero. I guadagni del merchandising raggiungono vette miliardarie, con una logica che ricalca il sistema dialettico tra fashion system e falsificazioni made in China; al contempo, Banksy reinveste in operazioni ad alta valenza etica. Vi basti l’esempio di Gross Domestic Product, un temporary store londinese che vende opere di varia natura, usando il ricavato per comprare una nuova nave di salvataggio migranti, in sostituzione di quella confiscata dalle autorità italiane.
La contraddizione di Bansky è la sintesi specchiante di tutti noi, di quanto siamo  coacervo di paradossi conviventi. Il suo giocare tra alto e basso, mainstream e antagonismo, pop e tragedia, non è altro che lo specchio cosciente del nostro status liquido in un mondo fisico e al contempo virtuale. Banksy somatizza il presente occidentale sulla propria pelle invisibile. Lo rende glitterato e sanguinante, glamourous e cannibalico, onirico e drammaticamente vero. Gioca a sovrapporre il paradosso dentro la stessa immagine, liberando la contraddizione dal suo vincolo ideologico. Ci sta dicendo che ogni nostra scelta genera contraddizione, con la teoria e la pratica sempre più distanti tra loro. Professiamo l’ecologismo e guidiamo auto in città, ostentiamo monogamia mentre il marketing ci chiama alla poligamia sessuale, postiamo selfie e critichiamo i personaggi che lo fanno per mestiere… potremmo andare avanti per pagine e pagine ma direi di fermarci alla nostra immagine in uno specchio. Guardiamoci negli occhi, in silenzio, pensando un istante a quanto sia tutto una gigantesca distrazione di massa, un’astrazione finanziaria, un mondo che senza contraddizione sarebbe già deflagrato. La contraddizione è la salvezza dell’umanità contemporanea. E Banksy, dall’alto del suo invisibile declamare, ci mette ogni volta davanti ad uno specchio deformante in cui scorgiamo ciò che potremmo o dovremmo essere. Il quadro riflette ogni spettatore con la sua coscienza, la sua idea di mondo, le sue piccole e grandi certezze. Siamo talmente contraddittori da aver reso virtuosa l’ambiguità di un artista come Banksy. Ci lamentiamo del lamento e in un attimo riempiamo lo stomaco di cibo e alcool, pensando di non avere responsabilità diretta sul mendicante appena incrociato. Da qui la consapevolezza che solo l’arte stigmatizzi il problema con una soluzione secca e impattante, un colpo in faccia con ripercussioni in ordine sparso, spesso ininfluenti sul futuro ma talvolta prodromi di conseguenze reali. Banksy ci sussurra che l’arte serve ancora a qualcosa, non solo ad arredare una bella casa, e che la funzione d’uso sia il collante tra il presente dell’opera e il futuro delle sue reazioni.
Superare l’arte attraverso l’opera… terminato un excursus tra i topoi che definiscono il suo valore e la sua potenza mediatica, direi che Banksy supera la stessa arte che finora abbiamo conosciuto. Ne riformula regole, usi e costumi, ricreando una filiera che elimina gli imbuti produttivi del modello tradizionale. Ha ideato un modello proprio che reinventa l’esistente, modulando ciò che il presente tecnologico ci mette a disposizione. Banksy usa strumenti e materiali che tutti conosciamo, senza perdere aderenza con oggetti fisici e tangibili, con forme semplici e quasi banali, con un mondo lo-fi privo di utopie fantasy. Lo capiscono tutti in quanto usa la grammatica degli oggetti e la sintassi delle storie condivise. Si alimenta di cronaca e realtà, ribaltando storie che toccano l’umanità intera. Non esiste pratica esoterica nel suo sistema visuale, nessuna difficoltà di approccio superficiale, tutto risulta leggibile e impattante, nello stesso modo con cui la Pop Art si definiva attraverso il close-up sugli oggetti commerciali. La profondità esiste, sia chiaro, ma è un gioco di layer sottostanti, da praticare con metodo riflessivo. Sotto la superficie si nasconde la complessità eterogenea, un intreccio di possibili letture che indirizza il progetto su varie piattaforme analitiche. La sua forza sta nell’aver capito che in un mondo digitale come il nostro, l’arte doveva fermarsi un attimo prima della sua digitalizzazione, nascendo solida per poi diventare liquida. Un’arte facile in apparenza ma complessa oltre l’apparire, ovvia eppure controversa, empatica per attitudine e cattiva per natura. Un’arte dai molti effetti collaterali.
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gianlucamarziani · 4 years
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RODRIGO GODA’
ANIMA MUNDI
Gianluca Marziani
 Rodrigo Godà ci trasporta in un viaggio dal tenore onirico tra mondi e figure strabilianti, un’avventura fantastica e ironica tra le quasi 70 opere allestite nei foyer dell’Auditorium Parco della Musica. E’ la prima volta che i quadri dell’artista giungono in Europa, ed è una bellissima sorpresa per il pubblico italiano che potrà ammirare uno dei maggiori talenti della nuova pittura brasiliana. Godà, vivendo in un Brasile dalla natura imponente ed estrema, trasferisce sull’opera le molteplici visioni di animali e piante del suo territorio, ricreando paesaggi con una logica meccanica e idraulica, geografie della mente in cui natura e tecnologia sembrano legate da uno sguardo ecologista. Anima Mundi raccoglie messaggi amorevoli sulla fragilità del Pianeta, sul valore delle risorse naturali, sui modelli di riciclo virtuoso in un millennio che, spesso, sembra scordarsi di quanto sia fondamentale prendersi cura della Terra.  
Adesso immaginiamo di volare sopra la foresta amazzonica del Brasile, sorvolando milioni di ettari dal verde intenso, giungendo nella zona di Goiânia, planando fino alla casa in cui vive e lavora Rodrigo Godà.. ora entriamo virtualmente nel suo mondo senza rumori metallici e tubi di scappamento, pensando invece ad animali, fiori, piante, frutti e altre meraviglie che circondano la sua vita trasparente e il suo approccio senza filtri mediatici… davanti a noi si ricompone una palette cromatica dalle sfumature infinite, un pantone naturale che certifica lo straordinario universo in cui l’autore alimenta il suo immaginario pittorico, i grovigli visionari, le sue foreste oniriche, i congegni utopici, le visioni intricate delle sue fiabe tra macchine celibi, fantasy tropicalista e dadaismi ingegnosi alla Tinguely.
I protagonisti dei quadri sono un ibrido cerebrale tra vero e reinventato, miscela di soggetti e oggetti per condensare nel tratto tutti i rumori, colori e forme della zona di Goiânia. L’artista vive in un fluido isolamento rispetto alla frenesia di San Paolo e Rio de Janeiro; la sua casa è a ridosso delle grandi foreste, dove esistono animali dai nomi impronunciabili, piante esotiche dai poteri sciamanici, dove la Natura certifica la sua potenza e il suo crudele rito quotidiano. Qui non c’è mediazione, il paesaggio dichiara le regole d’ingaggio e gli umani, volente o nolente, devono sottomettersi al potere ciclopico del continente.
Rodrigo Godà incarna la profonda natura del Paese, quel suo primordialismo evoluto, la polifonia tra incredibili diversità biologiche. Un approccio che evita le forme statiche del realismo europeo, non riconoscendo valore al resoconto alfabetico e filologico del vivente. A parlare è, invece, un disegno sinuoso come i pensieri, una grammatica di automatismi che racconta il Brasile con la vena liquida del sogno tropicale, del paesaggio onirico, della rivelazione di senso e sensualità. Il fondale delle opere diventa spesso il colore dominante, geografia su cui crescono i disegni come alberi di un’intricata foresta semantica. Anche qui, indagando il legame tra il fondale e il tratto, capiamo subito la fusione tra il contesto (Brasile) e l’esperienza artistica (Godà). Colore e disegno appartengono alla medesima biologia, così come l’autore appartiene alla Natura che si espande da ogni parte, lungo oceani di rosso, giallo, verde, azzurro, bianco...
Cito subito Jean Tinguely e il motivo si chiarisce davanti ai quadri della serie Invenzioni. Vi appaiono strutture robotiche elementari, sorta di marchingegni che ricordano le macchine inutili dello svizzero, i suoi robot dadaisti tra veggenza posturbana e ironia poetica. I lavori di Godà sembrano parenti lontani del Nouveau Réalisme europeo, radicati nei suoni del Brasile ma geneticamente vicini alle sculture meccaniche di Tinguely, alle ferraglie intricate che agivano come un organismo digestivo o un motore senza carrozzeria. Tinguely immaginava la scultura come antimonumento gracchiante, nemica di retorica e narcisismi, oggetto instabile dai contenuti aperti e dal futuro precario. In maniera simile, Godà dipinge macchine folli che somigliano ai paesaggi complessi di un futuro postdigitale, dove la meccanica (in auge per secoli) sopravvive all’elettronica, dove le vecchie regole (qui ancora applicabili) si sono dissolte in una cromosfera tropicale e polisegnica.
La semantica del brasiliano è ricca, eterogenea, diversificata; al contempo, scorre su una comune linea melodica e curva armonica, non ricreando dissonanze ma solo sinergie e frequenze similari. Per gestire una semantica così ampia serviva una cosa che non tutti possiedono, ovvero, l’empatia, quel sentire profondamente ciò che ci circonda, cogliendo la lingua atavica dei sentimenti. Non è un caso che il termine, coniato da Robert Vischer a fine Ottocento, toccava in primis l’estetica e le arti figurative. Per lo studioso l’empatia riguardava la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura, un approccio che qui pulsa in ogni disegno e pittura, secondo modi figurativi che sfuggono ai generi e ai diktat accademici. L’artista inventa il suo universo di riferimento, i suoi personaggi, i paesaggi elettivi, le sue dinamiche interne. Tutto scorre, come direbbe Eraclito, e tutto si armonizza in una convivenza sanata tra generi, classi e categorie. Il mondo di Godà parla il proprio linguaggio in un luogo ideale che non ha costituzioni ma leggi poetiche, che relaziona tutto e tutti sulla base dell’armonia onirica, dell’istinto emotivo, dei sensi accesi.  
Per evitare fraintendimenti, non pensate a Godà come a un ingenuo creativo di qualche isolata tribù amazzonica. Lui è figlio di un Brasile alfabetizzato ma non troppo contaminato, in Italia si direbbe “ragazzo di campagna”, anche se le dimensioni dello stato sudamericano amplificano i parametri relazionali tra Uomo e Natura. Consideriamo la sua arte il risultato di una naïveté avanzata, dove ingenuità e conoscenza si integrano e definiscono una piena coscienza figurativa. Non parlerei di approccio concettuale, semmai di talento iconografico, di spirito platonico nel concepire la Natura come unico organismo vivente. Anima Mundi del titolo si ispira agli sguardi pagani delle prime comunità umane, ad un primitivismo del Pianeta che in Brasile ha conservato una parte di spiritualità magica, una vertigine d’immanenza che l’Occidente ha smarrito da tempo. Anima Mundi tiene assieme le voci, i corpi, i colori, i sapori, le profumazioni di una Natura che è madre e regina del Pianeta, dea crudele che osserva la razza umana per inglobarla nello sconfinato paesaggio senza orizzonte, nei riti ciclici di un ecosistema completo e autogenerativo.
Godà dimostra dove si ferma la globalizzazione e dove nasce l’integrità di una visione limpida, direttamente connessa ad un ecosistema completo. La sua arte, così semplice da leggere al primo sguardo, somiglia ad un prisma colorato che trasfigura l’esterno. L’occhio e la mano filtrano la cacofonia ambientale in una nuova purezza che non cerca innovazione ma racconto, scheggia emozionale, condensazione di forme, suoni e colori. Dopo l’istante semplice della scoperta, il mondo di Godà moltiplica le sue conformazioni e si rivela, sguardo dopo sguardo, un caleidoscopio con la natura dei sistemi complessi.
Scorrendo il libro ritroverete un artista che può essere letto in molti modi, da angoli diversi, seguendo connessioni e chiavi sincretiche. Il Realismo Magico è la più evidente tra la chiavi, quella che richiama la letteratura di Clarice Lispector, il cinema di Glauber Rocha e Julio Bressane, il sound di Thiago Nassif e Arto Lindsay… i riferimenti si aprono in una raggiera che va indietro e avanti nel tempo, verso Italo Calvino e Jorge Luis Borges, Gabriel Garcia Màrquez e Mario Vargas Llosa… i quadri sono così eterogenei, così ricchi di dettagli, così fantastici da condensare una miriade di plausibili rimandi, rendendo la superficie un mondo meticcio, sospeso nel tempo mentale, quasi fosse una destinazione segreta per viaggiatori dallo spirito libero.
Vorrei chiudere con due riferimenti che reputo fondamentali: uno è lo svedese Öyvind Fahlström, l’altro l’Italiano Gianfranco Baruchello. Le filiazioni semantiche riguardano il modo minuzioso e pittorico di usare il disegno, la natura fumettistica della composizione, l’aggregare le forme per placche compresse, la sintesi di un tratto che scorre su automatismi e ispirazioni elettriche. Fahlström e Baruchello, durante gli anni Settanta, captarono la natura dadaista della pittura, quella che Duchamp aveva anticipato con gli esoterismi de “Il Grande Vetro”. I due manipolarono strategicamente l’ironia duchampiana, definendo una coscienza narrativa del quadro, inventando la prima narrazione cerebrale in pittura, creando racconti dal finale multiplo. E poi, siccome il destino non scrive storie casuali, va aggiunto che Fahlström è cresciuto tra San Paolo, Niterói e Rio de Janeiro, tra i colori e sapori di un Brasile che contamina la visione e forma un sincretismo effettivo. Non credendo nelle casualità ma nel flusso invisibile che lega visioni distanti, vedo due artisti - Godà e Fahlström - che osservano la Natura in un certo modo, con un certo approccio poetico, con la consapevolezza di essere minuscoli nel grande gioco della Vita. Piccoli, piccolissimi eppure immensi quando l’occhio fissa l’orizzonte degli eventi interiori.
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gianlucamarziani · 4 years
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SHI LIANG - Visionarea - Roma
VANITAS
Gianluca Marziani
La Vanitas nelle arti visive indica una natura morta che riflette, attraverso elementi simbolici, sulla caducità della vita umana. Un tema nato nel Seicento su cui gli artisti, decennio dopo decennio, hanno ideato soluzioni filologiche ma gradualmente più eterogenee. In origine era la sola pittura a parlare di vanitas, finché nel Novecento il clima innovativo ha coinvolto l’intero scibile linguistico, modulando nuove relazioni tra oggetti vissuti e tema estetico. Per Shi Liang la vanitas funziona da filo rosso lungo molte sue creazioni, una specie di ragione profonda che guida l’osservazione sensibile sul mondo. Quel filo cuce assieme le raccolte di oggetti più o meno antichi, più o meno consumati dal tempo e dall’uso, oggetti con una valenza allegorica che li trasforma in una presenza metafisica, oltre lo spazio della loro vita, oltre il tempo della loro memoria.  
Su una grande parete si dispongono centinaia di antiche panche cinesi, una sequenza postminimalista in cui la memoria dell’oggetto funzionale rielabora la formula barocca della natura morta. Quei pezzi in ordinato accumulo, simili eppure diversi tra loro, tessono una trama di evocazioni ambivalenti, come un’orchestra muta in cui la ripetizione mantiene unicità e scrive un canto metafisico attorno al controcanto della vanitas. L’installazione, imponente eppure lieve, potrebbe essere il manifesto poetico del modus concettuale di Shi Liang. Contiene i termini del suo approccio iconografico, il suo assumersi l’onere dello spazio e il peso del substrato invisibile. E’ un ideale che assimila il reale e lo riporta, dopo l’azione d’assemblaggio, ad uno status di sospensione universale.
Shi Liang incarna un solido percorso tra teoria e pratica del fare arte, un approccio che trasforma l’opera in un denso agglomerato dai contenuti aperti. La matrice d’ingaggio lavora sul bagaglio antropologico, ricercando oggetti e materiali che hanno assorbito le azioni del vivere, il peso dell’esperienza, la ragione del pensiero saggio. Il suo riuso dell’esistente, debitore del modello Fluxus, scava nell’artigianato storico cinese, nei legni con le rughe profonde del tempo, nelle pelli ancora profumate, nella carta dai calligrafismi antichi... I colori sono quelli della memoria, come in un bosco autunnale dai marroni decisi, dai gialli pastosi, dai toni del miele e del sole dopo un temporale; gli odori conservano il valore dell’esperienza, un’eco proustiana di memorie scivolose ma persistenti; le forme rappresentano archetipi di vita quotidiana, brandelli domestici con cui il nostro sguardo familiarizza senza fatica, ritrovando le basi di un umanesimo necessario.
L’artista entra nel cuore arcaico della Cina, tra i riti collettivi delle abitudini comunitarie, dove gli oggetti domestici racchiudono il senso del vivere e la sensualità del fare. Il suo è un feticismo antropologico, un rituale di ricerca ossessiva e di riuso metodico degli oggetti collezionati, affinché la forma di partenza si trasformi in un climax fluido del presente.
Il vissuto dell’opera è dilatato, disteso nel tempo verticale della vita che incrocia il tempo orizzontale della storia artistica. Shi Liang assimila il rito del vivere e lo metabolizza con le membrane di certa arte italiana, in particolare con le matrici del Seicento che incarnano i suoi ideali di rinascita figurativa. Sono evidenti le vie caravaggesche, un certo rapporto con la luce concentrata, il movimento ascensionale, la gestione dello spazio oscuro; lo stesso tema della vanitas è la riprova di un denso dialogo tra la Cina e l’Italia sul piano della memoria condivisa. Che significa concentrarsi oltre il rumore del mondo, lontani quanto basta dal bagliore capitalista, a debita distanza dal troppo presente. Il nostro artista rallenta e ferma l’occhio iconologico, a metà tra il personale bagaglio di conoscenza e un continuo confronto con la cultura occidentale. L’esperanto di un mondo nuovo passa per esperienze di questa natura, per un’attitudine al flusso informativo e cognitivo, per il coraggio di sostenere dialoghi comunitari. Se vogliamo una civiltà del futuro, dobbiamo alimentare le comunanze e le armonie dell’incontro.  
Shi Liang ci racconta una Cina tra passato millenario e futuro accelerativo, dove la fermata del tempo diviene sosta nello spazio metafisico. La sua arte ragiona in maniera bifronte, affrontando i nodi morali del presente con un’evocazione teatrale che riafferma le radici collettive. L’autore mappa l’attualità con oggetti densi, carichi di memoria, per creare confidenza col passato e fare un passo metodico dentro il nuovo, senza che il presente ricada nel virtuosismo tecnologico. Il messaggio arriva attraverso oggetti solidi, piantati al suolo del tempo, ma con lo sguardo verso l’orizzonte dei nuovi eventi. L’artista è il demiurgo della forma, un alchimista di materie naturali come il legno, la carta e la pelle. Trasforma gli oggetti senza disperderne i connotati d’origine, al contrario disegnando messaggi metaforici ma non criptici, complessi ma semplificati nel loro sistema semantico. Shi Liang parla di un mondo sinestetico, ricco di riferimenti alla grande arte italiana, modulato su alte dimensioni morali. Un universo intimo eppure inclusivo, un intreccio di raffinate allegorie con l’Umano al centro e la Memoria come radice necessaria per costruire le ragioni di un Dialogo. 
Al riuso di oggetti reali si aggiungono gli interventi pittorici sui materiali vissuti. Un trittico racconta la frenologia metaforica della Vanitas, riflessione colta dai colori caravaggeschi e dai toni shakesperiani. Un altro lavoro, composto da sei elementi in legno, unisce altrettanti ritratti dalla suspense drammaturgica, volti familiari dal background inquieto, storie di vita che riaffermano il tema eterno della libertà individuale. 
Altre volte il riuso crea un cortocircuito tra pittura e scultura. Come nelle nature volumetriche che evocano Giorgio Morandi, il maestro contemporaneo della natura morta, colui che ha portato la metafisica di Piero della Francesca nel silenzio monocromo del design anonimo. Shi Liang coglie il valore metafisico di Morandi, la sua sospensione ascetica, l’energia degli archetipi condivisi. Sente forte l’influenza del maestro italiano e cerca di usarlo in maniera filtrata, metabolizzando la lezione su nuovi impianti figurativi. Avviene così anche negli altri richiami ad artisti fondamentali, come quando sentiamo echi di Jannis Kounellis e Fabio Mauri, Maria Lai e Salvatore Scarpitta, Piero Manzoni e Mario Merz. Tutti artisti che agivano sul nomadismo dei materiali, sulla densità drammaturgica del riuso consapevole e “politico”. Lezioni incrociate che Shi Liang ha fatto sue con modestia, generosità e rispetto, doti rare ma determinanti per capire le ragioni di un dialogo e le emozioni della consapevolezza profonda.    
Se scorriamo lungo i lavori in catalogo, vediamo un costante equilibrio tra le forme d’origine e il loro percorso metabolico. Scopriamo volumi dalle geometrie simboliche, dal rigore centripeto, dalla memoria prospettica. Pitture, installazioni e sculture che ragionano lungo un tempo dilatato, teso tra Natura e Cultura, bellezza e crudeltà, ideale e reale. Opere che si trasformano in scritture plastiche dai movimenti spirituali, simili a dervisci che girano attorno ad un centro ideale, pura velocità da fermi per diventare astronauti delle galassie filosofiche.
Lo sguardo scivola verso una piccola scultura dalle ali simboliche, sorta di custode ambiguo che ci osserva ieratico, come uno Yoda destinato alla nostra disciplina morale. E’ un guardiano metaforico sulla soglia, chissà se buono o cattivo maestro, sicuramente una calamita cosmica tra le opere che avvolgono lo spettatore di Visionarea. Ancora una volta, Roma si avvicina a mondi lontani per sperimentare il linguaggio della sinestesia.   
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gianlucamarziani · 6 years
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LEONARD MICHAELS
da IL CLUB DEGLI UOMINI...
Parlando si dava delle rapide scrollatine, come se dovesse sistemarsi le vertebre. I suoi occhi, dopo due tiri di spinello, erano colmi di verde lontananza...
Gli occhi erano mondi di sensazioni...
Se la storia la fanno gli uomini, le donne la indossano sul viso e sul corpo...
La faccia di un neonato sorpreso dalla senilità...
Ha passato tutta la vita a cercare di fotografare l’altra donna. Ma ogni volta che scattava una foto era come se si sposasse, come se eliminasse un’altra donna dalla possibilità di essere l’altra. E Cavanaugh, perchè non riesce a trovare la sua donna? Perchè se la trovasse non sarebbe più l’altra. In questo momento protegge il suo matrimonio. Ogni volta che va al supermercato e non vede l’altra, cioè sempre, il suo matrimonio diventa più solido...
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gianlucamarziani · 6 years
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AURELIO PICCA
da ARSENALE DI ROMA DISTRUTTA   Roma l’ho amata quando era plebea e non miserabile. Quando gli osti erano frascatani e genzanesi come Augustarello. L’ho amata prima dei tossici, nei tempi in cui erano in venti a farsi di eroina. L’ho amata prima del Pigneto, quando i ladri mi chiamavano “pische’” tra i banchi del mercato di via Montebello. L’ho amata quando era livida. Quando non c’era “il sabato sera”. Quando era blindata nei suoi quartieri ancora in guerra con i popoli italici che la assediavano. L’ho amata prima di Trastevere, quando si facevano i testacoda su via Nomentana. Roma era una vergine nera. Barbara. L’ho amata quando l’Olimpico si beveva la luce di Monte Mario. Quando Chinaglia alzava l’indice. L’ho amata quando facevo l’amore nel parcheggio di San Giovanni, quando i corpi avevano il loro odore. L’ho amata prima di Nicolini e Arbore. L’ho amata, come mi diceva Sergio Citti, dall’Ottocento al ‘57. Quando nessuno voleva cambiarla. Perché non era capitale di niente. Era solo la femmina del mondo infame.
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gianlucamarziani · 6 years
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GIUSEPPE GENNA
da HISTORY
Mascherati da realtà aumentate  
Tutto è adatto a sembrare
Crepitiamo elettrici fino alla fine
Il ricco non è un bambino: è un bambino più il vizio
Nessuno insegnò futuro
E noi siamo molecolari dispersi nell’ampio spazio astratto
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gianlucamarziani · 6 years
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GIUSEPPE GENNA
da HISTORY... Tutto non è mercificabile ed espande a dismisura, dentro e fuori. Tutto conduce chiunque entri in contatto con tutto verso infinitudini interiori, miliardi di nanobot connettivi, e verso latitudini estreme nello spazio esterno, verso le singolarità e gli orizzonti degli eventi, amplificando a dismisura lo spazio, rarefacendo lo spazio in uno spazio più vasto e estremo, prossimo agli irraggiungibili zero k. La merce era in espansione, ora è espansa: questo è tutto.
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gianlucamarziani · 6 years
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RAUL MONTANARI
da L’ESORDIENTE  Mi hai detto che gli uomini e le donne mettono la felicità in posti diversi: gli uomini nel passato, le donne nel presente e nel futuro.
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gianlucamarziani · 6 years
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RAUL MONTANARI
da L’ESORDIENTE  Vivere con un rancore è scomodo come trascinarsi un credito, ma vivere con il senso di colpa è doloroso come avere un debito.
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gianlucamarziani · 6 years
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LETIZIA PEZZALI
da LEALTA’
Il desiderio non si impara.
Oggi so che le persone coltivano l’ambiguità.
Il risultato finale delle relazioni umane è un affaticamento.
Ogni edificio, ogni apparenza umana nasconde un’ansia tremolante: la possibilità della distruzione.
Cercava corrispondenze facili e disarmonie eccitanti.
Per gli esseri umani il presente è troppo complicato.
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gianlucamarziani · 6 years
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TATIANA TROUVE’
Io scolpisco l’eco
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gianlucamarziani · 6 years
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YOKO ONO
Gli artisti attingono direttamente alla fonte per ricavare idee ed energia. I politici sono invece talmente insicuri da ritenere necessario aggiungere decoro.
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