Voci
Da quando ho avuto la diagnosi di OCD e depressione, cioè da 1 anno e mezzo a questa parte, il mio ragazzo ha iniziato ad attribuire a suoi comportamenti normalissimi l'etichetta di ossessioni.
Se si soffia il naso due volte di fila non è perché è raffreddato, ma perché ha "l'ossessione del muco".
Se fuma una canna e gli viene una paranoia non è perché la marijuana l'ha preso male, ma perché ha "l'ossessione del fumo".
Se conta il numero di pagine che mancano alla fine del capitolo che sta studiando non è perché vuole semplicemente sapere quanto ancora deve stare seduto alla scrivania, ma perché ha "l'ossessione di sapere".
Io non gli dico nulla, mi limito a sorridergli e a cambiare discorso.
Non provo sinceramente alcun fastidio quando lui o altre persone attribuiscono la definizione di una patologia a loro azioni e reazioni perfettamente nella norma.
Piuttosto, mi fa ridere la loro ingenuità.
Il mio ragazzo non sa - e mi auguro che non sappia mai - che il problema non sono tanto le ossessioni quanto le compulsioni.
Lui e tutte quelli che credono fermamente che essere fissati con l'ordine e la pulizia sia disturbo ossessivo compulsivo, non sanno che il vero problema non è il disordine ma le azioni più semplici.
Per un anno ho avuto paura di tenere in mano i coltelli da cucina, perché ogni volta che ne afferravo uno immaginavo di piantarmelo nei polsi.
E visto che in quello stesso anno lavoravo nella cucina di un pub, quindi non c'era modo di fuggire alla persecuzione dei coltelli, la soluzione che avevo escogitato era quella di indossare sempre i guanti in nitrile.
"Così c'è una distanza tra me e i coltelli", mi dicevo.
Per le stesse ragioni mi viene da ridere quando sento una persona triste definirsi depressa.
Darei volentieri via l'anima per potermi sentire semplicemente triste per qualcosa, piuttosto che sprofondare in un baratro nero ogni due settimane senza uno straccio di ragione reale.
La mia mente non è fatta come quella della maggior parte delle persone. Per accettarlo ci ho messo più di vent'anni.
E' come se dentro di me abitassero delle Voci che ogni tanto iniziano conversazioni tra loro stesse, fregandosene di quelli che sono i miei bisogni e i miei impegni reali.
Queste Voci spesso ripetono frasi sentite dalla mia famiglia. "Non vali un cazzo". "Sei una puttana." "Sei disgustosa". "La tua laurea è inutile." "Hai sprecato la tua intelligenza". "Statti zitta che non capisci un cazzo". "Che cazzo piangi, non hai problemi".
Altre volte tirano fuori le parole delle persone con cui ho lavorato. "Come fai a non capirlo?" "Ma ci sei o ci fai?" "Tu non hai idea di cosa sia il burnout".
E per funzionare a dispetto di queste voci, mi trovo costretta a fare delle cose che sono oggettivamente strane.
Controllare le posate prima di mangiare. Sistemare le scarpe in un dato modo. Grattarmi fino a scorticare la pelle. Trascorrere ore e ore e ore con le cuffie addosso anche senza ascoltare niente. Lavare il bagno tante di quelle volte da consumare le piastrelle.
Non sono cose che voglio fare. Si tratta di azioni che devo svolgere per far stare in silenzio le Voci.
La cosa più esilarante è che se io spiegassi al mio ragazzo o alle altre persone che nella mia testa abitano queste voci, finirei per essere etichettata definitivamente come pazza da TSO.
Quindi mi rassegno ad ascoltare la loro "depressione" e le loro "ossessioni" con un sorriso sulle labbra e un sospiro nel cuore.
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~ Questa è una storia che, per quanto vera,
non parte con “Una volta c’era”,
ma inizia invece a narrar del fatto con
“Una volta non c’era affatto”,
Perché all’inizio del tempo antico,
quando vestiva foglie di fico
o pelli, quando poteva averne,
l’uomo viveva nelle caverne
e come un bruto si comportava,
menando tutti con la sua clava,
portando infine questo abominio
nelle riunioni di condominio,
così che tutti, ladri ed onesti
si ritrovavan con gli occhi pesti:
ecco, a quel tempo, un tempo infame,
su questa terra non c’era il pane.
C’era però fra le piante incolte,
che non venivano mai raccolte,
un arboscello dal fusto in riga
che terminava con una spiga,
che nasce d’inverno, sotto la neve,
ma poi diventa, per farla breve,
frutto maturo, per la sua natura
a inizio d’estate, nella calura.
Ci fu qualcuno, chissà chi è stato,
stufo di pranzi da disgraziato,
un tipo sveglio, con gli occhi acuti,
fra quegli uomini tutti barbuti
e donne tristi come epitaffi,
fra cui più d’una aveva i baffi,
che, dando prova del suo talento,
disse “Orca vacca, questo è frumento!”
Quell’uomo rifece, fiutando a naso,
ciò che natura affidava al caso:
arò, zappò, preparò una serra,
prese quei semi e li mise in terra
e faticò fino a che il sedere,
che ha una forma sua di paniere,
cioè rotondo, gli si fece a cubo,
mentre chi invece non faceva un tubo
lo derideva per la sua fatica
con frasi pungenti come l’ortica
e criticava quel farsi il mazzo
come lo stupido critica il pazzo,
quello che fa cose nuove o strane,
come chi ha i denti e vuole il pane,
ma porta il mondo allo stato in cui
o prima o dopo, ha ragione lui.
Così, un bel giorno, non dopo molto,
ci fu alla fine un bel raccolto
di chicchi biondi, gialli come il sole:
tutti dicevano “Ma chi li vuole…!?
Che ci facciamo con questi chicchi?”
E, per disprezzo, davan dei picchi
sopra quel frutto della fatica
e quegli idioti non sapevan mica,
così facendo, di dare l’avvio,
al mal concetto del tuo e del mio,
che già in quel tempo così lontano
c’era l’invidia per chi fa il grano…
L’uomo tornò dopo il disastro
e dato ch’era proprio un furbastro
vide che il frutto del batti e batti
non era cosa d’andar nei matti
ma era una polvere bianca e leggera
con un profumo di primavera
e quando vide la polverina
disse “Orca vacca, questa è farina!”
Si sa, la strada quando s’è presa
dal verso giusto, corre in discesa:
l’uomo di genio si guardò intorno
e in un momento t’inventò il forno,
anche se dopo quella creazione,
dovette chiedersene la ragione:
“Va bè’, t’ho fatto, ora che nervi…
adesso che esisti, a cosa servi?”
Per un momento restò perplesso
ma poi quell’uomo disse a sé stesso
“Lo scoprirò, ma mentre attendo,
io quasi quasi ora lo accendo…”
La sua tribù lo prendeva in giro,
mentre vedevano che col respiro
soffiava dentro a quel nuovo gioco
per attizzare le fiamme al fuoco:
“Cosa combina, ma che cosa fa,
che soffia dentro a quel “coso” là?
Se c’era un dubbio, sembra che adesso
sia confermato: è proprio un fesso!”
Venne dal mare un temporale,
con lampi, tuoni, pioggia infernale.
Per non bagnarsi, scapparon certo
in una grotta tutti al coperto.
Scappò anche l’uomo che lavorava
vicino al fuoco che scoppiettava:
“Di un raffreddore ne faccio a meno
forse son pazzo, ma non son scemo!”
Quando tornò con l’arcobaleno
che attraversava un cielo sereno,
vide che l’acqua ch’era cascata
dal cielo scuro s’era mischiata
fortuna volle, quanto ne basta,
con la farina fuori rimasta,
in un miscuglio che, tira e molla,
più che una pasta sembrava colla.
Forse un’idea non spaccherà un capello,
ma come un lampo taglia il cervello
in un istante, da cima a fondo,
ed è un istante che cambia il mondo.
A quella pasta, quel pensiero astratto,
lui diede forma di un disco piatto
e lo infilò, con un gesto attento,
nel forno acceso che non s’era spento.
Passò del tempo, ma nemmeno tanto
cuoceva il tutto e lui ci stava accanto
bello tranquillo, pur senza sapere,
che prima era un uomo, ora un panettiere.
Ne uscì un profumo che arrivò lassù
dove viveva l’intera sua tribù
che spinta dal richiamo dell’olfatto
venne a vedere ciò che aveva fatto:
vennero giù coi denti preparati
come di solito fanno gli affamati
per controllare se quel buon odore
fosse abbinato con un buon sapore.
Quando c’è fame non ci si fa caso
però c’è sempre quel che storce il naso:
“E’ buono sì, però ci sembra un muro
l’ha appena fatto ed ecco che è già duro!”
Quel panettiere senza una licenza,
che allora ancora si faceva senza,
che però aveva tutti gli attributi
che gli giravano, disse: “Cornuti!”,
disse: “Di fisime ne avete tante,
che non è duro…solo un po’ croccante!
Frenate dunque la vostra stizza,
che volevate, fosse già una pizza?
Migliorerò questo mio prodotto
che sia ben morbido quando sia cotto
e infine, quando sarà sul desco,
più sarà caldo più sarà fresco:
dirà in un modo che val per tutti,
per alti e bassi, per belli e brutti,
in un concetto nobile e arcano
che il pane nostro sia quotidiano,
dirà alla luce di un’altra fame
che non si vive di solo pane
e verrà un tempo, molto vicino,
di pane al pane, di vino al vino,
e per gli uomini crudi e violenti
ci sarà pane per i loro denti,
sarà così che, piaccia o non piaccia,
gli sarà reso pan per focaccia.
Chi vede un fatto ben più scontato,
che può esser zuppa o pan bagnato,
mangi in silenzio le pagnotte gialle
e non stia lì a rompere le palle!”
Ecco la storia, forse sarà vera
soltanto in parte, oppure tutta intera,
perché fra tanti “C’era una volta…”
è il risultato quello che conta.
Da quell’arbusto col fusto in riga
che sale al cielo con una spiga,
da un uomo preso nel suo lavoro
nasce quel piccolo capolavoro:
in un bisticcio fra estate e inverno
cotto in un forno che par l’inferno,
farina, acqua, lievito e strutto,
si chiama pane e questo è tutto. ~
G. Faletti
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