Il punto in cui si smette di cercare
e ci si dispone a essere trovati,
qualcosa ama il numero dei miei capelli
non sa nome né storia
ma ha memoria di ogni singolo respiro
ama i battiti nella notte
i denti e i pugni stretti
ama lo spalancarsi delle braccia
nell’affidamento, il precario equilibrio
sull’orlo dei precipizi, e i passi oscillanti
sul lago appena ghiacciato.
Ti salvo. Salvo di te il soccorso
e la spinta, l’immisurabile
e il limite. Mi lascio accogliere
con la vigile mutezza
dei piccoli e dei selvatici.
Caduta, ripresa.
Ci sei.
Chanda Livia Candiani, dalla raccolta di poesie "Pane del bosco".
Non è proibito volere la tenerezza, volersi unici per qualcuno, chiedere: “mi vuoi bene?” è come chiedere: “ci sono per te? Sono al mondo? Resti con me, a fare mondo insieme?” Che male c’è? Purtroppo abbiamo il mito dell’autonomia, dell’orgoglio, del faccio tutto da me.
Io ho bisogno degli altri e questo bisogno mi fa paura, ma lo sento lo stesso. Siamo interdipendenti, come lo è la pioggia dalla terra e dalle nuvole, come gli alberi dalle radici e dal cielo, come gli animali dal bosco e dagli altri animali, come tutto fa parte di tutto. Un lavoro a maglia è l’universo e ognuno di noi è un punto: che male c’è, se chiediamo all’altro punto, di fare maglia insieme? Se non lo facessimo, al nostro posto, ci sarebbe un buco.
Dove ti sei perduta
da quale dove non torni,
assediata
bruci senza origine.
Questo fuoco
deve trovare le sue parole
pronunciare condizioni
di smarrimento dire:
«Sei l'unica me che ho
torna a casa».
Qui accadono molte minuscole vicende
iniziano all’alba
si concludono la notte
o forse proseguono nell’ombra
colpendo forte il cuore ingenuo
di chi sogna. Qui i venerdí
sono come lunedí piú stanchi.
Gli alberi non contano a settimane
ma a vento pioggia luce e ferite
circolari. Qui abita il tempo
e lo spazio lo circonda come può
con corrispondenza di stagioni
crescite e morti insignificanti
e prodigiose. Qui mi appiglio
per abitare senza darlo a vedere.
Chandra Livia Candiani, dalla raccolta di poesie "Pane del bosco".
Niente può sanare tutto e tutto collabora a sanare tutto. Forse non saremo mai totalmente sanati, ma impariamo a star bene con le ferite, a portarle come fiori all’occhiello, non medaglie, ma fiori e collane, bellezze sacre perché oscure, misteriose. Le ferite ci fanno unici e insieme parti di un tutto costantemente esposto alla ferita. Se non vogliamo essere feriti, come possiamo entrare in relazione? Chiedere all’altro di non farci male e insieme accettare di essere messi a rischio e di mettere a rischio l’altro è la relazione. Nessuno può davvero risparmiarmi e io non posso risparmiare nessuno. Sapere che feriamo anche noi e non solo siamo feriti è un balzo nella gioia della vera fratellanza e sorellanza: eccomi qua, con le mie mani vuote, diventeranno pugni, ti graffieranno, e tu farai lo stesso, ma non si armeranno, te lo giuro e ti giuro che urlerò “Ahi, ahi!” quando mi farai male e che smetterò di ferirti quando urlerai tu, quando mi avvertirai, perché ti farò male solo per sbaglio, per paura, mai per decisione consapevole, te lo giuro. Lasciamoci graffiare e avvertiamoci a vicenda. Il male è un maestro di tenerezza.