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#Antonio Secchi
ultimaedizione · 3 months
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I cattolici e la politica - di Antonio Secchi
Ogni volta che si attraversa una fase di crisi della politica, ci si interroga sempre sulla “questione cattolica”, cioè se c’è ancora posto per i cattolici in politica. Questa domanda si è riproposta quest’anno in occasione della commemorazione degli 80 anni del Codice di Camaldoli, che fu elaborato nel 1943 da un gruppo di laici cattolici e che rappresentò la base di ispirazione cristiana per i…
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personal-reporter · 8 months
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Il grande scalone illuminato di Belgirate 2023
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Tornano le luci e i colori sullo scalone di Belgirate! Belgirate è un delizioso e storico borgo sul Lago Maggiore tra Arona e Stresa. Ville e dimore storiche, dove si è fatta la storia, vera. Personaggi storici, nobili, politici, filosofi, pittori, scrittori e romanzieri di ogni epoca sono passati da qui e da qui hanno preso anche spunto per le loro opere come Stendhal, Manzoni, Fogazzaro, Hemingway. Una delle più belle, particolari e romantiche chiese del lago, come quella dedicata a Santa Maria. Un lungolago piacevole, che offre uno sguardo privilegiato sul lago e che potrebbe veramente raccontare tante storie e che è stato fonte d’ispirazione per tanti. Uno dei posti più particolari di Belgirate è il lungo, ampio scalone che affianca la chiesa e porta nella parte più alta del borgo. Posto lungo la strada statale del Sempione è quasi nascosto alla prima occhiata, spesso sfugge a chi passa di fretta. In realtà è uno dei punti più interessanti e caratteristici del borgo. Lo scalone prende il nome dai Fratelli Cairoli, belgiratesi per ramo materno. E a Belgirate troviamo la seicentesca Villa Cairoli, costruita dai Bono, ricca famiglia belgiratese. Famiglia che diede i natali al Conte Benedetto Bono, primo commissario della Repubblica Cisalpina. Padre di Adelaide, madre proprio dei fratelli Cairoli, protagonisti del Risorgimento. Una dimora che ospitò tra gli altri, anche Garibaldi e molti altri personaggi della vita politica e culturale dell’800. Martedì 29 agosto alle 20.00, si terrà il tradizionale appuntamento con l’accensione dello scalone Cairoli, testimonianza di fede e poesia, con la scenografia creata da centinaia di lumini colorati. L’evento è in concomitanza con i festeggiamenti della Madonna Addolorata, uno dei simboli della cittadina sulla riva piemontese del Verbano. La processione della Madonna Addolorata, protettrice di Belgirate, ha una storia con radice lontane. Risale infatti a circa 300 anni fa, poi venne sospesa durante la seconda guerra mondiale e, dal secondo dopoguerra, si tiene l’ultima domenica di agosto. La chiesa parrocchiale di Belgirate, edificata verso l’anno Mille, sorgeva su un piccolo poggio ed era dedicata alla Purificazione di Maria. Il 1 novembre 1610 Carlo Borromeo fu proclamato santo e a Belgirate nel 1611 iniziarono i lavori per un oratorio in suo onore. Nel 1618 venne completata la cappella maggiore, come ricorda un quadro votivo del 1683 eseguito per ricordare la fine della pestilenza del 1631. Pochi decenni dopo l’oratorio di San Carlo, fu la nuova chiesa parrocchiale, poiché gli abitanti trovavano poca adatta la vecchia per la vita religiosa della comunità. L’arciprete Giuseppe Colombari nel 1715, fece scolpire la statua lignea della Vergine Addolorata come in segno di devozione per la miseria che affliggeva il paese e nel 1753 quattro grandi tele di Giovanni Battista Calzia con episodi della vita di San Giuseppe vennero collocate sulle pareti del presbiterio. Nel 1795 l’oratorio divenne la chiesa parrocchiale e prese il titolo di Purificazione di Maria Vergine e San Carlo. Un grande organo della ditta Bossi di Bergamo, che venne donato dal belgiratese Giuseppe Antonio Conelli, fu installato nel 1846. Nel 1853 il decoratore Carlo De Pedrini, realizzò, per conto di Elena Conelli, la doratura del pulpito e quella della statua dell’Addolorata. Nel 1904 il pittore torinese Luigi Morgari lavorò agli affreschi della chiesa, mentre il decoratore Luigi Secchi realizzò gli stucchi sulle lesene, sui cornicioni, sugli archi e nelle volte delle cappelle, e le cornici che inquadrano gli affreschi. Nel 1940, con arciprete don Francesco Ferri, venne collocato nella chiesa un nuovo portale in serizzo, dono delle benefattrici Valentina Tosi e Giovannina Prini Rossi e nel timpano una grande lapide con la dedicazione a Maria Vergine. Il 22 giugno 1997, furono collocati e benedetti gli amboni e un nuovo altare comunitario in legno di noce realizzati da don Giovanni Cavagna. L’idea di illuminare completamente lo scalone Cairoli, uno dei luoghi più noti della cittadina lacustre, nasce una trentina di anni fa, quando si ponevano dei lumini per le vie del borgo e proprio anche sullo scalone stesso, per la festa grande di Belgirate, quella della Madonna Addolorata, con la relativa processione. E solo da una decina di anni però che l’illuminazione dello scalone Cairoli è diventata sempre più imponente, bella e scenografia con addirittura una serie di disegni, diversi ogni anno, che raccontano il legame di Belgirate con la Madonna Addolorata e la forte fede di questi luoghi sul Lago Maggiore e nel Piemonte. Uno spettacolo davvero particolare, affascinante, con i lumini di vari colori che creano disegni, è una magia che si rinnova sempre diversa ogni anno. E che colpiscono in particolare i turisti che da ogni parte del mondo arrivano a Belgirate. Read the full article
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bat-aldo-azevedo · 2 years
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Unoesc Joaçaba homenageia colaboradores pelo tempo de serviços prestados 20 Agosto 2022 15:10:00 https://otempodefato.com.br/ https://otempodefato.com.br/artigos/unoesc-joa%C3%A7aba-homenageia-colaboradores-pelo-tempo-de-servi%C3%A7os-prestados-1.2442034 A dedicação e o comprometimento dos funcionários da Unoesc foram reconhecidos em uma cerimônia realizada no Auditório Afonso Dresch, na sexta-feira (19). Na solenidade, que foi alusiva também aos 26 anos de credenciamento da Universidade no MEC, professores e funcionários que completaram 10, 15, 20, 25, 30 e 35 anos de serviços prestados receberam uma homenagem. Dirigentes, colaboradores e familiares prestigiaram a entrega das placas alusivas, pelas mãos da pró-reitora acadêmica da Unoesc, Lindamir Secchi Gadler, do pró-reitor de administração, Ricardo Antonio De Marco, do diretor acadêmico, Jovani Antônio Steffani e da coordenadora administrativa, Cleunice Fátima Frozza. Entre os muitos homenageados, destaque para o professor Luiz Carlos Lückmann, que completou 35 anos de trabalho. A Unoesc é mantida pela Fundação Universidade do Oeste de Santa Catarina (Funoesc), que é uma instituição sem fins lucrativos, de direito privado, criada em 1968 pelo Poder Público Municipal de Joaçaba, com a participação da comunidade. Sua identidade comunitária se reflete nas ações que desenvolve nas áreas da educação, saúde, assistência social, tecnológica, ambiental, cultural e de lazer. - É um momento especial de reconhecimento pela competência e empenho dessas pessoas, que ao longo do tempo ajudaram a construir a história da nossa Universidade. Diariamente elas contribuem para que a Instituição seja considerada a melhor, mais bem estruturada e comprometida com o desenvolvimento do Oeste de Santa Catarina - destacou o pró-reitor de Administração, Ricardo Antonio De Marco. Fotos: Mayelle Hall Alessandra de Barros Assessoria de Imprensa Marketing e Comunicação Unoesc Joaçaba (em Santa Catarina) https://www.instagram.com/p/ChgCrlOuvdJ/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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tvln · 3 years
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death sentence (it, lanfranchi 68)
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garadinervi · 5 years
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Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Eugenio Fava, Nello Ferretti, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari, Domenica Secchi, Angelo Tanzi / Officine Meccaniche Reggiane / Reggio Emilia / 28 luglio 1943
28 luglio 1943 – Bari: «In piazza Roma vengono uccisi dalla polizia 23 lavoratori e 60 restano feriti, in seguito alla repressione violenta di una manifestazione che chiede la liberazione dei detenuti politici.» – Torino: «Numerosi operai morti e feriti sono il risultato degli scontri di piazza durante lo svolgimento di scioperi e manifestazioni popolari di protesta contro la guerra.»  – Milano: «Nel carcere di S. Vittore si ha un ammutinamento dei detenuti politici: una manifestazione di popolo esterna che appoggiava la rivolta viene repressa nel sangue con l'impiego di carri armati e di un battaglione di fanteria; dopo numerosi scontri il risultato è di parecchi morti e feriti e 4 esecuzioni sommarie.»  – Roma: «Anche nella capitale, nelle carceri di Regina Coeli, si verificano rivolte di detenuti politici, il risultato che segue la violenta repressione è di 5 morti e di diverse decine di feriti.» (Gianni Viola, Polizia (1860-1977). Cronache e documenti della repressione in Italia, Bertani Editore, Verona / Stampa Alternativa, Roma, 1978, pp. 82-83)
(images: Giannetto Magnanini, Gli operai delle Reggiane contro il regime fascista e nella lotta di liberazione (1921-1945). A ricordo del 60° della Liberazione, Foreword by Guido Mora, Text by Romeo Guarnieri, FIOM Reggio Emilia – Centro Studi R. 60, Reggio Emilia, 2005, pp. 36-43)
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ma-pi-ma · 5 years
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Non cerco niente. È il niente che mi trova.
Si è addormentato il mio cuore? Alveari dei miei sogni, state in ozio? Manca l’acqua alla noria della mente e le secchie giran vuote, sono piene solo d’ombra?
No, che non dorme il mio cuore.
È ben desto il cuore, è desto. Non dorme né sogna: è intento, aperti gli acuti occhi, a lontani segni ascolta agli orli del gran silenzio.
Antonio Machado, Si è addormentato il mio cuore
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goodbearblind · 5 years
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OGGI HO PIANTO Erano più o meno le 18, ora del rientro a casa al termine della mia giornata lavorativa, quando sulla strada Vicinale Vecchia Matino-Collepasso m’imbatto nell’ennesima ecpirosi di un uliveto salentino. Non voglio credere ai miei occhi. Bellissimi ulivi, alcuni con dei rami secchi, sono avvolti dalle fiamme. Inchiodo l’auto con il rischio di essere tamponato, accosto, scendo e mi affaccio: al di là di una palizzata un roveto ardente, un braciere, un’immensa pira sacrificale su cui ardono storia e geografia, padri e madri con calli alle mani, e il futuro di una terra che i miopi e gli stolti vogliono ridotto in cenere. Il comburente, si sa, è una miscela esplosiva di superintensivo, nuova edilizia, deroga alle norme. Compongo in maniera concitata il numero dei vigili del fuoco. Scandisco bene il mio nome. Redigono la scheda. Hanno altri interventi. Li imploro di far presto ché le vampe son troppo alte, e il rogo sembra voler correre per i rami arroventati. Aspetto. Guardo questo inferno. Sento il crepitio del fuoco. Sfrecciano le altre auto. Neppure una si ferma. Nessuno ha visto nulla, e men che meno ha avvisato i pompieri prima di me. I miei occhi si riempiono di lacrime. Sono l’allegoria dell’impotenza. No, - penso - l’uomo non può sopravvivere senza ulivi. Gli ulivi senza l’uomo, invece, sì. E per favore, non chiamatela autocombustione, ma mafia: le parole sono importanti. Mel . . -Antonio Mellone- . #ulivi #salento #incendio (presso Salento) https://www.instagram.com/p/B0bPdQmCt1_/?igshid=1d3jikcu6h2s6
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barbaraincucina · 4 years
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PIADINA: COMFORT FOOD ALL’ITALIANA
By Gianfranco Allari, Maestro d'Arte e di Cucina
https://www.gianfrancoallari.com/
La storia della Piadina Romagnola o Piada Romagnola ha origini antichissime e racconta la tradizione della gente della Romagna. Si tratta di un cibo semplice che, nel corso dei secoli, ha identificato e unificato la terra di Romagna sotto un unico emblema passando da simbolo della vita rustica e campagnola a prodotto di largo consumo. Il termine piada è stato ufficializzato per merito di Giovanni Pascoli il quale italianizzò la parola romagnola ‘piè’ in questo termine. In un suo famoso poemetto il poeta tesse un elogio della piadina, alimento antico quasi quanto l’uomo, e la definisce il pane nazionale dei Romagnoli creando un binomio indissolubile tra Piadina e Romagna. Le sue origini, però, partono da molto più lontano. Già al tempo degli Etruschi, nelle zone dell’odierna Romagna, sono state rinvenute tracce dell’utilizzo di un sostituto del pane fatto con farina grezza, cerali e di forma circolare. Le prime tracce letterarie sono state rinvenute dallo stesso Pascoli all’interno dell’Eneide di Virgilio all’interno del VII canto quando il poeta romano utilizza, per la prima volta, il costrutto exiguam orbem. Durante l’epoca romana si hanno numerose testimonianze dell’uso di sostitutivi del pane, realizzati con cerali grezzi e accompagnati, come ai giorni nostri, con dei formaggi. La tradizione della Piadina è proseguita lungo i secoli, ritrovando un suo sviluppo nel Medioevo, quando gli abitanti della Romagna cominciarono a utilizzarla con i cereali poveri per non incorrere nella tassazione che subiva il grano – e quindi il pane – da parte dei proprietari terrieri. Nel 1913 Maria Pascoli preparava la piadina al fratello poeta mentre, sul periodico Il Plaustro, Antonio Sassi poteva definire le tradizionali e gustose schiacciate dei Romagnoli. Anche il poeta crepuscolare Moretti ne diede la propria versione poetica: “La piada era la piada: era pane. / Stacciava ella ritmicamente sul tagliere candido” all’interno di una delle sue numerose poesie dedicate alla Romagna. Nel secondo dopoguerra, la Piadina Romagnola si diffonderà sia nelle campagne che nelle città, e non sarà più considerata un surrogato del pane ma una golosa alternativa. A partire dagli anni Settanta alle piadine casalinghe si accompagneranno quelle di produzione artigianale, create dai chioschi che iniziano ad aprire sul lungomare e nei primi laboratori.
Per celebrare questo delizioso comfort food all’italiana ho deciso di suggerirvi le mie ricette per la realizzazione di quattro differenti impasti da farcire a piacere o seguendo i miei suggerimenti!
(Ingredienti per circa 4 piadine)
PIADINA CLASSICA ROMAGNOLA
500 g di farina 0 125 g di latte 125 g di acqua 60 g di strutto 10 g di sale 10 g di lievito chimico
Con la farina formare una fontana sul tagliere, mettere al centro lo strutto, il sale, l’acqua con il lievito sciolto e il latte. Impastare per almeno una decina di minuti fino ad ottenere un impasto consistente e liscio, coprire e fare riposare per almeno 30 minuti. Riprendere l’impasto e dividerlo in quattro o cinque pezzi, formare delle bocce e farle riposare ancora per una decina di minuti. Stenderle l’impasto con il mattarello ad uno spessore di circa 3 mm, infine cuocere le piadine sull’apposito testo di pietra o in un tegame antiaderente caldo fino a cottura desiderata rigirandole.
PIADINA CLASSICA CON SQUACQUERONE, POMODORINI SALTATI E RUCOLA
4 piadine classiche già precotte 200 g di squacquerone 30 pomodorini datterini 100 g di rucola 2 cucchiai di olive Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe 2 cucchiai di pesto alla genovese
Lavare i pomodorini poi dividerli in due o quattro spicchi, rosolarli velocemente in padella con olio, sale e pepe, al termine unire le olive e farli raffreddare. Spalmare le piadine con lo squacquerone, condire con un poco di pesto poi unire la rucola spezzetta e completare con i pomodorini, piegare in due e riscaldare per un minuto per lato.
PIADINA CLASSICA CON ZUCCA E GORGONZOLA
4 piadine classiche già precotte 300 g di zucca tagliata a fette 200 g di gorgonzola 100 g di valeriana 1 cucchiaio di noci tritate 1 rametto di salvia e rosmarino Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe
Sistemare la zucca su di una teglia con carta forno, pennellarla con olio, insaporirla consale e pepe e profumarla con salvia e rosmarino, cuocerla in forno a 180° per 20 minuti circa. Spalmare le piadine con il gorgonzola, cospargere con un trito di noci, poi farcire con la zucca e la valeriana, piegare in due e riscaldare un minuto per lato.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO Se avete problemi di intolleranza al lattosio potete sostituire il latte con pari quantità di acqua. È importante rispettare i tempi di riposo in modo che l’impasto si riesca a stendere con facilità. Se avete l’esigenza di prepararne diverse, potete cuocerle non completamente e al momento di servirle farcirle e terminare la cottura.
PIADINA ALL’OLIO D’OLIVA
500 g di farina tipo 2 230 g di acqua 50 g di olio extra vergine d’oliva 10 g di sale 1 pizzico di bicarbonato
Con la farina formare una fontana sul tagliere, mettere al centro il resto degli ingredienti ed impastare per almeno una decina di minuti fino ad ottenere un impasto consistente e liscio, coprire e fare riposare per almeno 30 minuti. Riprendere l’impasto e dividerlo in 4 parti e formare delle palline, disporle sul tagliere e farle riposare ancora per una decina di minuti coperte con un canovaccio. Riprendere l’impasto e stenderlo con il mattarello ad uno spessore di circa 3 mm. Cuocere le piadine sull’apposito testo di pietra o in un tegame antiaderente ben caldo fino a cottura desiderata rigirandola.
PIADINA ALL’OLIO CON SCAROLA, OLIVE E MOZZARELLA
4 piadine all’olio d’oliva già precotte 1 basco di scarola 2 cucchiai di olive 1 cucchiaio di capperi 2 mozzarelle fiordilatte 4 falde di pomodori secchi Sale
Tagliare le mozzarelle a fette e farle asciugare su carta da cucina. Tagliare la scarola grossolanamente dopo averla ben lavata, in una padella insaporire pochissimo olio con uno spicchio di aglio, eliminarlo, quindi unire la scarola e brasarla a fiamma vivace mescolando con un cucchiaio, dopo qualche minuto aggiungere le olive, i capperi e infine i pomodori tagliati a filetti, mescolare il tutto e correggere se serve di sale. Sistemare la mozzarella sulle piadine, farcirle con la scarola, ben scolata dal liquido di cottura, piegare in due e cuocere ancora un minuto per lato in modo che il formaggio inizi a fondersi.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO Piadina vegana o per chi vuole un prodotto più leggero, il ripieno ricorda la torta di scarola della cucina campana, se non amate troppo la sua nota amara potete sbollentarla in acqua salata per un paio di minuti, poi passarla in acqua e ghiaccio e una volta ben scolata procedere come da ricetta. Una buona alternativa sono gli spinaci o un misto di erbe di campo.
PIADINA INTEGRALE
500 g di farina integrale 250 g di acqua 60 g di strutto 8 g di sale 8 g di lievito chimico
Con la farina formare una fontana sul tagliere, mettere al centro lo strutto, il sale, l’acqua e il lievito, impastare il tutto per almeno una decina di minuti fino ad ottenere un impasto consistente e liscio, coprire e fare riposare per almeno 30 minuti. Riprendere l’impasto e dividerlo in quattro parti, formare delle palline, disporle sul tagliere coperte con un canovaccio e farle riposare ancora per almeno una decina di minuti. Riprendere l’impasto e stenderlo con il mattarello ad uno spessore di circa 3 mm, cuocere le piadine sull’apposito testo di pietra o in un tegame antiaderente ben caldo fino a cottura desiderata rigirandole con una pinza.
PIADINA INTEGRALE CON SALAME E PEPERONI AL BALSAMICO
4 piadine integrali precotte 16 fette di salame ungherese 2 peperoni rosso 1 cipolla piccola rossa Grana a lamelle Aceto balsamico di Modena Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe
Lavare i peperoni, dividerli in due, eliminare tutti i semi e i filamenti bianchi poi tagliarli a listarelle. Rosolare in padella con un filo di olio la cipolla tagliata a julienne, dopo qualche minuto unire i peperoni, e continuare la cottura a fiamma vivace e mescolando con un cucchiaio, se le verdure tendono ad asciugarsi troppo unire un poco di acqua. A cottura quasi ultimata insaporire con sale e pepe, sfumare con l’aceto balsamico e una volta evaporato togliere dal fuoco. Farcire le piadine con i peperoni ben scolati, il salame e il grana a lamelle, piegare in due e completare la cottura.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO La farina integrale dono un gusto rustico e antico che ho voluto abbinare ad un ripieno importante come i peperoni al balsamico e al salame ungherese. Mi raccomando di lasciare riposare bene l’impasto tra una lavorazione e l’altra. Se volete piadine più piccole dividete l’impasto in 6 parti anziché 4 come indicato nella ricetta.
PIADINA SFOGLIATA
500 g di impasto di piadina classica 100 g circa di ottimo strutto Farina Dividere l’impasto in 4 parti, formare una pallina e stenderla con il mattarello, sul tagliere infarinato, il più sottile possibile, spalmarla con lo strutto, poi arrotolarla formando un cilindro lungo e stretto. Arrotolare ancora su se stesso il cilindro formando una chiocciola, coprire con un canovaccio e fare riposare per un’ora, procedere allo stesso modo con il resto dell’impasto. Infarinare il tagliere e stendere le piadine sfogliate ad uno spessore di pochi mm e cuocerle un paio di minuti per lato.
PIADINA SFOGLIATA CON SPECK, RADICCHIO ALLA GRIGLIA E STRACCHINO
4 piadine sfogliate già precotte 2 baschi di radicchio rosso 12 fette di speck 150 g di stracchino Olio extra vergine d’oliva Sale e pepe
Dividere il radicchio, dopo averlo lavato e asciugato, in spicchi, ungerli con olio e passarli sulla griglia ben calda, infine insaporirli con sale e pepe. Spalmare le piadine con lo stracchino poi farcirle con il radicchio e lo speck, piegarle in due e cuocerle ancora un minuto per lato, poi servire.
IL CONSIGLIO DEL MAESTRO Vi consiglio assolutamente di provarla, è un pochino più laboriosa, ma il lavoro viene ripagato da una consistenza che si scioglie in bocca, se volte potete aggiungere delle erbe aromatiche come rosmarino e timo allo strutto per una nota aromatica ancora più interessante.
Fonte: https://www.gianfrancoallari.com/category/racconti-di-cucina/
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jangany-accoglie · 2 years
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WFP - Notizie drammatiche dal Sud Madagascar
di Antonio Carrabba, vicepresidente Amici di Jangany ODV
Grave siccità in Madagascar: verso prima carestia del cambiamento climatico al mondo
World Food Program: «La crisi climatica causa la fame» [22 Ottobre 2021]
Dopo il ciclone Batsirai, ecco temuto l’arrivo del ciclone Emnati. Una crisi nella crisi di un Madagascar già povero. Per non dimenticare però la drammatica situazione del Sud vorrei esporre alcuni estratti da articoli che ci ricordano la situazione, con numeri che sinceramente sono variati di molto nelle dichiarazioni dal 2021 ad oggi senza una ragione nota.
Quello che possiamo dire del WFP purtroppo è che non da segni di partecipazione con le realtà associative impegnate sul territorio malgascio con volontari sinceri che, nel piccolo, ci stanno mettendo energia, tempo e anima per raggiungere i più colpiti. Come il WFP stia agendo lo sanno solo loro, i cui bilanci non sono tenuti a pubblicare.
In ogni caso ecco quanto possiamo raccogliere dai loro report.
Secondo il WFP. «Nel sud del Madagascar più di un milione di persone stanno lottando per avere abbastanza da mangiare, a causa di quella che potrebbe diventare la prima carestia causata dal cambiamento climatico». La regione è stata duramente colpita da anni successivi di grave siccità, costringendo le famiglie delle comunità rurali a ricorrere a misure disperate solo per sopravvivere. Alice Rahmoun, responsabile delle comunicazioni del WFP nella capitale Antananarivo, ha detto in un’intervista a UN News che «Il cambiamento climatico ha interrotto il ciclo, colpendo i piccoli agricoltori e i loro vicini. C’è ovviamente meno pioggia, quindi quando ci sarà la prima pioggia, forse possono avere speranza e seminare qualche seme. Ma una piccola pioggia non è una vera stagione delle piogge. Quindi, quello che possiamo dire è che gli impatti del cambiamento climatico sono davvero sempre più forti… quindi i raccolti falliscono costantemente, quindi le persone non hanno nulla da raccogliere e nulla per rinnovare le proprie scorte di cibo».
Alice Rahmoun è stata di recente nel Madagascar meridionale, dove il WFP e i suoi partner stanno sostenendo centinaia di migliaia di persone con un’assistenza a breve e lungo termine, e spiega che «L’impatto della siccità varia da luogo a luogo. Ho visto villaggi circondati da campi secchi e piante di pomodoro che erano completamente gialle, o addirittura marroni, per mancanza d’acqua. In alcune aree sono ancora in grado di piantare qualcosa, ma non è affatto facile, quindi stanno cercando di coltivare patate dolci. Ma in alcune altre aree, in questo momento non sta crescendo assolutamente nulla, quindi le persone sopravvivono solo mangiando locuste, mangiando frutti e foglie di cactus. E, solo per fare un esempio, le foglie di cactus di solito sono per il bestiame; non sono per il consumo umano. La situazione è ancora più grave perché anche i cactus muoiono per la siccità, per la mancanza di pioggia e per la mancanza d’acqua, quindi è davvero, davvero preoccupante».
«Altrettanto preoccupante è la situazione delle famiglie. Le persone hanno già iniziato a sviluppare meccanismi di coping per sopravvivere. E questo significa che, ad esempio, stanno vendendo bestiame per ottenere denaro per poter comprare cibo, quando prima erano in grado di ottenere cibo e nutrirsi con la produzione del proprio campo, quindi sta davvero cambiando la vita quotidiana per le persone. Vengono messi in vendita anche beni di valore come campi o anche case. Alcune famiglie hanno persino ritirato i propri figli dalla scuola. In questo momento è anche una strategia per raccogliere le forze della famiglia nella ricerca di attività generatrici di reddito che coinvolgano i bambini, quindi questo ha ovviamente un impatto diretto sull’istruzione».
La Rete Amici di Jangany, dal 2006 impegnata in iniziative di raccolta fondi per sviluppare progetti di sostegno e per creare legami con le persone del villaggio, diventa ora Organizzazione di Volontariato per continuare con passione e impegno a sostenere progetti di ulteriore sviluppo per il Villaggio di Jangany e iniziative di sostegno per i villaggi limitrofi del Grande Sud.
19 febbraio 2022
Grazie a chi vorra sostenere questi aiuti con offerte a                         AMICI DI JANGANY ODV IBAN              IT59U0306909606100000180363 CAUSALE     JANGANY ACCOGLIE
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personal-reporter · 8 months
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Il grande scalone illuminato di Belgirate 2023
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Tornano le luci e i colori sullo scalone di Belgirate! Belgirate è un delizioso e storico borgo sul Lago Maggiore tra Arona e Stresa. Ville e dimore storiche, dove si è fatta la storia, vera. Personaggi storici, nobili, politici, filosofi, pittori, scrittori e romanzieri di ogni epoca sono passati da qui e da qui hanno preso anche spunto per le loro opere come Stendhal, Manzoni, Fogazzaro, Hemingway. Una delle più belle, particolari e romantiche chiese del lago, come quella dedicata a Santa Maria. Un lungolago piacevole, che offre uno sguardo privilegiato sul lago e che potrebbe veramente raccontare tante storie e che è stato fonte d’ispirazione per tanti. Uno dei posti più particolari di Belgirate è il lungo, ampio scalone che affianca la chiesa e porta nella parte più alta del borgo. Posto lungo la strada statale del Sempione è quasi nascosto alla prima occhiata, spesso sfugge a chi passa di fretta. In realtà è uno dei punti più interessanti e caratteristici del borgo. Lo scalone prende il nome dai Fratelli Cairoli, belgiratesi per ramo materno. E a Belgirate troviamo la seicentesca Villa Cairoli, costruita dai Bono, ricca famiglia belgiratese. Famiglia che diede i natali al Conte Benedetto Bono, primo commissario della Repubblica Cisalpina. Padre di Adelaide, madre proprio dei fratelli Cairoli, protagonisti del Risorgimento. Una dimora che ospitò tra gli altri, anche Garibaldi e molti altri personaggi della vita politica e culturale dell’800. Martedì 29 agosto alle 20.00, si terrà il tradizionale appuntamento con l’accensione dello scalone Cairoli, testimonianza di fede e poesia, con la scenografia creata da centinaia di lumini colorati. L’evento è in concomitanza con i festeggiamenti della Madonna Addolorata, uno dei simboli della cittadina sulla riva piemontese del Verbano. La processione della Madonna Addolorata, protettrice di Belgirate, ha una storia con radice lontane. Risale infatti a circa 300 anni fa, poi venne sospesa durante la seconda guerra mondiale e, dal secondo dopoguerra, si tiene l’ultima domenica di agosto. La chiesa parrocchiale di Belgirate, edificata verso l’anno Mille, sorgeva su un piccolo poggio ed era dedicata alla Purificazione di Maria. Il 1 novembre 1610 Carlo Borromeo fu proclamato santo e a Belgirate nel 1611 iniziarono i lavori per un oratorio in suo onore. Nel 1618 venne completata la cappella maggiore, come ricorda un quadro votivo del 1683 eseguito per ricordare la fine della pestilenza del 1631. Pochi decenni dopo l’oratorio di San Carlo, fu la nuova chiesa parrocchiale, poiché gli abitanti trovavano poca adatta la vecchia per la vita religiosa della comunità. L’arciprete Giuseppe Colombari nel 1715, fece scolpire la statua lignea della Vergine Addolorata come in segno di devozione per la miseria che affliggeva il paese e nel 1753 quattro grandi tele di Giovanni Battista Calzia con episodi della vita di San Giuseppe vennero collocate sulle pareti del presbiterio. Nel 1795 l’oratorio divenne la chiesa parrocchiale e prese il titolo di Purificazione di Maria Vergine e San Carlo. Un grande organo della ditta Bossi di Bergamo, che venne donato dal belgiratese Giuseppe Antonio Conelli, fu installato nel 1846. Nel 1853 il decoratore Carlo De Pedrini, realizzò, per conto di Elena Conelli, la doratura del pulpito e quella della statua dell’Addolorata. Nel 1904 il pittore torinese Luigi Morgari lavorò agli affreschi della chiesa, mentre il decoratore Luigi Secchi realizzò gli stucchi sulle lesene, sui cornicioni, sugli archi e nelle volte delle cappelle, e le cornici che inquadrano gli affreschi. Nel 1940, con arciprete don Francesco Ferri, venne collocato nella chiesa un nuovo portale in serizzo, dono delle benefattrici Valentina Tosi e Giovannina Prini Rossi e nel timpano una grande lapide con la dedicazione a Maria Vergine. Il 22 giugno 1997, furono collocati e benedetti gli amboni e un nuovo altare comunitario in legno di noce realizzati da don Giovanni Cavagna. L’idea di illuminare completamente lo scalone Cairoli, uno dei luoghi più noti della cittadina lacustre, nasce una trentina di anni fa, quando si ponevano dei lumini per le vie del borgo e proprio anche sullo scalone stesso, per la festa grande di Belgirate, quella della Madonna Addolorata, con la relativa processione. E solo da una decina di anni però che l’illuminazione dello scalone Cairoli è diventata sempre più imponente, bella e scenografia con addirittura una serie di disegni, diversi ogni anno, che raccontano il legame di Belgirate con la Madonna Addolorata e la forte fede di questi luoghi sul Lago Maggiore e nel Piemonte. Uno spettacolo davvero particolare, affascinante, con i lumini di vari colori che creano disegni, è una magia che si rinnova sempre diversa ogni anno. E che colpiscono in particolare i turisti che da ogni parte del mondo arrivano a Belgirate. Read the full article
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bat-aldo-azevedo · 2 years
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Unoesc Joaçaba homenageia colaboradores pelo tempo de serviços prestados 20 Agosto 2022 15:10:00 https://otempodefato.com.br/ https://otempodefato.com.br/artigos/unoesc-joa%C3%A7aba-homenageia-colaboradores-pelo-tempo-de-servi%C3%A7os-prestados-1.2442034 A dedicação e o comprometimento dos funcionários da Unoesc foram reconhecidos em uma cerimônia realizada no Auditório Afonso Dresch, na sexta-feira (19). Na solenidade, que foi alusiva também aos 26 anos de credenciamento da Universidade no MEC, professores e funcionários que completaram 10, 15, 20, 25, 30 e 35 anos de serviços prestados receberam uma homenagem. Dirigentes, colaboradores e familiares prestigiaram a entrega das placas alusivas, pelas mãos da pró-reitora acadêmica da Unoesc, Lindamir Secchi Gadler, do pró-reitor de administração, Ricardo Antonio De Marco, do diretor acadêmico, Jovani Antônio Steffani e da coordenadora administrativa, Cleunice Fátima Frozza. Entre os muitos homenageados, destaque para o professor Luiz Carlos Lückmann, que completou 35 anos de trabalho. A Unoesc é mantida pela Fundação Universidade do Oeste de Santa Catarina (Funoesc), que é uma instituição sem fins lucrativos, de direito privado, criada em 1968 pelo Poder Público Municipal de Joaçaba, com a participação da comunidade. Sua identidade comunitária se reflete nas ações que desenvolve nas áreas da educação, saúde, assistência social, tecnológica, ambiental, cultural e de lazer. - É um momento especial de reconhecimento pela competência e empenho dessas pessoas, que ao longo do tempo ajudaram a construir a história da nossa Universidade. Diariamente elas contribuem para que a Instituição seja considerada a melhor, mais bem estruturada e comprometida com o desenvolvimento do Oeste de Santa Catarina - destacou o pró-reitor de Administração, Ricardo Antonio De Marco. Fotos: Mayelle Hall Alessandra de Barros Assessoria de Imprensa Marketing e Comunicação Unoesc Joaçaba (em Santa Catarina) https://www.instagram.com/p/ChgCE-YOCuf/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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tvln · 4 years
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the hills run red / un fiume di dollari (it, lizzani 66)
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qdmnotizie-blog · 6 years
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Faber in amne cudit
  FABRIANO, 24 giugno 2018 – Una questione di millesimi di secondo. Un attimo decisivo, un respiro o forse di meno. Questo lo scarto di tempo che ha permesso a Porta del Piano di trionfare per la quinta volta consecutiva nel Palio dei Monelli.
Un soffio di tempo decisivo, che ha regolato Porta Pisana, “colpevole” di aver fatto scattare con il più piccolo dei ritardi possibili il meccanismo di rilascio del gonfalone.
Al termine grande festa per il fabbretto azzurro Filippo, portato in trionfo e poi lanciato all’interno della fontana Sturinalto.  Sul terzo gradino del podio Porta Cervara e quarta Porta del Borgo, arrivate con leggero ritardo rispetto alle due porte che sono contese fino all’ultimo colpo di martello il Palio del Monelli
Questo uno dei verdetti della serata di ieri, con una piazza gremita che non aspettava altro che gridare la propria passione.
4 infiorate, 1 sola vincitrice
Porta Pisana
59 punti sui 60 disponibili. Con questa votazione Porta Pisana ha trionfato nella “sfida” tra i mastri infioratori. Una vittoria netta, che ha visto i ragazzi in verde trionfare su Porta del Borgo, Cervara e Piano. I giudici di Spello, Cannara e Cupra Montana hanno premiato la qualità del lavoro della Pisana, capace di mettere a terra i fiori in manierà pressoché perfetta e di interpretare il grande lavoro creato sulla carta dagli ideatori del bozzetto.
Tutte le opere infatti derivavano da una serie di bozzetti con otto gruppi di alunni del Liceo Artistico Mannucci di Fabriano dopo mesi di studio sul tema dei fabbri. Quattro quelli vincenti. Il bozzetto di Leonardo Sassi è stato scelto dalla Porta del Borgo, quello di Ruben Gagliardini da Porta Cervara; quello di Sonia Bevilacqua, Antonio D’Angelo e Alice Pallotti da Porta Pisana e l’opera di Nicola D’Alterio, Charlotte Faderin e Veronica Lilli da Porta del Piano.
Queste le 4 sale scelte per ospitare le opere dei maestri dei fiori secchi fabrianesi: per la porta del Borgo ecco l’oratorio della carità, per la Cervara la chiesa dei Giovani, San Filippo, Porta Pisana infiorerà la sua opera all’interno di Santa Caterina e Porta del Piano sarà abbracciata dal chiostro della cattedrale di San Venanzio.
La benedizione degli arnesi
Ma tra la premiazione delle infiorate e la sfida dei piccoli fabbri, la benedizione degli arnesi che stasera saranno al centro della sfida tra i fabbri “senior”. Al centro della piazza il Vescovo della Diocesi di Fabriano – Matelica Monsignor Stefano Russo. Le celebrazioni del Santo Patrono proseguiranno a partire dalle ore 18 con la Santa Messa in onore del patrono San Giovanni Battista con la processione che attraverserà la vie del centro storico. Sempre nella giornata di oggi (dalle 11.30 alle 16.30) l’annullo postale presso la Sede Ente Autonomo Palio.
Il conto alla rovescia è finito: a partire dalle ore 22 di questa sera la sfida del Maglio entrerà nel vivo. Questa sarà la notte dove una delle quattro porte alzerà al cielo il palio di San Giovanni Battista.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FABRIANO / INFIORATA E PALIO DEI MONELLI: TRIONFANO PISANA E PIANO Faber in amne cudit FABRIANO, 24 giugno 2018 - Una questione di millesimi di secondo. Un attimo decisivo, un respiro o forse di meno.
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ultimaedizione · 3 years
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Aldo Moro e la questione della democrazia - di Giancarlo Infante
Aldo Moro e la questione della democrazia – di Giancarlo Infante
Il davvero pregevole intervento di Antonio Secchi di ieri ( CLICCA QUI  ) ha offerto numerosi spunti per interpretare la complessa figura di Aldo Moro. In particolare, per cogliere nella sua spiritualità e nella sua Fede la spiegazione di un’intera vita dedicata all’impegno politico sulla base di una scelta per la libertà e la democrazia d’impronta popolare. Uomo di partito. Sì, fortemente uomo…
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mantruffles · 3 years
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Vini del Piemonte
Vini del Piemonte
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I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
  Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia.   In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
Pinerolese
Rubino di Cantavenna
Ruchè di Castagnole Monferrato
Sizzano
Strevi
Valsusa
Verduno Pelaverga
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joaomurakami · 3 years
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Vini del Piemonte
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I vini del Piemonte: vini piemontesi DOC, DOCG e IGT
I vini del Piemonte sono probabilmente i vini qualitativamente più rappresentativi dell’Italia intera. Il Piemonte annovera infatti tra i suoi vini 7 DOCG ed una cinquantina di DOC.
Ne risulta che i quattro quinti dei vini del Piemonte sono a denominazione di origine controllata o a denominazione controllata e garantita.
La produzione dei vini in Piemonte
I vini piemontesi rossi risultano essere il settanta per cento di tutta la produzione regionale. Tra i vini del Piemonte rossi più rinomati vi sono sicuramente il Barbera, il Barolo, il Dolcetto d’Alba, il Moscato, il Grignolino ed il Nebbiolo. Praticamente quasi tutti i vini della regione sono famosi in tutto il mondo! La gran parte dei vini in Piemonte viene coltivata nelle tre zone del Monferrato: il Monferrato Astigiano, il Monferrato Casalese e l’Alto Monferrato. Altre zone di interesse sono i Colli Tortonesi situati al confine con la Lombardia vicino all’Oltrepò Pavese.
Vini Piemonte: dal 1997 la DOC
La DOC Piemonte è entrata in vigore dal 1997 e comprende i vini Spumante, il Barbera e la Bonarda, il Grignolino, il Brachetto, il Cortese, il Chardonnay, il Moscato, il Pinot Bianco, il Pinot Grigio, il Pinot Nero, il Pinot Chardonnay. Tutte queste tipologie nel caso in cui provengano da vigneti iscritti all’albo dei vini del Piemonte DOC possono essere coltivati in tutta la regione.
  Vini piemontesi , le denominazioni recenti
I vini del piemonte che hanno raggiunto soltanto ultimamente lo status di denominazione di origine controllata sono: Albugnano, Alta Langa, Canavese, Colline Novaresi, Cisterna d’Asti, Coste della Sesia, Colline Saluzzesi, Langhe, Freisa di Chieri, Monferrato, Loazzolo, Roero, Pinerolese, Roero, Verduno Pelaverga. Da tutto ciò possiamo dedurre come sia imminente il giorno in cui tutto il territorio del Piemonte produrrà vini DOC e DOCG a testimonianza della straordinaria tradizione vinicola di questa regione.
Normalmente i vini italiani ricevono il nome dalla località di produzione o dal vitigno; rare volte ne hanno uno di fantasia.   In Piemonte il più celebre vino italiano d’arrosto, il Barolo, si intitola a un piccolo comune del Piemonte occidentale situato in provincia di Cuneo. È fatto con l’uva nebbiolo raccolta nei vigneti di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba, La Morra, Verduno e in parte dei territori di Manforte d’Alba, Novello, Grinzane Cavour, Alba.
Appartiene alla specie dei vini tardivi e difatti raggiunge la maturità dopo almeno quattro anni d’invecchiamento in botti di rovere; allora acquista un colore rubino marezzato d’arancio, un tenore alcoolico medio di tredici gradi, un sapore asciutto, morbido e vellutato, un profumo di violetta con sottofondo di rosa.
Il vino Barolo è Ricco di ferro e di fosforo, produce effetti gerontologici e onirici; longevo, consegue una straordinaria finezza con il passare degli anni e per tale ragione in qualche famiglia di produttori si usa ancora, alla nascita del primogenito, conservarne delle bottiglie da sturare poi quand’egli si sposerà o in altre occasioni importanti della sua vita.
Sul vino Barolo se ne raccontano tante e tra l’altro si dice che sia piaciuto a Giulio Cesare, a Pio VII, a Enrico II di Francia; indubbiamente i predetti personaggi avranno bevuto del rosso dei vigneti di La Morra, non Barolo perché questo vino nacque ai primi dell’Ottocento ad opera del marchese Carlo Tancredi Falletti.
Fino al 1840 non molti a Torino, allora capitale del regno di Marchese Falletti piemonte vino
Sardegna, avevano avuto modo di gustarlo; lo stesso Carlo Alberto ne aveva sentito soltanto parlare e un giorno, incontrando a corte Giulia Vittorina Colbert vedova del Falletti, l’apostrofò in tono scherzoso:
« Marchesa, sento celebrare il vino delle vostre tenute; quand’è che me lo farete assaggiare?».
E la Colbert di rimando:
« Vostra maestà sarà presto accontentata».
Le battute sono un po’ fumettistiche, ma si vede che a quei tempi le personalità di rango interloquivano come fanno i protagonisti dei moderni fumetti. Il re, qualche settimana dopo, si vide arrivare un cospicuo assaggio e fu tanto conquistato dalla grazia del vino da comperare il castello di Verduno con le annesse vigne. Successivamente Vittorio Emanuele II acquistava altri vigneti e cosi il Barolo diveniva il re dei vini e il vino dei re.
Dove il Marchese Falletti sia andato a prendere i vitigni per i suoi impianti non si sa; possiamo supporre che li abbia cercati in Borgogna oppure a Gattinara nel Piemonte occidentale. Di Gattinara è noto sin dal diciassettesimo secolo l’omonimo vino rosso prodotto da maglioli borgognoni. Li aveva inviati il gattinarese cardinale Mercurino Arborio all’epoca in cui, quale cancelliere di Margherita d’Austria, era presidente del Parlamento della Borgogna.
Il vitigno del Gattinara ebbe il nome di spanna ( corruzione dialettale di Spagna) in seguito a una curiosa coincidenza: esso cominciò a diffondersi quando il cardinale Arborio assurse all’alta carica di gran cancelliere dell’imperatore Carlo V e i contadini credettero che avesse mandato i vitigni dalla Spagna. Gattinara e Barolo in effetti sono due vini gemelli pur con caratteri distinti dovuti alle differenze ambientali.
L’uva nebbiolo coltivata a Barbaresco, Neive e Treiso dà il Barbaresco; a Santo Stefano Roero, Vezza d’Alba, Corneliano d’Alba e Guarene, il Nebbiolo nei tipi asciutto e dolce; a Carema, il Carema.
Il Barbaresco è fratello minore del Barolo.
Asciutto con leggera vena amabile, tra i dodici e i tredici gradi, denunzia uno stoffa più delicata; viene a maturazione dopo i tre anni e sa di violetta. Il Nebbiolo si rivela piuttosto tardivo e i viticoltori preferiscono approntarlo nell’edizione dolce. Il Carema, di un rosso volgente al granato e di un profumo di rosa sbocciata, ha bisogno di una stagionatura di quattro anni, due in botte di rovere o di castagno, due in damigiana.
Tutti i vini rossi sopra elencati, ad eccezione del Nebbiolo dolce, rientrano nella categoria dei vini d’arrosto, come vi rientrano quelli a base di uva spanna: il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Boca, il Lessona di Lessona, Vigliano Biellese e Valdengo, il Fara, il Caramino di Briona, il Mottalciata. Anche in questo secondo gruppo tra vino e vino esistono differenze di sapore e profumo dovute all’uvaggio.
Con la parola uvaggio si indica la mescolanza, realizzata secondo determinate percentuali, di uve diverse che vengono ammostate contemporaneamente. Tale pratica enologica, naturale e antichissima, differisce dal cosiddetto taglio, una pura e semplice commistione di mosti o vini.
Dalla mescolanza delle uve nascono profumi composti come quello di mammola e fragola nel Fara, di viola, fragola e rosa nel Ghemme, di melagranata nel Boca. Il rosso più rappresentativo e importante del gruppo è il Gattinara, non soltanto per la primogenitura, ma anche per i pregi intrinseci: onirico, gerontologico, ha una stoffa principesca, un ” bouquet ” di violetta e lampone, un tenore alcoolico sui dodici gradi, un gusto asciutto e vellutato con vena di mandorla amara quando viene da spanna pura, lievemente salato se alla spanna si aggiunge un dieci per cento di uva bonarda. Arriva alla maturità dopo un invecchiamento di quattro anni mantenendosi vegeto e prestante fìno alla più tarda età.
Il vino Sizzano piaceva tanto a Cavour che lo faceva servire anche nei pranzi diplomatici, il Ghemme era molto caro ad Antonio Fogazzaro il quale lo ricorda nel romanzo ” Piccolo mondo antico “.
Dopo tanti vini con quarti di nobiltà, eccone finalmente uno di estrazione popolana, il Barbera. La differenza tra un Barolo e un Barbera si nota subito nel mescerli: il primo raggiunge il calice senza chiasso, in modo composto, al massimo esprime qualche piccola bolla, il cosiddetto ” perlage “ dei vini aristocratici; il secondo manifesta una rumorosa e gagliarda irruenza, borbotta, spuma, e se versato in maniera maldestra trabocca dal bicchiere.
Il vitigno prospera ovunque in Piemonte sapendosi adattare a qualsiasi terreno, ma solo in determinate zone delle province di Asti, Alessandria e Cuneo riesce a dare un prodotto di classe.
Questo vino rosso si muove tra i dodici e i quattordici gradi, rivela un profumo misto di marasca e lampone, una stoffa vigorosa, un sapore asciutto talvolta con vena ammandorlata, un colore rubino gioiosamente brillante, una schiuma violacea tanto rapida a formarsi quanto sollecita a disciogliersi.
Un anno di botte ed è pronto; conosce però l’arte d’invecchiare il vino e con la stagionatura si trasforma in bevanda degna di accompagnare l’arrosto. A seconda della zona di produzione, il Barbera vecchio appalesa alcuni aspetti del suo carattere: nell’Astigiano e nell’Alessandrino resta quello che è, con una veste più pronunziata di lampone; nel Cuneese tende ad accostarsi al gusto del Barolo, insomma baroleggia, giusto il linguaggio dei tecnici.
La collana dei rossi piemontesi comprende inoltre il Dolcetto, che non è dolce come il suo nome lascia supporre, il Frèisa asciutto o amabile, frizzante, con vago sentore di viola e infine il nobile Grignolino dalla stoffa sottile e dall’odore di rosa; purtroppo non è longevo. Quest’ultimo godeva la simpatia della regina Elena.
Il Dolcetto, fermentato sulle vinacce del Barolo, prende il nome di Barolino; fermentato sulle vinacce del Barbera si dice Barberato; comunque fatto, rimane sempre da pasto.
Il miglior Frèisa proviene da Chieri; la zona del Grignolino abbraccia pochi paesi dell’Astigiano oltre a piccole contrade dell’Albese e del Casalese.
I bianchi di tipo sapido, autoctoni della regione, sono due: il Cortese dell’Alessandrino e-l’Erbaluce dell’ex-circondario di Ivrea e delle zone vercellesi ad esso confinanti. Ambedue secchi con vena amara, freschi e moderatamente alcoolici si prestano ad accompagnare il pesce.
Il Piemonte allinea quattro ottimi vini da seconde mense: il Nebbiolo dolce, il Brachetto, il Passito di Caluso, il Moscato d’Asti.
Il Nebbiolo dolce giunge alla beva molto prima dell’asciutto; spumante rosso naturale, possiede una bella gradazione alcoolica, odora di violetta e con gli anni si decolora dal rubino chiaro all’ambrato scuro.
Altro spumante rosso è il Brachetto, tenore alcoolico di tredici gradi, profumo di rosa; tipico delle province di Asti, Alessandria e Cuneo, trova ad Acqui Terme il suo migliore centro di produzione. Il Passito di Caluso discende da uva erbaluce lasciata ad appassire sopra graticci per tutto l’inverno in appositi locali; risulta assai costoso dato che per ricavarne cento litri occorrono ben cinquecento chili di uva, senza contare l’invecchiamento di cinque anni. Ambrato scuro, alcoolico, delicatamente dolce, pieno, vellutato, aromatico, armonico, va annoverato tra i liquorosi di lusso.
La zona tipica del Moscato d’Asti, dolce e poco alcoolico, abbraccia l’ Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese; quello di Canelli, di Santo Stefano Belbo e di Strevi raggiunge un maggior grado di bontà. Da questo Moscato si ottengono l’Asti spumante e il rinomato vermut di Torino.
Lista dei vini Piemontesi
Asti
Barbaresco
Barbera
Barolo
Brachetto d’Acqui
Carema
Colli tortonesi
Cortese di Gavi
Dolcetto d’Alba
Erbaluce di Caluso
Freisa
Gattinara
Ghemme
Grignolino
Loazzolo
Moscato d’Asti
Nebbiolo d’Alba
Roero arneis
Albugnano
Alta Langa
Barbera d’Asti
Barbera del Monferrato
Boca
Bramaterra
Canavese
Cisterna d’Asti
Collina Torinese
Colline Novaresi
Colline Saluzzesi
Cortese dell’Alto Monferrato
Coste della Sesia
Dolcetto d’Acqui
Dolcetto d’Asti
Dolcetto delle Langhe Monregalesi
Dolcetto di Diano d’Alba
Dolcetto di Dogliani Superiore
Dolcetto di Dogliani
Dolcetto di Ovada
Fara
Gabiano
Grignolino d’Asti
Grignolino del Monferrato Casalese
Langhe
Lessona
Malvasia di Casorzo
Malvasia di Castelnuovo Don Bosco
Monferrato
Piemonte
Pinerolese
Rubino di Cantavenna
Ruchè di Castagnole Monferrato
Sizzano
Strevi
Valsusa
Verduno Pelaverga
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