di Pierpaolo Mandetta:
Oggi voglio parlare di un tema importante che riguarda migliaia di donne (ma anche uomini) che stanno male, ma che per la nostra società è ancora ritenuto un disagio di poco conto, da sopportare.
Il carico mentale.
Poche ore fa sono rimasto chiuso fuori casa.
Non mi era mai successo. Sono tornato dal podere, ho svuotato una scatola di fagioli in un cuonzo, un filo d’olio e ho pranzato come un operaio russo dell’80. Poi ho lavato i piatti di due giorni, ho messo a posto i sacchi della spazzatura da portare fuori stasera, mi sono rivestito e sono uscito meccanicamente di casa per tornare al podere. E zac. Cazzo! Avevo lasciato le chiavi dentro.
Proprio oggi che Max è a Milano per lavoro, quindi non avevo neanche le sue.
Io, che sono quello precisino, scrupoloso e concentrato. Com’è potuto succedere?
Per fortuna il proprietario di casa aveva una copia delle chiavi, e quindi il lieto fine è arrivato. Però in quel momento, lì davanti alla porta chiusa, sulle scale, ho esitato. Mi tremavano le mani, e sentivo come se la mia testa si potesse frantumare perché troppo piena. Sentivo che avrei potuto piangere e gridare fino a graffiarmi ma gola, una reazione esagerata per un episodio così banale. E allora ho avuto un crollo. Il bisogno che tutto il corpo cadesse a terra come una camicia, ma fatta di cemento. Una camicia estenuante. E ho pensato “adesso preparo una valigia e me ne vado”. Ve lo giuro, è stato il mio primo istinto. E ho capito così di essere al limite. Mentalmente.
Al limite del carico mentale, della malattia del multitasking, del peso delle responsabilità che affligge spesso un componente della coppia, soprattutto la donna. E stanco di quanto il problema sia ancora ritenuto una lamentela di chi non è disposto a sacrificarsi abbastanza, come se i sacrifici fossero una bella cosa. Un capriccio, come spesso succede per i disagi psicologici.
Chi esprime sofferenza viene preso in giro. E uomini e donne parlano ancora delle casalinghe come di gente che in fin dei conti “non fa un cazzo”. Bella vita, beata lei, fortunata a stare in casa.
Ma andiamo con ordine.
Avete presente che nei paesini si narrano quei pettegolezzi della serie “un giorno è uscita pazza e ha lasciato il marito”? Oppure “ha mollato la famiglia ed è scappata con uno. Ha abbandonato i figli!”. O ancora “non si sa perché, non vuole più parlare con nessuno, si è trasferita”.
In queste storie, “lei” è sempre descritta come una donna che fino a un certo punto si è comportata con dedizione, apparente spensieratezza, e regolarità. Una donna regolare, che fa le stesse cose ogni giorno senza proteste, anzi con piacere. E che poi una mattina ha avuto un corto circuito.
La pazza del villaggio. La divorziata. La strana. La stronza ribelle.
Punto. Lei non è una persona, è un dovere che non segue più il suo copione. Nessuno si chiede cosa abbia scatenato simili reazioni, perché non ci sono motivi che scusino l’aver lasciato il proprio ruolo di moglie o madre.
Eppure è possibile che dietro quel gesto di follia ci sia semplicemente un accumulo di stress divenuto insopportabile. E che quella che sembra una fuga sia in realtà una salvezza.
Le donne che “scappano” da una condizione ingestibile sono donne che si mettono in salvo. E uno dall’esterno penserà ma come, e i figli? Se ami tuo marito, non te ne vai. Se vuoi bene ai tuoi figli, non puoi lasciarli. Ma è una stronzata retorica. Quando lo stress, la disperazione, il senso di soffocamento diventano massimi, può subentrare la depressione, o problemi mentali più feroci. Possono succedere le tragedie che vediamo al tg. Dimenticare un figlio in auto, posare distrattamente la candeggina nel frigo. E allora, preferire la propria salute all’infelicità momentanea della famiglia diventa un atto di coraggio, di amore per se stessi.
Vuol dire mettersi in salvo.
Ma da dove viene il carico mentale?
Per la nostra orribile cultura, la donna nasce casalinga. E ricordiamo ai gentili spettatori che le faccende di casa sono un lavoro. Fisico, mentale, che richiede ore. Come un qualsiasi altro mestiere, ma questo non è retribuito.
Con l’avanzare dei diritti e dell’emancipazione, la donna non si è equiparata all’uomo, ma ha solo aggiunto più doveri: oltre a quello della famiglia, anche il lavoro. Mentre l’uomo, in una società maschilista, restava al suo posto.
L’uomo lavora e porta a casa i soldi, e non ha alcuna aspettativa sociale da soddisfare oltre a questo ruolo. Sì, deve inseminare la moglie, ma poi finisce lì, visto che il mondo si aspetta comunque che a crescere i figli sia lei. La donna, invece, deve essere moglie, madre, una brava domestica, e in più coniugare un lavoro pagato per contribuire alle spese.
Eppure è il 2023. Si parla di femminismo, Netflix propone mille titoli sull’abbattimento degli stereotipi, e i giovani d’oggi sembrano così sensibili. Allora perché lo stress mentale colpisce molte donne?
È semplice: perché siamo tutti figli di quel modello familiare, ancora attuale. Di mia madre, di mia nonna, delle nostre madri. Che hanno sofferto, hanno sacrificato tutto il loro tempo, hanno gestito ruoli che dovevano invece essere condivisi, e infine ci hanno trasmesso quell’educazione. Perciò, molti bambini hanno appreso che le donne soddisfano i bisogni, e molte bambine hanno imparato che dovranno occuparsi di svariati compiti senza fiatare. E questo insegnamento ha radicato nei nostri sentimenti, nei sensi di colpa, nelle frustrazioni, nelle aspettative degli adulti che siamo oggi, nella comunicazione politica, nei cartoni animati, nei luoghi comuni. Formando nuove relazioni, nuovi matrimoni, che sono freschi all’apparenza ma antichi nelle dinamiche.
Adesso sarebbe ingiusto parlare direttamente dell’uomo che amo, come fosse un imputato. Quindi alleggerisco il discorso e invento una storia.
Mio marito si chiama Matteo. È l’uomo migliore che potessi aspettarmi in una società così complessa ed egocentrica. Lui è uno degli ultimi romantici, è fedele, è molto sincero. Un compagno di vita.
Però è un uomo. E forse è stato un bambino che ha vissuto i modelli genitoriali in quel modo lì, che uno lavora soltanto e l’altra lavora e pulisce casa.
A questo punto tutti ci facciamo una domanda ovvia: conosciamo bene i nostri fidanzati, i nostri mariti. Sappiamo chi sono, prima di andare a vivere insieme. Come e cosa pensano. Allora come cazzo si fa a partire con una relazione splendida e a finire per interpretare i tristi ruoli di mamma e papà, se ci siamo ripromessi di non farlo?
Io penso che sia colpa dell’educazione, perché ciò che assorbiamo da piccoli emergerà solo quando ci ritroveremo nelle dinamiche di coppia della casa, rievocando quella in cui siamo cresciuti.
Succede per caso. Con piccoli eventi innocui. Per esempio, a me piaceva tanto cucinare per lui. Era uno stereotipo, quello della mogliettina, ma uno dei due doveva pur farlo, e per me era una forma d’amore. Solo che poi cucini oggi, cucini domani, e ti ritrovi incastrato nell’obbligo di farlo. E non farlo ti fa sentire in colpa. E poi c’è lui, che lo fa poco, perciò quando glielo chiedi non si tira indietro, ma per cucinare ti mette la cucina sottosopra. Perché tu hai il tuo metodo rodato, sai che poi dovrai lavare, e allora cerchi di usare meno pentole, di stare attento alle macchie, di abbassare la fiamma per consumare meno, magari sciacqui subito lo scolapasta così l’amido non si incrosta. E allora lui cucina entusiasta, e dopo è un macello, quindi gli suggerisci di stare attento al gas, di non versare l’acqua sul piano cottura, di sciacquare le latte del sugo altrimenti puzzano, e lui si snerva perché si sente rimproverato e odia prendere ordini. Lui ha il suo metodo.
Ed è così che brevetta il suo nuovo modo per fare sempre le cose alla cazzo di cane. Il suo metodo.
Be’, anche io ho il mio. Chi stabilisce quale sia giusto? Eh…
Così, se lasciarlo cucinare vuol dire il doppio del lavoro poi per rimettere a posto, inizi a dire vabe’, lascia stare amore, faccio io.
E quello è l’inizio della fine. Faccio io.
Chi lo diceva? Sì, mia madre. Anche tua madre, tu, che leggi. Faccio io. Lo so che lo diceva. Faccio io vuol dire da qui in avanti non preoccuparti più.
E così, da un gesto d’amore, si passa a un compito. Io divento più zelante nelle faccende domestiche, lui più spensierato. Si accomoda l’idea che preparare la cena sia il mio rituale. Di rado mi chiede se deve pensarci lui, quando mi vede molto stanco. Ma non si abbasserà mai a seguire i miei consigli, perché si sentirebbe umiliato. Perciò macchia il pavimento, il sale finisce sotto il mobile, pentole ovunque, ditate di olio.
Nell’arrabbiarmi mi sento mia madre. In che modo assomiglio a lei? Nello stesso modo in cui lui si comporta da adolescente. Se dopo avermi inchiavicato la cucina, lava anche i piatti, allora è il mio compagno. Ma se fa “a modo suo” e mi lascia quaranta pentole sporche, allora è mio figlio.
Con questa dinamica di compagno/figlio, tutto va a puttane.
Se la casa è sporca e va pulita, lui dice ma sì, che fa, riposati, ci pensi un altro giorno. Non è che dice amore, ci penso io. No. Te la risolve dicendo che quel bisogno non esiste. Quindi si sottrae a un dovere. E allora pulisco casa come sempre, ma con quel tocco di rancore e veleno che mi intossica la giornata.
Ogni tanto lui passa pure l’aspirapolvere, ma senza tralasciare il brevetto “a modo mio”. Che vai a guardare e la zozzima sta lì, bella evidente. E di nuovo non gli posso dire nulla, se no litighiamo e lo stresso e lo esaspero e non sono mai grato.
Quindi cucino. E pulisco casa. E la spesa. Perché se cucini, sai ciò che manca. Altrimenti non lo sai.
Poi c’è il bonus: fare una spesa decente, pensando a un’alimentazione sana, alle verdure, al variare coi pasti. Questo qui è un pensiero che dall’esterno sembra una sciocchezza, invece è carico mentale. Vuol dire programmare ogni cazzo di giorno della settimana in un colpo solo, pensando a cosa cucinare oggi, domani e così via, sapendo di dover variare tra carne, legumi, pasta, verdure. Spazi mentali.
Come la risolve lui? “Amore, che devo prendere?”. E io gli devo scrivere la lista. Questo vuol dire che non alleggerisce la mia mente, ma mi libera solo dell’azione di fare la spesa, lasciandola comunque un mio problema. Grazie al cazzo.
Quando invece fa la spesa senza avvertire, soddisfa più che altro le sue voglie. Se ha voglia di uova al sugo, compra la salsa, e magari venti cioccolate alle nocciole per dopo cena. Stop.
Poi ci sono le bollette. L’affitto. La lettiera dei gatti, il veterinario, le pipette. Le visite mediche per noi, che prenoto io. Lui invece non ha problemi a filare in farmacia. Adora acquistare subito le medicine, perché non deve soffrire di mal di testa neanche per cinque minuti. Poi le posa sul comodino, assieme a tutte le altre. Io ho organizzato due cassetti per i farmaci, ma lo trova scomodo. Preferisce averli tutti spalmati lì dove può vederli, tra la polvere e le monete da venti centesimi, per mesi. Anche se il prossimo Moment lo prenderà l’anno prossimo, quando si accorgerà che è scaduto e allora andrà a prendere altri farmaci, che di nuovo getterà sul comodino assieme a quelli scaduti.
Se glielo faccio notare, si altera come io facevo con mia madre a sedici anni. È il suo modo di tenere in ordine e non devo rompere il cazzo. Per il resto, ci penserà domani.
Una volta litigammo per la spazzatura. In realtà tante volte. Succede quando io esterno stanchezza. Gli dico che non ce faccio più, e allora lui, per senso di colpa, reagisce con rabbia e stabilisce “bene! Da domani penso io alla spazzatura!”. L’eroe che salva il mondo, la grande impresa. Che invece dovrebbe essere una naturale divisione dei compiti.
E ovviamente dopo tre giorni si è già rotto il cazzo di ricordarsi quand’è che si butta la plastica e quando l’organico. Perché questo è un carico mentale, non è molto piacevole. E così ritorno al mio corso, a tenere a mente che di lunedì c’è la plastica.
Piccola nota buffa. A lui piacciono le bevande in vetro. Solo che il vetro, a differenza della plastica, va portato di sotto, nel secchio. Invece il principino si scola le sue fottute gassose e lascia le bottiglie lì, tutte carine e allineate, accanto al forno. I suoi trofei. Non scende a buttarle manco se questo potrebbe determinare la pace in Ucraina. Tra mille anni, gli alieni le troverebbero lì, impolverate, il nostro cazzo di reperto archeologico, tutte le sue bottiglie di gassosa.
C’è un aspetto, tra tutti, che si adopera per consolidare questi ruoli tra noi. I doveri, i rancori e libertà di non preoccuparsi. Ed è il retaggio antico del chi porta i soldi a casa.
Nel nostro caso, lui è quello stipendiato. Qualcuno, alla fine del mese, gli dà del denaro e certifica dunque il suo lavoro. Lo rende reale, tangibile.
Nessuno lo fa con me. Significa che tutti i lavori mentali e fisici dentro e fuori casa non esistono. Ed è così che diventano dovuti. Diventano assodati. Diventa impossibile lamentarsene. Non è qualcosa che puoi togliere, sono le basi. Puoi solo aggiungere. E io faccio anche quello.
Mi occupo del podere. Ma come, e lui non se ne occupa? Ma certo. Ma qui si tratta di carico mentale. Che non si limita al fare, all’agire. Si tratta di pensare, di occupare uno spazio della mente per un’ansia, una data, un problema, un’urgenza, una telefonata, un dettaglio.
Programmo le potature, i trattamenti, tutte le migliorie del pollaio e della tenuta. Nuovi spazi, aiuole, alberi. Nuove idee per l’ospitalità. Ma mi preoccupo pure di quel tubo che perde, la rete rotta da cui possono entrare le volpi, gli afidi sul limone, lì ci vorrebbe una panchina, lì c’è troppo sole, il vento ha spezzato un palo, il decespugliatore, il tagliasiepe, l’irrigazione, l’orto, le semine in serra.
E lui non mi sostiene in niente? No, certo che partecipa. In moltissimi compiti. Ma prima di ognuno c’è la fatidica domanda: “amore, posso fare qualcosa?”. E nella mia testa vorrei solo rispondergli “sì, andare a fanculo”. Perché se i compiti devo organizzarli mentalmente io e poi affidarglieli, allora mi sta solo aiutando, ma non mi alleggerisce. Il mio stress resta lì. Quel che dovrebbe fare è invece assumersi la responsabilità, togliendo a me il peso di alcuni pensieri.
Così un pensiero. Dieci pensieri. Cento pensieri.
E allora fatico a dormire. Prendo il Brintellix. Convivo con l’ansia, che mi convince che c’è sempre un motivo per essere in allerta. Sono intrattabile. Sono gonfio, debole, con ossa doloranti. Sono irascibile. Vorrei quello e poi non mi piace. Sono la pazza di casa.
E quando sono molto, molto stanco, gli chiedo di aiutarmi. Invece lui lavora. Lo dice così, con convinzione, io lavoro!, quasi allibito che io non capisca che lui sta già facendo il massimo. Ha il suo mestiere pagato, che gli occupa l’intero spazio utile di carico mentale.
E allora mi arrabbio. Mi sento solo. Uno straccio logoro. Di aver sbagliato. Di non farcela. Mi sento perso e sopraffatto. E lui si snerva nel vedermi così, si sente inutile, di non riuscire a rendermi felice, di essere maltrattato e ossessionato, e allontanato.
E nelle coppie in cui entrambi sono stipendiati, perché i doveri ricadono comunque su di lei? Be’, perché per la società è ancora umiliante che un uomo svolga compiti “da donna”.
Pensateci. Ci sono centinaia di chef e influencer maschi che preparano piatti sui social. Ma chi commenta? Le donne. Gli uomini cucinano solo per mestiere. A casa, col cazzo che lo fanno.
Non parliamo della vita sessuale. Quante volte fidanzati e mariti si lagnano delle loro donne che non gliela danno più? Sorpresi, poi. Non ci arrivano proprio, che dopo cinquemila cose a cui pensare, ansie e livori, tu a fine giornata non hai tutta ‘sta voglia di fare un pompino all’uomo che ogni giorno ti chiede “che si mangia stasera?”.
No, no. Loro sono come in quei film con Massimo Boldi. Che lui è un cofano spelacchiato coi mutandoni a quadri, ma si aspetta che la modella di turno impazzisca di voglia per lui. Così ti vogliono. Devi fare i servizi, devi lavorare e alla fine devi pure impazzire di carica erotica per loro.
Infine ci sono i viaggi. Lui viaggia per lavoro, sicuramente sarà successo anche a voi. Un’altra merda di situazione che lo convince che, siccome al ritorno è stanco, può pretendere di tornare in un ambiente confortevole. Quindi si aspetta che io sia la Penelope del cazzo, che attende il marito con le mani incrociate al petto, pronta a baciarlo e a stendergli il tappeto. Perché dopotutto lui viaggia e si affatica, io invece resto qui a grattarmi la fessa e a farmi idromassaggi. Non pensa che senza di lui viene meno perfino quel timido aiuto che mi dava.
E concludo. Con pochi ingredienti diluiti nel tempo, una bella coppia moderna torna indietro al secolo scorso. A quando ogni faccenda era un obbligo imposto dall’alto. A quando invece di comunicare si preferiva urlare. A quando si sognava di volare via dalle difficoltà. A quando si chiedeva aiuto troppo tardi. A quando il dolore si manifestava solo con le accuse.
Il carico mentale è uno di quei problemi sociali che esistono anche se li banalizziamo o non affrontiamo. Distrugge le coppie, cancella l’amore, istruisce nuovi figli a replicare comportamenti sbagliati nelle relazioni.
È lì, colpisce molte donne, colpisce ugualmente tanti uomini, a seconda del modello di famiglia che ci ha cresciuti e un po’ condannati al ruolo di chi si accolla il mondo sulle spalle.
Potrei chiuderla con una melassa che restituisca un po’ di buon umore. Con la raccomandazione di dialogare, di esporre con coraggio i propri sentimenti, anche quelli dolorosi. Ma la verità è che potrebbe non bastare. E non è colpa tua, non è colpa sua.
Il patriarcato è dentro tutti noi da tanti secoli. La maggior parte delle persone ci convivono, sapendo che qualcosa di putrido sta rosicchiando le loro vite ma incapaci di riconoscerlo. Altre ne restano schiacciate e annullate. Altre fuggono.
In nessun caso è una sconfitta o una colpa. In nessun caso possiamo immaginare quanta disperazione si nasconda dietro i sorrisi di ogni giorno o a scelte plateali.
Però, quando sentiamo di quella donna che da un giorno all’altro è uscita pazza e ha mollato tutto, potremmo non giudicarla. Forse si è solo salvata la vita.
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