1 - DOMENICA 2 NOVEMBRE
Non credevo che sarei mai riuscito a raccontare questa storia. Siamo sinceri... chi ci crederà? Vi giuro che io per primo tutt'ora non lo faccio al cento percento, non sempre almeno; c'è una parte di me – quella che apre gli occhi al mattino – che riduce tutto ad un sogno o si convince di aver assunto qualche droga... io! Se mi conosceste, adesso sareste piegati in due dalle risate; ma non avete la minima idea di chi io sia. Per forza! Ho fatto di tutto per rimanere nell'ombra, nell'anonimato, un semplice osservatore. Purtroppo la vita ha deciso improvvisamente di buttarmi in scena, senza nemmeno prendersi la briga di stampare un copione o di spiegarmi almeno la trama. Bene, spero di non fare lo stesso errore con voi, quindi cercherò di essere chiaro e lineare, nonostante questa storia sia contorta e, in molti punti, potrà sembrarvi frutto di fantasia, facendo di me la Rowling dei poveri. Almeno su questo posso rassicurarvi: non ho intenzione di scrivere libri su libri... è già difficile scriverne uno! Anche perché ci tengo a precisare che io non sono uno scrittore, ma solo qualcuno che ha qualcosa da raccontare, una semplice comparsa che, per caso, si trova a diventare protagonista di una storia.
Chi sono? Beh, non vi aspettate lo stereotipato protagonista di turno: alto, moro, occhi chiari, addominali sui quali grattugiare il parmigiano. Ecco, il parmigiano sì, quello ce l'ho sempre. Sono un ragazzo semplice, che indossa vestiti regalati, occhiali quadrati e scarpe di misure casuali; sono un ragazzo che ama la musica e parla poco; sono la fotocopia di mio padre.
Forse dovrei dire ero, perché nulla è rimasto più lo stesso, a parte gli occhi, color ambra e leggermente a mandorla, e a parte i capelli, sempre arruffati tutt'intorno al viso e simili alla paglia, sia alla vista che al tatto, solo un po' più scuri.
Se queste premesse non vi hanno fatto cambiare idea, forse c'è una piccola possibilità che la mia storia non muoia insieme a me.
È cominciato tutto il 2 novembre 2014.
Mi ero trasferito in città da pochi mesi. La mattina studiavo al conservatorio, mentre la sera lavoravo in un bar per pagarmi gli studi ed una piccola stanza – un bunker della seconda guerra mondiale – che si trovava in periferia, tra venditori di kebab e chi, il kebab, sembrava usarlo come saponetta. Ho sempre avuto un olfatto molto delicato, motivo in più per tenere lontana la gente. Anche a lavoro cercavo di starmene spesso per conto mio. Ero quello che scaldava i tramezzini, ricaricava i frigoriferi e puliva i vetri; insomma, tutto quello che mi permetteva di stare lontano dalla gente e di non combinare casini. Non ero bravo né con i cocktail – sempre troppo alcolici – né con i caffè – sempre troppo acquosi – ma, in mia difesa, ero l'unico a non aver mai rotto un bicchiere. «Per forza», mi aveva detto una volta un collega, «tu i bicchieri neanche li sfiori», e aveva ragione. Il proprietario non mi licenziava perché gli facevo pena, quindi c'era una sorta di silenzio omertoso che aleggiava sulla mia presenza in quel locale che – non per colpa mia – aveva una clientela da bettola appestata del milleseicento.
Non facevo mai la spesa. A pranzo c'era sempre qualcuno a cui scroccare mezzo panino al conservatorio, mentre la sera, o mangiavo a lavoro, o scongelavo un pezzo di rosticceria regalata dal panettiere vicino casa. Facevo rifornimento ogni lunedì, appostandomi davanti al panificio intorno alle venti con la faccia da cane bastonato – faccia che funzionava solo col panettiere – così quello che rimaneva invenduto era tutto mio. Ho tirato avanti per mesi.
Perché vi sto raccontando questo? Per farvi capire sin da subito quanto fossi poco adatto al ruolo di protagonista: nato da genitori pavidi, cresciuto tra divieti ed ansia, senza amici e con quella strana abitudine di parlare da solo. Non sono pazzo, ma ho sempre preferito parlare al pulviscolo galleggiante nell'aria che discutere con le persone. Bene, se neanche questo è riuscito a fermarvi, vuol dire che quello che ha cambiato per sempre la mia vita potrebbe cambiare anche la vostra.
È cominciato tutto il 2 novembre 2014.
Ricordo bene che quella mattina mi ero svegliato con uno strano mix di serenità ed ansia che si intrecciavano nello stomaco come ciocche di capelli nello scarico della doccia. Il caffè mi aveva convinto che si trattasse di puro bisogno fisiologico, ma passare un quarto d'ora sul water, con le gambe addormentate, l'acqua ancora pulita e nessun'altra etichetta da leggere, era bastato a farmi capire che il caffè aveva torto.
Serenità ed ansia.
Cominciamo dalla serenità. La domenica è sempre stato il mio giorno preferito: niente scuola, niente negozi, niente gente... se le stelle cadenti avessero esaudito i desideri che avevo espresso da bambino, adesso vivremmo una domenica perenne... o forse vivrei solo io una domenica perenne... sì, credo di aver anche chiesto di far sparire tutti gli esseri viventi.
Vi chiedo scusa.
Ho sempre approfittato della domenica per spazzare, non solo il bunker dove vivevo, ma anche la mente. Come una Biancaneve decisamente poco femminile, spazzavo il lerciume settimanale, ignoravo l'accumulo di polvere sotto il tappeto e chiudevo le finestre fino al giorno dopo, quando il vento tornava a sventolare quella stessa polvere tra il cervello e il cervelletto. E allora di nuovo preoccupazioni e caos.
Allo stesso modo, ho sempre creduto che il 2 novembre fosse un giorno pieno di ansie. Perché? È buio, silenzioso, ed è come se l'aria fosse composta da ossigeno e polvere soporifera. Il giorno dei morti. Ora non voglio dire che avevo paura di trovare il padre di mio nonno che preparava il caffè in cucina... non sono mai stato uno di quelli che aspettano il 2 novembre per andare al cimitero. Io al cimitero potevo andarci tutti i giorni, proprio per questo non ci ero mai andato. Non mi faceva paura... mi terrorizzava. Le uniche tombe che avevo visto in vita mia erano quelle dei telegiornali che mio padre mi aveva sempre costretto a vedere sia a pranzo che a cena. Per lui era quello “farsi una cultura”. Forse è per questo che sono sempre stato secco come uno stuzzicadenti.
Dopo quella domenica ne avrei viste di tombe e di morti... per così dire... ma vi giuro che adesso non riuscirei a rivivere tutto un'altra volta. In definitiva, il 2 novembre è semplicemente un giorno triste, senza troppe logiche spiegazioni.
Quell'anno il 2 due novembre era domenica, uno strano connubio che non poteva portare nulla di buono. Per evitare di diventare troppo superstizioso o, ancora peggio, di mandare su di me una qualche sconosciuta maledizione, ero rimasto tutto il giorno a letto, attento a non fare assolutamente nulla, se non respirare ossigeno soporifero. Avevo letto, sì, lo ammetto, ma considerando che mi ero addormentato con le parole di Stendhal macchiate su carta riciclata e poggiate in un precario equilibrio sul mio petto, credo di poterlo inserire nel “non aver fatto nulla”. Qui viene il bello. Io, Andrea Mancino, studente di conservatorio, proprio io, sfigatello di provincia con occhiali e capelli arruffati, di quelli che vedi tutto l’inverno con la sciarpa ed un cappotto enorme, che non vedi mai alle feste, che se ne stanno spesso in disparte e che ogni tanto vedi mimare i testi delle canzoni che sentono attraverso le cuffie... Beh! Proprio io sono stato scelto come protagonista – e voglio sottolineare la parola pro-ta-go-ni-sta – di una stranezza… strana! So che “stranezza strana” è un abominio letterario, ma non riesco a trovare aggettivi più adatti per spiegare quello che… Va bene! Cerchiamo di ricostruire ogni cosa dall'inizio.
Tutto immobile, luci spente e porta chiusa: prevenzioni anti-domenica-2-novembre attivate. Di colpo una telefonata ruppe la sacralità del mio rito profano. Era mia mamma: potevo permettermi di non rispondere. Provai a tornare a letto, ma nemmeno fare nulla riusciva a fermare il treno che viaggiava nel mio intestino. Mi alzai con uno scatto affaticato e andai a sedermi, con passi tirati e schiena curva, davanti alla tastiera elettronica regalata da mia sorella per la cresima. Volevo semplicemente scaldare le dita, allenarle, staccarle dagli occhi, renderle indipendenti l'una dall'altra. Non avevo grosse pretese.
Ero fissato con la musica: l'unica cosa in cui ero bravo... non il più bravo, ma bravo abbastanza da farmi uscire dal nido e partire per studiare al conservatorio.
Come tutte le volte in cui accendevo quell'orrenda tastiera elettronica, la musica si impossessò delle mie mani, cancellando ogni proposito di non fare assolutamente nulla.
“Das Lied von der Erde” (Il canto della terra) di Gustav Mahler. Erano mesi che cercavo di riprodurre perfettamente la sinfonia, finendo sempre col suonare stonature che facevano rabbrividire pure il gatto dei vicini. Lo odiavo, mi fissava come se in me vedesse lo spirito maligno di uno stregone e poi... ma questo non c'entra nulla con la nostra storia. Andiamo avanti.
Quella volta c'ero quasi, stavo riproducendo senza errori la versione per pianoforte della nona sinfonia di Mahler, tranne che per una nota, un'unica stramaledetta nota aggiunta per errore. Ho sempre avuto poco controllo del mignolo destro. «Per lo meno non ho stonato», mi dissi. Fu in quel momento che avvenne la stranezza strana: un pianto sordo che echeggiava dalla cucina. Ero solo. Ne ero sicuro. In un istante dimenticai la serenità domenicale e mi concentrai totalmente sull'ansia del 2 novembre. “Vuoi vedere che un parente morto sta veramente facendo il caffè?” pensai. Se fossi stato un eroe da film avrei preso un oggetto qualsiasi come arma e sarei andato a vedere chi stesse piangendo in cucina, ma io avevo coraggio tanto quanto cibo in dispensa, quindi mi chiusi a chiave in camera fino a quando non tornò il silenzio. Poi, lentamente, rigirai la chiave, mossi la maniglia – tenuta con del nastro adesivo – e uscii. Sì, uscii, ma solo perché il treno che viaggiava nello stomaco aveva finalmente trovato la luce in fondo al tunnel. Sarei voluto andare direttamente in bagno, ma quel briciolo di curiosità impiantata in ogni essere umano mi spinse a guardare attraverso il vetro della porta. Una bambina. Che ci faceva una bambina nella mia cucina? Com'era entrata nel mio bunker? Avevo paura ed ero convinto che ci fosse qualcun altro. Aveva quattro o cinque anni, non poteva essere sola. Forse serviva a distrarmi mentre suo padre saccheggiava in camera. Sarebbe stato meglio: lui non avrebbe trovato niente e io avrei continuato a vivere da semplice comparsa.
Non c'era nessuno, la porta era chiusa e le serrande abbassate.
Provai ad avvicinarmi alla bambina, ma lei prese a piangere più forte. Non volevo che i vicini la sentissero. Come avrei potuto spiegare la sua presenza? Rimasi sull'uscio e provai a calmarla. Aveva la testa tutta piena di capelli scuri e lisci, che terminavano in grossi boccoli sotto le spalle, mentre un groviglio disordinato di capelli più corti si arricciava sulla fronte bassa; anche gli occhi erano scuri, messi in risalto dalle folte sopracciglia; aveva le guance tonde e le dita grassocce, ma era molto pallida; la bocca ben delineata spiccava per il suo eccessivo rossore.
Solo mezz'ora dopo smise di piangere. Allora pensai di riscaldarle una pizzetta, ma non l'assaggiò nemmeno. Bevve dell'acqua e mi guardò con degli occhi che, tutt'ora, mentre scrivo, provocano in me qualcosa di indescrivibile. Sento che la forza abbandona le mani, il cuore batte sul collo e la vista... è come se non indossassi più gli occhiali.
Provai a dirle qualcosa, ma lei non capiva. Non parlava la mia lingua. Che potevo fare? Che dovevo fare? Io non sono mai stato perspicace, ho sempre capito tutto in ritardo. Perché proprio a me? Rimasi concentrato su me stesso così a lungo da non capire chi dei due avesse realmente bisogno. Poi mi sorrise ed io mi calmai. Fu in quel momento che pronunciò la sua prima parola: “Putzi”. Non aveva alcun senso! Vi giuro che sentivo battere il cuore persino sulle pareti ingiallite della cucina.
Non capivo se fosse uno scherzo o il risultato di una strana congiunzione astrale.
Non sapevo che, da quel momento, la mia vita sarebbe cambiata per sempre.
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