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laciviltacattolica · 2 years
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IDENTITÀ IN TRANSITO | Andrea Bonavita S.I. Figure di spalle, senza volto, apparentemente sole. Uomini maturi, donne, giovani. Sono i personaggi trattenuti dalle tele di Pedro Cano, raggruppate sotto il titolo di Identità in transito e già esposte a Roma, Firenze e Madrid. Nascono dall’impatto vissuto dal pittore con le immagini dello sbarco a Bari di circa 20.000 albanesi nell’agosto 1991: una massa di uomini in fuga dalla miseria e dalle difficili condizioni del proprio paese, che prima aveva riempito all’inverosimile la nave Vlora e poi la banchina del porto.
Moltissimi furono i rimpatriati, sebbene un certo numero riuscì ad eludere i controlli. «Io vivevo a Roma – scrive l’autore nel pannello introduttivo dell’esposizione spagnola – e all’uscita della metropolitana ho pensato più di una volta se la persona di spalle davanti a me non fosse uno dei passeggeri di quella nave. Allo stesso tempo pensavo che, per molti, anch’io potevo sembrare un’altra di quelle persone appena arrivate da Bari».
Le figure di Pedro Cano, avvolte da toni nebulizzati di grigio, inghiottite da blu minacciosi o dalla calura di ocra soffocanti, stanno in bilico tra identità e anonimato, tra l’emergere dal fondo della tela o il dissolversi. Ci sfugge dove siano dirette o che sentimenti alberghino nel cuore: disincanto, tranquillità, determinazione, disorientamento… «Una figura di spalle è sempre una incognita e non sappiamo quale carico di allegria o difficoltà porta dentro di sé», dice Cano.
Forse è proprio la ricerca di una possibile risposta a questa incognita che rivela, in fondo, il nostro desiderio di essere compresi, accolti, amati. Anche per noi, in viaggio come queste Identità in transito, sguardi benevolenti continuano a raggiungere le nostre vite, interpellati dalle fatiche e dalle pieghe delle nostre esistenze. E chissà che non si possa intuire, nel bianco di contorni, riflessi, abiti, superfici – bianco sempre presente in questa serie di Pedro Cano – un incondizionato «Io sono con te», una trascendenza vicinissima che ci accompagna sempre, ben al di là di quanto sia umanamente percepibile.
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laciviltacattolica · 2 years
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LE STELLE VICINE | Diego Mattei S.I. Con Le stelle vicine (Bollati Boringhieri, 2021) Massimo Gezzi,alla sua prima opera in prosa dopo varie raccolte di poesie, ci regala una splendida antologia di 12 racconti. Protagonisti delle storie, spesso ambientate in provincia, sono i più vari. Si alternano uomini, donne, giovani, bambini e anziani. Sono vite semplici, quotidiane e al tempo stesso venate dalla tragedia, dal dolore, dalla malattia, in ogni caso uniche.
La raccolta prende il titolo da un racconto, nel quale le «stelle vicine» sono metafora di una bellezza chiamata a essere testimone di una distruzione, il tentativo estremo di uscita da un colossale fallimento di vita, per iniziare nuovamente, forse. Purtroppo un tentativo che si risolve in una condanna ancor più definitiva, con la forza di pensieri e memorie colti in presa diretta.
Questo titolo ci sembra però al tempo stesso evocativo dell’atmosfera che ciascuna storia raccoglie, custodisce e offre al lettore, frutto prezioso della scrittura attenta di Gezzi che induce nel lettore uno sguardo delicato, paziente e rispettoso delle vite raccontate. Lo stile misurato e intriso di pietas dello scrittore marchigiano invita alla mitezza, illumina, svela con pudore e nelle situazioni più delicate non si lascia mai andare all’irrisione o al giudizio. Le «stelle vicine» sono allora anche i piccoli della terra, i fragili, i limitati, spesso personaggi arrabbiati, feriti, non sempre all’altezza delle situazioni, ma non di meno degni di riguardo.
Oltre al racconto che da titolo al libro, ci sembrano particolarmente degni di nota «Il controllore», nel quale un bulletto liceale viene osservato attraverso gli occhi di una giovane compagna di classe, che si è invaghita di lui nonostante i suoi modi spesso violenti e volgari. La vicenda si svolge sulla corriera che porta i ragazzi a scuola. L’incontro con il controllore, salito per lavoro, suscita un litigio feroce e nella violenza dello scontro che segue, emerge come il giovane sia forse a sua volta vittima e non solo carnefice di coloro che gli stanno accanto.
C’è poi «Angelo». È la storia di una quarantenne, single e in carriera, perseguitata da uno stalker, che le fa trovare brevi messaggi nella buca delle lettere, dai quali capisce di essere scrutata dentro casa, nel luogo che dovrebbe essere più sicuro.
E, infine, «La figlia del circo», un po' favola, un po' racconto per giovani, storia di un tenero amore, nato tra i banchi di scuola media, tra un ragazzino che dell’amore e della pulsione erotica sta conoscendo i primi tremori, e una ragazzina, che lavora in un circo come contorsionista e trapezista.
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laciviltacattolica · 2 years
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SARA FRANCESCHINI. MUSICHE DEL RITORNO | Claudio Zonta S.I.  
Il tema del ritorno ha avuto sempre un carattere antropologico, proprio dell’essere umano, affrontato poeticamente da Omero nell’Odissea, da Foscolo in A Zacinto, solo per citare due celebri esempi.
Musiche del ritorno, è il titolo dell’album della giovane cantante Sara Franceschini. Prima di questo lavoro discografico la vediamo presente anche nel cd Viaggio in Italia. Cantando le nostre radici, del collettivo Adoriza, un viaggio musicale lungo i mille sentieri che attraversano il Bel Paese.
Il ritorno è spazio esistenziale nel momento in cui si è vissuta la complessità dell’allontanamento, dello sradicamento, della lontananza. E così Sara Franceschini, con la sua voce fresca, armoniosa e cristallina, sceglie di reinterpretare una serie di brani che portano con sé la distanza, il naufragio, la nostalgia di casa, il desiderio di una vita che è intessuta di avvicinamenti, di incontri, di separazioni.
I nomi degli autori con cui si confronta sono tutti di alta qualità artistica: la sua voce riprende i versi poetici impregnati di salsedine di «D'ä mê riva» di Fabrizio De Andrè: u teu fatturisu amàu ‘nta mæ vitta ti me perdunié u magún ma te pensu cuntru su (il tuo sorriso amaro nella mia vita / mi perdonerai il magone / ma ti penso contro sole). Si confronta anche con il fado «Os Argonautas» scritto dal cantautore brasiliano Caetano Veloso, originariamente registrato a Bahia nel 1969, insieme a Gilberto Gil, appena prima di essere condannato all’esilio. In questo brano le percussioni incessanti di Alessandro Luccioli e il suono della fisarmonica di Edoardo Petretti creano un’atmosfera intrisa di tristezza e allegria che sottolineano la bellezza dolorosa dei versi: O barco, meu coração não agüenta. Tanta tormenta, alegria. Meu coração não contenta. O dia, o marco, meu coração, o porto, não (La barca, il mio cuore non sopporta. Tanta tempesta, allegria. Il mio cuore non si accontenta. Il giorno, l’orizzonte, il mio cuore, il porto, no).
Sara Franceschini sceglie canzoni complesse e profonde, dalla ricercatezza lessicale, dalla forte simbolica che provoca il dubbio di senso, la contraddittorietà come esperienza umana, come si vede anche in «La tempesta è un piatto che va servito freddo» di Andrea Caligiuri: Hai presente il mare come contorno / il cielo si allontana e mi sta sorridendo / voglio solo aria e respiro a stento / ma mi sto muovendo, mi sto smuovendo / cerco la salvezza e allora vado a fondo / resto solo io come cambiamento / come cambia il vento / si alza un’onda e ci vado dentro. È un ritorno che costa fatica, che non è riposo, è un ritorno dinamico, come mostrano gli interventi scritti dalla cantante che inframezzano e collegano le canzoni, e che diventano così un vero e proprio flusso di coscienza: Parte tutto dalle stelle / e alle stelle vuole tornare / nello stomaco la carta del cielo / nel mio stomaco la direzione…
Musiche del ritorno è un album intimo e riflessivo, che spazia in diversi generi musicali armonizzati dalla sapiente mano di Edoardo Petretti; la voce di Sara Franceschini spazia, si appoggia al tappeto sonoro creato da eccellenti musicisti, con delicatezza e passione, con leggerezza e allegria, per scivolare verso il centro, la casa a cui tornare.
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laciviltacattolica · 2 years
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PARADISO | Cristiano Laino S.I. Paradiso, del premio Nobel per la letteratura del 2021, Abdulrazak Gurnah, è un romanzo affascinante. Gurnah è uno scrittore tanzaniano, professore, per molti anni e oggi emerito, di letteratura inglese e post-coloniale all’università del Kent. Paradiso è stato pubblicato nel 1994, e, dopo la vittoria del Nobel, ripubblicato in Italia. Scritto, nella versione originale, prevalentemente in lingua inglese, Gurnah utilizza altre lingue come l’arabo e lo swahili come strumento dinamico della prosa.
Il personaggio principale del libro è il giovane Yusuf. E seguendo le sue vicende personali veniamo catapultati nell’Africa orientale tedesca alla vigilia della Prima guerra mondiale. A un primo livello, infatti, il libro si potrebbe catalogare tra i tanti Bildungsroman, un romanzo di formazione, con i quali la letteratura europea ha appassionato alla lettura schiere di giovani di tutte le età. Tuttavia, sia la scelta del genere, sia i riferimenti a grandi classici come Cuore di tenebra o Le mille e una notte, sono i livelli più superficiali di lettura del romanzo.
I personaggi che circondano Yusuf – dato in pegno dal padre per un debito contratto con lo zio mercante Aziz – sono macchiette stereotipate che sberleffano e allietano il lettore. Infatti, Gurnah ci presenta, uno dopo l’altro, tutto il campionario di stereotipi europei colonialisti sull’Africa. Tanto ridicolizzati che gli stessi colonizzatori non sfuggono a questa derisione. Con l’umore che si espande per tutto le pagine del romanzo, lentamente e inesorabilmente, i personaggi si spogliano nella loro intima verità. E come ogni buon libro, c’è una verità che trascende l’inchiostro per svelarci qualcosa sull’uomo, su quel mistero che è l’uomo.
E, il paradiso, il titolo del libro? Il paradiso è il giardino del mercante Aziz, dove Yusuf ama nascondersi a contemplare il silenzio delle piante che crescono all’ombra delle placide acque, trasportate a fatica dal vecchio giardiniere. Il paradiso però è, anche, l’antitesi dell’inferno. L’inferno di uomini-lupo che tormentano i sogni di Yusuf, di uomini con le facce dipinte di rosso che si nutrono di sangue umano. Ma è anche l’uomo bianco, l’uomo di metallo, impossibile da annientare perché sempre risorge e ti annienta lui. Il paradiso, però, è anche una cascata silenziosa, interrotta dal fragore attonito di uno zombie che ti scaccia lontano.
Il paradiso, in fondo, è quello che costruiamo con i nostri sogni, con le nostre decisioni, è un esercizio di libertà. Perché non possiamo permetterci che qualcun altro lo costruisca per noi.
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laciviltacattolica · 2 years
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I SEGNI DEL CUORE | Mariano Jacobellis S.I.
I segni del cuore - il cui titolo originale è CODA, acronimo di Child of Deaf Adults, remake del francese La famiglia Bélier – è proprio un film sulla voce. Candidato agli Oscar 2022, la pellicola ha già trionfato al Sundance Film Festival 2021, dove ha vinto Gran Premio della Giuria, Premio del Pubblico, Premio Speciale per il cast e Premio per la Miglior regia nella sezione Drama.
Ne I segni del cuore, la protagonista, Ruby Rossi (una bravissima Emilia Jones), è l'unica ragazza udente di una famiglia di sordomuti. Prima di andare a scuola, si alza di notte per andare a pescare in mare con il padre e il fratello. Il suo ruolo è fondamentale perché fa loro da interprete nei rapporti con gli altri grazie al linguaggio dei segni. Al tempo stesso ha una grande passione per il canto ed entra nel coro della scuola diretto dal maestro Bernardo Villalobos. Il maestro con lei è molto severo, la rimprovera spesso per i suoi ritardi, ma riconosce che ha un grande talento e cerca così di prepararla per l’audizione a una prestigiosa scuola.
Uno dei pregi del film di Sian Herder è quello di creare un forte impatto emotivo rispetto alla protagonista, dilaniata dal dubbio tra le responsabilità verso la famiglia e il sacrosanto diritto di trovare la sua strada, tra la certezza del rifugio familiare e l’ignoto.
C'è l'amore infinito per i genitori e il fratello, di cui si sente responsabile, ma la famiglia è inevitabilmente anche un ostacolo ai suoi sogni. Tutto questo è ben rappresentato anche dall'alternanza tra silenzi e parole, tra gesti frenetici del linguaggio dei segni e dai suoi canti liberatori, senza mai dimenticare un pizzico di autoironia e grande naturalezza, senza inutili pietismi. A rendere estremamente realistico il tutto, il fatto che i membri della famiglia sono interpretati da attori sordomuti come Troy Kotsur, Daniel Durant e la premio Oscar Marlee Matlin.
Questo è senza ombra di dubbio l’aspetto meglio riuscito di tutto il film, perché riesce a mostrare in maniera originale come la famiglia Rossi abbia gli stessi problemi e le dinamiche già viste in mille famiglie sul grande o piccolo schermo. Ruby litiga sempre con il fratello, ma si proteggono e adorano ferocemente. La madre vuole proteggerla e ha paura di perderla. Il padre imbarazza la ragazza, ma al tempo stesso la ama più della sua stessa vita. La famiglia Rossi sullo schermo ha una chimica perfetta. Anche quando litigano sentiamo l’amore di uno per l’altra. Tutti i dialoghi nel linguaggio dei segni americano sono sottotitolati. Ma se avete bisogno di leggere per cogliere le sottigliezze del dialogo, quello che dicono sta tutto nei gesti e negli sguardi. Purtroppo però il film non brilla per originalità nell’intreccio e in alcuni punti ripercorre i dramedy scolastici di Glee che pure a inizio film sono oggetto d’ironia del maestro Villalobos.
Nonostante questo, ho apprezzato molto questa pellicola. Il tono da commedia drammatica «speranzosa» e la voce di Emilia Jones soddisferanno chi cerca un film che commuove ma lascia di buon umore. Le ottime performance del cast che interpreta la famiglia Rossi incanteranno chi adora i film di qualità. Il risultato è un film che sento di consigliare veramente a tutti.
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laciviltacattolica · 2 years
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PENTIMENTI: PROUST E VERMEER | Lucian Lechintan S.I. Il ritrovarsi in un connubio tra scrittura e pittura è un fatto assai raro perché in genere le due arti sono sempre in preda a venti contrari. L’incontro tra lo scrittore Marcel Proust (1871-1922), di cui quest’anno ricorre il centenario dalla morte, e la pittura e di Johannes Vermeer (1632-1675) ci mette, invece, davanti a una complementarità in grado di capovolgere quello che sapevamo dell’uno e dell’altro. Lo scrittore francese conosceva bene il pittore olandese, a differenza di quel suo personaggio di Alla ricerca del tempo perduto il quale dopo aver visitato Haarlem, quando gli viene chiesto se aveva notato Vermeer all’interno del museo, risponde orgogliosamente: «se si fosse trattato di vederlo, l’ho visto». Ancorché tanti di noi visitando un’esposizione rallentiamo i passi davanti agli «imperdibili», quest’esercizio non ci garantisce in alcun modo l’accesso ai misteriosi universi di creazione.
Dopo molti anni, quando Proust ha rivisto in una mostra parigina quello che lui chiamava «il più bel quadro del mondo», la Veduta di Delft di Vermeer «ha notato per la prima volta – per voce di un altro personaggio dello stesso romanzo – alcuni piccoli personaggi in blu, che la sabbia era rosa e infine la preziosa materia di quella falda di muro giallo». È come se lo scrittore fosse stato raggiunto da un effetto lente o dai movimenti di una cinepresa che, rallentando, aggrandisce i piani più remoti. Il quadro di Vermeer ha riportato lo scrittore oltre il rigido confinamento scenico, al limite tra reale e illusorio. Sul finire della vita terrena di Proust, la pittura di Vermeer è diventata per lo scrittore francese qualcosa di essenziale, uno specchio che non inganna e che permette di vedere chiaro: «È così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase più preziosa in sé, come quella piccola falda di muro giallo».
Da dove invece la forza dei quadri di Vermeer? André Lhote ha notato che a essi appartengono una serie infinita di pentimenti: «è soprattutto cancellando che questo grande pittore riesce a rendere meno pesanti le sue figure liberandole dalla ricchezza eccessiva dei particolari». Il continuo ripensare il modo di lavorare di Vermeer ha in corrispondenza un simile atteggiamento dalla parte di Proust: entrambi ci dimostrano che i pentimenti sono spesso l’inizio di una nuova strada.
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laciviltacattolica · 2 years
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IL SILENZIO GRANDE | Mariano Iacobellis SI Il silenzio grande è l'adattamento cinematografico dell'omonimo testo teatrale di Maurizio de Giovanni qui in veste di sceneggiatore. La storia è quella della famiglia Primic che vive in una bella villa con vista su Capri. Ci sono Valerio – professore/scrittore (Massimiliano Gallo), sempre chiuso nel suo studio circondato da scaffali con centinaia di volumi alla prese con l'ispirazione per il suo nuovo libro –; la moglie Rose (Margherita Buy), preoccupata per i debiti e dedita all'alcool – e i loro due figli, Massimiliano e Adele, che hanno diversi scontri verbali col padre reo di essere poco presente negli affetti. Su questa situazione critica la domestica Bettina (Maria Confalone) cerca di far aprire gli occhi al professore, che se da un lato ha un enorme «immaginazione incontinente», dall'altro i suoi piccoli silenzi sono ormai così numerosi da formare un silenzio grande. Per ovviare alle difficoltà economiche, Rose, con l'appoggio dei due figli, mette in vendita la villa.
Non facciamo altri accenni alla trama per lasciare allo spettatore la possibilità di gustarsi i colpi di scena e lo stupore del finale. Quello che invece vogliamo fortemente sottolineare è che il pregio maggiore de Il silenzio grande sta nell’uso magistrale della parola. Non ce n’è una fuori posto. Non c’è un dialogo di troppo. Tutto è calibrato alla perfezione e vibra ancora più potente grazie alle interpretazioni di cinque attori straordinari. Su tutti la coppia composta da Massimiliano Gallo e Marina Confalone, monumento del teatro italiano, che insieme danno vita a un duetto fatto di risate e commozione. Lei guida popolana e saggia, lui intellettuale e uomo perso.
Raffinato, ironico e commovente, Il silenzio grande sembra un film d’altri tempi. È, soprattutto, una riflessione sui legami, sulla paura del confronto, sulla noia e l’immobilità che a volte avvolge l’uomo senza che se ne renda conto: mentre il silenzio del protagonista è la sua coperta di Linus, il silenzio della sua famiglia è un grido disperato. La domestica, Bettina, a cui sono affidati i momenti onirici e più goliardici con Valerio, usa le parole in modo tagliente, è l’unica che gli dice a chiare lettere che il silenzio è una brutta malattia. Un’opera riuscita, un modo per riavvicinare due mondi, teatro e cinema, che erroneamente si tende a separare.
Una battuta conclusiva sullo stato di grazia del cinema italiano dell’ultimo periodo dove Napoli gioca un ruolo assolutamente primario. Una città che non smette di ispirare, emozionare e avvolgere con le sue infinite anime. Da È stata la mano di Dio di Sorrentino a Qui rido io di Martone, da Il bambino nascosto di Roberto Andò ad Ariaferma del regista ischitano Leonardo di Costanzo, solo per citare gli ultimi film made in Naples. Il silenzio grande è l’ultima chicca, che ci porta a dire come, oggi più che mai, il cinema sia un neapolitan job.
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laciviltacattolica · 2 years
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IL GRIDO DELLA FATA | Claudio Zonta S.I.
Il Grido della fata è l’ultimo album, per l’etichetta discografica «Maremmano Records», pubblicato da Max Manfredi, cantautore genovese, che ha alle spalle incontri sufficienti come lettera di presentazione: Amilcare Rambaldi lo invitò, infatti, al Premio Tenco nel 1985, mentre Fabrizio De Andrè incise alcune strofe di una sua stupenda canzone, «La fiera della Maddalena», dove risplende la bellezza fatta di stracci e spose dei vicoli di Genova.
Max Manfredi ha una scrittura poetica che procede per sovrapposizione di immagini, costruita attraverso una ricchezza e ricercatezza lessicale costante, un labor limae che scolpisce la parola, polisemica, sempre evocativa, che indica ma non definisce. E così ogni canzone è un concentrato di giochi di parole, metafore, nonsense, allitterazioni, sinestesie che creano spazi onirici in cui è facile perdersi per ritrovare un senso personale. Max Manfredi, nocchiero dalla voce grave, conduce l’ascoltatore a tradire il senso, a errare, sia nel senso di commettere un errore di interpretazione, sia di vagare per strade appena segnate.
Nella canzone «Scimmia grigia», che dà avvio all’album, riprende l’immagine del treno, già ampiamente utilizzata nella canzone folk da Bob Dylan a Francesco De Gregori. Lo stesso Max Manfredi ha scritto un brano intitolato «Il treno per Kukuwok». Qui egli la utilizza per descrivere dei processi di incomunicabilità proprio del nostro tempo. La «scimmia grigia» è simbolo dell’eccesso comunicativo e della conseguente solitudine che porta l’eccedenza di informazioni, che prende, in maniera differente, giovani e anziani: «E mi sussurra le notizie fresche sui treni lungo l’Appennino / prima che salgano le scolaresche / tutti con il loro telefonino / Ed anche i vecchi con i telefonini / generazioni prese nelle reti / ognuno con la scimmia vicino / qualcuno forse la vede / e gli studenti viaggiano in balia dei mille mondi che tengono stretti».
Forti sono le immagini delle generazioni più anziane che sono anch’esse colte con lo sguardo fisso sul cellulare, con un verbo usato al passivo, «prese» come pesci, attirati come nelle reti. Fa da contraltare l’altra immagine, quella dei giovani studenti che invece sono «in balia» (sempre un campo semantico marinaresco), ossia non hanno direzione, rispetto ai mille mondi che tentano inutilmente di comprendere. Max Manfredi osserva una situazione ordinaria e quotidiana e la restituisce poeticamente, aprendo spazi e tempi dal sapore fantastico e fiabesco, cosicché le tante suonerie dei cellulari trasformano il vagone in una foresta incantata: «e il vagone come per magia / si popola di fischietti. / Qualche mago del lontano oriente deve avercela inventata / questa magia che trasforma il treno in una foresta incantata».
Il Grido della Fata è un album non da comprendere, ma da ascoltare, lasciando fluire le tante immagini che cambiano a seconda di come il vento spira nell’animo dell’ascoltatore.
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laciviltacattolica · 2 years
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CROSSROADS | Diego Mattei S.I.
Franzen torna a meravigliare con il suo sesto romanzo Crossroads (Einaudi, 2021), ambientato nel Midwest de Le correzioni del 2002. Crossroads è da molti considerato il miglior romanzo del 2021. La storia si svolge nelle ore che precedono la vigilia del Natale del 1971 e la Pasqua del 1974. Al centro vi sono le vicende della famiglia Hildebrandt: il padre Russ, pastore associato di una comunità protestante di New Prospect, Chicago, la moglie Marion, il primogenito Clem, Becky la figlia prediletta e più brillante, Perry adolescente problematico e geniale, e Judson, il più piccolo dei fratelli.
Ogni personaggio ha il suo dramma e tutti si intrecciano. È una famiglia, ma è anche il ritratto di cinque solitudini e cinque mondi che corrono paralleli, ciascuno con la sua personale e unica traiettoria. Per Russ si tratta dell’attrazione per una giovane vedova della parrocchia, una quarantenne brillante che attira lo sguardo del pastore e che sembra essere il balsamo per un’umiliazione subita in comunità.
Le ambizioni sessuali di Russ sono però appena una parte dei drammi e delle tragedie della famiglia. Segreto e mai rivelato è il passato della moglie Marion, che lungi dall’essere la tranquilla massaia che ora si prende cura di marito e figli, nasconde ferite profonde di malattie familiari, suicidi, abbandoni, ossessioni e attacchi di pazzia.
Poi c’è il Perry, ragazzo geniale che cerca requie alle insonnie e agli incubi ricorrendo alla marjiuana e poi alla cocaina, allora sconosciuta ai più. Infine, ci sono gli altri figli, i più grandi, Clem e Becky, che hanno un rapporto di profonda intesa, quasi simbiotica ed esclusiva all’inizio del romanzo, che entrerà profondamente in crisi quando altre persone si affacceranno nelle loro vite. Per loro non è solo la scoperta della sessualità a separarli. C’è infatti anche il ruolo della fede e della religione nelle rispettive vite a essere unità di misura di crescenti distacchi: per Clem, ateo razionalista e arrabbiato, per Becky invece occasione di comunione e armonia con gli altri e sé stessa, a un livello più profondo di quello che l’indubbio successo sociale nel mondo scolastico pure le assicura. L’epilogo finale, nella Pasqua di tre anni dopo, lascia molte feritee molte domande aperte. Se Russ e Marion hanno ritrovato nel dramma del figlio pazzo e tossicomane le ragioni di una nuova unione e intesa, molto più problematico e incerto appare il cammino di riconciliazione tra i fratelli.
È un romanzo nel quale le domande religiose e di fede sono continue. Che cosa dà salvezza? Qual è il volto di Dio? Che ruolo deve avere la fede nella vita di una persona? Nel corso del romanzo vengono presentate le prospettive del mondo cristiano legate ora all’intransigenza affascinante dei mennoniti e degli anabattisti; ora al cristianesimo liberale ed etico, impegnato nelle lotte sociali, delle comunità protestanti; ora al cattolicesimo, che porta con sé la domanda sul peccato e sul male a un livello molto più profondo rispetto alle altre confessioni. Che legame c’è tra colpa, espiazione, peccato e salvezza? Qual è il ruolo del perdono? La domanda sulla bontà è particolarmente insistente: come si fa a essere più buoni? Che valore ha la bontà nella vita di una persona?
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laciviltacattolica · 2 years
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AS WE SEE IT | Marco Piaia S.I.
As we see it: il tema di questa serie è racchiuso nel suo titolo. La nuova serie targata Amazon Prime Studios è ispirata a un precedente format israeliano ed è incentrata sulle vicende di tre ragazzi con spettro autistico. I protagonisti cercano di lavorare sulla loro indipendenza, mentre affrontano le esperienze di vita tipiche dei ventenni: relazioni importanti, amicizie da costruire, lavori con cui mantenersi. Essi desiderano «essere normali» eppure questa si rivela essere, per loro, una grossa sfida.
L’andamento imprevedibile della narrazione contribuisce a rendere interessante la serie. In linea con le dinamiche tipiche dello spettro autistico, i protagonisti si relazionano con gli altri personaggi in maniera istintiva, senza alcun filtro, portando a una sovraesposizione dell’interiorità che può toccare davvero profondamente lo spettatore. Le emozioni, positive o negative che siano, non vengono trattenute e qualsiasi evento tende a essere vissuto in maniera molto intensa. Tutto ciò può suscitare imbarazzo in chi guarda e, d’altra parte, è un’interessante possibilità narrativa per mettere in luce sentimenti e aspettative che in altre serie fanno fatica a emergere in maniera esplicita e a essere tematizzate. I personaggi si fanno, dunque, canale delle sensazioni che ci abitano, pagandone anche le conseguenze: esclusione sociale, bullismo, l’essere sempre considerati «strani»; tutte sensazioni che fanno paura a chi fa di tutto per essere considerato «normale».
Ma che cos’è davvero la normalità a cui tanto aspirano i personaggi e a cui tanto aspiriamo anche noi? Di fatto, in questa narrazione, sono inclusi anche parenti e amici di Jack, Violet e Harrison: i drammi e le fatiche nel vivere le emozioni e nel cercare di comunicare sono quelli che, in un certo senso, sperimentano anche i loro e amici e che, in fondo, sperimentiamo pure noi.
L’essere incapaci di esprimere i sentimenti, il sentirsi giudicati ed esclusi, il fare fatica nelle relazioni interpersonali e nel creare vere amicizie, il bisogno di sentire che qualcuno ci ama per quello che siamo e si prende cura di noi: queste sono cose che, in un modo o nell’altro, abbiamo vissuto tutti. In questa serie, esse vengono narrate, con uno sguardo sincero e disincantato, tipico del «dramma», ma anche con una buona dose di ironia, tipica della «commedia». La capacità così bella delle persone autistiche di soffermarsi sui dettagli è qui usata con maestria per poter creare un fermo immagine su tanti passaggi importanti della vita interiore.
E allora, che cosa c’è di così speciale nell’essere normale? Di fatto questa serie, nel cercare di dare spazio alla non-normalità delle percezioni esteriori e interiori, ci mostra che «la vita è un ampio spettro di possibilità» attraverso cui cercare di camminare, con tutte le preoccupazioni e le speranze che albergano nel cuore umano. As we see it, insomma, è una serie che getta uno sguardo sulle persone con una sensibilità particolare, ma che aiuta anche noi a eliminare ogni pregiudizio sul mito della «normalità» e che invita a esplorare le grandi paure, ma anche le piccole gioie e le infinite bellezze della vita con uno sguardo tutto nuovo.
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laciviltacattolica · 2 years
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ERO UN BULLO | Claudio Zonta S.I. Ero un bullo. La vera storia di Daniel Zaccaro (De Agostini editrice) è la storia di un ragazzo di vita, come direbbe Pasolini. Daniel che ha vissuto la sua infanzia e adolescenza nell’hinterland milanese di Quarto Oggiaro. Si confronta e si racconta, per la scrittura, con Andrea Franzoso, per dieci anni nell’arma dei carabinieri, (quindi conosce molto bene le dinamiche della malavita) e già scrittore di testi rivolti ai giovani e alle scuole come #Disobbediente, Viva la Costituzione e Stefano. Una lezione di giustizia. Daniel Zaccaro, promessa delle giovanili dell’Inter, durante una partita di calcio sbaglia un tiro facile. Sente su di sé il peso della responsabilità, lui, solo e rabbioso, in una famiglia fragile e povera e in una società di periferia dove le possibilità di riscatto sono troppo esili.
La storia insomma è diversa da quella raccontata da De Gregori nella canzone «La leva calcistica del ‘68», «Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore / Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore / Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia», in questo caso il giovane calciatore è proprio giudicato sul gol mancato... E così Daniel inanella una serie di azioni che lo portano a essere prima il bullo di quartiere, successivamente rapinatore di banche, conquistando un altro tipo di successo: «I ragazzi del quartiere gli chiedevano di continuo di uscire insieme e, a volte, cercavano di scucirgli qualche dritta su come fare una rapina».
La vita di Daniel diventa un continuo entrare e uscire tra riformatori, comunità e carceri, con l’apprensione della madre e della sorella Lucia che assistono senza poter fare nulla a una discesa nel baratro, tra fughe, ribellioni, zuffe. Eppure qualcuno – come don Claudio, cappellano del carcere Beccaria, e Fiorella, che gestisce un cineforum nel carcere – sono ancora capaci di sperare contro ogni speranza, di percepire una possibilità di redenzione; che, però, deve essere scelta libera e abbracciata prima di tutti dallo stesso Daniel.
Il male è un vortice che risucchia e brucia tutto quello che entra nel suo territorio, ma Daniel se ne accorge solamente quando comprende che non esiste solo un tiro sbagliato in porta, ma una partita di 90 minuti tutta da giocare, eventualmente anche nei supplementari: «Sai, Fiore, mi rendo conto di aver sprecato un sacco di tempo. Ora mi tocca fare tutto di fretta, senza poter gustare le cose belle con calma… Capisco soltanto adesso quello che mi aveva detto una volta Serafina, la prima psicologa incontrata al Beccaria, quando mi aveva invitato a leggere. La violenza è un segno della povertà di pensiero: è l’espressione di chi non sa comunicare in altro modo. Quando non sapevo chiamare con il loro nome il dolore e la rabbia che provavo mi scatenavo, un po’ come una bestia… Oggi vorrei recuperare gli anni che ho perso...». 
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laciviltacattolica · 2 years
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È STATA LA MANO DI DIO | Mariano Iacobellis S.I.
A 20 anni dall’esordio cinematografico con L’uomo in più, Paolo Sorrentino torna nella sua Napoli con quello che è indubbiamente il suo film più personale. È stata la mano di Dio è infatti più di un film: è un vero e proprio atto di liberazione da un dolore rimasto sopito per troppo tempo. Ispirandosi ai fatti della sua adolescenza, il regista napoletano esorcizza il suo passato attraverso la condivisione cinematografica, andando così a creare un sincero legame tra spettatore e autore. Come ha sottolineato Paola Casella nella sua recensione: «Per la prima metà del racconto È stata la mano di Dio è la ricostruzione pirotecnica di una napoletanità privilegiata e gaudente che si esprime attraverso il gioco (anche delle parti), in un Amarcord che cita Federico Fellini, Sergio Leone e Roberto Rossellini, componendo il pantheon ideale della genesi artistica ed emotiva di Sorrentino autore. Nella seconda metà il regista spegne i fuochi d'artificio e lascia posto all'assenza, depura il suo cinema di ogni ingombro estetizzante per spogliarsi nudo davanti alla realtà della solitudine improvvisa, a tu per tu con quel mondo “deludente” per cui l'unico antidoto è l'immaginazione». Sorrentino, dunque, torna a bagnare i panni in quel mare che «non bagna Napoli» per ripescarvi le origini della sua vocazione e rendere omaggio a chi, prima ancora dei Maestri, ha arricchito il suo mondo interiore: il padre, la madre, i fratelli, gli zii, tutti personaggi che con il passare dei minuti ci appaiono come maschere dietro cui si nasconde un dolore profondo e personale. Altro fattore fondamentale è Napoli, presentata in tutte le sue contraddizioni, e che incanta fin dalla prima ampissima sequenza sul Golfo, per poi insinuarsi in vicoli bui e soffermarsi su vizi e virtù di un popolo che ha saputo fare dell’arte di arrangiarsi il suo punto di maggior forza. Tuttavia, è Maradona a prendersi la scena come principale figura sacrale e salvifica. Un vero e proprio Messia, dai cui piedi passerà il destino di una città intera, capace di gesti rivoluzionari e affronti politici, come un beffardo gol di mano ai danni dell’Inghilterra imperialista. Nelle fasi finali del film il giovane Fabietto (alter ego di Sorrentino) si trova con il regista Capuano – incontro decisivo non solo in È stata la mano di Dio, ma di tutta la filmografia sorrentiniana – il quale, in un dialogo intenso, profondo, tira fuori tutto il dolore del regista e lo invita a rimanere a Napoli per «non disunirsi». Da un punto di vista stilistico forse non è il miglior film di Sorrentino. Ma è un lavoro che ha il merito di far convergere nella stessa direzione sia i suoi detrattori che i suoi fans più accaniti. È stata la mano di Dio, infatti, è un racconto di dolore e di rinascita che, come vedremo nell’opera più vera di Sorrentino, eravamo destinati a vivere anche noi, al suo fianco. Dovremmo essere orgogliosi di aver assistito alla catarsi di uno più grandi autori contemporanei che ora, dopo aver riversato il dolore personale nella sua arte, è finalmente libero.
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laciviltacattolica · 2 years
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LA SPERANZA, NELLA POESIA | Cristiano Laino S.I.
Pedro Salinas è un poeta spagnolo, scrittore e professore di letteratura. Uno dei grandi della letteratura spagnola del secolo scorso. Nato a Madrid nel 1891, morì esule negli Stati Uniti, a Baltimora, nel 1951. Della sua immensa produzione poetica traduciamo alcuni piccoli versi che suonano così: «Vedrai», mi dice il bambino, «che promessa!» / lui, che comincia a vivere/ m’annuncia che mancano ancora cose da vedere, vedrò / qualcosa di non visto ancora. / «Vedrai». Sì: si riempie/ il cuore di speranza. / In lui ho speranza, sì. / E qui nella notte oscura / contemplo il giorno / credendo in un «Vedrai». / Non m’inganna. C’è sempre un più da vedere: me lo dice lui. / Mi offre un futuro. / Un futuro / mi promettono le labbra / tenere, che le parole / ancora esercitano! / Delle labbra / cominciano ad inventare il mondo / mi dicono. «Vedrai» / Promessa. L’immagine è tenera, delicata. Un bambino, venuto al mondo da poco, si esercita, si lancia nel mondo del linguaggio. Un’immagine apparentemente innocua che, tuttavia, suscita un importante interrogativo a chi ascolta quella parola di promessa. Una promessa, balbettata, di futuro. L’immagine da innocua e tenera si converte in interrogante sul futuro, incerto per definizione. Una notte oscura, la definisce il poeta. Tuttavia, accesa di speranza. Quel bambino è la speranza di un futuro certo. L’universo infinito di suoni s’articolerà nelle infinite parole di una realtà finita. Un’immagine viva, pregnante d’attualità, di presente. È il futuro dello scrittore in cerca di suoni e, poi, parole per descrivere la realtà umana. Dolori, gioie, allegrie, sofferenze. Ma il bambino non lo sa, ancora. Il poeta sì. E il linguaggio infatti, con le sue parole e i suoi suoni, è l’unica arma da sfoderare, all’uso. L’unica speranza di perforare la coltre di nebbia della realtà oscura e afferrare un suono di parole per lanciare una freccia nel vuoto.Il bambino non lo sa, ancora. Però per questo lotterà. Cercherà, anche lui, una parola e la lancerà al vento. Con la speranza incerta di un incontro certo, la poesia che sola può costruire ponti tra la realtà e l’uomo. E tuffarsi, con speranza, verso un incontro sempre nuovo di suoni ricercati e fuochi d’artificio di parole simboliche. Nel fondo esistiamo soltanto quando ci esprimiamo. E la poesia è arte sublime e concisa di una rivelazione densa e ermetica di sapori come in un frutto maturo. Colta, esplode nella tessitura del gusto attraverso le papille gustative. E gustata, significa.
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laciviltacattolica · 2 years
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SOLOS: MONOLOGHI PER L’OGGI E PER IL DOMANI | Marco Piaia S.I.
Sette grandi attori per sette grandi domande: è questa la bellezza e la forza di Solos (o Assolo in italiano), miniserie prodotta da Amazon Prime Studios. Il cast è stellare e conferma la tendenza già inaugurata da Netflix – e consolidata in questi anni – di portare gli attori del grande schermo sul piccolo: Anne Hathaway, Helen Mirren, Morgan Freeman, Anthony Mackie, Nicole Beharie, Constance Wu, Uzo Aduba con la loro presenza scenica danno vita a dei monologhi in situazioni futuristiche ma certamente molto, molto realistiche. È proprio la verosimiglianza delle narrazioni – né troppo lontane né troppo vicine a noi – che rende tali interpretazioni così intense. Ciò che stupisce di questa produzione non sono gli effetti speciali (praticamente assenti o, comunque ridotti al minimo), come neanche gli espedienti fantascientifici, davvero poco originali: lo stupore è dato invece dalla tecnica narrativa e dalle indubbie doti recitative degli attori protagonisti; essi interagiscono con sé stessi come in un monologo teatrale, raccontando le loro preoccupazioni passate, presenti e future. Drammi che sono poi anche quelli di tutti noi, pur se accentuati dal progresso della tecnologia: «Se viaggi nel futuro puoi sfuggire al tuo passato? Se incontrassi te stesso, che cosa vedresti? Quanto lontano viaggeresti per incontrare te stessa? La minaccia dall’esterno è più grande di quella dall’interno? Vorresti poter cancellare il peggior giorno della tua vita? Chi decide chi ha il diritto di stare al mondo? Chi sei tu se non riesci a ricordare chi sei?». Queste sono le domande attraverso cui passano i personaggi: quesiti che come possiamo vedere trattano temi centrali come la memoria, il diritto alla vita, il rapporto con la famiglia, la malattia, i rimpianti. Problemi amplificati dalla peculiare cornice scenica che, però, risuonano forti anche nelle nostre esperienze in quest’epoca. Piccoli camei per profonde meditazioni: questi brevi episodi sono incalzanti nel loro svilupparsi per quanto non siano esattamente «d’intrattenimento». Il singolo personaggio e il suo «monologo dialogico» rimane circoscritto e conchiuso, senza una reale trama o un vero e proprio sviluppo. Per quanto, di per sé, esistono collegamenti sporadici tra un episodio e l’altro. Ad ogni modo, Solos non ha la pretesa di essere esaltato per la complessità della trama: gli episodi vanno presi come brevi ma profonde «meditazioni» sulla vita. Essi vanno dunque contemplati – più che «seguiti» –, lasciandosi trasportare anche emotivamente dal pathos prodotto da queste magistrali interpretazioni. Essi sono assoli di un’umanità «isolata» in un mondo post-Covid che, però, non rinuncia a sentirsi unita in un uguale destino, di fronte a medesime, struggenti, insolvibili domande.
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laciviltacattolica · 2 years
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IL VIAGGIO MUSICALE E UMANO DI FEDE ‘N MARLEN | Claudio Zonta S.I.
Terre di Madonne è l’ultimo album delle due cantautrici Fede ‘n Marlen; un viaggio musicale che parte da Napoli per allontanarsi dalla costa e andare in mare aperto, verso luoghi che spesso sono denominati di frontiera, ma per Federica Ottombrino e Marilena Vitale sono luoghi di profonda umanità e responsabilità. Con la loro musica gettano uno sprazzo di luce naturale, diafana, su tematiche complesse, come la migrazione («Io sono confine»), o sui diritti di essere se stessi fino in fondo («Fantasma»).
Le loro parole poetiche hanno la capacità di raccontare, narrare, ma anche di affacciarsi sugli abissi della vita come in «Isole»: «Le tempeste vanno dove si ha sete, dove si può sopravvivere e niente le può più spegnere». Ma le voci di Fede e Marlen non gridano, non urlano: con i loro intrecci sonori spontanei sono capaci di portare al largo, con una fiducia che guida l’ascoltatore a osservare la profondità del cuore umano.
Il loro è un album essenziale – 28 minuti e 28 secondi di musica –, ma non minimalista. È la musica della radicalità: le parole, in italiano, napoletano, francese e spagnolo, sembrano centellinate, soppesate; non è un flusso di coscienza, ma un dialogo che ridà senso e giustizia all’esistenziale. Si raccontano legami che hanno segnato la vita, come nella canzone «Intercostale»,  e che si innestano nell’animo trasformandosi e trasformando chi li conserva e li difende, come cantano nella prima strofa: «Trattengo il fiato e il tuo contorno su per la gola, fino al petto in fondo. / E lì che ti terrò ogni giorno e la tua forma adesso è un mio ricordo». È un brano delicato che nasce dalla propria esperienza affettiva, come afferma Federica Ottombrino: «Questa canzone è dedicata a una donna che mi ha fatto da mamma e io per lei mi sono fatta figlia; questo come prova che a volte anche i legami più intimi possano essere frutto di una scelta e non dettati dal sangue. Prima di morire mi ha chiesto di scriverle una canzone. “Intercostale" è la mia promessa mantenuta».
Perla finale – un omaggio a Totò, il principe De Curtis – è il celebre brano «Malafemmena», accompagnato solo dal contrabbasso di Ferruccio Spinetti, fine ed esperto musicista degli Avion Travel e di Musica Nuda; è una intensa e spoglia versione cantata in spagnolo e in napoletano, due lingue che per storia si sono incontrate e continuano a dialogare per sonorità e vocalità. Se infatti l’album inizia con «Terre di Madonne», un omaggio alla città di Napoli, il finale, il ritorno, non può che essere di nuovo Napoli, dopo un viaggio nel quale ci si è immersi nei luoghi più densi di umanità, come cantano anche nella canzone «Isole»: «Voglio portarti semi di umanità per fecondarti gli occhi di esistere».
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laciviltacattolica · 2 years
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IL DIARIO DI PIA PERA | Diego Mattei S.I.
Al giardino ancora non l’ho detto. Con questo verso, tratto da una poesia di Emily Dickinson, Pia Pera intitola il diario dei mesi segnati dal suo lento avvicinarsi alla morte, nel racconto struggente, delicato, tenero e umanissimo di consunzione per SLA, o malattia del motoneurone, diagnosticatale nel 2012. Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie) esce nel 2016, pochi mesi prima della morte della slavista, traduttrice, saggista e romanziera. Nell’ultimo anno questo libro prezioso e raro, per tono e delicatezza, leggerezza e sapienza, ha conosciuto nuovo lustro, dopo la vittoria allo Strega 2021 di Due Vite di Emanuele Trevi, libro nel quale lo scrittore romano racconta la sua amicizia con Rocco Carbone e Pia Pera. Diario, memoir, raccolta di note sparse, viaggio nell’interiorità: Al giardino ancora non l’ho detto raccoglie le riflessioni della scrittrice, che racconta la malattia, il lento progressivo irrigidimento muscolare, i molteplici tentativi di cura, le riflessioni a margine delle letture e dei libri che la accompagnano, lei donna colta e raffinata: innanzi tutto gli amati russi, lei che tradusse Evgenij Onegin di Puskin, ma anche Derek Jarman, Florensky, Tommaso d’Aquino, Massimo il Confessore e i tanti testi dell’amata tradizione buddhista. Pia Pera non si chiude in se stessa, ma nelle pagine di questo piccolo gioiello di umanità vibra tutto un mondo di relazioni, di amicizie e interessi per ciò che le sta intorno e impreziosisce il tempo. Emergono le paure e gli slanci e, su tutto, l’amore per il giardino, che si estende intorno al casolare nella campagna tosco-lucchese, luogo di rifugio e specchio dell’anima, metafora della vita e della sua invincibile bellezza. «Se all’inizio mi prendevo cura del giardino, compiendo in piena autosufficienza tutti i lavori, adesso debbo prendermi cura di me stessa. Il tempo prima impiegato potando, scavando buche, bruciando frasche, zappando, falciando l’erba, adesso mi viene rubato dalle cure necessarie a mantenere me stessa in vita. Quasi fossi diventata io il giardino». E così con Pia Pera, insieme a lei, vediamo lo spettacolo delle forme, dei colori, della luce, del passare delle stagioni, nei fiori e nelle piante che sbocciano, si trasformano, divengono e sorprendono.  «Il giardino è diventato immenso, troppo grande da percorrere in una volta sola. Mi metto a sedere sulla panchina – non l’avevo mai fatto: non ne avevo mai avuto il tempo, prima. Sto lì seduta, mi sorprende quello che vedo: il rosa carico del malvone appena fiorito, il finocchio bronzeo che affiora leggero dalle cortine di bosso, i bulbi di certi fiori gialli, profumati tra un tronco di pero a spalliera e l’altro. Il giardino, diventato così grande da parere un mondo a sé, è davvero il luogo ideale per vivere questo ultimo lungo, lento commiato dal mondo».
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laciviltacattolica · 2 years
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IL PARADISO HA MOLTE PORTE | Luigi Territo S.I.
Lo scorso novembre l’artista saudita Ajlan Gharem ha vinto la sesta edizione del Jameel Prize (2021), un premio dedicato all’arte contemporanea ispirata alla cultura e alla tradizione islamica. Indetto dal Victoria & Albert Museum, il Jameel Prize nasce dal desiderio di porre in dialogo i diversi ambiti dell’arte islamica (architettura, calligrafia, pittura, realizzazione di tessuti e ceramiche, ecc.) con le tecniche e i linguaggi della cultura contemporanea. In tale prospettiva gli artisti delle precedenti edizioni hanno espresso un’arte fortemente ispirata ai principi dell’astrazione, sviluppando un’esperienza artistica capace di esaltare i valori spirituali dell’uomo nel cuore della profanità. Ajlan Gharem alterna il suo lavoro di insegnante di matematica con la realizzazione di opere artistiche dal forte impatto sociale. Nel 2015, sfidando gli ambienti tradizionali della penisola araba, ha installato nel deserto vicino a Riyadh l’opera Paradise Has Many Gates, una struttura realizzata in tubi di acciaio e reti metalliche di recinzioni che ricorda la forma architettonica di una moschea. L’opera è stata esposta in diverse città del Bahrain, degli Stati Uniti e del Canada. Recentemente è stata accolta tra le opere della Biennale di Vancouver e installata in quella che un tempo fu una riserva indiana. L’artista ha realizzato un luogo di preghiera aperto e trasparente, costruito con inserti di reti metalliche che ricordano le immagini dei centri di detenzione per detenuti e rifugiati. Uno spazio che evoca l’ampiezza dell’esperienza spirituale e la costrizione delle ideologie politiche e religiose. L’effetto creato da Ajlan Gharem gioca su contraddizioni e liminalità. La visione dell’installazione-moschea rievoca Guantanamo e i luoghi di culto familiari addobbati con preziosi tappeti e ricchi lampadari, mostrando il confine tra coercizione e libertà, repressione e poesia. Ben articolata con il suo minareto e la cupola, la struttura appare agli occhi degli spettatori in tutta la sua leggerezza e semplicità. Luogo di accoglienza e di confinamento, l’artista l’ha pensata come uno spazio di condivisione e di provocazione. Accogliente come il cuore dell’orante e inospitale come la triste dimora dell’ideologia.
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