Tumgik
#corean cinema
mystikass · 2 years
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Memories of a murderer
Bong Joon-ho
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automatismascrive · 10 months
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Non intitolerò questo post “Dall’Oriente con furore”: The Red Shoes e Incantation
Se qualcuno si prendesse la briga di scorrersi tutte le segnalazioni presenti fino ad ora sul blog, si accorgerebbe ben presto che c’è un medium specifico la cui assenza spicca particolarmente. Vorrei poter fornire a questo ipotetico lettore una spiegazione del tutto legittima di questa mancanza, tipo che la mia religione mi impone alcune costrizioni inaggirabili, ma la verità è molto più piana e soprattutto meno lusinghiera: guardo quasi solo film che hanno visto tutti. Il cinema è sicuramente la forma d’arte mainstream con cui ho meno dimestichezza, se non altro perché è quella in cui sono stata meno immersa sia nella mia infanzia che nella mia adolescenza; so pochissimo di regia, composizione cinematografica e recitazione e quando decido di guardare qualcosa finisco sempre a recuperare un grande classico piuttosto che una produzione sconosciuta girata con due euro e tanta voglia di innovare che potrebbe meritare un posto su questo blog. In questo triste appiattimento dei miei gusti cinematografici verso quello che mi propinano le liste top 50 movies of all time o, più raramente, il cinema della mia città, spicca però una lodevole eccezione nata ai tempi delle superiori: il cinema coreano.
Per nessun’altra ragione al mondo se non quella di aver visto Save the Green Planet! ad un’età formativa e aver immediatamente dopo sturato i miei dotti lacrimali a dovere con Mr. Vendetta, in questi anni ho visto un bel po’ di quello che il cinema coreano degli ultimi due decenni aveva da offrire – rimanendo piuttosto impressionata. Mi pareva dunque interessante dedicare un articolo a tutte quelle persone che si sono viste Parasite quando ha vinto l’Oscar, hanno recuperato Oldboy e Pietà sull’onda dell’entusiasmo e ora vorrebbero qualche consiglio che non si possa trovare semplicemente cercando 10 korean movies you should be watching right now (sì, consulto spesso le liste sull’internet, fight me), ma l’impresa è riuscita solo a metà: per quanto uno dei due film della segnalazione di oggi sia davvero coreano, il secondo è diretto da Kevin Ko, regista taiwanese che ha collaborato addirittura con Netflix per la distribuzione della pellicola. Perché cambiare piani all’ultimo minuto? Be’, uno, perché Man in High Heels si è rivelato una delusione, e due, perché The Red Shoes e Incantation hanno qualcosa in comune che li rende perfetti per condividere lo stesso spazio sul blog: sono entrambi horror paranormali che si focalizzano sul rapporto tra una madre single e una figlia a cui, per non essere troppo specifici, succedono cose. Cose sovrannaturali, terrificanti e a dirla tutta anche un po’ schifose.
The Red Shoes
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Questo poster sta gridando con tutte le sue forze “sono un mediocre horror orientale dei primi anni duemila”, ma voi non credetegli.
Il primo dei due film che si sono meritati uno spazio sul blog è il meno recente – uscito nelle sale coreane nel 2005 – e anche il meno conosciuto dei due. Anche se dovrebbe prendere ispirazione dalla famosa fiaba di Andersen Le scarpette rosse, in pratica condivide con la fiaba giusto l’ispirazione per l’oggetto al centro della trama: un bel paio di scarpe che la protagonista del film, Sun-jae, trova abbandonate in un vagone della metropolitana in un periodo della sua vita particolarmente difficile; ha appena divorziato dal marito, colto in flagrante mentre la tradiva, e si è ritrovata a dover prendere in affitto un orribile appartamentino a basso costo per rientrare nelle spese che devono affrontare lei e la figlia, Tae-su, appassionata di danza classica. Il fortunato ritrovamento sembra davvero l’unica cosa ad andare per il verso giusto negli ultimi mesi – tranne forse l’interesse che In-cheol, designer giovane e carino, dimostra nei confronti di Sun-jae – ma forse proprio per questo anche Tae-su s’invaghisce subito di quel bel paio di scarpe, provocando una serie di incidenti che ben presto mettono Sun-jae in allarme… Da dove vengono quelle scarpe, ed è stato un caso che siano finite proprio nelle sue mani?
Indubbiamente la prima cosa che colpisce di The Red Shoes è l’utilizzo brillante che il regista fa dei colori: come i più perspicaci di voi avranno avuto modo di notare, infatti, le scarpe al centro della storia non sono affatto rosse, bensì di un rosa acceso un filo pacchiano; è rossa però la traccia di sangue che queste scarpe si tirano dietro, una scia di piedi mozzati, cascate sanguinolente e ossa tranciate che pur non essendo particolarmente esplicita per gli standard degli horror di questi decenni è assai ben girata e permette a tutte le scene che dovrebbero suscitare tensione di raggiungere perfettamente lo scopo prefissatesi. Più in generale, si tratta di un film dai toni spenti e grigi, che pur essendo sempre ben leggibile anche nelle scene più buie ha come unico elemento di forte contrasto proprio tutte quelle scene in cui è il sangue a farla da padrone – assieme naturalmente alle scarpe, che accendono tutte le inquadrature in cui sono presenti e catturano l’occhio dello spettatore, esattamente come succede a tutti i personaggi che vi entrano in contatto.
Infatti il canovaccio che segue il film è piuttosto solido ma relativamente convenzionale, almeno fino a tre quarti del film: un oggetto su cui grava un qualche tipo di maledizione viene acquisito da un’ignara protagonista causando danni a non finire a causa della spirale di ossessione in cui precipitano tutti coloro che vi posano gli occhi sopra; è infatti nelle scelte di sceneggiatura e di regia un po’ più peculiari che The Red Shoes riesce a ritagliarsi uno spazio in un genere già piuttosto ricco nel suo anno di uscita, che oggi è tragicamente saturo. In primo luogo, la scelta di una protagonista femminile che ha un rapporto ben lontano dalla zuccherosa perfezione di cui certi film ammantano la relazione madre-figlia e che in un horror del 2005 era quantomeno inusuale (lo stupendo The Babadook è del 2014, per intenderci); Tae-su è pestifera e seccante, come ci si aspetterebbe da una bambina che vive una situazione famigliare complessa, mentre Sun-jae è tesa, irritabile e sotto l’influsso delle scarpe diventa sempre meno paziente nei confronti della figlia. Per quanto si tratti un film che non è capace di scavare a fondo nella relazione familiare disfunzionale come è stato in grado di fare il sopracitato film di Kent, rimane comunque abbastanza abile da mettere in scena una protagonista con cui è facile empatizzare e per cui ci viene naturale fare il tifo, pur rendendo fin da subito chiaro quanto complessa e sfaccettata sia la realtà della sua situazione – e quando alla fine del film abbiamo il quadro completo della situazione, nulla di ciò che accade è inaspettato o costruito dal nulla: riguardandolo per la recensione mi sono divertita a notare tutti i piccoli pezzi del puzzle che possono condurre alla conclusione naturale del film prima che si arrivi ad essa. Anzi, forse un rimprovero che si può muovere al film è proprio quello di essere un po’ troppo didascalico; sarà che l’ho visto di recente ricordandomi molto bene il finale, ma mi è sembrato che in certi punti il film calcasse un po’ troppo la mano sugli indizi che possono portare lo spettatore a svelare l’intreccio prima della fine.
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Tae-su, interpretata da un’attrice piuttosto abile per la sua giovane età.
Insomma, pur essendo un film assai godibile, specialmente per gli appassionati del genere, The Red Shoes ha qualche limite: pochissimo interesse per la sottigliezza (… quando i personaggi afferrano le scarpe parte una melodia inquietante di poche note), qualche nodo logico e spazio-temporale poco credibile per permettere inquadrature e scene più d’impatto – come nel caso di quelle girate in metropolitana – e in generale il poco interesse ad innovare, specialmente sul lato del sovrannaturale. Complici anche gli anni che si porta sulle spalle che hanno visto fiorire ogni sorta di paranormal horror con approccio molto simile, difficilmente quello che si vede in scena sorprenderà, sia per livello di brutalità che raggiunge sia per concept innovativi: rimane in ogni caso un buon film che è un ottimo modo per iniziare a guardare produzioni coreane un po’ diverse da quelle dei soliti noti.
Incantation
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Rassicurante. Fun fact, il regista si è ispirato sia ad alcune correnti buddiste sia all’induismo per creare i simboli e gli oggetti associati al culto al centro del film.
Il dubbio che continuerà a perseguitarmi ben dopo la pubblicazione di questo post sarà: ma c’è bisogno che io scriva di Incantation? Wikipedia mi informa che è stato l’horror taiwanese con gli incassi più alti mai registrati, è stato distribuito da Netflix ed è tutt’ora disponibile sulla piattaforma… Eppure io l’ho visto per puro caso spulciando i consigli di una scrittrice che apprezzo, i400calci, il mio personale riferimento per il cinema soprannaturale e di menare (cit.), non l’ha recensito e in generale la stampa italiana non è rimasta particolarmente colpita da questo film che si è invece guadagnato immediatamente un posto tra i miei horror preferiti. Quindi, sempre per la legge per cui alla fine su questo benedetto blog scrivo un po’ di quello che mi capita sottomano, ho deciso che se anche fuori dalla mia bolla personale l’hanno visto tutti e parlandone faccio come l’utente che entra in un forum di videogame indie e spaccia Undertale per l’equivalente del libro dello scrittore polacco morto suicida, io ne voglio parlare lo stesso perché l’ho adorato.
E il fatto che io abbia adorato un film found footage, categoria di pellicole che in circostanze normali mi irrita terribilmente quando non mi induce direttamente il sonno, è già di per sé un ottimo termometro di quanto Incantation sia abile nel gestire questo formato e nell’utilizzarlo per aumentare ulteriormente la tensione in un film che fin dal minuto uno è già teso come una corda di violino: Li Ronan, una giovane donna di fronte ad una telecamera, implora chiunque stia vedendo il girato di recitare con lei una preghiera per salvare la figlia Dodo. Apprendiamo infatti che Ronan aveva in passato fatto qualcosa che la aveva convinta di essersi attirata addosso una maledizione dalle conseguenze nefaste per chi le stava intorno, costringendola a dare in adozione la figlia appena nata; dopo un percorso psichiatrico e la ferma sicurezza che le sue convinzioni erano dettate dalle esperienze traumatiche vissute in precedenza, decide di riprendere con sé la bambina iniziando un percorso di affidamento. Ma quello che sembrava essere solo un residuo della sua paranoia inizia a manifestarsi in maniera sempre più reale attorno a Dodo, portando Ronan a fare scelte sempre più disperate per salvare la figlia dalla condanna che sembra incombere su di lei – e svelando allo spettatore a poco a poco ciò che le è successo davvero sei anni prima, quando il suo cammino si è incrociato con quello di un bizzarro culto rurale dalle usanze stravaganti ma pericolose.
Anche la premessa di questo film è piuttosto convenzionale e non è difficile immaginare la piega che prenderà la vicenda: Ko è però abilissimo a suscitare curiosità circa l’incidente scatenante dell’intera storia e a dosare i flashback che ce lo raccontano con millimetrica precisione, alternandoli a scene che sono già da sole terribilmente inquietanti poiché scavano a piene mani in quel terrore che si prova nel non sentirsi al sicuro a casa propria, nel proprio stesso letto e soprattutto nel non avere un posto dove fuggire; la maledizione che insegue Ronan è pervasiva, letale e senza volto, esattamente come il culto in cui si è ritrovata invischiata prima di avere Dodo. Indubbiamente il livello di attenzione per i dettagli delle cerimonie, dei vestiti e delle sculture che sono al centro della misteriosa religione è l’altro grandissimo punto di forza dell’intera pellicola, che comprende benissimo quali sono le dinamiche davvero spaventose su cui vale la pena calcare la mano e si avvale quindi di un’estetica che rinforza l’atmosfera grottesca e oppressiva di cui si nutrono questo tipo di movimenti religiosi. Rituali intricati e violenti pur nella loro tetra sacralità, che in ultima istanza pretendono la totale sottomissione di tutti i loro adepti e sono famelici di nuovi proseliti; pur senza addentrarmi eccessivamente nelle vicende del film, che vale la pena di essere visto senza spoiler, è evidente che tutto, fino alla rivelazione finale che spazza via ogni dubbio sulla reale natura della maledizione, è orchestrato in maniera perfettamente coerente rispetto a ciò di cui il regista vuole parlare: lo schiacciante potere che conferiamo all’adorazione del divino che mastica, consuma e sputa intere vite solo per estendere il suo dominio sullo spirito umano.
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Avrei potuto scegliere frame più interessanti, ma a) sono pigra e b) il programma che uso di solito per fare screenshot avuto qualche problema. Giuro che il film è bello da vedere.
Certo, per quanto Ko sia abile ad utilizzare il found footage per calcare la mano sulla natura ubiqua e pervasiva della disgrazia che segue la protagonista, si tratta di una modalità narrativa che per sua natura si presta più di altre a rompere la sospensione dell’incredulità (quante telecamere accese potranno mai esserci in queste situazioni al limite?); è anche vero che il ruolo del filmato è fondamentale per la rivelazione che ci verrà fornita sul finale, nonché essenziale per supportare il tema portante della narrazione, ed è dunque stata indubbiamente una scelta vincente e non un mero vezzo stilistico che molti registi contemporanei adottano giusto per riscaldare una vecchia minestra in un nuovo microonde. Ed è davvero l’unico appunto che mi sento di fare ad Incantation – tranne forse una mancanza di spazio data alla relazione tra Ronan e l’assistente sociale che verrà coinvolto nelle vicende, che porta ad una decisione un filo improbabile – poiché per il resto si tratta di un film capace di utilizzare elementi orrorifici per nulla rivoluzionari per raccontare una storia carica di tensione che lima lo spettatore fino ad arrivare ad un finale capace di mettere a nudo il cuore pulsante dell’orrore che la protagonista deve sfidare.
Anche questo consiglietto giunge al termine! Forse con un film un po’ più mainstream rispetto alle storie segnalate di solito sul blog, ma la verità è che ho visto Incantation a febbraio e ci sto ancora pensando, quindi ho dovuto esorcizzare il tarlo in qualche modo; confido comunque che almeno uno di questi due film abbia stuzzicato il vostro interesse, se non altro per la curiosità di conoscere il destino delle due protagoniste e delle loro rispettive figlie. 
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thepoetcarpenter · 2 years
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Cyborg She, Emotional and Entertaining
In my twenties, I was in a phase where I delighted in East Asian films and dramas. People that I know keep recommending films like Battle Royale, and dramas like Boys Before Flowers. Having grew up in Canada where the culture was to enjoy Hollywood movies, it was a nice change of pacing. To experience films and shows from different cultures was a good change.
After the release of the massively successful film, My Sassy Girl, director Kwak Jae-yong was a hot commodity in Corean cinema, and had the opportunity in the world to direct any Corean films he wanted. Instead, after he directed the prequel to said film, Windstruck, he decided to direct a romantic comedy for the Japanese film market. The film was Cyborg She, available on Apple TV+, a romantic comedy about a cyborg sent from the future and a loner. The silly premise of the film, invites an interesting story.
The film itself is heartwarming and fun. Like My Sassy Girl, the movie centers around an underdog of a character and the encounter to a strong female lead changes his world and now he has something to hope for. So if you like the type of story My Sassy Girl is, you will like this film.
The direction of the film by Kwak is charming and emotional. The plot tucks at the heart of the everyman that sees himself as this underdog. It is silly to think that you will find yourself falling in love with a cyborg, but, though not cyborg maybe a kindred spirit half way across the world. Kwak employs that distance we have with our lovers, not in the distance around the world, but a physical distance of being. Though the ground of the romance takes as is ridiculous, when you have nobody else in the world, maybe a cyborg companion may not seem that foolish to consider. As the plot progresses, you come to understand, that the female lead is actually the only one in the world that cares about him, having lost his only family, his mother, and even his hometown, destroyed in an earthquake. You come to think and empathise with the protagonist. 
Keisuke Koide plays the main character as Jiro Kitamura, while Haruka Ayase plays the cyborg. The two actors play a dynamic duo and there are chemistry and real emotion between the two. After developing feelings for one another, and an encounter with a wall that separates them, the cyborg unites with Jiro as she tries to save him. After the climax, we as the audience come to understand Jiro and the cyborg’s relationship; though there is a distance between them, there is also real love.
The film, overall, is charming and endearing. Some scenes I thought dig at what it means to have someone that loves you. And though you may not fall in love with a cyborg, we come to understand that though we may not agree with some relationships, love is not frivolous, especially when that love is all the person has. Cyborg She is emotional and entertaining, and worth your two hours.
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filmsinayear · 6 years
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Columbus, Kogonada, 2017
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the-nightpig · 4 years
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The villainess (2017)  by Jung Byung-gil
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natrishy · 4 years
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Here are some studies of the Handmaiden I did a few month ago I loved this film, its atmosphere, musics and mise-en-scène
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gregor-samsung · 4 years
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당신자신과 당신의 것 [Yourself and Yours] (Hong Sang-soo - 2016)
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stileslittlebanshee · 4 years
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Parasite is the best motherfucking film of the year. Forget Joker, forget Endgame. Parasite is cinema. The levels of humanity. The non-subtle-at-all critique of the Capitalist system. The humor. The metaphors. The thrill. It’s terrifying. You are not prepared for it. You guys. Just, watch it. Palme d’or winner. Bong Joon Ho. Corean cinema. Excelence. Go. 
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clemi-kiwi-citrus · 7 years
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jopinetfilmjournal · 2 years
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Título: #estamosmuertos #allofusaredead Plataforma: #netflix Género: #gore #drama #suspense Cast: #parksolomon #lomon #jihupark #changyoungyoon
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filrougemedia · 2 years
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LA STORIA DI DOHEE - A GIRL AT MY DOOR è ora disponibile in #streaming HD su #Nexo+ → https://t.co/jcadRJmTTH
Young-nam, una giovane ufficiale di polizia trasferita dalla città, prende molto a cuore le sorti d'una ragazzina maltrattata dalla famiglia...
🇰🇷 #film @festivaldecannesofficiel
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Lucky Strike -  Kim Yonghoon - 2020
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atomheartmagazine · 2 years
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“Squid Game 2” si farà: arrivano conferme da Netflix
Squid Game – Dopo l’incredibile successo raccolto dalla prima stagione, Netflix è pronta ad annunciare ufficialmente la seconda stagione dello show
“Squid Game” ha raccolto un successo incredibile in tutto il mondo, ma Netflix non aveva ancora dato una conferma ufficiale sull’ipotesi di una seconda stagione della serie.
In realtà, era stato lo stesso Hwang Dong-hyuk, il creatore di Squid Game, aa dare un piccola conferma sulla seconda stagione. In un’intervista all’Associated Press, aveva infatti dichirato: “Penso che ci sarà davvero una stagione 2”.
Adesso è direttamente Netflix, per bocca del suo CEO Ted Sarandos, a confermare questa ipotesi rendendola una notizia ufficiale. Ha rassicurato tutti i fan dello show affermando che Squid Game 2 “ci sarà assolutamente”, aggiungendo che “l’universo di Squid Game è appena iniziato”, lasciando quindi intendere che la serie andrà avanti ancora per altre stagione dopo la seconda.
“Squid Game” è stata probabilmente la serie rivelazione del 2021. I dati ad oggi ci dicono sia stata vista da qualcosa come 142 milioni di account per un totale di oltre 2 miliardi di ore in streaming. “Non hanno provato a cambiare lo show, in modo da esportarlo all’estero, ma hanno cercato di individuare tutti gli elementi del cinema coreano e delle serie drammatiche coreane, unendoli e raggiungendo nuovi livelli di valori produttivi” – ha detto Sarandos  – “Non siamo dovuti andare lì e insegnare a qualcuno in Corea come realizzare dei contenuti grandiosi. Sotto questo punto di vista è un mercato incredibile. C’è sempre stata molta curiosità intorno al mondo, il mercato dei K Drama ha sempre ottenuto grandi successi, ma la facilità di distribuzione che abbiamo offerto ha contribuito a renderlo mainstream”.
A questo punto, i fan della serie attendono solo di capire la date ufficiali, avendo – finalmente, la certezza che la seconda stagione di Squid Game ci sarà assolutamente.
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thepoetcarpenter · 2 years
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A Brilliant Romantic Comedy
When I was sixteen and still in high school, someone from the circle of my brother’s friend came from Montreal and he recommended a Corean film to me. At the time, I did not know of the amazingness of Corean films. I was watching Hong Kong films at the time and did not know Corean films were just as great. The film was My Sassy Girl and that was nineteen years ago. But even so, I had watched it countless times since and is to this day still one of my favourite Corean films, if not the favourite. 
If you are interested in watching it, the film is now on Apple TV+, given Apple has just bought the rights to showcase non-English films from all around the world, one of them being from the Corean film industry. 
My Sassy Girl is the quintessential Corean romantic comedy. Though now the Corean film industry is in prominence given the Best Picture win at the Oscars for Parasite and the huge success of Squid Game, it is not always so. At the time, though East Asian films from Hong Kong and maybe even Japan, have audiences from all over the world, not so with Corean. The Corean film industry at the time is known very little outside of the Pacific region. And the film for me that has changed all of that, like many people outside of that region, is My Sassy Girl. 
The film stars Jun Ji-hyun as the titled character and Cha Tae-hyun as our protagonist, Kyun-woo. It starts with the recounting of the bad luck he has had with the encounters with the Girl. From one bad luck to another, he gradually falls in love with her. The comedy that has been written into the film is brilliantly funny and charming. You cannot help but feel and care for this loser Kyun-woo as he tries desperately to please the Girl, not for the urge to impress her, but as he say, “to not be murdered by her”. And after about a third way through the movie, you lose yourself in the romance and the stupidity of the odd couple that you start rooting for them to be together. 
The two leading characters are brilliantly played by Cha Tae-hyun and Jun Ji-hyun. They are stark opposites in terms of temperament and personality. Kyun-woo is this charming idiot that always manages to make you laugh at his misfortunes when dealing with the Girl. And the Girl is this sassy and feisty girl you cannot help but care for. They are the perfect couple and their romance is genuine and real. Their love for each other starts out as this strange relationship but as the plot starts rolling you can definitely tell it is real and endearing.
The comedy in the film is the type of stupid comedy that I love. No, I do not mean that the writing is stupid, but the two leading characters are so preposterous and foolish that you cherish the stupidity of it all. Eventually, by the second half, they face opposition and conflict. Their charming relationship becomes heartfelt and emotional, even sad at times. There are scenes in this film that are both beautiful as they are iconic; like the scenes when the Girl shouts to Kyun-woo from across the mountain; and the recurring scenes with the lonely tree on a mountaintop. These scenes are both prepossessing and beautiful. 
Now even after over two decades since its release, My Sassy Girl still remains steadfast in Corean cinema. It is funny. It is fun. It is brilliant. And it is brilliantly written. I can only praise this film not just as an icon in Corean films, but as a truly classic romantic comedy that the world should give a viewing of.
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suturesdigitals · 4 years
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sobre_llops_baozis_bellesa.may
Quan vaig tornar de teràpia vaig descobrir que la pianista Hélène Grimaud viu amb llops. Diu que és més un projecte de conservació que no pas un “hobby excèntric”. Em pregunto qui s’aixeca un matí i decideix llançar llonzes de porc a una manada de depredadors. L’Hélène, per això, és una dona espectacular. Jo no.
Fa quatre setmanes els meus llops van tornar. Tornar, qui diu tornar, diu passar de viure al jardí a asseure’s amb mi al menjador, a menjar-se’m les verdures del congelador, a embrutar-me els llençols. He de dir que la seva vinguda va ser molt poc apropiada. Havia d’escriure articles i assajos. Tenia unes eleccions, múltiples plans amb amics, un concert dels Viagra Boys i la setmana de Kore-eda al cinema, però els meus llops em van lligar de cames i braços sota l’edredó. Em van llepar el front i m’hi van fer migranyes. Quan se m’espassaven (God bless Paracetamol, si Paracetamol no és Déu), els llops em doblegaven l’estómac en un intent cruel d’origami carnal. Amb tot això vull dir que no existia el descans. I, malgrat, vaig aprendre a viure-hi. Com l’Hélène, als llops o a l’ansietat hom s’hi acostuma. Fer-ho requereix una mesura mínima de valor. No hi ha valor que valgui, dic. Per parlar dels llops només serveix fer-ho en clau de familiaritat. El tercer dia que el cor et va a mil per hora encara que escoltis Guided Meditation l’ansietat ja no és una estranya. T’espanta, i en tems les dents, i saps que figura el poder absolut sobre tu, però per por o claudicació l’alimentes de totes maneres.
Un dia, però, els llops tornen a marxar al jardí. I a tu et preocupen altres coses.
Intento parlar de la bellesa sovint. No parlo de les primeres matèries que la conformen; vull dir, dels recursos (o atributs) que les persones extraiem de la naturalesa o l’artifici i que, per una sèrie de transformacions socioculturals esdevenen productes intermedis o de consumició. Quan parlo de la bellesa no parlo de la bellesa. Parlo de les cuixes i els plecs. Dels estira i arronsa de les pells de les dones. De les arrugues vora els llavis, o els pèls incrustats o els pèls fins o els pèls arrissats. Parlo del mal que em fa i de quant la desitjo.
Ahir vaig anar a comprar amb una amiga. Jo necessitava un mirall. Per res convé esmentar que vaig comprar de tot menys un mirall. Com qui protagonitza una sitcom, la meva amiga i jo vam anar a l’emprovador a ballar. Quan dic que sóc un subjecte actiu i un objecte resistent em refereixo precisament a això. Mai deixaré de ballar quan en tingui la ocasió.
Mentre ballàvem, la meva amiga va fer un comentari sobre el meu cos. Els comentaris dirigits als cossos mai es queden al recipient. Mai omplen els porus, sempre reboten. M’explico: quan ella em va dir el que em va dir, després d’assumir-ho i negar-ho amb cortesia, vaig deixar que les paraules retornessin a ella, una a una, només perquè les afilés després amb les que es referirien al seu cos demà. O demà passat. O l’any que ve. Els comentaris dirigits als cossos no s’acaben mai. Quan a quart de primària et diuen girafa, pal, grassa, pudenta, baixa, curta; aquestes paraules no deixen mai d’existir fora de tu. Creen un film finíssim sobre la pell que en conté totes les lletres. I així morim: impermeables.
Quan les persones, especialment les dones, les meves amigues, fan comentaris negatius sobre el seu propi cos sempre salto a la defensiva. Dic que no, que en absolut, que què dius. I no menteixo. Aquesta amiga que menciono té una bellesa molt particular. (Té una bellesa: és convenient, aquí, el verb tenir? Quin, sinó, acompanya la bellesa? Presentar? Ser?). Té una cara d’aquestes que ara freqüenten les revistes de convertingculture o i+D; coses així que pretenen subvertir la lletjor convencional (subvertir, per cert, sota premisses del Kapital, significa explotar). L’antítesi total de la bellesa clàssica. I és bella, tan bella, en conseqüència. Li dic moltes vegades. També li dic que té un cos molt bonic. Un cos de dona que potser jo voldria tenir. Uns pits i un cul rodons. Una viola vers el meu caixó flamenc. O potser no, però li dic igualment. Jo pesava 65kg, em va dir un dia (fent referència al període anterior al calvari púber), després aquestes coses em van aparèixer als laterals. I la panxa, la panxa se’m va inflar. És normal, em va dir, però molesta de totes maneres. I es va agafar la pell fent una cara de disgust i després de consentiment. Tot va ser dolorosament tàcit i passiu.
Tornant de les botigues amb emprovadors, vam aturar-nos al mercat on venen dumplings (jiaozi) i buns (baozi). Ella va demanar-se’n set perquè tenia gana. Jo cinc tot i que la meva gana em deia set. Set. SEEETTTTTTT. Vuit. Nou. Tres-cents buns! Després de fer la primera mossegada al bao de red bean paste, una veu molt fluixeta al meu cap em va dir: això és molt dolç, deu portar molt de sucre. La vaig intentar apagar menjant un dumpling, però va tornar a suggerir-me que el sèsam és molt calòric. El mateix vespre vaig córrer vuit quilòmetres. Per alarmant que soni, no tinc cap problema amb l’alimentació, ni amb el meu físic, ni experimento, per sort, una dismòrfia gaire freqüent. Però la meva aparença m’importa. Critico tot el que m’ha conduït fins aquí. Però m’importa no obstant. Mentir només serviria per desbravar la veritat. I la veritat és un lleó.
L’últim vídeo-essay de ContraPoints parla d’això mateix que esmento. Penso que el deure de criticar el sistema vessa fervent dins meu, però en silenci i de manera inconscient desitjo pertànyer-hi amb tot el meu cor. Diu, la Natalie: Society may frown upon us 6 ft trannys, but I know if I’m dressed well and my makeup is snatched, I can easily abide any comment, any stare. Això sí, la relatabilitat del vídeo és ajustada precisament perquè les nostres situacions són dràsticament diferents. Jo sostinc el privilegi de ser una dona cis; per això, mai existiré en la complexitat i l’ostracisme que existeix la Natalie. Per mi l’enteniment de ser bella és molt diferent del seu. La meva bellesa no és una arma de supervivència, però la d’una dona trans gairebé sempre sí (en aquest sentit, faig referència a una bellesa cenyida a la feminitat –errònia sens dubte; per una dona trans quanta més similitud a la imposició femenina més garantia d’existència). Tot i les diferències, m’agrada com la Natalie es refereix a la bellesa com a acte d’oposició i virtut.
És cert que sovint és un refugi. A vegades el meu cos ha estat l’únic que s’ha mantingut erecte entre les runes (quan dic cos dic talla, dic forma, dic pes, dic altura; dic veritat i bellesa). O a vegades tot el contrari: el meu cos ho ha tirat tot a terra. Les cuixes massa grosses, els bessons massa prims, les costelles massa sortides, la grassa als llocs equivocats.
Això de la Natalie: “I’m not gona judge another woman for the way she copes with a society that pressures women to be beautiful, while simultaneously belittling them for caring about it”. Tinc vint-i-un anys i cremes coreanes a la tauleta. Sovint em faig la ratlla als ulls. Corro molt perquè m’agrada més el meu cos quan corro. Em miro el cos. Les meves amigues es miren el cos. Em miro la cara, l’observació causal la converteixo en escrutini; les meves amigues es miren la cara, ens mirem el cos i ens mirem la cara. Vivim sota un poliedre de comparació continuada i elaborada. Si ens importa la bellesa se’ns critica. Si no hi pensem se’ns jutja. I així successivament fins que ens detestem totes i l’únic que ens permet seguir surant és l’esperança de pensar que demà ens diran una cosa agradable que se situarà ben a prop de la dermis, fargant un film primíssim, sense penetrar-nos però sense abandonar-nos.
Estem al llimbs. El lloc on les ànimes de la teologia catòlica tradicional van a morir mentre esperen la redempció del gènere humà. Nosaltres també esperem la nostra. Esperem (mentre implorem el favor de les divinitats) que vingui una massa mare de color xiclet i ens digui: “Tu, filla meva. Tu ets bella. Tu pots passar”.
You are beautiful. Pepper spray a cop
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satanvale · 5 years
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ITALIAN EXOLS THIS IS FOR YOU!!!
Evento organizzato dalla pagina italiana sul nostro Kyungsoo
❝ SWING KIDS HASHTAG EVENT ❞
"Swing Kids" è un film che parla delle vicende del soldato semplice Nord Coreano Roh Kisoo (Do Kyungsoo) detenuto in un campo di prigionia americano in Corea negli anni 50, e della  scoperta del suo amore per la tap dance. Da Gennaio, il film è uscito nelle sale coreane il 6 Dicembre, verrà proiettato in altri 23 paesi in tutto il mondo (America, Canada, Australia. Malesia etc etc) ma non l’Italia, per questo motivo tocca a noi! Vogliamo far sì che Swing Kids venga proiettato anche nelle sale italiane e all'occasione abbiamo creato un evento per voi! Il nostro punto di riferimento sarà la catena "UCI CINEMAS" e saranno proprio loro il nostro obbiettivo! GIOVEDì 10 GENNAIO 19:00 ITALIANE SU TUTTI I SOCIAL (FB, IG, TWT) Seguite i pochi passi richiesti e aiutateci a portare Swing Kids ed il nostro Kyungsoo in Italia! Non mancate e.. passate parola!
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