Capitolo V
Non riesco ad abbassare lo sguardo.
L’affresco sul soffitto del corridoio principale del campus attira la mia attenzione per la sua maestosità. E’ curato al punto di sembrare nuovo, è come se mi stesse permettendo di tornare indietro di secoli e avere il privilegio di essere la prima persona al mondo a vederlo.
Due ragazze praticamente identiche mi squadrano, con le loro minigonne nere e due sigarette, sottili come loro, trattenute tra indice e medio. Ovviamente, sono troppo preso da altro per degnarle di troppe attenzioni.
Passo davanti al bar dell’università, un cubo pieno di vetrate gigantesche e pareti rosse. Ricorda vagamente una tavola calda anni ’50, e mi basta intravedere il cartellone dei prezzi per rassicurarmi che sono ancora fuori posto in questo Paese delle Meraviglie della giovane élite zaricciana.
Continuo a ignorare il telefono, che vibra da mezz’ora.
Quando noto davanti a me una bacheca di annunci, mi avvicino. La superficie in legno è tutta rovinata, con diversi fogli mossi dal vento al punto di stropicciarli, se non addirittura strapparli. Numeri di telefono ovunque, pubblicità di eventi e di stanze in affitto a prezzi stratosferici… mi passa per la testa l’idea di lasciare un’implorazione scritta riguardante il mio desiderio di lavorare a Zaricci, ma per una ragione o per l’altra sento come se fossi già stato umiliato abbastanza per oggi.
Una lampadina preme ogni parte del mio cervello, facendomi spalancare gli occhi.
Faccio un mezzo metro indietreggiando e afferrando una copia del mio curriculum dallo zaino.
Mentre entro nel bar, mi accorgo subito dell’aria condizionata destinata a farmi venire un’impressionante pelle d’oca e le diverse televisioni sintonizzate su un programma di musica pop contemporanea. Seppur il pavimento a scacchi nero e bianco e le sedie rosse mi avevano portato all’ipotesi si trattasse di un American Diner, rimango deluso nel notare che è un semplice bar, a dirla tutta abbastanza generico e anonimo, un po’ vintage e un po’ futuristico. Un casino stilistico, si potrebbe dire.
Una signora di mezza età dietro al bancone mi squadra man mano che mi avvicino a lei. Sopra la sua testa si trova una lampadina neon viola, intenta a donarle un’aria piuttosto raccapricciante. Sembra studiare attentamente ogni tremolio delle mie dita, intente a tenere fermo il più possibile questo foglio a colori con una patetica lista di esperienze lavorative che mi sono inventato di sana pianta solo per avere più probabilità di accaparrarmi un colloquio.
A quanto pare ho fatto ripetizioni ai bambini delle elementari e sono catechista da oltre tre anni. Ora come ora mi sembrano due stupidissime e inutili bugie da scrivere su un curriculum, ma sono le uniche posizioni che non mi creerebbero problemi nel caso qualcuno provasse ad indagare sulla veridicità del mio CV. Voglio dire, tutti mentono sul curriculum, anche solo per piccole cose.
Saluto la signora, che grugnisce in modo spazientito, e abbandono il foglio sotto il suo naso. Lo afferra con le sue dita enormi, unte. Vedo degli aloni trasparenti rovinare i bordi della mia candidatura, ma penso sia già buono che questa donna si sia presa la briga di leggerlo.
La ringrazio, e lei appare confusa. Non dice niente. Mi accorgo che non ha ancora parlato da quando sono entrato, e non capisco se è muta o semplicemente maleducata.
Mi giro sui talloni e mi dirigo verso la porta, giusto in tempo per capire che sto arrossendo come un bambino che si è pisciato addosso sullo scuolabus.
Sbircio un’ultima volta dalla vetrata del bar, e noto la signora intenta a servire un ragazzo altissimo con una giacca blu e uno zaino in pelle bianco. Penso a quanto possa essere geneticamente perfetto per non essere inondato dal sudore anche vestito così, e mi sento ancora più minuscolo e insignificante quando vedo che la signora non ha più il mio CV tra le mani.
Forse si è accorta che ho scritto un uragano di stronzate.
Si ingigantisce tutto nei curriculum, però, o così mi ha detto Sami. E, man mano, tutto ciò che hai ingrandito e reso sfarzoso perde di utilità perché cominci a salire di livello, proprio grazie a quelle piccole bugie bianche che ti elevano dalle altre candidature. Eventualmente, sempre secondo Sami, si arriva a un punto in cui non serve più mentire sulla resumee per ottenere il lavoro che si desidera da anni.
Non ne so molto di curriculum e lavoretti vari. Come potrei saperlo, d’altronde? Se si vuole proprio lavorare a Cordello bisogna essere il figlio del macellaio o una ragazza a cui va bene fare la cameriera in nero per dieci ore al giorno ed essere spogliata con gli occhi dagli ubriaconi del bar di paese.
Giuditta lavorava part-time in una pizzeria poco distante da Cordello prima che sua madre, rimasta vedova già da anni, sposasse il signor Moschella, cognome famoso per essere storico nell’élite del nostro paesino. E’ una verità scomoda quel pettegolezzo che girava, ossia che molto probabilmente i genitori stessi avevano vietato a Giuditta di continuare a lavorare mentre studiava per non far apparire l’intero nucleo famigliare meno agiato rispetto agli altri splendidi del quartiere.
I ricchi di Cordello non sono neanche così ricchi se paragonati ai pesci grossi di Zaricci, ma hanno le stesse venature presuntuose, elitarie ed aristocratiche molto impostate che caratterizzano qualsiasi stereotipo riguardante i cittadini benestanti. Essermi fidanzato con uno di loro mi ha proprio fatto sbattere il naso contro il muro che ci sarà sempre tra queste auto-proclamate divinità ultramoderne e i comuni mortali con una Panda del 2004 e un braccialetto in legno attorno al polso invece che un Rolex. Non penso che Sami faccia apposta a farmelo pesare, ma la differenza di background tra noi due è sempre stata un problema. Non amo mi offra le cene o mi regali vacanze, perché mi fa sentire come se fossi un toy-boy. Mi ha fatto sentire più volte come una collana eccentrica che indossa per mostrarsi alle feste dei suoi amici. Mi ha sempre fatto percepire questo mio dovere a sentirmi riconoscente, come se senza di lui finirei ancora nel baratro. A volte mi vedo come il nuovo souvenir dell’occidentale benestante dopo la sua ennesima esperienza di turismo sessuale.
Mi sento esagerato quando il mio cervello canalizza le sue attenzioni su questo fiume di negatività e mancanza di fiducia nell’umanità, ma se c’è una cosa che ho capito dei ricchi che non si sentono abbastanza ricchi è che devono sbattere in faccia a tutti quante belle cose hanno nella loro vita.
Se da una parte sono sempre stato stuzzicato dalle cronache luccicanti de “Gli schifosamente benestanti di Cordello”, è anche vero che l’unico desiderio che ho nello stare in mezzo a loro è potermi permettere di vivere in maniera spensierata, senza sentirmi in colpa per essere andato al McDonald’s per merenda o per comprarmi venti euro di erba dallo spacciatore in stazione ogni settimana.
Vorrei avere più risorse, ma sento di non avere mai i mezzi per ottenerle. I miei genitori mi supportano come possono, ma è difficile quando anche dare venti euro al tuo unico figlio sono una faticaccia.
Ho risparmiato i soldi per le sigarette e le canne per pagarmi la patente, ma che senso ha quando si usa una macchina in tre e non facciamo un pieno da due anni?
Sono colpito da una maledizione che mi tiene fermo a Cordello, le mie gambe si stanno trasformando pian piano in radici e non importa quanto mi dimeni per scappare o urli per farmi aiutare, rimango bloccato nella mia mutazione. Ho passato anni di sacrifici per essere il ragazzino sprovveduto con un curriculum farlocco che vuole essere qualcun altro, ma che non ci riesce.
Sono il ragazzino che non capisce se Sami lo vede come un partner o come una via di fuga, un escamotage dal mio futuro, troppo misero se bilanciato alle mie ambizioni.
Non siamo mai stati veramente felici, io e lui. Ci ho messo mesi e mesi per capirlo, ma non siamo mai stati veramente felici.
E sento le lacrime corrodermi le gote come se fossero acido, perché capisco che sono soltanto un disperato che gira attorno ai suoi problemi a trecentosessanta gradi ma non riesce a muovere un passo per tuffarsici dentro e risolverli. Sami, sotto sotto, è sempre stata la dimostrazione che mi serviva per convincermi che stavo correndo verso la luce, ma ora penso che ci sia soltanto il nulla.
Sono passato dall’essere quel bambino innocente che corre verso la speranza al ragazzo che tiene dei passanti per mano, implorando per ricevere un po’ di calore.
Ma se glielo danno, ha troppo caldo.
╪
Quando afferro il cellulare dalla tasca per controllare l’orario, mi insulto mentalmente.
Ho cercato per ore di non guardare il telefono, perché non volevo sapere niente di Sami e delle sue inutili scuse. Ha fatto un qualcosa di meschino, che in sé non è una novità, ma l’averlo fatto oggi mi crea problemi.
Lo perdono per avermi mentito, per avermi trattato come una scimmietta da circo davanti ai suoi amici di plastica, ma c’è poco da fare: più vado avanti a conoscere Sami, meno riesco a fidarmi di lui. E’ affidabile solo per quel che riguarda se stesso, e se fai parte dei suoi piani bene. Altrimenti, tieniti forte perché non sai dove finirai.
Nel mio caso, sono di nuovo in stazione, che ora studio con aria maniacale. Mancano tredici minuti al mio treno, e se metà del mio cervello vuole che il desolato principe azzurro si materializzi sul suo sfarzoso cavallo bianco, l’altra muore dal mandare all’aria l’unica parte che sembra aver senso della mia vita. Quando butti via qualsiasi stabilità è quando inizi a giocare e a ricostruire. Ricostruirti, da zero.
Riguardo le otto chiamate perse di Sami, i suoi venti messaggi minatori.
E poi, come una margherita in un campo deserto, spunta una nuova notifica.
Giuditta
“Hey, scusa il ritardo, mi si era rotto il telefono!
Comunque bene, succedono un sacco di cose ogni giorno qui.
Sono un po’ persa nel mio, ma per ora tutto bene.”
11:27
Rileggo il messaggio innumerevoli volte, come per ricalcarlo nella mia mente fino a renderlo indelebile.
Giuditta è un orologio svizzero.
Giuditta
“Tu come stai?”
11:28
Mi guardo attorno, è tutto più luminoso.
Rimetto il telefono in tasca, emozionato come un bambino che scopre che andrà a Disneyland.
Salto sulla carrozza del treno e mi siedo, immergendomi nella carovana di pensieri dai colori caldi che si sta riversando tra le pieghe del mio cervello.
Sondaggio: 31 Maggio,12:20 PM
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The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die - Illusory Walls, traduzione
Ci sono posti in cui non andremo.
Ci siamo costruiti una gabbia invecchiando.
(da: Afraid to Die)
1. Afraid to Die
Paura di morire
Qui viviamo, e qui restiamo per sempre.
Dentro questo nido sicuro, la pace può ingoiare il dolore, digerirlo intero
E farlo arrivare alle borse melarie, intestini medi della nostra vita.
Per fare il lavoro e venir pagati bene prima ancora che ci si asciughi il sudore
Dobbiamo fare così, anche se abbiamo paura di morire
Ci sono posti in cui non andremo.
Ci siamo costruiti una gabbia invecchiando.
Il ricordo ti ci può chiudere dentro,
Indietro non si torna, qualsiasi momento sia.
Abbiamo delle immagini in testa: nostalgia senza rimpianto.
La tempesta ci ha appiattito le ali.
Abbiamo aspettato troppo.
“Dateci la speranza”, gridavano i forti.
Una cosa così ovvia non può mai essere sbagliata.
2. Queen Sophie for President
Queen Sophie for President
Ostinata in maniera impossibile,
Attende l’occasione per prendere il posto della testa che è stata amputata o che è semplicemente appassita.
Scalpita per prendere la forma del contenitore precedente, come un liquido ripugnante.
Cerchi di farlo evaporare, ma il forno è spento.
Impilati sotto, gli tengono sù i piedi i gusci dei loro priori, vuoti come i loro valori.
Ma non il peso non lo reggono.
Alla lunga cominceranno a creparsi.
Quel liquido ripugnante filtra, ma la luce pilota magari tiene.
Strappa quel collo slogato e soffri.
Urla da quel collo slogato e soffri.
Non migliorare mai e non fare mai nulla.
Non migliorare mai e non fare mai nulla.
Non migliorare mai e non fare mai nulla.
Non migliorare mai e non fare mai nulla.
E se sopravvive nonostante tutto, tu da’ fuoco alla casa.
Non può prendere fuoco col forno spento.
Non può prendere fuoco col forno spento.
Non può prendere fuoco col forno spento.
Strappa quel collo slogato e soffri.
Urla da quel collo slogato e soffri.
Quella maledetta melma ostinata, tu da’ fuoco alla casa.
Non migliorare mai e non fare mai nulla.
Non migliorare mai e non fare mai nulla.
3. Invading the World of the Guilty as a Spirit of Vengeance
Invadere il mondo dei colpevoli da spirito della vendetta
Voglio altri usa e getta di lusso,
Una palestra bellissima per farci un infarto.
La vita e la sepoltura umana sono importanti tanto quanto lo è che le vittime sopravvivano.
Prendete la mia pelle e fateci qualcosa.
Gli scarti bruciateli, lasciatemi le ossa nude.
Mangiavi seduto alla scrivania, sempre sotto pressione, aneurisma da stress.
Un ammasso di punti neri, un’arma senza taglio come un quad in fiamme parcheggiato all’interno.
La vita e la sepoltura umana sono importanti tanto quanto lo è che le vittime sopravvivano.
Prendete la mia pelle e fateci qualcosa.
Gli scarti bruciateli, lasciatemi le ossa nude.
Tutti quelli che nel mio quartiere parlano inglese sono sbronzi.
Arrenditi al virus, fatti s-baciare dalla fortuna.
Un rizoma di nervi sfilacciati con la campanella del mercato che suona,
Debitamente avvolta in venti abiti imbottiti di coda di fenice.
Niente chiese, niente panche, niente pareti.
Tutte le tue chiamate vengono coperte dal feedback.
Un’imprecazione sulle labbra di tutti noi nei confronti del re che sta solo seduto.
Respiri profondi su un pullman low cost,
Ignora tutto il resto, il prezzo scaricalo su di noi.
Il cervello all’interno del tuo telefono sa come farti arrivare a casa.
Per quale lavorerai dei tre?
Ti ricordi come si chiama il negozio?
Affitta un posto in un open space minimalista e mettiti a cercare i tesori che ci hanno nascosto.
Ma per quale pregherai dei tre?
Ti sei ricordato come si chiama il tuo signore?
Di’ al mondo quant’è che paghi l’uomo che prega per te.
Ad Anne-Marie, il giorno del mio compleanno,
Ha detto che poteva essere d’aiuto, ma ha solo mandato dei soldi.
Prenditi un’ora fuori città,
Pensavi che lo stato svoltasse.
Pensavi che quel lavoro andasse bene per te,
Pensavi che il cielo rimanesse comunque azzurro.
23 x 84 x 28 diventa la speranza di una morte serena,
Potenziale evocato a sciami.
23 x 84 x 28 diventa la speranza di una morte serena,
O almeno di due giorni di riposo di fila.
4. Blank // Drone
Spazio vuoto // Ronzio
La nostra scatoletta, questa stanza minuscola.
C’è spazio solo per noi due.
Dobbiamo lavorare,
Ma quando non lavoriamo cerchiamo di risparmiare il più possibile,
Perché chi lo sa quando tireranno un calcio all’alveare.
E come diavolo faremo a sopravvivere con 100 dollari, prendere o lasciare?
Mamma ape ha venduto le sue azioni
Mentre il prezzo del cibo diventa sempre più caro.
Preghiamo il capo per tenerci il lavoro, ma lui non c’era.
Non c’è mai stato, e il ronzio di fondo copre tutto quanto.
5. We Saw Birds Through the Hole in the Ceiling
Abbiamo visto gli uccellini dal buco nel soffitto
Consuma la benzina che viene dal deserto.
Prenditi un autista, almeno puoi dormire un po’.
Ora che si accorgono che ce ne siamo andati, ci sono decisamente troppi cerchi in cui saltare.
Una folata di vento alle tue spalle che fischietta.
Il motivetto è uno che il tuo orecchio ricorda.
Dimenticandoci quanto faccia in fretta l’erba secca a divorare,
Presto rimetteremo piede sulle braci.
Ho visto gli uccellini dal buco nel soffitto,
Ho sentito le braccia che mi stringevano forte.
Ora che si accorgono che siamo andati, l’unica luce sarà il fuoco.
La corteccia non fa ferite.
Eccoti un’accetta.
La corteccia non fa ferite.
Eccoti un’accetta.
La corteccia non fa ferite.
Eccoti un’accetta.
La corteccia non fa ferite.
Eccoti un’accetta.
Presto rimetteremo piede sulle braci.
Presto rimetteremo piede sulle braci.
6. Died in the Prison of the Holy Office
Morto nella prigione del Sant’Uffizio
Lui prendeva in mano i serpenti.
Li provocava, invitandoli a mordere.
Portava la stricnina alle labbra e inalava.
Ha seguito il consiglio dei telegiornali,
Ha passato meno tempo al chiuso,
Ha sperimentato con le droghe,
Ha provato ad andare in chiesa.
La combinazione ha funzionato.
Confuso, ma comunque molto disponibile.
In quel momento ha smesso di funzionare.
Ha provato col nichilismo, ma non poteva permettersi la vacanza.
Ha seguito il nuovo consiglio,
Ha passato meno tempo all’aperto,
Ha risperimentato con le droghe,
Ha riprovato ad andare in chiesa.
Alla fine ha sentito la voce, un nuvolone scuro con qualche risvolto grigio.
Noi almeno una scelta l’abbiamo avuta, ma lui era condannato sin dall’inizio.
Giorno e notte si faceva in quattro per trovare in tempo la propria strada.
Noi strisciamo proprio come i nostri padri, dieci miglia per qualche spicciolo.
Ci è voluto un decennio, il lancio di una moneta rotta,
Ha detto che gliela doveva al pastore che aveva detto che avrebbe salvato questo ragazzo.
Giorno e notte si faceva in quattro per trovare in tempo la propria strada.
Noi strisciamo proprio come le nostre madri, dieci miglia per qualche spicciolo.
Ci è voluto un decennio per tirare quella moneta rotta,
Ci è voluto un decennio per farglielo entrare in testa.
Alle porte dell’inferno, fai finta di avere la salvezza.
Alle porte dell’inferno, fai finta di avere il coraggio.
Alle porte dell’inferno, fai finta di avere la salvezza.
Alle porte dell’inferno, fai finta di avere il coraggio.
Con una ruggine eterna, abbiamo gettato nella polvere il nostro nome.
Privati dell’amore, privati della pelle, hanno costruito un muro ma ci hanno fatti entrare.
Una scatolina d’acciaio ancora sigillata, isolata in un campo verdeggiante.
Un anello della protezione fasullo comprato online da un falso sciamano bianco.
Ho stretto fortissimo i denti quando il mio psicologo mi ha detto di sorridere.
Uccidi la tua mente, illuminata dal fuoco.
Una volta ho sognato che sentivamo il coro.
Piantiamola con dio, piantiamola con l'amore.
Abbiamo le mani legate e calpestate.
Piantiamola con dio, piantiamola con l'amore.
Abbiamo le mani legate e calpestate.
Piantiamola con dio, piantiamola con l'amore.
Abbiamo le mani legate e calpestate.
Piantiamola con dio, piantiamola con l'amore.
Abbiamo le mani legate e calpestate.
7. Your Brain Is a Rubbermaid
Il tuo cervello è una pattumiera
Dissociazione.
Immobile, con le radici tutte aggrovigliate.
Provi a traslocare.
Non sei fatto dello spazio che ti circonda.
Il contenitore non ha importanza quando lo stato della materia cambia di giorno in giorno.
Un innesto sul tuo encefalo, un patchwork di giunture informi.
Dissociazione.
Immobile, con le radici tutte aggrovigliate.
Lingua di argilla bagnata che mantiene la sua forma solo grazie alla pressione di una faccia presa dal bruxismo.
8. Blank // Worker
Spazio vuoto // Operaio
Mal di stomaco da fiume Ohio,
Preghiamo la DuPont, la nostra acqua è sicura.
Se non moriamo qua fuori sull’erba, un giorno magari diventiamo ceto medio.
Al momento, lontano quanto le feste delle confraternite, uno sciopero generale, una Ferrari;
La grande casa in cima alla collina, gli operai che il suo proprietario ha ucciso;
La mia tomba, la mia nascita;
Finire nel telegiornale, buttare soldi e non sentirsi legati;
Fitte nuvole d’aria di pessimo odore, fiumi inquinati, capelli che si diradano.
C’è una fuoriuscita di sostanze chimiche a Parkersburg,
L’intera autostrada è stata messa a soqquadro.
Io respiro la stessa aria della chiesa, della partita di football e dei vermi sottoterra.
Da Belpre fino a Ravenswood, gli alberi indeboliti da qualcosa che non è certo buono.
Prima che ci si asciughi il sudore sulla pelle, il rubinetto ci ha sempre bruciato le mani.
Un medicinale da 400.000$ contro un’altra volta l’abbraccio di mia madre.
Una società di private equity ha distribuito il cancro nella mia famiglia.
Ho visto che c’era una banca ombra.
Il padrone di casa soddisfatto, l’economia è calata a picco.
Che le classi più povere se lo possano ricordare, e tutti i ricchi ricevere quello che gli spetta.
9. Trouble
Guai
Per tutta la città a lato di una stradina: una stradina fredda, una stradina da poco.
Non ho mai tirato via i volantini, ci ho provato sì e no a farmi assumere.
Non avere l’aspetto giusto, non fare le cose giuste.
Giuro che i murales si spostano di notte,
Ma non riesco a registrarli col telefono.
La continuità condizionata dall’interruzione, la cui storia narrata dalla confusione.
In dissoluzione nelle fluidità dei confini in dissoluzione fra lavoro e vita privata.
Ti stai mettendo paura? Non hai un bell’aspetto.
Figure che si deformano in una cronologia distorta.
Manteniamo le distanze dalle sagome degli sconosciuti.
Potremmo prendere la vita troppo sul serio.
Cos’è mai la comicità se non l’accettazione della realtà quando non hai soldi per pagarti l’ospedale e per terra è pieno di bucce di banana?
Un incubo fresco e nuovo di zecca, una sorta di sofferenza clinica.
Il telefono squilla in un giorno di vacanza.
Loro si sono alzati e dati una scrollata.
Io a malapena mi reggevo in piedi.
Loro si sono alzati e scrollati di dosso il sangue.
Ci siamo ingabbiati da soli,
Ci davano i soldi attraverso le sbarre,
Una carriera nei bagagliai delle macchine.
Loro si sono alzati e dati una scrollata.
Io a malapena mi reggevo in piedi.
Loro si sono alzati e scrollati di dosso il sangue.
Per tutta la città hanno detto che era una promessa.
Pulite la città, come se fosse una nostra responsabilità.
Per tutta la città hanno detto che era una promessa.
Ripulitevi dalla depressione e dall’ansia.
Non ho mai tirato via i volantini, ci ho provato sì e no a farmi assumere.
Non avere l’aspetto giusto, non fare le cose giuste.
10. Infinite Josh
Josh infinito
Sarà stato un 25 anni fa o qualcosa del genere in giardino da mio zio in sella a una motocicletta.
Mia mamma ha fatto una foto, ce l’ha ancora.
Avevo sù dei pantaloni corti, una maglietta a caso.
Come mai vedo le stelle lo posso solo immaginare.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
I nostri sogni finiscono affogati in un fiume di necessità presenti.
Gli anni ci passano davanti trasportati dalla corrente come foglie.
I nostri sogni finiscono affogati in un fiume di necessità presenti,
Appesi come echi a questi alberi ghiacciati.
Avevo i piedi in alto.
Ero seduto immobile.
Non sentivo l’aria attorno.
Me ne vado ancora una volta.
Cerco di dormire, cerco di meditare che la mia mente si fossilizzi sui ricordi belli,
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
I nostri sogni finiscono affogati in un fiume di necessità presenti.
Gli anni ci passano davanti trasportati dalla corrente come foglie.
I nostri sogni finiscono affogati in un fiume di necessità presenti,
Appesi come echi a questi alberi ghiacciati.
Le piastrelle della farmacia dove non sono passati con lo straccio, il costo delle pillole,
Un campo dove non sono passati col tosaerba dietro allo scatolone,
Asfalto ruvido, il parcheggio a piedi nudi dalle parti dei cassonetti, parlando solo spagnolo.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
Ma tutti dicono “non puoi tornare a casa anche stavolta”.
Non puoi tornare a casa anche stavolta.
I nostri sogni finiscono affogati in un fiume di necessità presenti.
Gli anni ci passano davanti trasportati dalla corrente come foglie.
I nostri sogni finiscono affogati in un fiume di necessità presenti,
Appesi come echi a questi alberi ghiacciati.
Gli anni volano, gli anni volano.
Ma tutti dicono.
Almeno per un po’, almeno è vita.
Almeno è vita, almeno per un po’.
È una danza delicata.
Gli oggetti in cui siamo intrappolati, immobili e violenti.
Ma un po’ meno di quel tipo, meno che hanno paura, meno che hanno paura.
11. Fewer Afraid
Meno che hanno paura
Alcune cose che un tempo giuravo di avere scolpite nel cervello si sono disintegrate come si degradano i nastri delle cassette.
Certi echi fanno capolino, ma i suoni si mischiano ad altri.
Un tempo però c’erano, a differenza del livido fantasma per il pugno ricevuto dalla persona che amo, che sapevo sarebbe stato morbido al tocco il giorno dopo ma che non lo era.
Davanti allo specchio oscurato il giorno che è morto Toni,
Il dito che preme sulla guancia e ti aspetti che si sfaldi come la parte più molle di una pesca marcia.
A volte ho fatto le spese della fuoriuscita del dolore di una persona innamorata,
E alcune lezioni le ho imparate in ritardo,
E il peso è ingiustamente ricaduto su altri.
Tra l’altro, i calli che ho sulle mani non mi sono mica venuti a forza di pregare,
Anche se mia madre si faceva il segno della croce quando mi dava il bacio della buonanotte
E sussurrava qualcosa davanti alla tomba di sua madre dopo che mi portava a scuola.
Era sepolta a distanza di una piazzola di parcheggio e una recinzione dal parco giochi dove ho imparato per la prima volta cosa volesse dire quando il corpo è una matrioska, e dentro da qualche parte c’è la fine.
No, i calli mi sono venuti quando mi si sono squarciati i palmi,
Violenza commessa per soddisfare e per indurire.
Hanno fatto e disfatto stanze,
Che sono state sfondate in un atto di distruzione e riconvertite in un atto di creazione.
Una volta tenevano un set di mani troppo piccole anche solo per incrociare le dita e gli hanno insegnato a scrivere il proprio nome,
Ci hanno fatti diventare dei robot mettendoci dei cesti della spesa in testa,
E ci hanno dipinto le labbra per farle diventare specchi.
Lei ha passato un’estate a dormire sul letto su cui dormivo io alla sua età.
Il suo nome per me, un tono pedale per tutto quello che faccio ora.
Ritornare e ritornare.
La fuga richiede una chiave.
Maometto aveva ragione.
A volte i carcerieri chiedono di essere liberi da quelli che tengono imprigionati,
E a volte siamo noi la dinamite.
Mi manca la persona che aveva la stessa pelle che ho io.
Mi manca la persona che mi ha dato il nome.
Sono colpevole e pentito di tantissime cose.
Sono assolto e impenitente di tantissime altre.
Queste mani che un tempo tenevano le sue vorrebbero tornare utili.
I ricordi di quello che sanno fare non sono svaniti.
Hanno staccato i miei e i tuoi palmi per portarci via qualcosa di prezioso per il quale non abbiamo più le parole, ma cerchiamo di trovarle lo stesso.
Esausti, cerchiamo di proteggerci gli occhi dal bagliore di tutta la violenza che rimbalza contro altra violenza,
Cerchiamo di trovare un senso al mondo,
Violenza commessa per quelli che programmano la nostra obsolescenza.
Queste mani vorrebbero tornare utili con le tue.
Da qualche parte, una mano squarciata cercando di far quadrare i conti.
Da qualche parte, un’altra, e nei nostri corpi saltano tutte le cuciture.
Hanno staccato i miei e i tuoi palmi,
Ma quando ci siamo messi i punti a vicenda, ci abbiamo nascosto delle chiavi in quelle ferite.
Dentro altre la dinamite.
Dentro altre ago e filo.
La sicurezza trovata insieme nell’ostinatezza programmata, assolti e impenitenti.
Quando abbiamo imparato a coltivare il cibo da mangiare verso la fine del nostro tempo,
La vita ci strizza l’occhiolino e ci indica con la testa, con dei ruoli da assegnare.
Per prima cosa, tutte le piante e gli animali, esseri umani esclusi, saranno lanciati come astronauti, per cui mettetevi in fila.
Le persone buone devono affrettarsi.
Andate più avanti possibile.
Fate i computer e gli alcolici.
Presto ci riparleremo.
I tappeti su cui sedersi per riposare all’epoca erano più puliti.
Adesso ci sono strade e appartamenti e una tassa federale,
Esplosioni a Sago da una parte; dall’altra laboratori in un campo caravan che producono insulina fatta in casa con quel poco a disposizione.
Curate Killing an Arab con gli SSRI, bare vendute allo scoperto, tirateci la sabbia negli occhi.
Tu disegna vignette con persone in giacca e cravatta,
Uomini adulti che usano gli stuzzicadenti per punzecchiare la verità,
Credere ai complotti, pareti illusorie.
Il mondo fa schifo, ma c’è verità in ogni sua parte.
Attacca quello che ti dico al frigo coi magneti,
E dai un taglio a tutte le parolacce che hai detto davanti ai bambini.
Aspetta cinquant’anni da adesso, con un globo senza limiti, il terrore della barbarie,
Adesso torni a casa.
Staccati e cadi, così ti posso raccogliere.
Le nostre case non sono il tipico posto che potresti avere tu.
Staccati e cadi, così ti posso raccogliere.
Le nostre case non sono il tipico posto che potresti avere tu.
Staccati e cadi, così ti posso raccogliere.
Gli oggetti in cui siamo intrappolati, immobili e violenti.
Ma un po’ meno di quel tipo. Avevi paura.
Gli oggetti in cui siamo intrappolati, immobili e violenti.
Ma un po’ meno di quel tipo. Avevi paura.
A quanto pare gli ultimi 40 minuti sono serviti per arrivare a questo punto.
Tu per me sei solo uno sconosciuto con una maglietta a caso.
Il tempo mi ha scavato dei buchi nella memoria.
Cos’hai dato per riuscire anche solo ad avvicinarti all’essere in vita avendo a disposizione soltanto questa canzone e la sua fine?
Tu credi in qualcosa che veglia su di noi.
Io dico che avrà un senso dell’umorismo malato.
Appena succede se lo dimentica.
Poi risuccede ancora e poi ancora e poi ancora.
Tu piangi guardando il telegiornale, io lo spengo.
Dice che non c’è niente che possiamo fare e che non finirà mai.
Tu credi in un dio che veglia su di noi.
Io dico che il mondo è brutale e va di merda.
Violenza insensata senza uno spirito guida.
Non posso vivere così, ma non sono pronta a morire.
Tu credi in qualcosa che veglia su di noi.
Io dico che avrà un senso dell’umorismo malato.
Appena succede se lo dimentica.
Poi risuccede ancora e poi ancora e poi ancora.
Tu piangi guardando il telegiornale, io lo spengo.
Dice che non c’è niente che possiamo fare e che non finirà mai.
Tu credi in un dio che veglia su di noi.
Io dico che il mondo è brutale e va di merda.
Violenza insensata senza uno spirito guida.
Non posso vivere così, ma non sono pronta a morire.
Il mondo è un posto meraviglioso ma siamo noi che dobbiamo renderlo tale.
Quando troverai una casa, la renderemo più di un semplice riparo.
E se tutti ci si troveranno bene, ci terrà tutti uniti.
Se tu hai paura di morire, allora ce l’ho anch’io.
Il mondo è un posto meraviglioso ma siamo noi che dobbiamo renderlo tale.
Quando troverai una casa, la renderemo più di un semplice riparo.
E se tutti ci si troveranno bene, ci terrà tutti uniti.
Se tu hai paura di morire, allora ce l’ho anch’io.
Il mondo è un posto meraviglioso ma siamo noi che dobbiamo renderlo tale.
Quando troverai una casa, la renderemo più di un semplice riparo.
E se tutti ci si troveranno bene, ci terrà tutti uniti.
Se tu hai paura di morire, allora ce l’ho anch’io.
Il mondo è un posto meraviglioso ma siamo noi che dobbiamo renderlo tale.
Quando troverai una casa, la renderemo più di un semplice riparo.
E se tutti ci si troveranno bene, ci terrà tutti uniti.
Se tu hai paura di morire, allora ce l’ho anch’io.
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In Ricordo dell' Amica Luana Rovini
“Lu' e le Mukke Pazze”
Di Federico Regini
“Succederà… solo se facciamo entrare
le prime voci del mattino che ora
può arrivare”
(Bandabardò)
Oggi è il 25 aprile, una giornata importante per chi crede nei valori che rappresenta, e come tutti gli anni pensavo di ritrovarmi a omaggiare quelle persone mai conosciute, che sono morte per regalarci un sogno, un sogno di libertà, pace e democrazia.
Possono sembrare parole retoriche perché abusate a sproposito ai giorni nostri, ma nella loro origine sono vere.
Invece sono su una strada che conosco appena insieme ad alcuni amici e molti altri che non conosco affatto.
Accompagniamo in leggero silenzio un’auto grigia, che procede lenta come una preghiera e svogliata come un saluto che non vorresti mai fare.
Il Sole per la prima volta dopo molti giorni ha cacciato la pioggia e splende sereno e forte nel cielo, scaldando quei volti umidi assorti in mille pensieri.
Il corteo arriva sopra una collina dove, tra il caldo del marmo e alcuni fili di erba sparsi, intorno dormono, dormono, dormono, tutti.
Ogni nome impresso è un raggio di Sole che ha scaldato dei cuori, ogni foto è un volto che ha donato un sorriso, di fronte si apre il mare color argento che si perde all’orizzonte, in lontananza la sagoma dell’Isola d’Elba si lascia ammirare, ferma e immobile come il silenzio che avvolge il posto.
Strano, un luogo di dolore e ricordo che riesce a infondere anche per un solo istante serenità.
Penso alla mia amica, sembra quasi sia volata in cielo la vigilia del 25 Aprile per godersi in pace questa data importante nella sua vita, libera, libera dal male.
Penso che oggi ci sia una persona in più da ricordare, una partigiana della "resistenza contemporanea", schierata sempre contro le ingiustizie, grandi o piccole che fossero.
Penso che il 25 aprile le appartenga, penso sia un giorno adatto per ricordarla, perché è il suo giorno, la rappresenta.
Pensieri, pensieri, pensieri si accavallano prepotenti, sconclusionati e pazzi, alzo gli occhi al cielo.
Questo maledetto e benedetto Sole mi esplode davanti come il suo eterno sorriso, il pensiero mi prende per mano come un fratello maggiore e mi porta inevitabilmente a molti anni prima.
Bah! Camminavo per il paese e rimuginavo sulla sera precedente, “Ti presento Luana una mia amica”. “Ciao! Io sono Federico”, “Ciao! Francesca mi ha parlato molto bene di voi e di quello che state facendo e ci teneva venissi a vedervi in anteprima” “Troppo buona Francesca” ribatto sorridendo grato all'amica.“Dispiace se resto a guardare?”
“Figurati!” come dire di no, nonostante la vergogna, a quegli occhi curiosi e vivaci.
“Luana fa la giornalista al Tirreno” .
..... Francesca” penso sorridendo sempre grato all'amica. Ti pare, portare una giornalista alle prove di uno pseudo gruppo di musicabareteatrale, che mai ha fatto o rappresentato qualcosa in giro, vergine su tutti i fronti, guidato da un bancario in crisi esistenziale e tre amici incoscienti che lo assecondano.
Suonavano stivati nella stanza di Sergio adibita a sala prove, l'unico posto libero era un lettino dove la regista e la giornalista presero possesso, la prima con la sua aria amichevole e seriosa allo stesso tempo, l'altra solare e con una moleskina in mano pronta a prendere appunti.
“Nooo!!! O cosa deve scrivere ora... o cosa le ha raccontato Francesca... non è possibile... ma non si è resa conto chi siamo... dè... mah... o come l'avrà convinta a venire... perché... bò...” ero leggermente confuso, ma la musica partì.
Come mi capita in questi casi, a parte l'agitazione iniziale, poi tutto il resto diventa nebbia e inizio a raccontare storie, non mi fermerei mai.
Intravidi solo la mano veloce della giornalista violentare la sua agenda e qualche gesto di Francesca a correggere qualche passaggio e le prove volarono via come rondini a primavera.
Uscimmo a bere qualcosa in un bar del centro storico, pur essendo fine agosto la sera non era male, una leggera brezza rinfrescava l'aria.
Birre ghiacciate per tutti, Luana mi scrutava interrogatoria dai suoi occhialetti “Insomma questa... questa cosa che avete preparato non l'avete mai rappresentata in giro?”.
Mi sciacquai la bocca con l'estratto di luppolo frizzante “Veramente io non ho mai fatto niente in pubblico, se escludiamo la Comunione e la Cresima e uno spogliarello a Barcellona”.
“Dai! Uno spogliarello a Barcellona? Racconta”
“No, no, scherzavo... nel senso una sciocchezza ai tempi della scuola”, mi salvai in corner, “Ammazza come prende tutto sul serio, se la lasci fare questa è peggio della macchina della verità” pensai.
Mi lasciò parlare dello spettacolo ideato per un bel po' di tempo, interrompendomi giusto per porre delle domande.
Non so cosa le raccontai, perché quando cerchi di spiegare qualcosa che hai appena realizzato generalmente ripeti lo stesso concetto all'esasperazione, per chiarirlo in primo luogo a te stesso e per riordinare i pensieri, considerando poi il tipo logorroico che sono, immagino le meteore che le devo aver vomitato quella sera.
Lei era impressionante, tra una sigaretta e un sorso di birra ascoltava... era davvero interessata a quello che dicevo.
Alla fine prese la parola “mi è piaciuto il pezzo sulla perdita di identità di una generazione, mentre bla, bla, bla, poi bla, bla”, in poco riuscì a sintetizzare il concetto del discorso e a trovare le parole che avrei voluto utilizzare io, quasi, quasi ci rimasi male.
“Ci sentiamo domani per telefono così ti leggo il pezzo?”
“Che pezzo!?”
“Faccio l'articolo per la serata della prossima settimana”
“Ma su di noi!?”
“E certo! Avete fatto una bella cosa è giusto pubblicizzarla, altrimenti chi viene a vedervi”
“Ma davvero ti è piaciuto?”
“Sicuro, altrimenti sapevo come uscirne tranquillo, non sono mica obbligata”
“No, no, vabbè, sai... pensavo...che... embè”
“Embè lascia stare, sono sincera, dobbiamo valorizzare questo patrimonio locale di persone che si impegnano e realizzano qualcosa sull'isola, a volte in giro si vedono certe stronzate costate anche parecchi soldi e magari solo perché c'è dietro un nome devono essere belle per forza... ...Regini guarda se riesci a mandarmi una foto via mail”
“Una foto? Nostra?”
“Certo e di chi, magari non della comunione o dello spogliarello di Barcellona, una di voi che suonate”
“Non ce l'ho mica”
“Federicooo! Fatevela”
L'indomani riunione in casa di Sergio per realizzare una foto da inviare al giornale, lo studio di Oliviero Toscani era uno sgabuzzino in confronto al nostro.
Pentax manuale con autoscatto in dieci secondi, asciugamano da mare come scenografia da inserire dietro con palme macchiate di catrame e cielo azzurro scolorito.
Cappelli di paglia per dare un tocco esotico al risultato e pose rubate alle dive del calendario Pirelli.
Una foto di benvenuto a Gardaland dentro le sagome sarebbe venuta meglio, la nostra era davvero orrenda e non avendo la macchina digitale dovemmo sviluppare tutto il rotolino tra la gioia, del fotografo, e l'imbarazzo, nostro.
Lo scanner non funzionava, un volontario, Stix, la doveva consegnare.
“Ci devo andare per forza a portare questa foto, guarda che non si può vedere, c'è da vergognarsi, meglio un rettangolo bianco, facciamo più figura e lasciamo spazio all'immaginazione”
“Me lo ha detto ieri, pubblica un articolo sul Tirreno, cronaca dell'Elba, e vuole una foto”
“Ma vaaa! Sarà una riga nella sezione degli appuntamenti” ribatté scettico Giorgini.
“No! Luana ha detto che scrive proprio delle considerazioni sullo spettacolo”
“Te ne rendi conto... un articolo sul Tirreno...”
“Noi sul giornale... e non per furto”
“Boia dè! Tanta roba... il mio nome sul giornale, e chi ce l'ha mai visto, anzi no, una volta ci sono stato tra altri quaranta, quando mi hanno menzionato tra le gocce di argento dei donatori dell'A.V.I.S.”
“Tò!? Ora che mi ci fai pensare, il mio c'è stato scritto quando mi sono diplomato, ero il nono sulla colonna di destra”
“Io vi batto, due volte, una per la donazione di sangue e l'altra per il diploma”...
(poi decidono di chiamare Il Tirreno per sapere)
Telefonai. Due squilli.
“Prontooo Tirrenooo!”
“Buonasera, mi chiamo Federico Regini e sono di Porto Azzurro, cortesemente è possibile e sempre se non disturbo, parlare con Luana Rovini”
“Luana è fuori per un caffè, torna tra poco, le devo lasciar detto qualcosa?”
“No, no, niente, solo un saluto, grazie, mi scusi, arrivederci”
“Ciao”.
Chiusi il telefono in preda all'ansia---- non feci in tempo a realizzare questo che si materializzò uno squillo.
Risposi.
“Pronto!?”
“Ciao Federico, sono Luana”
“Scusami, scusami per prima, non volevo assolutamente romperti per la storia dell'articolo, guarda ti giuro, avevo chiamato solo perché non mi ricordavo come eravamo rimasti, metti che dovevo telefonare io e te allora avresti pensato ma guarda questo, così per fugare i dubbi ho telefonato... scusami di nuovo”
“Tranquillo, tranquillo, hai chiamato dove?”
“?!”
“Pronto ci sei?”
“Si, si, ho telefonato al giornale”
“Se ne devono essere scordati, non mi hanno riferito niente, vabbè, volevo leggerti l'articolo hai un minuto?”
Un minuto? Avevo una giornata... pensa te lo aveva già scritto “Dè... a bestia, vai, vai, vai”.
Nemmeno sul Mucchio Selvaggio avrebbero recensito lo spettacolo in questa maniera, ero orgoglioso e felice, in confidenza anche emozionato, le sue parole erano vere, si sentiva.
“Se non ti torna qualcosa dimmelo”
“Io?... no, no.”
“A proposito, abbiamo detto tutto, ma il nome del gruppo?”
“Quale?”
“Federico ma ci sei? Il vostro, non mi hai mai comunicato come vi chiamate”
“Boh!?”
“Come! Non avete un nome?” risata dall'altra parte della cornetta.
Avevamo pensato a molte cose ma no a un nome preciso, c'era qualche idea e gliela confidai.
“Pensavamo a Federigo e los amigos”
Pausa, silenzio, risata trattenuta “Federicooo...”.
Aveva ragione, nome bruttissimo, tipo musicanti di liscio per infami balere.
“Ehm!... Si effettivamente tanto per dire, c'erano anche dei nomi ironici legati agli animali, tipo i Tori Incatenati, sai invece di scatenati, potrebbe apparire simpatico”
“Si, si, appare, appare simpatico con una magia... ma non te la prenderai mica?”
“Seee figurati, è che non abbiamo le idee chiare, ci piaceva anche qualcosa attinente alla realtà, tipo - La sindrome della mucca pazza - presenta - Viaggio in America -, ma dè non torna nemmeno questo”
“Ok! Trovato, vi chiamerete le Mukke Pazze, al posto delle due C e dell'H due K, il nome suona bene, moderno, di protesta e legato a problemi attuali come le vostre tematiche, ti piace?”
“Perfetto, geniale, bellissimo, esatto, unico, eccezionale veramente”.
Chiusi quella conversazione con la consapevolezza di avere il nome più grande, più forte, più esatto per un gruppo.
Un gruppo con quel nome era destinato a sfondare al pari dei Pink Floyd, Beatles, Pooh, Cugini di Campagna, Collage, era nel suo Dna, già un nome azzeccato entra nella testa delle persone e non si cancella facilmente.
Sicuro che qualcuno ce lo avrebbe voluto rubare, figurati se i Negrita non avrebbero desiderato chiamarsi le Mukke Pazze, così i Tiromancino, Zampaglione me lo immagino prendersi a morsi le mani dalla rabbia e la Gerini avrebbe preferito uno di noi, dè per forza, vuoi mettere stare con una Mukka Pazza.
“Signori e signori a voi le Mukke Pazze” un boato da stadio riecheggio nella mia mente.
Pensavo già alle magliette, al merchandising, il nome anche per scritto rende bene, il cappellino con il logo della mucca rincoglionita ci stava alla grande, avremmo organizzato concerti a scopi benefici per i malati e per la ricerca sulla sindrome da Mucca Pazza, che la tengono appositamente nascosta.
C'era da organizzare il tour mondiale, perché quel nome era perfetto anche all'estero, la doppia K poi è internazionale, dovevo solo riadattare e tradurre i testi, una sciocchezza.
Insomma con quel nome inventato da Luana c'era da lavorare parecchio... sopratutto di fantasia e di sogni... e sugli ultimi non ci sono cazzi che tengono, non mi batte nessuno.
Sono passati circa dieci anni da quel giorno, Lu’ mi ha donato un sogno, posso solo ricambiare con un pensiero semplice e sincero.
Ciao Lu', che le stelle siano le custodi e la notte la cassaforte del tuo sorriso
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