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#letteratura inglese del '700
gregor-samsung · 3 years
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“ Leggendo Robinson Crusoe, da ragazzo, mi ero sorpreso a pensare: ecco, tutto questo io probabilmente non lo saprei fare – costruire una mola da arrotino con una corda e una ruota, produrre vasellame e una pipa d’argilla, fare dei vestiti e un ombrello con le pelli ottenute cacciando le capre selvatiche… Al contrario, mi sentivo in grado di affrontare gli ammutinati della nave e pensavo che facilmente mi sarei fatto amico Venerdì. Tra le molte attività di Robinson che non avevano nulla a che fare con gli esseri umani, l’unica verso cui ero disposto a riconoscermi una qualche attitudine era catturare il pappagallo per insegnargli a parlare, un’attività cioè squisitamente sociale. Così, quando più avanti negli anni appresi dell’«ipotesi della funzione sociale dell’intelletto» formulata dallo psicologo evoluzionista Nicholas Humphrey ne rimasi folgorato. A dispetto della loro apparente complessità, osservava Humphrey, i problemi di tipo fisico-tecnologico cui deve far fronte Robinson Crusoe sono relativamente semplici, i problemi difficili sono quelli che nascono dall’interazione con gli altri esseri umani: le grane, per Robinson, si palesano assieme alle orme di Venerdì. Di solito non apprezziamo la complessità e la difficoltà dei problemi di natura sociale, sia quando perseguiamo scopi volti al benessere comunitario attraverso l’altruismo e la cooperazione, sia quando ci prefiggiamo obiettivi manipolatori, come nell’inganno tattico. Questo perché noi esseri umani veniamo al mondo ben attrezzati per fronteggiare i dilemmi che nascono dalla vita di relazione. Anche quando sperimentiamo conflitti con i nostri simili, per noi è facile intuirne la natura e cercare di risolverli, possibilmente a nostro vantaggio. Però non c’è nulla di semplice nel modo in cui ci si può capire con Venerdì o con i conspecifici in genere. Humphrey divide con la primatologa Alison Jolly la primogenitura dell’idea che menti complesse si sviluppino in gruppi sociali dove gli individui debbano intessere trame intricate nei rapporti interpersonali, come accade tra gli esseri umani, ma anche, in una certa misura, tra altre creature: mammiferi quali le scimmie antropomorfe o uccelli come i corvi. L’idea di Humphrey e Jolly ha aperto la strada alla nozione della cosiddetta «teoria della mente», la capacità umana di rappresentarsi gli stati mentali altrui, e all’interrogativo se i rudimenti di essa siano rintracciabili in altre specie. “
Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, Adelphi, 2021 [Libro elettronico]
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Doppio anniversario per il nostro poeta nazionale
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Giorgio Vasari, Ritratto di sei poeti toscani (1544)
Tutta Italia quest’anno ricorda i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri e celebra, il 25 marzo, il secondo Dantedì, giornata istituita nel 2020 (ne abbiamo parlato nel nostro blog) dal Consiglio dei Ministri. Le numerose iniziative sono state organizzate in modo da consentire sia una visita sul posto, sia tour virtuali che allargano in modo esponenziale le possibilità di vedere e conoscere. Se, prima di partire alla riscoperta del grande Durante, sentite l’esigenza di ripassare la sua biografia, vi consigliamo un classico, Vita di Dante di Giorgio Petrocchi, una biografia recente di Giorgio Inglese e una fiction televisiva in cui Dante è magistralmente interpretato da Giorgio Albertazzi.
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Sono veramente innumerevoli le manifestazioni che si svolgeranno in Italia (la più curiosa è forse quella di un liutaio che ha raffigurato i 33 canti dell’Inferno su altrettanti violini), e in particolare a Firenze e nelle altre città in cui il padre della lingua del sì ha soggiornato. Per la gran parte rimandiamo ai link relativi, ma ci piace ricordare in primo luogo la brillante iniziativa dell’Accademia della Crusca che, per ogni giorno del 2021, farà apparire nel proprio sito ufficiale una diversa parola o espressione di Dante arricchita da un breve commento.
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Raffaello, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano (1509)
Piazza Dante. #Festivalinrete è un progetto di 41 festival di approfondimento culturale uniti per celebrare il sommo poeta. “Piazza Dante sarà una piazza virtuale in cui contenuti multimediali (video, interviste agli autori, scritti inediti) daranno la possibilità a tutti di vivere le iniziative realizzate via via dai Festival”. Per quanto riguarda Milano, anticipiamo che gli eventi, curati da Elisabetta Sgarbi, si svolgeranno durante la tradizionale manifestazione La Milanesiana (giugno-luglio 2021).
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Agnolo Bronzino, Ritratto di Dante (1532-33)
“Molto interessante il progetto UniBg per Dante 2021, sviluppato dall’Università di Bergamo. Su un canale dedicato è in continuo aggiornamento la serie di cortometraggi 5 minuti con Dante: brevi conferenze-video di critica e di esegesi tenute da più di 50 studiosi italiani e stranieri del mondo della letteratura e di scienze affini all’italianistica”.
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Per la serie infinita “l’arte ispira l’arte”, la Comedìa ha esercitato un ruolo importante anche come fonte creativa non solo per la letteratura e le arti figurative, ma anche per la musica: questa antologia musicale comprende autori come Monteverdi, Liszt, Rossini, Puccini, Ponchielli e molti altri.
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La nave di Teseo ha appena dato alle stampe l’ultima fatica del celebre dantista Giulio Ferroni  L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della  Commedia. “Seguendo la traccia della Divina Commedia, e quasi ripetendone il percorso, Giulio Ferroni compie un vero e proprio viaggio all’interno della letteratura e della storia italiane: una mappa del nostro paese illuminata dai luoghi che Dante racconta in poesia”. Questo cammino critico-letterario ha dato lo spunto alla realizzazione del progetto L’Italia di Dante, che prevede una piattaforma digitale, in cui le località visitate dal Poeta o da lui citate saranno proposte in veri e propri itinerari virtuali.
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Un altro tour virtuale è quello che permette di ammirare gli scatti di Massimo Sestini per Dante 700, “un racconto del mondo lirico, politico e biografico di Dante attraverso venti fotografie che ritraggono il volto del poeta in luoghi che ne conservano memoria e ispirazione”.
Anche Verona, che ospitò Dante fra il 1313 e il 1318, ha preparato un programma molto ricco, tra cui segnaliamo La Verona di Dante: un viaggio in video per scoprire i luoghi del Poeta nella città veneta, con la collaborazione di Claudio Santamaria. Per quanto riguarda le arti figurative, il Museo di Castelvecchio ospiterà due mostre ispirate ai canti dell’Inferno: una dell’illustratore americano Michael Mazur e una di Gabriele Dell’Otto, noto per i disegni dei supereroi della Marvel, le cui immagini troviamo nelle nostre biblioteche nell’edizione dell’Inferno curata da Franco Nembrini. Fra gli spettacoli, Dante Project di Paolo Fresu e La figura femminile nella Divina Commedia a cura di Lella Costa.
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Per quanto riguarda Ravenna, dove Dante passò gli ultimi anni, ricordiamo in special modo una “mostra della mostra”, ovvero un percorso di documentazione storica allestito al Museo d’arte, che descrive le celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. “Già aperta Dante nell’arte dell’Ottocento. Un’esposizione degli Uffizi a Ravenna allestita negli Antichi Chiostri francescani, limitrofi alla Tomba di Dante. Frutto di una collaborazione con gli Uffizi, prevede un prestito di un nucleo di opere a cominciare dal Dante in esilio di Annibale Gatti. Nell’opera il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella pineta di Classe, citata nel Purgatorio”. Estremamente interessante, infine, la mostra Le arti al tempo dell’esilio presso la chiesa di S. Romualdo, che espone le opere che il poeta stesso poté vedere durante le sue peregrinazioni, come il Polittico di Badia di Giotto, il San Paolo di Jacopo Torriti e il preziosissimo Offiziolo, un manoscritto miniato, per la prima volta esposto, appartenuto al poeta Francesco da Barberino, amico di Dante.
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Polittico di Badia, Giotto
Forse il Poeta, esule, bandito dalla sua amata Firenze, ramingo per l’altrui scale, pensava proprio a se stesso quando, in Pg XXII 67-69, fa pronunciare da Stazio questi versi rivolti a Virgilio:
Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte.
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cdramaitalia · 2 years
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La classifica dei miei c-drama preferiti del 2021
Questa lista potrebbe anche chiamarsi “Word of Honor e le altre due serie in croce che sono riuscita a guardare”. Perché rispetto al 2020, nel 2021 ci sono stati molti meno c-drama che hanno catturato la mia attenzione. Ne ho iniziati parecchi, ma continuati e apprezzati pochi.
Tutti questi drama sono disponibili online con sottotitoli in inglese, in alcuni casi anche con sottotitoli in italiano. Se non doveste riuscire a trovarli chiedetemi pure i link.
1. Word of Honor 《山河令》
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Cosa posso dire di questo drama? Dire che è la mia serie TV preferita in assoluto (cioè in ogni lingua, da ogni paese) del 2021 non è abbastanza. Onestamente non mi era mai capitato di appassionarmi così tanto a un drama da mettermi a creare video, tradurre testi di canzoni, comprare merch, studiare la letteratura classica cinese per capire tutto quello che riguarda Word of Honor. Ho fatto pazzie simili in passato per manga o libri, ma mai avrei pensato che sarei diventata una fangirl di un drama cinese da quattro soldi (detto con affetto). E invece eccomi qui.
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Word of Honor è soprattutto una storia d’amore, ma è anche la storia di una famiglia, dove la famiglia è un po’ quella che ti assegna (o ti porta via) il destino e un po’ quella che ti scegli tu. È ambientato nel mondo fantastico degli eroi e dei cattivi del jianghu, ma le emozioni che ti trasmette sono reali e senza tempo. Parla di redenzione, ingiustizie, inganni, lotte di potere, ti tiene con il fiato sospeso ma senza mai perdere di vista il legame speciale fra i personaggi, tutti interessanti e ben scritti.
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Gli sarò per sempre grata per la gioia, le ansie, le lacrime, la bellezza che mi ha regalato. E sarò sempre grata ai creatori della serie per aver realizzato questo progetto con passione e sincerità, e agli attori Zhang Zhehan e Gong Jun per aver incarnato splendidamente Zhou Zishu e Wen Kexing. Voto: 10/10
2. The Day of Becoming You 《变成你的那一天》
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Il vecchio trope dello scambio di corpi fatto bene, senza clichés. La prima cosa che mi viene in mente pensando a questa serie è quanto ho riso guardandola. Zhang Xincheng e Liang Jie sono fantastici quando devono interpretare il personaggio dell’altro, e carinissimi nelle loro interazioni. Il mio drama preferito dell’anno nel genere commedia romantica. Peccato che si perda un po’ nella seconda parte. Voto: 8.5/10
3. You Are My Glory 《你是我的荣耀》
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Una fiaba moderna. Qualche volta ti viene voglia di mettere da parte le serie dalle emozioni forti e preferisci guardare qualcosa dalla trama semplice, che si può riassumere con la frase “due persone incredibilmente belle e di successo si innamorano e vivono per sempre felici e contente”. Scenari che non accadrebbero mai nella vita reale, ma per una volta lasciatemi spegnere il cervello. Voto: 8/10
4. Remembrance of Things Past 《我在他乡挺好的》
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Una serie realistica che parla di un gruppo di donne che cercano di sopravvivere alla vita della metropoli, a Pechino, cercando di trovare un equilibrio fra la dura realtà e i sogni che le hanno portate a vivere e cercare lavoro lì. Affronta temi pesanti, come il suicidio e la malattia, e lo fa con la giusta misura. Voto: 8/10.
5. Luoyang 《风起洛阳》
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Non ho terminato questa serie ma ho guardato solo metà degli episodi. Il motivo è che dopo un po’ ho perso interesse nella trama e nei personaggi. Ma volevo comunque includerla nella lista perché ne ho apprezzato molto l’aspetto visivo e la ricostruzione della capitale Luoyang durante il regno dell’imperatrice Wu Zetian (anno 700 circa). La fotografia e i costumi sono splendidi, e puoi quasi immergerti nella vita di questa città enorme, piena di rumori, di colori e di gente. Voto: 7/10
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Il Festival della scienza e della curiosità
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Dal 3 al 5 settembre 2021 torna a Padova il CICAP Fest, il Festival della scienza e della curiosità, giunto alla sua quarta edizione. Navigare l’incertezza. Con il dubbio come bussola… per tornare a riveder le stelle è il tema scelto per l’edizione 2021 del CICAP Fest. Perché, anche se attribuiamo all’incertezza un valore negativo, in realtà è il motore della scienza e del cambiamento. E l’incertezza è anche alla base delle metodologie di verifica di pseudoscienze e fake news, temi tradizionalmente cari al CICAP. Il palinsesto vedrà confrontarsi sull’argomento, in modalità mista, scienziati, divulgatori, scrittori, filosofi e personaggi del mondo della ricerca, della letteratura, dello spettacolo e della cultura. «Quest’anno» spiega Massimo Polidoro, direttore del Festival della scienza e della curiosità, «il CICAP Fest si intitola “NAVIGARE L’INCERTEZZA. Con il dubbio come bussola… per tornare a riveder le stelle”. L’incertezza, lo sappiamo, genera dubbi e il dubbio può mettere a disagio. Da qui l’esigenza di cercare rassicurazione talvolta costruendo spiegazioni rassicuranti ma false o distorsive. L’incertezza che muove la scienza, in quanto metodo per conoscere il reale in continua evoluzione, può essere la stella che ci conduce verso il “glorioso porto”, come afferma Dante, di cui ricorrono nel 2021 i 700 anni dalla morte, evento che il CICAP Fest rimarcherà con alcuni incontri ispirati dalla sua opera». «Il dubbio aiuta a esplorare nuove strade e la vita stessa è fatta di incertezze e complessità: nell’economia, nella meteorologia, nel viaggio, nella salute, nell’amore… La scienza stessa è dominata dall’idea di approssimazione probabilistica, e, contrariamente a quanto si dice comunemente, non è fatta per comunicare certezze assolute ma relative e questo, lungi dall’essere un limite, è la sua forza» spiega Daniela Ovadia, coordinatrice scientifica del CICAP Fest. «E, dunque, per aiutarci a navigare in mari incerti, il CICAP Fest condividerà gli strumenti delle varie discipline (comprese quelle umanistiche) che ci permettono di cogliere la lezione più importante della scienza, vale a dire che l’incertezza non si subisce: si governa». Promosso dal CICAP, in collaborazione con l’Università, il Comune, e la Provincia di Padova, il Festival della scienza e della curiosità intende far tesoro della buona riuscita dell’edizione digitale 2020, positiva in termini di partecipazione di pubblico e di penetrazione geografica, costruendo un programma ibrido che, compatibilmente con l’incerta situazione sanitaria dei prossimi mesi e le conseguenti possibili restrizioni, prevederà un palinsesto di incontri in presenza a Padova, storica città del Festival, che saranno trasmessi anche in streaming, e un programma di incontri esclusivamente online. Quest’anno il CICAP Fest riserverà la consueta attenzione alle scuole e ai docenti con un palinsesto dedicato interamente a loro: il CICAP Fest EDU, una settimana di incontri che avranno luogo nel mese di ottobre volti a costruire una piattaforma di contenuti per gli studenti e corsi per insegnanti che rimarranno fruibili anche in futuro. Il Comitato scientifico Shaul Bassi (direttore dell’International Center for the Humanities and Social Change, Università Ca’ Foscari, Venezia), Michele Bellone (giornalista scientifico, curatore editoriale saggistica “Codice Edizioni”), Elisabetta Bernardi (biologa nutrizionista, autrice storica di SuperQuark, docente di Antropometria, Università degli studi di Bari Aldo Moro), Enzo Crupi (docente di Logica e Filosofia della scienza all’Università di Torino, direttore Centro di Logica, Linguaggio e Cognizione), Francesco Paolo de Ceglia (docente di Storia della scienza, Università degli studi di Bari Aldo Moro), Sergio Della Sala (docente di Human Cognitive Neuroscience, Università di Edimburgo - Gran Bretagna - e Presidente del CICAP), Lorenzo Montali (docente di Psicologia Sociale, Università di Milano-Bicocca, Vice-Presidente del CICAP), Annalisa Oboe (docente di Letteratura inglese e Prorettrice alle Relazioni culturali, sociali e di genere Università di Padova), Elisa Palazzi (ricercatrice Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima / ISAC presso il Cnr e Docente di Fisica del clima, Università di Torino), Telmo Pievani (delegato del Rettore per la comunicazione istituzionale dell’Università di Padova e filosofo della scienza), Elisabetta Tola (giornalista scientifica, Radio 3 Scienza, e fondatrice di Formicablu), Antonella Viola (docente di Patologia Generale, Università di Padova, e Direttrice Scientifica dell’Istituto di Ricerca Pediatrica – IRP - Città della Speranza), Fabiana Zollo (docente di Computer science presso il Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica, Università Ca’ Foscari, Venezia). Che cosa è il CICAP Il CICAP (Comitato italiano controllo affermazioni sulle pseudoscienze) è un’associazione educativa e pedagogica, fondata nel 1989 da Piero Angela e da altre personalità del mondo della scienza e della cultura tra cui Margherita Hack, Umberto Eco, Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia e Umberto Veronesi, per favorire la diffusione di una mentalità scientifica e contrastare pseudoscienze, irrazionalità e superstizione. Il lavoro formativo del CICAP è riconosciuto dal Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca. Read the full article
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bridgetsayshome · 4 years
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<<Books>> La verità´ sul caso Harry Quebert
Ciao a tutti!
Lo so, lo so, sono stata assente in questi ultimi mesi, ma prometto di impegnarmi per tornare operativa e, soprattutto, iniziare a dare vita anche agli altri due profili che ho scelto di dedicare alle mie principali passioni: viaggiare, leggere, guardare film e serie tv.
Pertanto, ho deciso di inaugurare questa sezione “casalinga” del profilo a uno dei casi letterari degli ultimi anni che ho appena terminato di leggere. 
Prima di proseguire con i miei personali commenti, un breve ma saggio consiglio: non scegliete mai un libro di 750 pagine come lettura estiva da portare in spiaggia, a meno che non vogliate ritrovarvi con i tricipiti di Popeye. Si lo so, avrei potuto convertirmi al Kindle e leggera in totale “leggerezza”, ma non ci riesco proprio: per me e´ fondamentale sfogliare le pagine e sentirmi un tuttuno con la vicenda e i suoi personaggi.
Ho acquistato “La verita´ sul caso Harry Quebert” diversi anni fa, quando vivevo a Milano, ma non ricordo bene per quale motivo non ho mai iniziato a leggerlo (forse l´ansia da “Braccio di Ferro”). Nel frattempo mi sono traferita all´estero etc etc. Tuttavia, poiche´ quest´estate ho notato un boom di foto, commenti recensioni sui libri di Joel Dicker - in particolare l´ultimo romanzo “L´enigma della camera 622″ che ho gia´ ordinato - ho approfittato per rispolverare la mia libreria di casa e, come ben ricordavo, il librone era li ad aspettarmi!
Cosi, mi sono avventurata anche io nel mondo di Joel Dicker e mi sono lasciata trasportare in uno dei suoi cosidetti “cold cases”. Cosa significa? I cold case - se ricordate una serie tv si intitola proprio cosi - e´ l´espressione inglese per definire i casi irrisolti che a un certo punto la polizia sceglie di chiudere, senza necessariamente identificare un colpevole, perche le ricerche sono a un punto morto e non esistono piu ragioni valide per proseguire. 
Questa e´ cio´ che avviene nella cittadina di Aurora nel New Hampshire - che a questo punto vorrei visitare un giorno - dove nell´estate del 1975 una ragazza di 15 anni, Nola Kellergan, scompare in circostanze violente; si pensa sia stata uccisa, ma il corpo e il potenziale assassino non sono mai stati inidividuati. 
Trentatre anni dopo, nell´estate del 2008 poco prima delle elezioni che hanno visto vincenre il democratico Barak Obama, il protagonista della vicenda, un brillante scrittore di soli 30 anni Marcus Goldman, arriva nella medesima cittadina per incontrare il suo ex professore di letteratura, nonche´ suo mentore, Harry Quebert. Marcus ha pubblicato un libro che lo ha reso famoso in tutto il Paese e, a distanza di un anno, si ritrova nel bel mezzo della “crisi da pagina bianca” e spera di trovare conforto nei saggi consiglio del docente. 
Ma proprio mentre si trova ad Aurora, in casa di Harry, il corpo di Nola viene ritrovato sotterrato nel giardino della villa di quest´ultimo. Quel caso ormai archiviato da anni torna pertanto alla luce e, indovinate un po, diventera´ fonte di ispirazione per Marcus e il suo blocco della scrittore. 
Non aggiungo altro poiche´ non vorrei spoilerare troppo, ma devo dire che sono rimasta colpita dal modo di scrivere di Dicker - all´epoca coetaneo del protagonista del suo libro - piacevole, semplice ma al tempo stesso coinvolgente. Le dimensioni del libro possono “spaventare”, ma vi assicuro che e´ molto scorrevole e fin da subito verrete catturati dalla vicenda e dal modo semplice ma minuzioso di descrivere luoghi, vicende e personaggi.
L´aspetto curioso che discosta il romanzo dai tradizionali “gialli” e´ l´ampio spazio dedicato ai rapporti interpersonali tra i personaggi, le vicende amorose e le dinamiche familiari. Ammetto che in alcuni punti il tono ricorda quello di un romanzo Harmony con frasi iperbolliche come “Mi sono innamorato di lui appena i nostri sguardi si sono incrociati” o “Lei era l´unica persona che contava nella mia vita e ne dava un senso”. Insomma, quelle espressioni finte da scrittrice di romanzi rosa che fa perdere credibilita´ alla vicenda. Tuttavia, il lettore sceglie di proseguire la lettura perche l´intrigo e la curiosita´ hanno sempre il sopravvento. 
Emblematico e´ il ruolo della cittadina di Aurora e dei suoi abitanti: sembra di immergersi nella classica comunita americana di provincia dove le donne hanno la piega sempre in ordine, gli uomini trascorrono la domenica tagliando il prato e guardando il football. Tutti si sorridono, ma alle spalle non fanno che criticarsi e vogliono sempre apparire agli occhi degli altri nella versione migliore di se´ stessi. Ma il libro si sofferma anche su dinamiche piu delicate, legate alla fiducia in se stessi, al desiderio di redimersi e di far uscire sentimenti repressi.
Insomma, lungo queste 700 e rotte pagine troverete un po´ di tutto, ma non vi annoierete sicuramente e posso assicurarvi che gli ultimi capitoli vi terrano incollati finche´ non sarete arrivati alla fine. In alcune parti troverete il racconto prolisso, e´ vero, ma credo che ogni dettaglio abbia una sua funzione precisa. Varrebbe le pena rileggerlo e cercarli tutti. Fatemi sapere cosa ne pensate una volta che lo avrete terminato...
Ah, ora ovviamente muoio dalla voglia di vedere l´interpretazione di Patrick Dempsey nel ruolo di Harry Quebert da giovane!
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fashioncurrentnews · 6 years
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Bring your Vision
Partirà a ottobre 2018 il nuovo Master in Fashion Art Direction, frutto di una collaborazione tra Polimoda e Vogue Italia.
Nei giornali di moda, dove la componente visiva è essenziale, la figura dell’ art director è responsabile dell’alchemico mixarsi di caratteri tipografici, elementi di design e immagini nel narrare una storia. Si tratta di un profilo professionale oggi molto ricercato, specialmente nel settore della moda, perché la giusta comunicazione delle emozioni e dell’estetica del giornale può decretarne il successo editoriale.
“La figura dell’Art Director ha acquisito grande importanza, dal momento che oggi la comunicazione ha molto più a che fare con il suscitare emozioni che con il pianificare advertising – spiega Danilo Venturi, Direttore di Polimoda – Un Art Director specializzato nella moda deve conoscere tutto sul settore, evolvendosi oltre la tradizionale figura del Fashion Coordinator. Trattandosi di un Art Director specializzato nelle attività editoriali, deve essere capace di individuare i trend nei settori vicini, come arte, musica, cinema, letteratura e tecnologia, per trasferirli nella moda e fare la differenza. Il ruolo essenzialmente comporta di essere una mente creativa con buone doti manageriali, un leader naturale di tutte le espressioni visuali”.
Agli aspiranti Art Director è dedicato il nuovo master firmato da Polimoda. In partenza a ottobre 2018, il corso di 9 mesi in inglese si svolge in 700 ore di formazione suddivise in 5 moduli tra teoria e pratica:
– Lifestyle culture & Management, che comprenderà l’analisi di un giornale e lo studio del proprio migliorarlo;
– Streetwear Creative Writing & Fashion, dove sarà analizzato il giornalismo di moda e il Fashion Merchandising, High Street Fashion: questo modulo comprenderà la creazione e la realizzazione di un progetto editoriale; – Hype Advertising & Media Planning, modulo focalizzato sul trend forecasting, sul digital planning e sulla pianificazione strategica in cui l’esercitazione consisterà nella creaxione di una campagna integrata e di un media plan;
– Visual Trends Graphic Design & Photography, ove l’accento sarà dedicato all’immagine, al graphic design, alla fashion typography, al fashion styling e al video making: al termine gli studenti produrranno uno street trend book;
– infine, il quinto modulo verterà su Art Direction Branding & Future, con focus sulla cultura visuale e – come progetto pratico – la start-up di un magazine o il restyling di uno esistente.
Per tutti i vari moduli formativi, grazie alla collaborazione con Vogue Italia alcuni membri della redazione, del team marketing e dell’ufficio grafico terranno delle lezioni ad hoc; gli studenti, inoltre, saranno invitati a visitare gli uffici di Milano in Condé Nast e a vivere l’esperienza dell’art direction di Vogue Italia.
Al termine del percorso gli studenti potranno inoltre completare la formazione con opportunità di stage presso aziende, redazioni o agenzie di comunicazione, proiettandosi così direttamente nella realtà professionale.
Chi si sente pronto a raccogliere la sfida di una carriera da protagonisti nell’art direction della moda? I candidati saranno selezionati tramite un questionario e un colloquio di orientamento. Tutte le info su come partecipare alle selezioni e sul corso www.polimoda.com
L'articolo Bring your Vision sembra essere il primo su Vogue.it.
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foodiehoodie · 7 years
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L'Empirismo moderno, noto anche come empirismo tradizionale, si sviluppa nell'ambito della filosofia anglo-sassone. Alcuni fra i nomi più importanti della corrente sono John Locke, George Berkeley e David Hume. Tutti loro sostengono l’idea che la conoscenza umana derivi solo dall’esperienza, considerando quindi la mente umana alla nascita niente più che una tabula rasa, in attesa di esperienze e nozioni con cui essere riempita.
Il Neoclassicismo nasce come risposta agli eccessi di gran parte del Seicento, con tutta l’ostentazione del Barocco, sia nelle arti figurative che nella scrittura. Il neoclassicismo rappresenta un ritorno alla semplicità ed eleganza degli antichi, con un linguaggio più pulito, lineare ed armonioso, privo di tutti i metaforoni che avevano invece caratterizzato la gran parte della produzione del Seicento.
Molti artisti e scrittori, quindi, cercano di imitare lo stile degli antichi (sia greci che romani), aspirando ad un ideale di armonia che nel frattempo si era un po’ perso.
In letteratura inglese, in particolare, a “neoclassicismo” si associano per lo più alcuni autori del ‘700, quali Daniel Defoe, Jonathan Swift e Alexander Pope.
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Scrittori senza Nobel e Nobel senza scrittori
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Il premio fu istituito nel 1901 (l’occasione, come tutti ricordano, è il testamento in cui Alfred Nobel, inventore della dinamite, lascia il suo cospicuo patrimonio all’Accademia svedese per la consegna di un premio a chi meglio si sia distinto in Letteratura, promozione della Pace, Economia, Medicina, Chimica, Fisica) e il primo grande escluso fu nientemeno che Lev Nikolàevič Tolstòj (potete trovare le motivazioni in questo sito), ma altri scrittori illustri fanno parte di questa “nobile” categoria, come Musil, Céline, Čechov e Proust. A proposito di quest’ultimo, vale la pena citare le parole con cui Alfred Humbolt, editore di Ollendorff, rifiutò di pubblicare Alla ricerca del tempo perduto: ‘‘Sarò forse uno sciocco ma davvero non riesco a capacitarmi del fatto che un tizio possa impiegare ben trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di addormentarsi”. Se fosse possibile una replica tardiva, potremmo rispondere al signor Humbolt che Oblomov di Gončarov in fondo non fa altro per tutte le quasi 700 pagine del libro e che Ulrich, protagonista de L’uomo senza qualità, non era certo molto più attivo (benché entri a far parte della fantomatica “Azione parallela”, azione non è proprio la qualità che più lo contraddistingue), per non parlare del protagonista (autobiografico) de Il male oscuro di Berto. Se questa non dovesse essere considerata arte, allora non avrebbe senso nemmeno il numero infinito di quadri dedicati da Monet allo stesso soggetto: le ninfee, la cattedrale di Rouen. La letteratura non ha come scopo l’estrema sintesi di una formula geometrica, quello semmai sarebbe il compito della poesia o della filologia, l’artista, come ha detto Wilde nell’introduzione a Il ritratto di Dorian Gray, mettendo un punto definitivo alla questione, “è il creatore di cose belle. Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene, o male. Questo è tutto. L’artista può esprimere tutto. L’arte, tutta, è completamente inutile”.
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A Nabokov il Nobel non fu conferito perché considerato scrittore “immorale”, e l’accusa di eccesso di erotismo valse anche per motivare l’esclusione di Moravia (utile su questo argomento è il libro di Enrico Tiozzo La letteratura italiana e il premio Nobel), Joyce (anche Virginia Woolf si era rifiutata di pubblicare l’Ulisse) e Philip Roth.
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Per quanto riguarda Borges, “l’Accademia di Svezia ha recentemente desecretato i verbali del ’67, anno in cui lo scrittore argentino fu a un passo dal Premio … Lui alla fine ironizzava: È un’antica tradizione scandinava: mi nominano per il premio poi lo danno a un altro. Ormai tutto ciò è una specie di rito. Borges se n’era fatta una ragione, o una rassegnazione. L’apodittico giudizio di diniego fu del presidente pro tempore del Comitato del premio, Anders Osterling: Borges? È troppo esclusivo o artificiale nella sua ingegnosa arte in miniatura”. L’ipotesi più accreditata, in realtà, ha giustificato il fatto con la visita compiuta da Borges nel 1976 al dittatore cileno Pinochet che gli conferì personalmente la laurea honoris causa.
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Anche Graham Greene, candidato per quasi 20 anni, fa parte della nutrita categoria dei papabili esclusi: “Sul mancato riconoscimento al grande scrittore inglese pesarono futili motivi e il fatto che lui l’avrebbe definito un premio anticristiano”.
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Grande scandalo suscitò, nel 2016, l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan, invece che a Philip Roth, a Thomas Pynchon o a Don DeLillo. Quest’ultimo, in particolare, è stato definito il grande sciamano della scuola paranoide della letteratura americana. “Dei suoi libri è stato detto che mettono a disagio il lettore, ma secondo DeLillo questo lettore di cui stiamo parlando si sente già a disagio. È molto a disagio. E forse ciò di cui ha bisogno è un libro che gli faccia capire che non è solo”. Lo stesso Dylan fu piuttosto stupito da questa assegnazione e dichiarò: Le canzoni non sono letteratura, mandando Patty Smith a riceverlo al posto suo.
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A parte i casi in cui il Nobel non poté essere ritirato per motivi politici (e ci riferiamo a Pasternak e a Solženicyn), vogliamo ricordare i due episodi in cui il premio fu teatralmente (è proprio il caso di dirlo) rifiutato: George Bernard Shaw e Jean-Paul Sartre.
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Nel 1925 il drammaturgo irlandese rispose, con l’ironia che lo contraddistingue, con queste parole alla prestigiosa offerta: «Posso perdonare Alfred Nobel per aver inventato la dinamite, ma solo un demone con sembianze umane può aver inventato il Premio Nobel […] I miei lavori e le loro rappresentazioni provvedono largamente ai miei bisogni. Quanto alla mia fama essa è già grande e abbastanza favorevole per la mia salute spirituale. In questa circostanza la somma sarebbe come una cintura di salvataggio che si getta a un uomo che ha già raggiunto la riva e che vi si trova sicuro». Rifiutò così anche le 6500 sterline che gli spettavano consigliando di dirottarle verso il perfezionamento delle relazioni culturali tra Svezia e Inghilterra.
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Nel 1964 Sartre sfoggiò il “gran rifiuto” per sfuggire all’imbalsamazione e al collocamento prematuro in una nicchia del Pantheon letterario (parole di Eugenio Montale). “Così quando, in un ristorante del Quartiere Latino di Parigi dove si trovava in compagnia di Simone de Beauvoir, ricevette la notizia, Sartre non esitò un attimo a dichiarare il suo netto rifiuto. Dovette averci pensato bene negli anni precedenti, visto che era candidato da tempo. Al contrario del burbero cantautore americano, il philosophe pose il suo veto con molto savoir-faire, e dopo aver espresso la sua profonda stima al comitato svedese, precisò in una lettera: «Ho sempre declinato gli onori ufficiali, lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in un’istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli, come in questo caso». Fra le altre reazioni ironiche ci fu quella dello scrittore André Maurois, che sostenne che Sartre si era negato perché incapace di indossare uno smoking”.
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L’inclita Accademia svedese ha purtroppo perso l’occasione di assegnare il premio ad altri tre grandi scrittori: Umberto Eco, Manuel Vázquez Montalbán e Andrea Camilleri.
Siamo ansiosi di conoscere quale sia la lista dei vostri grandi esclusi!
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pangeanews · 6 years
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Ode a Edward Garnett, lo scrittore che scoprì Conrad e pagò la vacanza a D. H. Lawrence (con l’amante)
Ce ne fossero, oggi, di personaggi simili. Joseph Conrad pubblica il primo libro, La follia di Almayer, nel 1895, per T. Fisher Unwin. Conrad ha quasi quarant’anni e deve il suo futuro a un ‘lettore’ che ne ha quasi venti. Edward Garnett “incoraggiò subito il neoautore a procedere sulla strada intrapresa” avendo “fiutato che c’era anche qualcosa di più in quest’opera così originale nella descrizione di ambienti resi familiari, in ottiche diverse, da Stevenson e Kipling, così scettica nei riguardi della retorica corrente sul fardello dell’uomo bianco, contorta nel presentare le motivazioni e la psicologia dei personaggi”. Garnett, figlio di un bibliotecario del British Museum si arpionava al motto: “l’artista deve essere fedele alla propria visione, il critico a quella degli altri uomini”. Disciplina professionale prima che professione di umiltà che ha portato Garnett, marito di cotanta moglie – Constance, più vecchia di lui di quasi dieci anni, ha letteralmente importato la letteratura russa in Inghilterra, traducendo 71 titoli, i più importanti, dai romanzi di Tolstoj, Dostoevskij e Trugenev ai racconti di Anton Cechov – a essere il più efficace consulente editoriale del mondo anglofono, almeno nei primi del Novecento (se ne è andato 80 anni fa, nel 1937). Il sodalizio con Conrad – di cui curò pure l’epistolario – fu totale, “è il mio spirito affine”, diceva, al punto che Joseph confidava a lui tutte le crisi, estetiche e matrimoniali, e lui lo convinse a scrivere una serie di romanzi a quattro mani con Ford Madox Ford, The Inheritors (1901), Romance: A Novel (1903) e The Nature of a Crime (1906). I romanzi ebbero un certo successo all’epoca, furono un ottimo laboratorio ‘sperimentale’ per entrambi, oggi fanno l’effetto del reperto eccentrico del tempo che fu. Tra gli autori sostenuti da Garnett, lavoratore infaticabile – per T. Fisher Unwin, Duckworth & Co. e Jonathan Cape siglava anche 700 schede di lettura all’anno – ora esaltato da una biografia agiografica di Helen Smith dal titolo riassuntivo An Uncommon Reader: A Life of Edward Garnett, Mentor and Editor of Literary Genius (Farrar, Straus and Giroux, pp.440, $ 35.00), spicca D. H. Lawrence – è grazie a Garnett che riesce a pubblicare Figli e amanti: “abbiamo discusso furiosamente di libri”, ricorda D. H., “lui pensa che il mio lavoro sia un po’ troppo eccessivo… eppure loda la sensualità dei miei scritti”; per inciso, la discussione furibonda ebbe luogo nel Kent, vacanza pagata dall’editor a Lawrence e amante, Frieda. Ma Garnett ha sponsorizzato anche John Galsworthy, ha spinto per pubblicare T. E. Lawrence e Stephen Crane (“è dotato di una splendida precocità”), E. M. Forster gli stende un red carpet di complimenti, “ha fatto più di ogni altro per scoprire e incoraggiare il genio degli scrittori: e ha fatto tutto questo senza alcun desiderio di aumentare il proprio prestigio personale”. L’unico neo? Non aver capito James Joyce. Ezra Pound cominciò a urlargli addosso perché non voleva far pubblicare il Ritratto dell’artista da giovane, “questa è la melma della nostra letteratura e soltanto il giorno del giudizio, suppongo, potrà sterminarli”, ha scritto Ez con la consueta morigeratezza. A favore di Garnett, tuttavia, Helen Smith, che insegna letteratura alla University of East Anglia, sfodera la sua scheda di lettura originaria: “Il signor Joyce non è da sottovalutare. Può non piacerci il suo lavoro, ma non possiamo ignorarlo: il suo è un lavoro potentemente soggettivo, piuttosto poco inglese”. Eppure, Garnett fu tacciato per sempre di anti-modernismo. Il dna di Edward, va detto, passò al figlio David, membro di spicco del Bloomsbury Group, scrittore arcinoto, pubblicato in Italia da Adelphi. Avessimo una manciata di Edward Garnett più che una falange di sedicenti Premi Nobel, la letteratura risorgerebbe dalla melma attuale.
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pangeanews · 4 years
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“Del candore e sfolgorìo d’un sogno”. Wordsworth, il poeta che ha inventato l’Io. Dialogo con Angelo Righetti
Già Ordinario di Letteratura dei paesi di lingua inglese, Angelo Righetti ha diretto il dipartimento di Anglistica e presieduto la commissione della Biblioteca ‘Frinzi’, Università di Verona. Suo principale interesse didattico è la letteratura postcoloniale in lingua inglese, in particolare poesia e narrativa caraibica e sudafricana, australiana e neozelandese. Docente anche nelle Università di Leeds, Uk e Cà Foscari, Venezia, nell’ambito delle nuove letterature in inglese ha pubblicato su Henry Lawson, Barbare Baynton, Vance Palmer, Katherine Mansfield, Frank Sargenson, J.M. Coetzee, Patricia Grace e Es’kia Mphahele, Nadine Gordimer, Derek Walcott, Albert Wendt. Ha curato The Brand of the Wild and Early Sketches (2002), e narrativa inedita di Vance Palmer; Theory and Practice of the Short Story; Australia, New Zealand and the South Pacific (2006); The Protean Forms of life Writing: Auto/Biography in English, 1680-2000 (2008), e Byron e l’Europa / l’Europa di Byron (con L. Colombo e F. Piva). Ha inoltre approfondito i periodi romantico, vittoriano e modernista, con volumi su Wordsworth (Poems; traduzione commentata dalle Lyrical Ballads e Poems, in Two Volumes), Byron (Aspects of Byron’s Don Juan), Browning (Poems – traduzione commentata), Ruskin, Joyce ed Eliot (Il dittico eliotiano).
Ho conosciuto il professor Angelo Righetti a Venezia, in Domo Foscari, dove ha insegnato a lungo Letteratura Inglese. I suoi corsi su Eliot ci hanno appassionato e legato per sempre: siamo una generazione di eliotiani grazie a lui (e in molti, lo so, conserviamo ancora gli appunti delle sue lezioni). Il dittico eliotiano – The Love Song of J. A. Prufrock e Portrait of a Lady – è uno studio brillante, di rara profondità, uno di quei libri che ci accompagnano tutta la vita, dove vibra l’affinità tra il poeta e lo studioso.
Ma da Eliot Angelo Righetti spaziava a Laforgue, Browning, Baudelaire, Philippe e molti, molti altri. Due giorni alla settimana – c’erano ancora le annualità – ci riuniva in un’aula alta sul Canal Grande, a pochi metri dalla parete su cui, all’esterno, spicca il lanternone in vetro colorato che di Ca’ Foscari è quasi un simbolo: le ore s’incenerivano tra le ‘poesie americane’ e Prufrock, i Preludes e Portrait of a Lady. Perché il professor Righetti ci ha insegnato Eliot e altri autori, la differenza tra blank verse e free verse, figure retoriche e 7(0) e più tipi di ambiguità ma – anche – molto di più: l’assorta serietà della letteratura. In questa intervista il professore parla del suo amore per Wordsworth – la modernità dell’“effusione lirica” –, dell’arte di tradurre – un “cercare le parole certe” –, della fortuna di Wordsworth – tradotto anche da Pascoli, colpito dalla “cantabilità” del verso wordsworthiano.
Professore com’è nato il Suo amore per William Wordsworth?
Paradossalmente da Eliot, la cui poetica dell’impersonalità lo portava a essere piuttosto critico nei confronti di romantici e vittoriani, e poi a ritroso da uno di loro, Robert Browning, che influenzò non poco Eliot. Browning sentiva a sua volta ciò che Bloom definiva l’anxiety of influence, l’“angoscia dell’influenza”, il bisogno-aspirazione del poeta (più giovane) di superare e distinguersi da chi l’ha preceduto, e infatti criticherà a Wordsworth il suo ‘cambiamento’ dopo essere diventato Poet Laureate, ossia il poter vivere di un appannaggio, e le sue posizioni politiche più tarde, in sostanza il suo ‘voltafaccia’ politico (Angelo Righetti ha curato e tradotto per Mursia anche un volume su Browning, 1990 ndr). In The Lost Leader, Il condottiero perduto il bersaglio di Browning pare fosse appunto Wordsworth, accusato di essere diventato conservatore dopo esser stato rivoluzionario. Un atteggiamento oppositivo, questo di Browning, ma qualcosa da Wordsworth l’ha imparato: l’approccio lirico viene da Wordsworth, anche se Browning scrive prevalentemente monologhi drammatici (in terza persona) per evitare al lettore di confondere la voce parlante con quella autoriale.
Dalle Lyrical Ballads e Poems, in Two Volumes che Lei ha tradotto per Mursia (traduzione peraltro presto esaurita e introvabile) c’è uno o più componimenti che preferisce?
Con Wordsworth il lettore e traduttore ha l’imbarazzo della scelta: la sua produzione va dagli anni ’90 del ’700 al 1850, con ampia evoluzione di temi e stile. Dalle Lyrical Ballads, le Ballate Liriche ho scelto composizioni sul versante lirico più che sul versante narrativo. Inoltre ho scelto tra quelle più brevi, così per esempio tra le Ballate della prima edizione (1798) ho espunto The Thorn, che pure è molto significativo. Tra l’altro, questa è un’opera in cui sostantivo e aggettivo confliggono: il sostantivo ‘ballata’ ha a che fare con l’andamento narrativo, l’accadimento di fatti, la suspense, l’aggettivo ‘liriche’ invece si riferisce ad un lirico (che coincide con l’io empirico) che comunica, pensa o sente, che comunque s’effonde “romanticamente”. Nelle Lyrical Ballads non poteva in ogni caso mancare la grande Lines Composed a Few Miles above Tintern Abbey, On Revisiting the Banks of the Wye during a Tour, Versi composti alcune miglia sopra Tintern Abbey, grandioso gioco tra l’esperienza viva della natura e la sua trasposizione nel ricordo. Tintern Abbey inscena una doppia coscienza: del presente, e la possibilità di rivivere il passato, anche alla luce del rapporto privilegiato con la sorella Dorothy, a cui sono dedicate molte liriche brevi della seconda edizione (1800) e di Poems, in Two Volumes (1807).
Tradurre, come sappiamo, non è mai solo ‘portare’ – anche felicemente – da una lingua all’altra: la traduzione è sempre anche immersione in un autore, vicinanza di pensiero, stile …
Come traduttore ho dovuto in un certo senso ‘domare’ la poesia di Wordsworth: traducendo si cerca sempre di appropriarsi quanto più possibile del linguaggio del poeta, dei suoi ritmi, delle sue preferenze anche lessicali e del suo mood generale, pur avendo sempre ben presente che si ha a che fare con due sistemi linguistici diversi (tra inglese e italiano, poi, c’è anche da tener conto del  divario tra lingue germaniche e lingue romanze). Nelle poesie in quartine ho cercato qui e là qualche rima (nel secondo o quarto verso ) e nelle poesie in pentametri giambici (che spesso sono solo ‘nominalmente’ pentametri giambici) a volte usciva un endecasillabo e sceglievo una linea-verso di 4, 5 accenti rilevanti per rendere l’idea di quanto sia “portante” (il tipo di verso,) in particolare per lo svolgimento del ‘pensiero poetico’ di Wordsworth (Wordsworth poniamo) in Tintern Abbey, l’Ode to Duty o l’Immortality Ode. Può anche capitare qualche momento felice in cui la traduzione fluisce, come appunto nell’incipit dell’Immortality Ode, in cui bellissimo titolo per esteso contiene già, in estrema sintesi, tutta la poetica di Wordsworth, dalle ‘premonizioni d’immortalità’, alle ‘ricordanze’ direbbe il nostro Leopardi, all’‘infanzia’, ed è Ode: Intimations of Immortality from Recollections of Early Childhood:
There was a time when meadow, grove, and stream, The earth, and every common sight, To me did seem Apparelled in celestial light, The glory and the freshness of a dream. It is not now as it hath been of yore; — Turn wheresoe’er I may, By night or day. The things which I have seen I now can see no more.
C’è stato un tempo che bosco rivo e prato, la terra e ogni vista abituale a me davvero son sembrati cinti di luce celestiale, del candore e sfolgorìo d’un sogno. Ora non è più come nel tempo andato – se mi guardo intorno, notte o giorno, le cose che ho veduto non so vedere più.
(trad. A. Righetti)
Qual è secondo Lei la magia, l’incanto (o i molti incanti) della poesia wordsworthiana?
È questa cantabilità di Wordsworth, per cui il verso fluisce come fosse cristallino, come tutto fosse così ‘facile’ e le parole hanno una trasparenza. In traduzione a volte si riesce a renderla, altre riesce meno o con minore facilità. Passando dall’inglese all’italiano ho cercato di rendere, appunto, la musica wordsworthiana: la traduzione è una sfida continua per cercare le ‘parole certe’. E direi che più che tradurre, forse l’atteggiamento del traduttore dovrebbe essere quello di cercare un’approssimazione, un varco per avvicinarsi al poeta: quanto più si dà l’idea della lingua di partenza tanto più la traduzione può considerarsi buona.
Per tornare al Suo criterio di scelta da Poems, in Two Volumes…
Dalle poesie brevi, i Poems, in Two Volumes appunto ho scelto i sonetti On Westminster Bridge, To a Butterfly, The Sparrow’s Nest, dove c’è il momento magico dell’infanzia, non solo sua ma anche di Dorothy, che compare come sua interlocutrice privilegiata nonché dedicataria in Tintern Abbey. Interessante poi è anche Nutting, Andar per nocciole, dove la ricerca del rapporto con la natura contrasta con la violenza giovanile del protagonista che va a raccogliere le nocciole e che (diventa) produce devastazione con i rami spezzati, e con essa, un’invasione dell’umano nel naturale che ha per epilogo la rovina dell’ambiente naturale. Poi la nota We are seven, Siamo sette, finto dialogo tra l’io lirico-narrativo e la bambina, nell’opposizione tra logica dei numeri del maturo interlocutore e logica del sentimento della bimba, per inciso tradotta molto bene in rima anche da Pascoli – ottimo traduttore di classici –, che ne accentua se vogliamo l’aspetto intimo, e adeguando Wordsworth alla poetica del fanciullino, ne riproduce sempre la musicalità:
Vidi una cara contadinella, ch’aveva ott’anni, come mi disse, bionda, ricciuta, bella, assai bella con le due grandi pupille fisse.
Presso il cancello stava. Ed io: – Figlia, quanti tra bimbi, siete, e bimbette? chiesi. Con atto di meraviglia ella rispose: – Quanti, noi? Sette.
E dove sono? Di’, se ti pare le dissi, ed ella mi disse: – Ma… noi siamo sette: due sono in mare: altri due sono nella città;
altri due sono nel camposanto, il fratellino, la sorellina: in quella casa che c’è daccanto, io sto, con mamma, loro vicina.
Tu dici, o bimba «due sono in mare, altri due sono nella città!» e siete sette. Questo mi pare, è un conto, bimba mia, che non va.
Sette tra bimbe – diceva intanto e maschi, siamo. Due son qui presso in un cantuccio del camposanto: nel camposanto, sotto il cipresso.
Ma tu ti muovi, tu corri: è vero? tu canti, ruzzi, hai fame, hai sete: se que’ due sono nel cimitero, cara bambina, cinque voi siete.
Verde – riprese – verde è il lor posto: lo può vedere, là, se le preme: da casa un dieci passi discosto: stanno vicini, dormono insieme.
Là vado a fare la calza, e spesso vado a far l’orlo delle pezzuole: mi siedo in terra, sotto il cipresso, con loro, e loro conto le fole.
E spesso, quando la sera è bella, e quando l’aria è dolce e serena, io là mi porto la mia scodella, e là con loro fa la mia cena.
Prima a morire fu Nina: a letto tra sé gemendo, stette più dì. Poi, l’ha guarita Dio benedetto; ed ecco allora ch’ella partì.
Nel camposanto così fu messa, e quando l’erba non era molle, io col mio Nino vicino ad essa, mi divertivo sulle sue zolle.
Poi quando cadde la neve, e bello sarebbe stato correre, tanto, dové partire pure il fratello, ed ecco che ora le sta daccanto.
E quanti dunque siete ora voi se quei due sono nel Paradiso? Sette – rispose – sette siam noi! meravigliando tutta nel viso.
Ma son morti quei due! ma sono lassù! son anime, anime elette! Che! – ripeteva sempre d’un tono. No, sette siamo, no, siamo sette.
*
A Simple Child, That lightly draws its breath, And feels its life in every limb, What should it know of death?
I met a little cottage Girl: She was eight years old, she said; Her hair was thick with many a curl That clustered round her head.
She had a rustic, woodland air, And she was wildly clad: Her eyes were fair, and very fair; -Her beauty made me glad.
“Sisters and brothers, little Maid, How many may you be?” “How many? Seven in all,” she said And wondering looked at me.
“And where are they? I pray you tell”. She answered, “Seven are we; And two of us at Conway dwell, And two are gone to sea.
“Two of us in the church-yard lie, My sister and my brother; And, in the church-yard cottage, I Dwell near them with my mother”.
“You say that two at Conway dwell, And two are gone to sea, Yet ye are seven! – I pray you tell, Sweet Maid, how this may be”.
Then did the little Maid reply, “Seven boys and girls are we; Two of us in the church-yard lie, Beneath the church-yard tree”.
“You run above, my little Maid, Your limbs they are alive; If two are in the church-yard laid, Then ye are only five”.
“Their graves are green, they may be seen”, The little Maid replied, “Twelve steps or more from my mother’s door, And they are side by side.
“My stockings there I often knit, My kerchief there I hem; And there upon the ground I sit, And sing a song to them.
“And often after sun-set, Sir, When it is light and fair, I take my little porringer, And eat my supper there.
“The first that died was sister Jane; In bed she moaning lay, Till God released her of her pain; And then she went away.
“So in the church-yard she was laid; And, when the grass was dry, Together round her grave we played, My brother John and I.
“And when the ground was white with snow, And I could run and slide, My brother John was forced to go, And he lies by her side”.
“How many are you, then”, said I, “If they two are in heaven?” Quick was the little Maid’s reply, “O Master! we are seven”.
“But they are dead; those two are dead! Their spirits are in heaven!” ’Twas throwing words away; for still The little Maid would have her will, And said, “Nay, we are seven!”
Tra l’altro, nella seconda edizione del 1800 il nome di Coleridge non compare. Il rapporto di affinità e complementarietà tra i due poeti cessa – mentre a Wordsworth continuano direi a ‘sgorgare’ versi e poesia naturalmente tutta la vita, dopo la grande stagione delle Lyrical Ballads Coleridge si è come esaurito. Eppure è stato anche un grande lettore, un grande interprete di Shakespeare. Fino al 1800 lavorano insieme, poi nella loro separazione letteraria entrano anche elementi biografici, e proprio a causa di questa componente privata Coleridge diventa una presenza quasi ingombrante in casa Wordsworth. A Grasmere nel Lake District Wordsworth viveva con la moglie Mary Hutchinson, i figli e la sorella Dorothy ma il ménage familiare includeva sorella della moglie, Sara. Coleridge se ne innamorò e per lei mandò all’aria il proprio matrimonio, malgrado non fosse corrisposto. Le dedica Dejection, an Ode, che subisce varie revisioni tra cui una intitolata To Asra, anagramma di Sara (e nome privato con cui lui chiamava Sara). Non solo qui ma anche altrove Coleridge ha comunque un eccesso di consapevolezza critica, molte sue poesie sono testi cosiddetti “instabili” (un diletto per i filologi), con revisioni e varianti continue. Bacillo che tocca in parte anche Wordsworth: anche lui a ogni riedizione “risistema” le poesie, le raggruppa in raccolta in modo diverso, con diverse rubriche e a sua volta apporta varianti fino all’edizione del 1850. Il che pone a studiosi e traduttori un problema su quale versione accettare. È una lunga diatriba che vede il punto culminante in The Prelude, di cui abbiamo una versione del 1805 (anzi addirittura un Ur– Prelude del 1799) e quella postuma del 1850, la prima in 13 e la seconda in 14 libri. Inglesi e americani risolvono il problema mettendo l’una versione di fronte all’altra.
William Wordsworth ritratto da Benjamin Haydon, 1842
E parlando del Preludio…
Il sottotitolo scelto per la versione del 1850, or Growth of a Poet’s Mind è centrato sullo sviluppo di uno spirito, della mente di un poeta, o – semplicemente – della formazione del poeta. Nel 1850 The Prelude già fece notizia, ma se Wordsworth l’avesse pubblicato nel 1805 sarebbe stato un “big bang”: nessuno aveva mai provato prima un’autobiografia in versi. Per un esperimento poetico del genere – autobiografico e in poesia – bisognerà arrivare a Byron (che comunque nel Don Juan pone schermi continui – e ironici – a se stesso come narratore di se stesso). In vita Wordsworth non ha avuto il coraggio di parlare in prima persona. E d’altronde bisogna tener conto anche di un pregiudizio ideologico: una parte importante della narrazione parla del suo impegno politico rivoluzionario, per cui – forse – l’avrebbe comunque censurato l’editore o non l’avrebbe forse pubblicato… Bellissimo è il titolo che lui voleva, Poem to Coleridge. Coleridge riconosce l’onore fattogli dall’amico e collega: Wordsworth riesce a leggergli il poema in una notte intera, mentre Coleridge l’ascolta stupefatto.
Cosa c’è di sempre e ancora moderno nella poesia di Wordsworth?
Wordsworth ebbe una formazione sui classici del ’700, una poesia legata a generi consolidati – pastorale, descrittivi, meditativo-filosofici, (dei luoghi) – e su regole del verso, quasi sempre di endecasillabi a rima baciata, couplets. In altre parole aveva imparato le regole per genere e per modalità del verso. Eppure, nella poesia che voleva si lascia tutto dietro le spalle, è innovatore sia nei temi sia nella lingua. Una delle grandi novità della sua poesia è nel sonetto, per cui torna alla matrice elisabettiana e petrarchesca e a più varietà di schemi. Ma soprattutto la sua poesia mette ancora al centro l’Io, l’esperienza viva meditativa, ideologica, vitale del poeta. Questa è una rivoluzione straordinaria: io lirico e io empirico corrispondono all’io che ha nome William Wordsworth – la cui opera è, appunto, un’effusione lirica riconoscibile da parte di chi legge in chi scrive. Il che non è cosa, poi, tanto scontata – ad esempio l’esposizione dell’Io lirico non fu accettata dalla “Edimburgh Review” che gli rivolse molte critiche negative, così come fecero i critici ancora legati alla poesia settecentesca. Un’altra novità in cui Wordsworth fu davvero un ‘apripista’ è che con lui il poeta diventa anche teorico: anziché scrivere secondo trattati di poetica classica, la poetica lui se la scrive nelle prefazioni. Celeberrima la prima delle Lyrical Ballads 1798, ma anche le altre. Il poeta è “A man speaking to men”, “un uomo che parla agli (altri) uomini”. Wordsworth trasforma in canone il sentimento di chi dice “Io” in poesia: un sentimento in cui tanti si possono riconoscere (se vogliamo, altra differenza dalla poesia settecentesca, eminentemente aristocratica per argomenti e registri). La differenza, la specificità del poeta è che il poeta ha parole che molti non hanno. È un enorme passo in avanti, che proietta Wordsworth già verso la modernità: con lui la poesia diventa “spontaneous overflow of powerful feelings”, “erompere spontaneo di sentimenti possenti” (Lyrical Ballads), ma questa immediatezza, questa spontaneità non sottrae nulla alla technicality, l’abilità poetica. Anzi, l’incredibile perizia tecnica viene esaltata anche nelle traduzioni di sonetti, in cui Wordsworth mostra d’inserirsi in una tradizione, di portarla avanti e proseguire, tra l’altro con estremo acume critico sempre, anche verso se stesso.
En passant, un po’ sul serio e un po’ per celia, l’amico e già collega Silvano Sabbadini – che ha tradotto tra l’altro tutto Keats per gli Oscar Mondadori – una volta mi ha detto: “Stiamo parlando di letteratura, però di letteratura bisogna scrivere” (con implicita autosvalutazione dei professori e dell’insegnamento?).
E con ciò, la nostra intervista termina. A Ca’ Foscari – “i migliori anni della nostra vita” mi ha detto una volta – Angelo Righetti era molto ammirato e piuttosto temuto dagli studenti: ammirato per la vastità delle sue conoscenze e temuto appunto per lo stesso motivo. Ma come tutti i grandi docenti ha sempre riconosciuto l’impegno, dava moltissimo e comprendeva. Grazie, professore.
Paola Tonussi
In copertina: William Turner, “Tempesta di neve. Battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth”, 1842
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pangeanews · 5 years
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“Sinceramente, Saint-Exupéry è deludente”: i giudizi sommari di Albert Camus
Amo insinuare il dito agli incroci, dove le labbra si fondono, dove grandi artisti incrociano – per fiamma del caso e ungulato del caos – i loro passi. Spesso figliando la frizione del fraintendimento, che è nettare per lo scrittore.
*
Nel 1929, quando Antoine de Saint-Exupéry, 13 anni più grande di lui, firma con Gallimard il contratto per Courrier Sud e si trasferisce a Buenos Aires per dirigere l’Aeroposta Argentina, Albert Camus entra nella squadra di calcio del ‘Racing d’Universitaire d’Alger’ come portiere e legge Gide – svogliatamente – nella biblioteca “dello zio Acault, macellaio bibliofilo di tradizioni anarchiche” (e già questo è l’incipit di un racconto: un tizio che squarta le bestie e sfoglia i libri con piglio anarchico).
*
Nel 1943, per dire, mentre gli Alleati sbarcano in Sicilia, Saint-Exupéry è ad Algeri, gli fa visita Gide, e assiste alla pubblicazione, in lingua inglese, a New York, della sua opera più nota, Il piccolo principe. Camus, invece, proprio quell’anno si trasferisce a Parigi, è già lo scrittore dello Straniero e del Mito di Sisifo, viene arruolato da ‘Combat’ e si appresta a diventare uno dei grandi scrittori di Francia. L’anno dopo, nel 1944, Saint-Exupéry muore e Camus, incontrando Jean-Paul Sartre sorge a nuova vita.
*
Le trame di due tra i più celebrati scrittori del Novecento s’intrecciano il 6 dicembre del 1952, quando Camus scrive a Michel Gallimard, dopo aver saputo che l’editore – suo amico intimo – intende pubblicare i Carnets, i taccuini, di Saint-Exupéry, nell’edizione postuma predisposta da Nelly de Vogüé (alias Pierre Chevrier) e da Michel Quesnel. Questa è parte della lettera, recentemente pubblicata su Le lettre de la Pléiade:
Mio caro Michel, ti rimando, opportunamente annotati, i ‘Taccuini’ di Saint-Exupéry. Tutto sommato – sia detto sinceramente tra noi – sono deludenti. Non ho l’impressione che essi contengano ciò che è stato al centro del pensiero e della ricerca di St-Ex, ma piuttosto ciò che ne è ai margini, alla periferia della sua meditazione. Le visioni profonde, o semplicemente interessanti, sono rare. Non ritieni che si tratti di una collezione di ‘giochi’, altrove molto più seri, di un grande spirito? Un tu-per-tu con St-Ex che vaga, più che approfondirli, intorno a problemi di filosofia, di cosmografia, di economia politica. Sempre ansioso di essere accusato di limitarsi a idee generali, l’autore entra in dettagli che spesso sono insignificanti. Così, nella parte che riguarda l’economia, i lunghi commenti sugli investimenti bancari sono certamente interessanti, ma limitati a un lettore fanatico di Saint-Ex. Tuttavia, qua e là, non mancano belle frasi.
*
I Carnets, infine, furono pubblicati l’anno successivo, nel 1953, da Gallimard. “I Taccuini sono vergini di letteratura e forniscono così, in rapporto a ciò che Saint-Exupéry ha personalmente pubblicato, un prezioso elemento di comparazione”, è il giudizio di Michel Autrand, riprodotto nell’edizione delle Opere di Saint-Exupéry pubblicato da Bompiani. In realtà, la dettatura morale e la visione umanitaria di Sant-Exupéry, che traspare nei libri più celebri – Volo di notte, Terra degli uomini – ma soprattutto in quelli postumi, come Cittadella, risuona, in clangore più cupo, nei libri di Camus. Un buon esercizio sarebbe leggere i Taccuini di Saint-Exupéry insieme ai Taccuini cangianti e solari di Camus appena ripubblicati da Bompiani. Bisogna spiare i grandi scrittori dal lato del bisbiglio.
*
Dei Taccuini, più che altro, è amabile il procedere per lame, per frasi apostrofali e dittatorie, per detti marmorei. Come se lo scrittore si facesse tiranno di sé, si scava fino all’ultimo verbo, sbriciolandosi nel dubbio e ricostruendosi, con fili di sale. (d.b.)
***
In fin dei conti ed esclusivamente la qualità delle relazioni umane.
Dio. La regola del gioco non si colloca in maniera irritante nella densità arbitraria di un individuo, ma al di fuori, cioè in Dio. Cioè, in tutto e in niente. Dio è il perfetto supporto simbolico di ciò che è al tempo stesso inaccessibile e assoluto.
Più in alto non è affatto ‘contrapporre’ ma ‘collocarsi al di fuori’.
L’incredibile misconoscimento degli uni da parte degli altri.
Se definisco il loro malessere, li salvo.
Tra i miei concetti religiosi ho dimenticato la sottomissione.
L’uomo e la foresta. E quando non ci sarà altro che l’uomo, l’uomo si annoierà tremendamente. Ha già perso contatto con la belva (piacere di ritornare dalla vera caccia) e, in parte, con le forze della natura (civiltà urbana) ed ecco che trasforma il pianeta in una terra da ortaggi. Si dimentica di fare risalire a questa origine i problemi sociali (estensione della razza umana, poi di una razza tra le razze).
Il punto in cui mi fonderò nell’universale.
Gli uomini. Non sacrificarsi a ciò che sono, ma a ciò che possono diventare.
Ogni giustizia è arbitraria: quella dell’uguaglianza – ma essa lusinga le larve.
Antoine de Saint-Exupéry
*da Antoine de Saint-Exupéry, Opere, Bompiani 2000, traduzione italiana di Fabrizio Ascari
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