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stefysmind · 3 years
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C’è davvero differenza tra il significato di una parola e il peso che le diamo?
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Nell’ultima settimana, ha fatto tanto scalpore un numero di due comici durante una trasmissione Tv.
Il messaggio che questo numero voleva veicolare è che non ci sono parole giuste o sbagliate, ma il loro peso cambia a seconda dell’intenzione con cui vengono utilizzate. Quindi se uso una parola con connotazione negativa per scherzare è lecito, mentre se la uso palesemente come insulto allora non lo è.
Ma è davvero così?
Nella mia beata ignoranza, credo che ci sia un problema di fondo in questo concetto, in quanto, molte delle parole o dei modi di dire in questione, hanno da sempre una valenza negativa ed alcune di esse sono state inserite nella nostra lingua proprio a scopo di evidenziare un concetto negativo.
Quindi, sia se utilizzate come scherzo che in maniera colloquiale, avranno sempre e comunque, per la lingua italiana, una connotazione negativa.
Non così però per tutte.
Alcune parole, infatti, hanno un significato “da dizionario” che nulla ha a che vedere con la valenza di un insulto, ma nel corso della storia hanno acquisito un peso diverso che quindi le rende tali.
A questo punto si dovrebbe quindi riflettere sulla differenza tra significato letterale di una parola e peso culturale (passatemi il termine) che ha acquisito nel nostro periodo storico, dobbiamo anche tenere conto che certe parole che adesso sono negative/positive in passato non avevano questo tipo di valenza (da qui il “non si può più dire niente”).
Ricordiamoci che le parole, sono il mezzo di comunicazione dell’essere umano e che ognuna di esse corrisponde ad un significato e ha un determinato peso per il nostro cervello.
Qual è la differenza tra significato e peso di una parola?
Il significato di una parola è il motivo per cui è stata creata, quello che rappresenta letteralmente, la definizione che troviamo sul dizionario, per intenderci.
Il peso di una parola è il valore che acquisisce con il tempo, sono tutti quegli attributi che le vengono assegnati e che le danno un valore più o meno importante nella nostra testa.
Prendete la parola casa, ad esempio, il suo significato letterale è:
“Costruzione eretta dall’uomo per propria abitazione; più propriam., il complesso di ambienti, costruiti in muratura, legno, pannelli prefabbricati o altro materiale, e riuniti in un organismo architettonico rispondente alle esigenze particolari dei suoi abitatori […]” citazione dal Dizionario Treccani.
Ma noi, se pensiamo a casa, pensiamo a quel posto dove stiamo bene e ci sentiamo al sicuro, dove siamo a nostro agio e dove possiamo stare con le persone che amiamo, che non per forza è un edificio come descritto sopra. Per noi la casa ha un peso molto molto più ampio e importante che va oltre ad essere “un complesso di ambienti in muratura”.
Può sembrare un esempio stupido, ma rende abbastanza l’idea del perché non ci si può appellare alla definizione letterale di una parola, per giustificarne l’uso improprio (o a mero scopo di farne mezzo per fare audience, perché se hai bisogno di questo per farti vedere allora i tuoi problemi vanno ben oltre l’utilizzo delle parole).
Concludo la mia riflessione chiedendovi di guardare la situazione da un punto di vista diverso.
A chi sostiene che non si possa più dire nulla: c’è davvero la necessità di utilizzare queste parole o modi di dire? Sono parole essenziali nella nostra lingua, che il rinunciarci ci porta a dire che non possiamo più parlare o scherzare?
Obbiettivamente, credo davvero di no.
Ci sono fior fior di comici che ti smontano le mascelle senza l’utilizzo di quelle parole o modi di dire, forse, a questo punto, la bravura sta nel riuscire a comunicare senza sentirsi vincolato da determinate parole, forse nel 2021, potremmo anche iniziare a fare un passetto e alzare un po' l’asticella, non solo della comicità, ma della comunicazione in generale.
Voi cosa ne pensate: vi sentite davvero costretti a limitare la vostra libertà di parola, o pensate che possiamo anche fare a meno di utilizzare alcune parole o modi di dire?
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stefysmind · 3 years
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Quando i giochi non sono più “una cosa da bambini”
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Parliamo di gamification, ma prima di poter iniziare ad approfondire dobbiamo capire di cosa si tratta.
Da come si può intuire dal nome, è un processo che induce l’utente a compiere diverse azioni come se fossero un gioco. Semplice no?
Facciamo un esempio: pensate di essere un insegnante che deve incentivare i suoi ragazzi a studiare costantemente, non solo il giorno prima della verifica.
Ripetere che lo studio è importante non ha funzionato, quindi pensate di ingaggiare l’attenzione degli studenti attraverso dei piccoli giochi, come ad esempio un quiz a punti. All’inizio i ragazzi potrebbero essere un po' scettici, ma poi, una sana rivalità potrà incentivare i ragazzi ad impegnarsi di più, soprattutto se alla fine possono riceverne dei vantaggi in cambio.
La gamification è una prassi che sta prendendo sempre più piede sia da parte di aziende che vogliono avvicinarsi di più al proprio pubblico, sia da influencer e simili per interagire meglio con la propria community e testare gli umori riguardo argomenti “caldi”, ma ci sono anche startup che cercano di portare un valore aggiunto alle aziende, alle scuole o ai liberi professionisti proprio sfruttando questo processo.
Per quanto riguarda le aziende, abbiamo già parlato del try-on di Gucci qui, che attraverso la sua app rende divertente la prova di specifiche collezioni; oppure possiamo citare Swarovski con i suoi store digitali che sfruttano specchi particolari per permetterti di provare diverse linee di gioielleria e condividere direttamente l’esperienza con i tuoi followers sui social; o ancora Intesa San Paolo, con la sua app “Reward”, che settimanalmente mette a disposizione agli utenti più veloci, diversi premi e sconti.
Insomma, molte aziende stanno iniziando a dare spazio alla gamification: chi in modo più evidente, chi inserendo semplicemente una ruota della fortuna all’interno del proprio sito o app.
Per quanto riguarda gli influencer o le pagine social più attive, basta pensare a quante volte vi capita di rispondere a un quiz piuttosto che a un sondaggio, nelle loro stories. Si, anche questa è gamification.
Se viene fatta in questo modo, non solo crea engagement nel pubblico, ma permette di raccoglie molti dati utili come il numero di persone che partecipa attivamente, rispetto ai followers totali; se un argomento può essere interessante o rivelarsi un campo minato; quali sono gli interessi della community riguardo un dato argomento; cosa la community si aspetta da chi segue, ecc… Quei simpatici quiz possono anche fidelizzare la community, che vedendo rispettati i propri interessi e aspettative si sente ascoltati e valorizzati.
Ricordate sempre che quando si hanno dubbi su un contenuto o su qualcosa di cui si vuole parlare, potete sempre fare affidamento sulla community a patto che non lo facciate sempre (altrimenti può sembrare che non siate in grado di gestire il vostro social e che cerchiate solo like) e che abbiate una community attiva e presente, in caso contrario potreste aggiungere come obbiettivo nella vostra strategia “creare una community funzionale”.
Se volete sfruttare i social e non avete una strategia, male male!
C’è poi chi decide di entrare nel mondo del gaming con tutti e due i piedi: Chiara Ferragni, colei che ha praticamente inventato gli influencer, questa settimana ha lancio il suo gioco personalizzato.
Con chiare ispirazioni al caro vecchio Super Mario, lo scopo del platform pixelato a scorrimento è quello di salvare Matilda, la french bulldog che da anni accompagna la ragazza, superando diversi livelli e raccogliendo piccoli oggetti senza farsi uccidere dai mostri. Si, lo so perché l’ho provato, è parte del mio lavoro studiare anche le dinamiche dei “big” per capire come e se funzionano.
Tutto questo è un sistema mirato a far conoscere e avvicinare il pubblico al proprio brand, nulla è lasciato al caso, sono comunque curiosa di vederne poi i risultati.
Arriviamo a parlare di chi si è posto come obbiettivo quello di mettere a disposizione la gamification a scuole, liberi professionisti e aziende, aiutandole così anche ad avvicinarsi al mondo del digital.
Una fra queste è Wibo, una start up che ho avuto modo di conoscere e veder crescere nel corso degli ultimi anni e quindi sono felice di proporla come esempio.
Ho chiesto ad Alessandro Busso COO & Co-Founder di Wibo, di rispondere a qualche domanda che possa aiutarci a capire quanto e in quanti modi si possa sfruttare la gamification.
La prima domanda è stata “Perché scegliere proprio il quiz come app di gioco?”, sembra scontato, ma in realtà le tipologie di gioco sono tantissime (infatti la Ferragni ha scelto un platform); Alessandro mi ha risposto così:
“Crediamo che il format del quiz abbia un grandissimo potenziale, sia per la creazione di engagement, sia per la formazione: innanzitutto si tratta di un gioco, quindi è un’esperienza piacevole per l’utente, che è portato a interagire moltissimo e viene costantemente gratificato dalla possibilità di ricevere ricompense, come i punti utili a scalare la classifica o le medaglie per i primi classificati. Ma il quiz, oltre a essere un gioco, è anche un format utile a veicolare informazioni che l’utente deve o vuole apprendere: in questo senso è anche educativo. La parte di gioco aiuta a mantenere alta l’attenzione dell’utente e il suo coinvolgimento, in questo modo i contenuti del quiz saranno più facilmente memorizzati.”
Nulla di più vero, fai divertire i tuoi utenti e avrai vinto 2 volte: lo avrai fidelizzato e avrai aumentato la tua brand awarness, garantendoti uno spazio più ampio all’interno della sua mente.
Abbiamo però detto che Wibo è riuscita a fare un passetto in più instaurando delle collaborazioni con aziende, liberi professionisti e scuole, gli ho quindi chiesto: “Cosa vi ha fatto decidere di fare il salto da app di gioco a app di servizio e cosa rende Wibo utile alle aziende con cui collaborate?”
Con la sua risposta, Alessandro, mi fa capire lo studio accurato del proprio target e delle necessità delle aziende sviluppatesi anche durante la pandemia: “Le aziende si stanno rendendo conto di quanto sia importante coinvolgere i propri dipendenti e clienti per mantenere tutti allineati, produttivi e in una generale condizione di benessere. La pandemia, che ha costretto molti a lavorare da remoto, ha reso ancora più difficile la creazione di engagement perché ha di fatto azzerato le relazioni nel mondo fisico. Da qui l’esigenza, a guardare a nuovi strumenti, che facilitino il coinvolgimento e stimolino la collaborazione. Tra questi strumenti, Wibo è un’ottima soluzione per catturare l’attenzione e rendere più efficace la comunicazione, anche da remoto. […] Le aziende si affidano a noi per migliorare i propri webinar o eventi interni, spesso noiosi perché poco interattivi per i partecipanti. Oltre alla creazione di coinvolgimento, Wibo è utile per la formazione: se i partecipanti di una lezione sono più coinvolti, impareranno più velocemente e in meno tempo.”
Ecco, quando pensiamo a migliorare il nostro brand, indipendentemente da quale esso sia, ci concentriamo sul cliente, ma non sempre è la soluzione migliore. Qui Alessandro ci fa notare che coinvolgere i propri dipendenti e creare un piacevole ambiente di lavoro, può essere un’idea vincente: ricordate che un dipendente felice, sarà il primo brand ambassador della nostra attività.
Alessandro mi ha poi spiegato di come stanno iniziando a collaborare con insegnati, soprattutto della scuola secondaria: “Nel mondo scolastico stiamo ancora validando il nostro prodotto: gli insegnanti con cui collaboriamo sanno che i loro feedback sono indispensabili per creare un prodotto sempre più vicino alle loro esigenze.”
Il team di Wibo è riuscito a coltivare collaborazioni con aziende del calibro di Boing, Deliveroo e Fkc e non ha intenzione di fermarsi qui: al momento stanno lavorando sui feedback che ricevono dalle varie collaborazioni, così da poter fornire un prodotto sempre migliore.
Quando ho chiesto ad Alessandro quali fossero i programmi per il futuro, la sua risposta è stata molto chiara e mi ha fatto capire quanto, lui e tutto il team di Wibo, siano determinati a crescere: “[…] In futuro vogliamo automatizzare la vendita del prodotto, che si potrà quindi acquistare direttamente dal nostro sito, https://wibo.app, e svilupperemo delle funzionalità enterprise, utili soprattutto al settore HR e People and Culture delle grandi aziende. Lato scolastico, invece, cercheremo di offrire un prodotto utile agli insegnanti, per quanto possibile gratuito, e che li aiuti davvero a costruire un programma didattico innovativo.”
Vi consiglio di seguire i progressi di Wibo e magari fare un giro sul loro sito e sulla pagina di instagram @wibo.family
Per noi è il momento di tirare le somme perché, si tutto questo è molto bello, ma a noi piccoli, con budget tendenzialmente molto più basso rispetto a quello di Chiara Ferragni, come possiamo utilizzare la gamification?
Le soluzioni sono diverse, come ad esempio sfruttare i social usando i quiz o i bottoni interattivi delle stories per ingaggiare il pubblico; creare delle landing page “giocose” per attirare l’attenzione di chi atterra per la prima volta sul nostro sito; proporre attività interattive che coinvolgono i nostri utenti e che li facciano interagire tra loro, attraverso app di terzi come Wibo; ecc…
Ma perché limitarsi ai clienti, perché non creare un sistema interattivo per il proprio team?
Il lavoro di un gruppo coeso è sempre migliore di quello di un gruppo che non comunica o che non ha feeling, quindi perché non investire un po' per migliorare il clima all’interno della nostra società? Una persona felice di andare a lavoro crea una reazione a catena da non sottovalutare, ma di questo parleremo un’altra volta.
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stefysmind · 3 years
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Quando il washing non è solo un problema di lavaggio
Come riconoscere green/pink/e altri washing ed evitare di esserne veicolo
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Oggi voglio parlarvi dei vari tipi di washing.
No, non ho deciso di dedicarmi alle rubriche su come lavare i propri vestiti o alle recensioni di lavatrici, mi riferisco a quelle tecniche utilizzate da aziende, brand o singole persone per sfruttare un argomento sensibile, come l’eco-sostenibilità o la lotta contro la violenza sulle donne, a scopo di pubblicizzare, portare attenzione o attirare like senza poi impegnarsi costantemente in queste iniziative.
Ma partiamo con ordine.
Negli ultimi anni, tutte le campagne di sensibilizzazione si stanno muovendo molto più velocemente facendosi sentire con forza crescente, attirando e sensibilizzando sempre più l’opinione pubblica.
Tutti coloro che investono il proprio tempo e denaro per incrementare il proprio fatturato, la propria visibilità e la propria brand awarness soprattutto sui social, sono alla costante ricerca di quella cosa che li faccia diventare virali con facilità o che comunque gli conceda un po' più di spazio.
Sommiamo le due cose e otteniamo post, articoli, video e compagnia creati ad hoc per coinvolgere il pubblico e ottenere, appunto, un aumento dei risultati on-line.
Vi faccio un esempio concreto.
Pensate all’ 8 Marzo, la festa della donna, quando tutto l’internet, le chat e i palinsesti si riempiono di mimose, di frasi sul valore e l’importanza delle donne e tutto il resto. Questo può diventare pinkwashing, se durante il resto dell’anno non si è attivi, in qualsiasi modo, per perorare la causa dell’8 Marzo.
Quindi, se un* vostr* amic*, parente, followers, conoscente dopo le mimose pubblica un post con una presa in giro su una donna dalle forme morbide, magari con l’aggiunta di insulti o appellativi particolari, bene, quello anche è pinkwashing perché sfrutta un argomento sensibile, senza però perorarne la causa.
Stessa cosa oggi, che è la giornata mondiale della terra e puntualmente saremo tutti super ecologisti e passeremo la giornata a piantare alberi, se postiamo contenuti super green per sfruttare l’ashtag e durante gli altri giorni non ci preoccupiamo nemmeno di differenziare a casa, bene è greenwashing.
Questo nel piccolo e da privati, immaginate il peso mediatico che può avere se a pubblicare il post è un’azienda o un brand grande e famoso, la differenza tra una cosa del genere fatta da un grande e la stessa cosa fatta da un piccolo è che è molto più semplice affossare la reputazione di un piccolo.
Questo articolo non è e non vuole essere un puntare il dito contro, ma vuole essere di aiuto per chi magari non sa nemmeno che condividere in questo modo “sfruttando l’onda”, può essere estremamente pericoloso, soprattutto in questo periodo storico.
Personalmente, quando un cliente mi propone di pubblicare un post che tocca un tema sensibile, gli chiedo: “cosa vuoi fare dopo, come vuoi rendere il tuo sostegno concreto?”. Non lo nego, spesso la risposta che ricevo sono occhi spalancati e richiesta di spiegazioni, ma quando poi si capisce il rischio dell’essere incoerenti solo per avere qualche like o followers in più e che il gioco non vale la candela, le strade sono due: o si desiste dalla pubblicazione, perché impegnarsi attivamente per una causa non è sempre così semplice; oppure si decide di fare qualcosa attivamente, che sia solo creare contenuti che possano essere utili o appoggiare associazioni che già se ne occupano, offrendo loro un canale di comunicazione in più, organizzando eventi, webinar, ecc…
Non pensate poi che nessuno se ne accorga, perché magari non è questione immediata, ma basta la persona “giusta” al momento giusto e in un attimo vi ritrovate i commenti pieni di astio, insulti o ricondvisioni spiacevoli. Oppure, come in questo momento, l’argomento che avete trattato sfruttando un tipo di washing diventa trend, e in un attimo vi trovate ad essere portati come esempio di azienda negativa.
Internet, i trend e le idee si muovono così velocemente che nel giro di un’ora potreste passare da top a flop senza nemmeno capire cosa stia succedendo, distruggendo magari il lavoro di mesi o anni.
Quindi, indipendentemente da chi siate, valutate sempre molto bene quando decidete di condividere qualsiasi cosa, con un occhio di riguardo in più quando il vostro topic riguarda un tema sensibile.
Perché il “non importa come, basta che se ne parli” non sta più funzionando, proprio a causa della velocità con cui si muove il mondo adesso e del fatto che tutto quello che viene pubblicato in internet ci resta per sempre.
Un altro modo di dire che bisogna anche iniziare a sfatare è “non si può più dire/fare niente”, perché non è così: in realtà non era apprezzato nemmeno prima, solo che i diretti interessati stanno iniziando ad averne le tasche piene e non augurerei a nessuno di finire nell’occhio del ciclone solo perché ha affrontato un tema sensibile con troppa leggerezza.
Sicuramente quello che si dovrebbe o meno condividere o i modi con cui si dovrebbero affrontare certe tematiche, sono argomenti delicati a cui bisogna dedicare un po' più di tempo e spazio. Fatemi sapere se potrebbe interessarvi un approfondimento!
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stefysmind · 3 years
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Il mondo dietro ai post
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I mestieri nel mondo del digital sono tantissimi e spesso si viene a creare molta confusione, soprattutto nei clienti che si avvicinano a questo mondo per la prima volta. In più, negli ultimi anni stanno sbocciando le professioni che si occupano in particolare dei social, come la mia: il social media manager.
Ma chi è questa figura mitologica e di cosa si occupa in realtà?
Letteralmente, il social media manager, o SMM, è col* che si occupa di gestire e organizzare i profili social del cliente, assicurandosi che seguano la linea di comunicazione scelta e che la pubblicazione dei contenuti sia ottimizzata per raggiungere l’obbiettivo deciso.
In pratica però, soprattutto se si seguono piccole realtà o si sta iniziando a farsi conoscere, l’SMM è un tutto fare che ricopre il ruolo di un team digital a 360°. Credo che, anche si sfora dalle proprie mansioni, sia un’esperienza molto formativa, perché dover gestire un social a tutto tondo, ci fa capire il grande lavoro che c’è dietro e ci aiuta di conseguenza a farlo capire ai nostri clienti, aiutandoli a comprendere l’importanza di avere persone specializzate all’interno del proprio team.
Magari non ve lo siete mai chiesto, magari non vi interessa perché alla fine “che ci vuole e fare un post”, ma lo sapete quali sono i ruoli che compongono un team digital completo?
Tutto parte dal* digital stragestist: la persona incaricata di studiare una strategia che possa essere funzionale e vincente, per il nostro brand. Deve quindi conoscere l’andamento del mercato e/o della nostra nicchia di riferimento, nel caso non sapessimo in che nicchia siamo, sarà l* a dover capire dove piazzarci e deve anche analizzare i nostri competitors e le loro attività per capire come differenziarsi.
Dopo aver capito qual è la direzione e la strategia più efficace da seguire, entra in azione il resto del team, ognuno con le sue mansioni.
Abbiamo quindi l’advertiser, che si deve occupare delle inserzioni, delle sponsorizzate e delle campagne pubblicitarie a partire dalla loro pianificazione fino alla loro realizzazione, dovendosi appoggiare a sua volta a content creator, ad esempio, o a copy writer per elaborare dei testi efficaci.
Il content creator è quella figura che crea i contenuti da pubblicare, che siano video, foto o grafiche, anche l* può crearli indipendentemente o appoggiarsi a fotografi, web designers o video maker. Ovviamente, nella creazione del contenuto, deve seguire la linea di comunicazione dettata dal digital strategist e rispettare la brand identiy del cliente.
Ma ogni contenuto ha bisogno di una parte scritta, questa si chiama copy ed è compito del* copy writer crearne una ad hoc per quel dato contenuto. Anche il copy writer deve rispettare la linea di comunicazione e in più deve avere riuscire ad attirare e interessare l’utente che capita su quel contenuto. Perché no, non bastano due righe volanti scritte male per ottenere buoni risultati.
Un’altra figura che si occupa di scrittura è il SEO specialist, qui però usciamo dall’ambito social perché questa figura si occupa principalmente del sito internet, che sia shop online o che sia un blog, deve ottimizzarlo per ottenere un buon piazzamento nell’indicizzazione di Google, rendendo il sito più visibile a non solo a coloro che cercano direttamente il nostro brand, ma anche a chi può arrivarci per vie traverse.
Infine abbiamo il social media manager, col* che raccoglie tutto quello che il suo team ha creato e perfezionato e lo calendarizza in base ai dati raccolti dalle attività degli utenti, proprio o anche dei competitors nel caso si abbiano bisogno di altri riferimenti, ottimizzando e amplificando così i risultati che un dato contenuto può ottenere.
Ecco…questo è un team digital molto riassunto, dovete poi anche pensare a tutti i lavoratori collaterali che la creazione di un contenuto può coinvolgere: abbiamo già citato fotografi, web designers e video makers, ma dobbiamo includere anche programmatori e developers nel caso volessimo integrare app o funzioni particolari nel nostro sito, anche artisti o make up artists in certi casi, modell*, insomma dietro ogni singolo post che funziona c’è un mondo.
In Italia, soprattutto per le PMI, sembra un concetto abbastanza difficile da far capire, proprio perché i pensieri tipici possono essere “ho vissuto fino adesso senza sito/social, perché dovrebbero servirci adesso” oppure “cosa vuoi che sia creare un post?”. Ecco, il nostro lavoro, non solo come smm nel mio caso, ma di tutti queste nuove professioni è proprio far capire gli enormi vantaggi che può portare un corretto inserimento nel mondo del digital, far comprendere che sarà un percorso lungo perché sono richieste basi solide per arrivare in alto, ma ne sarà valsa la pena quando ci sarà riconosciuto il titolo come “primo del suo settore ad atterrare sui social”.
Personalmente, mi trovo a dover ricoprire tutti questi ruoli a 360° con alcuni dei miei clienti e, se da un lato rischio l’esaurimento nervoso una volta a settimana, dall’altro è un’immensa soddisfazione sentirsi dire “da quando facciamo questa cosa sui social, i nostri contatti sono aumentati! Grazie!”.
Ho deciso di intraprendere questo percorso perché credo fermamente nel futuro del digital e che possa essere la soluzione migliore di crescita per tantissime piccole e medie attività che, soprattutto negli ultimi anni, sono barcollanti e non sanno che strada intraprendere.
Avete mai provato ad affidarvi a un team o degli esperti del digital nella creazione di campagne pubblicitarie o per la pianificazione della vostra strategia aziendale? Raccontatemi un po' di esperienze!
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stefysmind · 3 years
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La televisione italiana: tra clickbait e millennials
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Nell’ultima settimana abbiamo assistito al ritorno in voga di un particolare programma televisivo, tutto questo movimento, mi ha fatto riflettere su quanto siano ancora effettivamente seguiti i programmi televisivi e quale potrebbe essere il loro destino nei prossimi anni.
Ma facciamo un passo indietro e vediamo le cose dai un punto di vista più ampio.
Andando a vedere i dati sul sito di Confindustria radio televisioni, possiamo vedere che negli ultimi 5 anni il tasso di ascolti della televisione in generale è in calo. Questo dato di per se è già un indicatore interessante, soprattutto se contiamo che Netflix approda in Italia il 22 Ottobre del 2015.
Possiamo poi vedere un picco di ascolti nel 2020, anno che ci ha visti molti mesi in casa per poter fronteggiare la pandemia da Covid-19. Se però lo andiamo ad analizzare nel dettaglio, si vede come il picco sia imputabile solamente ai primi mesi dell’anno, in particolare quelli che coincidono con l’inizio dei lockdown. Il tasso torna poi in calo con l’arrivo dei mesi delle riaperture e con l’avvento della piattaforma Disney +.
Ai dati, che sono semplici analisi numeriche, dobbiamo aggiungere il fattore umano che in questo caso potrebbe essere il cambio generazionale.
E si, anche qui, come abbiamo detto nell’articolo precedente sugli influencer, c’è la necessità di cambiare il modo di comunicare in base al pubblico e alle persone che si vogliono o devono raggiungere, che in questo caso sono i millennials che andranno pian piano ad occupare la parte centrale della demografia italiana.
Chi fa parte di questa categoria, è cresciuto insieme al digital: ha sperimentato le prime consolle gaming, i primi cellulari, ha visto diventare i computer sempre più potenti, sono stati i primi utilizzatori dei social e hanno imparato a gestirli, tanti hanno imparato a cercare i film in streaming prima che venissero raccolti tutti nelle piattaforme che conosciamo adesso.
Se pensiamo che i millennials saranno il target sul quale i programmi televisivi dovranno fare presa, bhe, diciamo che non sono messi benissimo e che non offrono un palinsesto accattivante per avvicinare questa categoria alla televisione e renderla il pubblico fedele di domani.
A questo punto le strade che si possono intraprendere sono 2.
La prima: continuare su questo andamento, che prevede la speculazione dei drammi personali e privati, che portano alla ribalta storie e persone per un limitato periodo di tempo. Un sistema di informazione non poi così lontano dai titoli click bait, che promettono eclatanti scoop, ma che poi non ti dicono nulla, puntando quindi ad ottenere un alto numero si ascolti, limitati nel tempo, che possono anche rivelarsi contro producenti (il detto “bene o male, l’importante è che se ne parli” inizia a perdere grip anche lui).
La seconda: sedersi ad un tavolo e decidere di dare una svolta ai format proposti e direzionarli verso un pubblico completamente diverso, fidelizzandolo, facendo in modo che ci segua per i prossimi 20/30 anni.
Mi rendo conto che puntare al rinnovo è sempre la scelta che spaventa di più, perché richiede molto tempo e l’abilità di cambiare non è cosa da tutti, altrimenti adesso potremmo avere l’occasione di girare a dorso di un T-rex, ma il cambiamento è una cosa naturale ed essenziale per poter sopravvivere.
Come social media manager, il consiglio che vi do è quello di ascoltare sempre i movimenti e gli umori del vostro audience per capire se state seguendo la strada giusta, anche perché negli ultimi due anni, tantissime cose sono cambiate sia nella comunicazione sia nel modo di rapportarsi al digital da parte degli utenti.
Poi, magari, in un altro articolo potremmo parlare di come riconoscere i cambiamenti necessari senza diventare succubi dei vostri utenti, prendendo spunto da movimenti di aziende più grandi.
In conclusione, credo che la televisione italiana sia arrivata ad un bivio che potrebbe confermarne il lento ma inesorabile declino, oppure potrebbe portarla alla rinascita verso un nuovo e splendente futuro.
Sono però curiosa di sapere come la pensate e se avete notato un vostro passaggio dalla televisione “tradizionale” alle piattaforme streaming tipo Netflix e famiglia (personalmente vi dico che, a causa del mio utilizzo delle piattaforme, non ho potuto fare il passaggio ad un piano tariffario diverso perché non mi bastavano i giga offerti…..e ho detto tutto!).
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stefysmind · 3 years
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Influencer e pandemia: come cambia la comunicazione
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La pandemia ci ha colpiti tutti.
Tutti, bene o male, abbiamo dovuto cambiare le nostre abitudini e adattarci a nuovi modi di lavorare e rapportarci con le persone.
Dopo i lockdown a livello mondiale, i social sono esplosi diventando il mezzo più utilizzato per esternare le proprie sensazioni e stati d’animo, ma anche delle nuove vetrine per le attività che hanno avuto il coraggio di lanciarsi verso nuovi orizzonti.
Nel mondo dei social, gli influencer sono, o comunque dovrebbero, essere dei buoni comunicatori: persone carismatiche, che sanno come e quando coinvolgere la propria comunity, che sanno entrare nella vita delle persone senza essere invadenti.
Anche per loro c’è stato un cambio radicale nel modo di rapportarsi alle persone.
Prima della pandemia, pensando ad un influencer, immaginavamo una vita piena di eventi, vestiti alla moda, bei ristoranti, viaggi in giro per il mondo e una vita “leggera” a spese dei propri sponsor. Una vita che seguiamo, non tanto per i prodotti che vengono pubblicizzati (che ormai non sono più i motivi principali per cui questi ragazz* vengono seguiti), ma perché ci offrivano delle esperienze diverse dalla nostra vita di tutti i giorni.
Con l’arrivo del Covid-19, soprattutto nella primavera del 2020, anche la vita degli influencer è cambiata molto: locali chiusi, viaggi vietati, eventi cancellati e in certi casi i lavori con gli sponsor rimandati. Sono però aumentate le persone on-line e le loro interazioni con i contenuti, diventando più presenti sui social è cambiato anche il mood con cui gli utenti li utilizzano.
Pensiamoci, il periodo del primo lockdown è stato difficile per tutti noi: ci siamo trovati magari soli in un appartamento minuscolo in cui eravamo abituati a stare solo per dormire, magari eravamo abituati a vedere i nostri cari o gli amici tutti i giorni, oppure ci siamo accorti che forse il nostr* compagn* di vita non è così gradevole h24 7su7.
Insomma, per farla breve, internet è stata l’unica via di fuga, l’unico modo per uscire di casa, per molti di noi e per molto tempo, per questo abbiamo anche cambiato modo di utilizzarlo e di approcciarci agli influencer e alle persone che normalmente seguivamo.
Ho notato che alcuni di quelli che seguo, nel corso dei mesi, sono diventati più “reali”, ma mi spiego meglio.
Nel corso dell’ultimo anno, chi prima parlava difficilmente di fatti di attualità anche non eclatanti, ha iniziato a commentare di più ciò che accadeva intorno, oppure si sono aperti mostrando anche le loro debolezze, parlando di ciò che gli mancava o delle loro paure.
Molti si sono esposti nella condivisione della campagna vaccinale, ad esempio, anche se ad alcuni è costato non poco a livello di commenti e interazioni decisamente poco piacevoli…
I più “bravi”, hanno capito che le persone hanno cambiato necessità, sono stati abbastanza empatici da capire che adesso, c’è bisogno di vedere che le nostre vite non sono poi così diverse e che possiamo esserci di supporto anche a distanza. Se avessero continuato a parlarci di cose che sentiamo troppo lontane da noi, probabilmente il loro seguito sarebbe calato pian piano nel tempo.
Attenzione, con questo non voglio dire che gli influencer sono falsi manipolatori e che la loro vita è tutta una passeggiata tra violette e margherite, anzi!
Sono persone continuamente esposte a messaggi di odio ingiustificato, semplicemente perché amano quello che fanno e si sono fatti in 20 per riuscire a raggiungere i loro obbiettivi. Per tante persone, seguire e partecipare alla vita degli influencer, è stata l’ancora di salvezza per superare il periodo del lockdown…cosa decisamente da non sottovalutare.
Sembra che la figura degli influencer, si stia finalmente lasciando alle spalle l’immagine del “tip* che vuole vendermi qualcosa perché l* pagano per farlo”, per passare a punto di riferimento e a persona in grado, non solo di intrattenermi, ma di comunicarmi dei valori importanti.
La pandemia ha certamente cambiato molti aspetti della nostra vita, il modo di comunicare è certamente uno di questi.
Il lavoro degli influencer, per quanto sembri semplice, non lo è per nulla e mi piacerebbe approfondire le mille sfaccettature di questa professione con voi, fatemi sapere se vi piace l’idea!
Avete notato anche voi un cambiamento nel modo di comunicare sui social? E quali sono i vostri influencer preferiti?
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stefysmind · 3 years
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La realtà aumentata di Gucci, cambierà il mondo dello shopping?
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Chi di voi è appassionato di moda e segue le attività dei grandi marchi, allora saprà già che Gucci, uno dei brand fashion più iconici di sempre, ha lanciato sul mercato delle scarpe a ben 12 $.
No, non ho dimenticato tutti gli zeri, da pochi giorni alcune sneakers del brand sono in vendita a circa 10 € sulla sua app, ma sono solamente digitali. Si potrà infatti, acquistare le scarpe in questione solamente attraverso l’app di Gucci, che vi permetterà di sfoggiarle su tutti i vostri social (anche perché essendo praticamente tutti in zona rossa, è l’unico posto dove poterlo fare).
Ma come mai un’azienda come Gucci si è lanciata in questa esperienza di realtà aumentata?
Ormai lo sappiamo: nessuno, soprattutto le aziende così grandi, fanno azioni a caso, ma sono sempre motivate da un obbiettivo, come possono essere l’incremento delle vendite o della notorietà del marchio.
In questo caso, la casa di moda ha voluto affrontare un discorso più “sottile” se vogliamo: analizzando i dati a sua disposizione, si è accorta che molti suoi fan fanno parte della Generazione Z (ovvero i nativi digitali nati tra il 1995 e il 2010), generazione che però non ha un potere di acquisto tale da potersi permettere le sneakers di Gucci.
Cosa fare allora? Dalla necessità di approcciarsi a una generazione “nata con lo smartphone in mano” , è nata la collaborazione con l’ agenzia fashion-tech Wanna (già collaboratrice di Reebok e Snapchat) che ha portato alla realizzazione del try-on tramite le app di Gucci o Wanna e alla possibilità di acquistare la versione digitale delle iconiche scarpe firmate.
E’ ancora presto per capire se questa scelta porterà dei risultati interessanti, ma in ambito social non esistono risultati negativi, solamente dati che ti indirizzano verso la strada migliore per il tuo sviluppo.
Questa voglia di Gucci di aumentare la sua immagine digital, che è ormai uno dei suoi cavalli di battaglia dopo essere stato tra i primi a lanciare un’app proprietaria, è comunque perfettamente in linea con il mercato degli ultimi anni. Potremmo quindi essere vicini a una svolta per quanto riguarda lo shopping on-line?
Gli ultimi due anni, hanno aperto moltissime aziende, grandi e piccole, al mondo del digital per cause di ovvia forza maggiore, questo però ha portato alla luce diversi ostacoli: la lentezza delle spedizioni, la difficoltà per i più piccoli di gestire correttamente il magazzino, le carenze delle norme per i resi e restituzioni e l’impossibilità di provare un prodotto prima di acquistarlo, che forse è uno dei blocchi più importanti per le generazioni pre-millenials.
La possibilità di provare un capo d’abbigliamento, un gioiello o un prodotto per il corpo prima di acquistarlo è forse la cosa che salva l’esistenza dei negozi fisici, la maggior parte di noi, infatti, è più sicura e più portata ad acquistare qualcosa che può toccare, proprio perché ci trasmette la sensazione che l’oggetto sia reale e ci fa anche capire bene la sua qualità.
Un’altra cosa che manca all’on-line è il rapporto umano.
Sono molte le aziende che offrono un personal shopper via Whatsapp, Telegram o una chat interna al proprio sito o applicazione, questo però non riesce ancora a sostituire il ruolo fondamentale che può avere un* commess* dal vivo: i migliori possono trasmettere empatia, sincerità e simpatia oltre che aiutarci davvero nella ricerca di un prodotto.
Chi riuscirà a portare il rapporto umano nello shop online avrà svoltato.
Tornando a Gucci, non mi stupirebbe se nel prossimo futuro, altre aziende iniziassero ad investire sulla realtà aumentata e sulla funzionalità delle proprie app, anche perché adesso tante di queste lasciano un po' a desiderare…
Altri, invece, hanno deciso di portare l’esperienza digital all’interno dei propri negozi: uno fra questi è Swarovski.
Da qualche anno, in alcuni dei suoi store, si possono utilizzare degli schermi che, grazie alla realtà aumentata, permettono di provare i gioielli delle collezioni nuove con la possibilità di applicare dei filtri e scattare foto da ricondividere sui nostri social.
Anche questa è un’opzione interessante, forse un po' penalizzata dall’arrivo della pandemia, ma che comunque vale la pena di tenere sotto osservazione nei prossimi anni.
Insomma, molti cambiamenti sono nell’aria e vorrei davvero sapere voi cosa ne pensate: se avete mai utilizzato la realtà aumentata per i vostri acquisti o se preferite lo shopping on-line a quello tradizionale!
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stefysmind · 3 years
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Un Super Bowl d’ispirazione
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In questi giorni si è svolto il 55° Super Bowl, un evento che ha posto un’altra pietra miliare per le donne nello sport.
Ha arbitrato, per la prima volta, una donna: Sarah Thomas, mentre Lori Locust e Mara Javadifar sono state le prime due donne a far parte dello staff di una squadra vincente.
In Europa, l’equivalente del Super Bowl è la Champions League e Stephanie Frappard è stata la  Sarah europea, arbitrando la partita Juve-Dinamo kiev nel 2020.
In Italia, possiamo vantare, come assistente in Serie A e B maschile Francesca di Monte, mentre come osservatrice Marta Bonaria Atzori. Per la Serie C maschile, invece, sono all’attivo ben 2 arbitri donna: Maria Sole Ferrieri Caputi e Maria Marotta, altre 6 ragazze le troviamo come osservatori e assistenti.
Quindi, per ora non vedremo una donna arbitrare il calcio maschile in Serie A, ma il numero di donne che intraprendono questa carriera, da molti considerata prettamente maschile, è in aumento e fa ben sperare.
Che ispirazione possiamo prendere dalle loro esperienze?
Sarah, Francesca e tutte coloro che intraprendono carriere come queste, ci dimostrano che: i sogni, l’impegno e la bravura non hanno genere e non dobbiamo limitarci nel raggiungimento dei nostri obiettivi.
Conosci esempi di donne che hanno aperto le porte di carriere considerate prettamente maschili?
Lo so, un post è molto riduttivo per parlare di questo argomento, mi piacerebbe, infatti, ritagliare un po' di tempo per scrivere un articolo più approfondito sullo sport maschile e femminile, soprattutto per quanto riguarda la questione di risonanza mediatica, magari inserendo qualche intervista.
I nomi e le informazioni citate, arrivano direttamente dal sito dell’ A.I.A. , se volete approfondire, potete comunque farci un giro.
Conosci esempi di donne che hanno aperto le porte di carriere considerate prettamente maschili?
Nel caso in cui, tra chi mi legge, ci fosse un arbitro donna, non esiti a contattarmi! Sarei felice di fare due chiacchiere!
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stefysmind · 3 years
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Il nuovo modo di vivere i video
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TikTok, i Reel di Instagram, Clubhouse, il futuro Clubhouse di Facebook…le new entry e le implementazioni dei “vecchi” in campo social sono moltissime, probabilmente anche boostate dalla pandemia e dalla necessità delle persone di comunicare attraverso i social.
Tanti si stanno arrovellando per creare “the next big thing” , per capire cosa le persone vogliono e pretendono dai propri social e per dar loro sempre qualcosa di fresco e nuovo di cui parlare.
Anche YouTube non è da meno.
Prossimamente, vedremo arrivare la nuova funzionalità del tubo, ovvero YouTube Shorts, che consiste nella creazione e condivisione di video di max 15 secondi, con la possibilità di crearne di più lunghi e di modificarli direttamente in app grazie alla funzione Google Shorts Camera.
Ma non è tutto.
Verrà inserita anche la funzione applausi, che per quanto mi riguarda potrebbe essere la cosa che cambierà il modo di guardare e creare i contenuti: verrà abilitata la possibilità di inviare un applauso, a pagamento, al creatore del video al quale verrà riconosciuta una quota dell’importo pagato dall’utente.
Che sia l’inizio di un nuovo modo dell’algoritmo di classificare i creator e per dare un riconoscimento anche a quelli più piccoli? Non lo sappiamo, ma sono davvero curiosa di vedere come si evolverà la situazione, infondo anche Instagram sta testando nuovi modi per far lavorare il suo algoritmo in favore dei creator.
Come sempre, non ci resta che aspettare e vedere come si evolveranno questi mezzi di comunicazione, che ormai sono diventati parti essenziali delle nostre giornate in distanziamento sociale.
Sono curiosa di sapere cosa ne pensate e se avete già avuto l’occasione di provare Clubhouse, che ora è disponibile solo per gli utenti Apple, di cui vorrei parlare prossimamente.
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stefysmind · 3 years
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La storia di una, la situazione di molte
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E’ possibile che nel 2021, siamo ancora qui a raccontare di un mondo in cui le donne devono essere autorizzate da un marito/padre/fratello per decidere della propria vita? 
Evidentemente si, e la storia di Samira Zagari, CT della squadra femminile di sci alpino iraniana, è la palese dimostrazione che la strada è lunga e non possiamo limitarci a guardare solo il nostro orticello. 
Se state pensando “si, ma queste cose succedono solo nei paesi come quello o del terzo mondo” , vi sbagliate di grosso. 
Pensate a quando avete cambiato strada la sera o avete fatto finta di essere al telefono, a quando vi è stato negato un lavoro perché “se poi resta incinta…”, a quando avete scoperto che un collega con lo stesso livello e mansioni guadagnava di più, a quando vi hanno giudicato perché non siete sposata o non avete figli. 
La differenza è che qui non abbiamo leggi che limitino direttamente le donne, mentre nella Repubblica Islamica ci sono, quindi fare o non fare qualcosa ti mette a rischio a livello penale, in più le donne hanno la stessa valenza giuridica di un bambino minorenne in Italia, quindi anche riuscire a difendersi può diventare particolarmente difficile.
Nel 2015, ci fu un avvenimento importante a livello giuridico che avrebbe potuto essere un vantaggio per la nostra Samira. 
La capitana della squadra nazionale di calcetto iraniana Niloufar Ardalan, si trovò nella stessa situazione: doveva partecipare ai Mondiali in Guatemala, ma il marito non voleva che partisse. In quella occasione, intervenne direttamente il tribunale, annullando il veto del marito e concedendo alla donna di partire. 
Il perché non sia successo con Samira, non lo sappiamo, ma sappiamo che la strada per ottenere grandi cambiamenti è lunga e complicata e richiede tanti sacrifici e molto rumore. 
Noi che abbiamo la possibilità di farci sentire, abbiamo il dovere di condividere queste storie e farci portavoce della lotta che tutte le donne nel mondo stanno affrontando. Dobbiamo imparare a fare fronte comune, a insegnare alle nuove generazioni che è essenziale che ogni uomo o donna sia ibero di decidere per se stesso. 
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stefysmind · 3 years
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La donna che ha scosso Wall Street
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Sempre più spesso, sentiamo parlare di donne che fungono da apripista o che riescono a portare il gender gap, ad un gradino più in basso e vicino alla parità di genere.
Oggi vi voglio parlare di Whitney Wolfe Herd, ovvero la creatrice dell’app per incontri Bumble, ad oggi maggiore concorrente di Tinder.
Ma cosa rende quest’ app diversa?
Semplice: il meccanismo alla base è molto simile a quello di Tinder dove si scorre a destra o sinistra per apprezzare o meno la foto di un utente. In Bumble però, solamente le donne possono decidere se iniziare una conversazione con un utente che ritengono interessante, evitando così il rischio di ricevere messaggi non graditi o contenuti inopportuni.
A soli 31 anni, Whitney, è diventata così la più giovane donna a riuscire a portare la sua azienda a Wall Street, un traguardo magnifico e che può essere d’ispirazione per tutte le donne che ambiscono ad un ruolo manageriale.
Parlando di quotazioni in borsa, gli esempi a cui ispirarsi sono pochini, ma la direzione che stanno prendendo chi dirige, gestisce e regolamenta i mercati, fa ben sperare.
In Italia, sono 14 le aziende iscritte a Piazza Affari che vedono una donna come CEO (su un totale di 345 aziende in lista) e i dati sono in sempre in crescita.
Per quanto riguarda gli U.S.A., la Nasdaq (ovvero l’ indice di borsa di Wall Street che un presidente e amministratore delegato donna) ha fatto richiesta per avere l’autorizzazione di imporre alle aziende iscritte, la presenza di una donna e un rappresentante di minoranze all’interno del CDA. Questa mossa richiederà a più di un terzo delle aziende iscritte, di rivedere il proprio consiglio di amministrazione per rispondere alla richiesta e restare all’interno della lista, in caso contrario dovranno giustificarsi e se le spiegazioni non saranno valide, saranno cancellati dagli indici.
Ci sono comunque almeno 10 Top Companies americane che fanno affidamento si CEO donne, chi da molti anni, chi solo recentemente, come ad esempio: Ups, Best buy, General Motors, PepsiCo e IBM.
Anche in Italia abbiamo visto leggi del genere, come le famose quote rosa in politica, che comunque male non fanno, ma l’obbligo di inserire una donna per forza, non credo sia sempre una cosa positiva.
Diciamo che l’obbiettivo è portare la mentalità di base a valutare una persona in base ai propri meriti e al lavoro effettivamente svolto, dove il proprio genere/tendenze/credi/colori/ecc.. non siano più un metro di paragone e non solo in campo lavorativo.
Sempre più donne sono portate a scegliere una carriera manageriale e imprenditoriale, questo è un dato innegabile e che fa sperare che un giorno, una donna CEO a capo di grandi aziende sia la normalità e non più un evento che fa notizia.
Mi piacerebbe raccogliere qualche testimonianza di donne che sono riuscite a ottenere ruoli manageriali, per condividere le loro storie e i loro traguardi, quindi sono bene accetti consigli e suggerimenti!
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stefysmind · 3 years
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Il nuovo modo di fare crowdfunding
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Ebbene sì, Amazon ha deciso di coinvolgere i clienti nella creazione di nuovi prodotti. Ma è davvero solo un modo per coinvolgere di più gli utenti?
Nel mondo del digital e delle analisi dei dati, ogni azione che compie un utente ci dice qualcosa di più sulle sue idee/gusti/tendenze, che sia un like o una ricerca su Google o, in questo caso, su un sito di e-commerce.
Partendo quindi da questo presupposto, Amazon ha trovato il modo di rendere il crowdfunding utile, non solo per le startup che desiderano lanciare un nuovo prodotto/servizio abbattendo i costi, ma anche per le grandi aziende.
In concreto, grazie a questa iniziativa Amazon può:
-creare prodotti che convertono per certo (la votazione viene fatta tramite prevendita, quindi il produttore ha delle entrate assicurate che coprono il prezzo di produzione)
-capire cosa interessa di più acquistare ai propri utenti, vertendo la futura produzione in quella direzione
-fidelizzare i propri utenti dando loro una sorta di potere decisionale su una grande azienda come Amazon
Questi sono solo alcuni punti, che però possono essere un valido spunto per creare iniziative nel nostro piccolo che possano aiutarci nella gestione della nostra attività.
Possiamo, anche noi, proporre alcuni prodotti ai nostri clienti (a patto che siano pochi e scelti accuratamente in modo che diano risposte e non creino confusione) che loro “voteranno” tramite il pre-ordine. Il prodotto più ordinato sarà quello che verrà messo ufficialmente in vendita, così possiamo creare un sistema win to win, rendendo i nostri clienti felici di aver partecipato alla scelta di un prodotto in vendita e potenziali clienti incuriositi dalla nostra iniziativa. Per non parlare della conversione più alta che porta un pre-ordine (vendita certa) rispetto, magari, ad un buono sconto (vendita possibile).
Sarebbe bello poter approfondire l’argomento del crowdfunding e di nuovi metodi per coinvolgere i nostri clienti/utenti, nella nostra attività. Fatemi sapere cosa ne pensate e se vi piacerebbe un articolo dedicato a questi argomenti!
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stefysmind · 3 years
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La privacy, una linea sempre più sottile?
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Affidereste la vostra privacy a un algoritmo?
Il trattamento dei dati e dei contenuti sensibili, è un argomento sempre delicato da trattare e, con l’aumento dell’uso dei social e delle app di messaggistica, è sempre più difficile capire dove mettere l’asticella di dove finisce il lecito.
Recentemente il Garante della Protezione dei Dati Personali ha iniziato a collaborare con Facebook e Instagram, per prevenire i casi di revenge porn e di diffusione di foto non consensuale, creando una piattaforma online dove poter caricare le proprie foto sensibili. Successivamente un algoritmo provvederà a rendere non visualizzabili le immagini, nel caso vengano condivise su questi due social.
Dopo la legge che classifica il revenge porn come reato, la collaborazione con le grandi aziende che gestiscono i social è un buon passo avanti per la tutela della privacy.
Questo però, mi fa pensare a due domande: e se dovessero hackerare i server dove sono custoditi tutti questi contenuti sensibili? Perché non coinvolgere anche Whatsapp nel programma, visto che è lì che la maggior parte di questi contenuti viene ricondiviso?
No, non sono una complottista, sono però abituata a leggere i dati. Negli ultimi mesi, abbiamo sentito molte notizie relative ad attacchi ai server, contenenti dati degli utenti, che hanno preso di mira grandi aziende come, una fra tante, Microsoft oppure la compagnia telefonica Oh! In questo caso ad essere acquisite dagli hacker, sono state informazioni e dati degli utenti, ma se dovesse capitare al server che racchiude tutti i contenuti sensibili…potete immaginare le conseguenze (rivendita di immagini, deep fake, furti d’identità, e via dicendo).
Per quanto riguarda Whatsapp, invece, credo che sia una nota dolente nella questione privacy, perché per inserirla nel programma vorrebbe dire obbligare tutti gli utenti che la utilizzano a lasciare libero accesso, in caso di segnalazione, al proprio dispositivo così da permettere all’algoritmo di scovare le immagini registrate nel programma. Sembra un ragionamento logico, ma quanti di voi aprirebbero tutte le porte del proprio smartphone a Mr. Facebook? (se avete usato le app, tanto belline, che vi fanno invecchiare o ringiovanire, mi dispiace, ma la privacy di Facebook è l’ultimo dei vostri problemi, stesso discorso per la maggior parte delle app social). Inserire una clausola del genere, vorrebbe dire rischiare di perdere utenti e aggiungere ulteriori polemiche e difficoltà nella gestione della privacy, tenendo sempre conto che questo è uno dei mezzi più usati per diffondere questo tipo di contenuti.
Vorrei approfondire il discorso della privacy e di cosa è ricondivisibile o meno online, ci sono argomenti pertinenti che vorreste approfondire?
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