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𝓡𝓮𝓼𝓽𝓪𝓾𝓻𝓸 𝓮 𝓡𝓮𝓬𝓾𝓹𝓮𝓻𝓸 𝓒𝓸𝓷𝓼𝓮𝓻𝓿𝓪𝓽𝓲𝓿𝓸 • su raffinata tovaglia d'altare figurata al filet, fine secolo 800 Info : [email protected] www.lacameliacollezioni.com #lacameliacollezioni #lacameliacollezionivigevano #tovaglieantiche #tovagliedaltare #filet #restaurofilet #restaurotovaglie #antiqueembroidery #liturgico #kartika980 #alessandrarestelli (presso La Camelia Collezioni) https://www.instagram.com/p/CoMtnPiKqfN/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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odijr · 6 months
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Solennità della SSma Trinità Anno Liturgico di Dom Prosper Guéranger
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cristinabcn · 1 year
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Jerez, más que un festival flamenco
Jerez, más que un festival flamenco
Teresa Fernandez Herrera Prensa Especializada Del 24 de febrero al 11 de marzo, Jerez estará de nuevo en primera plana flamenca, en sus sedes habituales, Teatro Villamarta, Sala Compañía, Museos de la Atalaya, Bodegas González Byass y este año, 27 edición de este histórico festival, un excepcional concierto litúrgico en la Iglesia de Santiago para su inauguración. El baile como pieza de…
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Gesù viene, Gesù ritornerà!
Gesù viene, Gesù ritornerà!
Il tempo d’Avvento ci ricorda la venuta di Gesù, che non solo “viene” a noi Bambinello in una greppia. Egli deve essere atteso e desiderato dall’anima, per incontrarlo ad ogni momento nella preghiera, nel compimento della volontà di Dio, in ogni istante del nostro esistere. La nostra vita dev’essere una preparazione fedele e amorosa alla sua venuta finale: Gesù è il nostro Paradiso. (more…)
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ohxdios · 2 years
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Los ciclos del año litúrgico.
Este es uno de los temas más socorridos por muchos de ustedes.
Así que ahí les va con muchísimo gusto.
El ciclo litúrgico de la iglesia católica comprende seis estaciones que son:
1. Adviento
2. Navidad
3. Cuaresma
4. Triduo Pascual
5. Pascua
6. Tiempo Ordinario
Las lecturas del misal están divididas en tres diferentes ciclos representados por las letras A, B y C y se van rotando consecutivamente.
Como puedes ver la primer estación es el Adviento así que el calendario comienza en el primer domingo de Adviento que no es el 1ero de Enero.
La diferencia está en los evangelios, de modo que y siguiendo el orden en tu Biblia el A es el de Mateo, B el de Marcos y C el de Lucas. Dejando al evangelio de Juan fuera y sólo para algunos domingos peculiares, solemnidades y Semana Santa. 
Lógicamente se comenzó en el 1er año de conteo cristiano, es decir el año 1 con el A, el 2 con el B y el 3 con el C. De manera que cada 3er año vuelves a ver lo mismo (lamentablemente).
La clave está en el ciclo C el cuál se aplica a los años cuya suma de sus dígitos es divisible por 3. Ejemplo el 2020 suma 4, es decir 3+1; mientras que el 2021 dá 5 osea 3+2 entonces es B y el próximo 2022 será C. 
Pero siempre comenzando en el Adviento. 
Ahora enlistemos las solemnidades:
Adviento (4 semanas antes del nacimiento del niño Dios).
Navidad (25 de cada diciembre).
Solemnidad de María, Madre de Dios (1ero de Enero).
Epifanía (celebración de la revelación de Jesús (6 de Enero).
El Bautismo del Señor (que marca el final del tiempo de navidad y comienza el tiempo ordinario).
Cuaresma (Los 40 días del desierto, comenzando con el miércoles de ceniza y hasta el Jueves Santo).
Miércoles de Ceniza
Domingo de Ramos.
Triduo (significa los 3 días grandes en latín y conmemora la pasión de Cristo es decir Jueves, Viernes y Sábado Santo.
Jueves Santo.
Viernes Santo
Sábado de Gloria
Pascua.
Ascensión
Pentecostés
Santísima Trinidad 
y Tiempo Ordinario.
Anunciación (25 de marzo el anuncio del ángel Gabriel a la virgen María)
Cuerpo de Cristo (el día de la eucaristía)
Sagrado Corazón de Jesús
San Pedro y San Pablo (29 de junio).
Transfiguración (6 de agosto)
Asunción de la Virgen María (15 de agosto)
Triunfo sobre la Cruz (14 de septiembre)
Todos los Santos (1ero de noviembre)
Todas las almas (2 de noviembre).
Cristo Rey
Inmaculada Concepción de la Virgen María (8 de diciembre).
La Sagrada Familia
San José (1 de Mayo).
San Antonio de Padua (13 de Junio).
Que Dios y la Gracia de nuestro Señor Jesucristo esté siempre con ustedes.
OhxDios
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luigiviazzo · 2 years
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La Santissima Trinità è una solennità mobile dell'anno liturgico della Chiesa cattolica. È una ricorrenza che, nel rito romano, cade la domenica successiva alla Pentecoste.
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filorunsultra · 15 days
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Syrah quel che Syrah
Cortona è nota per un codice musicale del Duecento conosciuto come Laudario di Cortona Ms. 91 e conservato all'Accademia Etrusca. È un laudario, cioè un libro che contiene delle laude, canzoni a tema sacro con testo in volgare e di uso non liturgico. Il repertorio laudistico del Duecento ci è arrivato principalmente grazie a due codici: il Magliabechiano Banco Rari 18 di Firenze, che ha delle bellissime miniature ma è pieno di errori di notazione, e il Laudario di Cortona. Mi trovo con Raffaele in un'auto a noleggio sulla Modena-Brennero quando chiamo la bibliotecaria dell'Accademia Etrusca per vedere il codice: mi dice che non è visionabile, cioè, non oggi, forse se arrivassimo prima dell'una, d'altronde ogni giorno qualcuno chiede di vederlo, poi c'è il figlio da prendere a scuola, magari scrivendo per e-mail, o presentandoci come piccolo gruppo... comunque sarebbe meglio rimandare. Dopo quindici minuti di conversazione circolare riaggancio il telefono. Stiamo andando in Toscana per un convegno sul Syrah coordinato da Raffaele, a cui mi ha chiesto di accompagnarlo non so bene perché. La scusa del Laudario era stata buona fino all'uscita dell’autostrada di Affi, poi anche quella era crollata e di lì in poi mi sarebbero aspettati soltanto tre giorni di chilometri di corsa, vino biodinamico e cene a base di chianina (oltre a essere vegetariano, Chiani è il cognome di mia mamma e solo l'idea di mangiare una così bella mucca, che per di più porta il nome di mia madre, mi provoca orribili dolori enterici).
Cortona si trova su una collina affacciata sulla Val di Chiana, più o meno ad equa distanza tra Siena, Arezzo e Perugia. È un classico borgo medievale da "Borgo più bello d'Italia" (ogni borgo italiano è "il più bello d'Italia"). Una rocca sulla cima, qualche chiesa, dei cipressi, un grazioso cimitero e tutte quelle cose inequivocabilmente italiane: l'alimentari, l'enoteca, il bar (da leggersi i' barre, con raddoppiamento sintattico). Turismo, a marzo, poco, e comunque tutto anglofono e interessato solo a due cose: Cortona DOP (principalmente Syrah e Merlot, e in minor parte Sangiovese) e tagliata di chianina. La campagna sotto alla città e la strada regionale che porta in Umbria sono misurate dalle insegne delle centinaia di cantine e dai cartelli con gli orari delle degustazioni. Da Trento a Cortona si impiegano circa quattro ore e così, svincolati anche da quell'unica incombenza presso la Biblioteca Etrusca, a circa metà strada usciamo a Castiglione dei Pepoli, sull'Appennino Bolognese, in cerca di un piatto di fettuccine.
Il lago Brasimone è un bacino artificiale costruito nel 1911. Dal lago attinge acqua una delle uniche due centrali nucleari attive in Italia. Leggendo dal sito ufficiale dell'ENEA: "Il Centro del Brasimone è uno dei maggiori centri di ricerca a livello nazionale e internazionale dedicato allo studio e allo sviluppo delle tecnologie nei settori della fissione di quarta generazione e fusione nucleare a confinamento magnetico. Rilevanti sono le competenze disponibili sulla tecnologia dei metalli liquidi, sui materiali innovativi per applicazioni in ambienti severi, sulla prototipazione di sistemi e componenti per applicazioni ai sistemi energetici anche nucleari." Attraversando in auto la diga, verso la trattoria, Raffaele mi racconta che il referendum sul nucleare del 1987 bloccò la produzione di energia nucleare ma non la ricerca. La centrale nucleare del Brasimone (anche se non è una vera centrale) ricorda vagamente Chernobyl: il camino bianco e rosso, la cupola di cemento del reattore e i boschi tutto attorno, non ci sono invece i classici camini di raffreddamento, dandole un'aria più domestica. Accanto al lago c'è una trattoria sgarrupata per gli operai della centrale. Come in tutte le bettole per operai e camionisti, si mangia divinamente ma non leggero, segno premonitore dell'imminente cena.
L'albergo a Cortona è un quattro stelle e per aperitivo ci offrono cantucci e Vin Santo. Le quattro sciure che ci lavorano sono fin troppo disponibili e ci ammorbano parlandoci dei biscotti. Una volta arrivati in albergo io e il Raffa facciamo una corsa di acclimatamento attorno al paese che mi apre una voragine in pancia, rendendomi sempre più insofferente per quella cena. Restiamo per un po' nella hall dell'albergo ad aspettare Giorgia, una delle relatrici del convegno. Ho l'impressione di essere lì da delle mezzore quando finalmente Giorgia scende dalla camera.
La cena è alla Marelli, una cascina in mattoni rossi di proprietà della famiglia Marelli della famosa Magneti Marelli, e per metà affidata a Stefano Amerighi Vignaiolo in Cortona (da leggersi tutto insieme, di fila, senza virgola), amico e cliente di Raffaele e organizzatore del convegno. Mi aspetto una cena formale in cui mantenere un contegno istituzionale ma si tratta di tutt'altro. La tavola non è apparecchiata e anzi la stanza è alta e semivuota. Ci sono un grande caminetto al centro, un divano, due poltrone, una grande credenza piena di bottiglie vuote di Syrah francese e nient'altro. Siamo in dodici a cena ma arriviamo presto e ci sono ancora solo tre vignaioli francesi già piuttosto avanti col vino e coi trigliceridi, un broker di borsa collezionista di bottiglie d'annata e Francesco, un dipendente di Stefano. Come me, neanche Giorgia conosce nessuno e mi sento meno solo, inoltre lei è un'ingegnere: di vino ne sa più di me ma è comunque fuori contesto. Così ci mettiamo in fondo alla tavola, separati dagli altri commensali da Raffaele, che emana sapienza anche per noi. Il broker stappa una magnum di Champagne e così inizia una serata destinata a durare ore e inframmezzata da un'innumerabile sequela di portate e bottiglie di vino (in realtà, per scopi puramente antropologici, le ho contate: undici, di cui una magnum). L’ospite arriva solo al terzo bicchiere di Champagne: Stefano è sulla cinquantina, capelli e barba brizzolati e occhiali da vista Celine con montatura nera. Neri anche il maglione, i pantaloni e le scarpe. Sulla credenza ci sono dischi di Paolo Conte e qualche cd generico di musica classica, di quelli che si trovavano una volta in edicola e che contenevano qualche grande classico come Tchaikovsky e Beethoven, più qualche russo un po' più ricercato ma meno sofisticato, che ne so, Mussorgsky. Stefano è un melomane, ha scoperto l’opera da adolescente col Così Fan Tutte e poi da Mozart è arrivato a Verdi. Da giovane frequentava il Regio di Parma, che dice fosse il suo teatro preferito (mah), apprezzava anche l’orchestra del Maggio mentre non trovava nulla di eccezionale nella Scala (ancora: mah). Era talmente appassionato d’opera che chiese a sua moglie di sposarlo durante una Boheme, che però raccontandolo attribuisce erroneamente a Verdi. Io mi irrigidisco ma evito di farlo notare, i lapsus capitano a tutti e io non voglio fare quello che alza il ditino per correggere il padrone di casa, così annuisco e continuo ad ascoltarlo. Insieme a lui arrivano anche altri tre vignaioli biodinamici siciliani. Il più anziano, un distinto signore sulla settantina (che avrei scoperto essere l'unico altro vegetariano nella stanza) e i suoi due collaboratori, non molto raffinati in realtà. Alla terza bottiglia di bianco sono iniziati i rossi e, insieme ad essi, un simpatico giochetto in cui gli ospiti dovevano indovinare il vino. Raffale sembrava particolarmente bravo a questo gioco e per un po' ho avuto l'impressione che i due siciliani non facessero che ripetere quello che diceva lui. Anche il broker sapeva il fatto suo e la cosa aveva iniziato a prendere una piega deliziosa. In queste cene, mi ha spiegato Raffaele, ognuno porta qualche bottiglia e il cibo diventa più che altro un modo per continuare a bere. Dividendo una bottiglia in tanti, nessuno riesce a bere più di un paio di dita di ogni bottiglia, per cui il tasso alcolemico, una volta raggiunta una certa soglia, non si alza ulteriormente ma resta più che altro stazionario per tutta la durata della cena, facendo più che altro i suoi peggiori effetti il giorno dopo.
Quando chiedo a Raffaele se in quell'ambiente ci siano problemi di alcolismo, lui mi risponde che "da un punto di vista patologico, probabilmente no, o almeno non diffusamente, ma in una forma latente sì. Tra cene, presentazioni e fiere, i vignaioli bevono tutti i giorni. Inoltre, durante le cene come questa, si è diffusa sempre di più l'abitudine di aprire la bottiglia tanto per aprirla, spesso finendola in fretta per passare a quella dopo, o buttandone via metà, nella sputacchiera, passata di mano in mano con la scusa di gettare i fondi, e per far spazio alla bottiglia appena aperta. Così non ci si prende il tempo per lasciar evolvere il vino e per vedere come cambia nel corso della sera. È un atteggiamento bulimico e anche poco rispettoso nei confronti di una bottiglia che un povero vignaiolo ha impiegato un anno per produrre. Ogni volta che qualcuno prova a parlare di alcolismo in questo ambiente il gelo tronca ogni possibile discorso, e d'altronde nessuno è interessato a farlo, perché vorrebbe dire mettere in discussione l'intera economia del settore: quando dieci anni fa crollò definitivamente l'idea del vino come alimento centrale per la dieta mediterranea e si capì finalmente che berlo fa male, la comunicazione dell'industria vitivinicola si spostò sul suo valore culturale. Cosa di per sé anche vera, se non che la cultura del vino non sta nella bottiglia ma nel territorio; mentre l'esperienza enologica si ferma sempre alla degustazione e non si spinge mai alla vera scoperta del territorio e della sua storia, soprattutto in Italia." Insomma, quello che dovrebbe essere il pretesto diventa lo scopo.
Durante la cena apriamo una bottiglia di Cornas del 2006, l'ultima annata del vignaiolo che l’ha prodotta, un tale Robert Michel, prima che andasse in pensione. Raffaele mostrandomi la bottiglia mi fa notare che la parola più grande sull'etichetta non è il nome del vignaiolo, che invece è scritto piccolo in un angolo, né dell'uva, Syrah, anche questa scritta in piccolo, ma il nome del vitigno, cioè il posto in cui è stato fatto. Ed è scritto al centro, a caratteri cubitali: Cornas. In Francia il brand non è il nome di fantasia dato al vino dal vignaiolo, ma il nome del posto. Questo fa sì che le denominazioni siano molto più piccole e controllate che in Italia, e che attorno a queste denominazioni si costruisca un'identità più profonda. Lungo il Rodano francese, ad esempio, si trova questo paese, Cornas, dove si coltiva solo Syrah. Il cliente finale sa in partenza che non sta comprando tanto una cantina, ma un territorio, e una storia. Dopo il Cornas, aprono una bottiglia di Pinot Nero del 1959 (puoi avere il palato di una pecora come il sottoscritto, ma l'idea di bere un intruglio fermo in una cantina da 65 anni esalterebbe chiunque). Beviamo qualche altra bottiglia di Syrah di Stefano e in fine un Marsala perpetuo prodotto secondo il metodo tradizionale di produzione del Marsala, prima che gli inglesi lo trasformassero in una specie di liquore aggiungendoci alcol e zucchero per farlo arrivare sano in patria, e che viene prodotto con un sistema che ricorda quello del lievito madre.
Sopravvissuti alla cena, verso le 2 rientriamo in albergo per cercare di dormire prima del giorno successivo. Come accade le rare volte che bevo, il sabato mi alzo prima della sveglia. Devo rendermi presentabile per il convegno, a cui Raffaele mi ha incaricato di registrare gli accrediti per giustificare la mia presenza in albergo. Il convegno si tiene in una bella sala del Museo Etrusco di Cortona in cui sono conservate cose random: sarcofagi egizi, spade rinascimentali, accrocchi di porcellana settecenteschi di rara inutilità, collezioni numismatiche, mappamondi e altre cose. Una volta assolto il mio unico dovere, ritorno in albergo e mi cambio, metto le scarpe da corsa e imbocco la provinciale che porta al Lago Trasimeno.
Micky mi ha programmato un weekend di carico con un lungo lento il sabato e una gara la domenica (vero motivo della trasferta) che farò con Raffaele a Reggio Emilia. Si chiama Mimosa Cross ma non si tratta di un vero cross, è più che altro una 10 chilometri su asfalto, seguita da una salita sterrata sui colli di 500 metri di dislivello e da un'ultima discesa in picchiata stile Passatore. 23 chilometri scarsi e 500 metri di dislivello. Tornando da Cortona, il pomeriggio del sabato, passiamo per Firenze ad accompagnare un’oratrice del convegno, e per uno sperduto paesino sui colli bolognesi per accompagnare Giorgia, che sospettiamo ancora in hangover dalla sera prima. Infine: Reggio nell'Emilia. A cena io e Raffaele riusciamo comunque a bere una birra.
La mattina dopo diluvia, a Reggio fa freddo e tira vento. Albinea, da cui parte la gara, è invasa di persone e dimostra l'indomito podismo di queste lande. Dopo aver tergiversato per qualche quarto d'ora in macchina, per cercare di digerire una brioches troppo dolce, decidiamo finalmente di scaldarci. Poi partiamo: primo chilometro 3'41'', secondo chilometro 3'40''. Passo al quinto chilometro 40 secondi più lento del mio personale sulla distanza, ma non sto malaccio. Poi la strada gira e inizia a salire. La pendenza è impercettibile alla vista ma il passo crolla di 30'' al chilometro. Sono isolato e quelli davanti a me prendono qualche metro, sono attorno alla quindicesima posizione. Inizio a cercare scuse: sono alla fine di una settimana di carico, ho il lungo del giorno prima sulle gambe e il Cornas del 2006 sullo stomaco, poi inizia la salita. Quando inizia lo sterrato cambio gesto e inizio a rosicchiare metri a quelli davanti: via uno, via un altro, come saltano gli altarini, bastardi. In salita un tale dietro di me inizia a urlare grida di dolore, la prima volta fa ridere ma poi inizia a diventare fastidioso, così lo stacco per non sentirlo più. Il maledetto in discesa mi riprende e rinizio a raccontarmi scuse. Valuto seriamente di fermarmi al ristoro per aspettare Raffaele e penso ad altre cose ridicole a cui generalmente mi aggrappo quando mi trovo in una zona di effort in cui non sono abituato a stare. Ragiono sul fatto che è la prima volta che faccio una gara sull'ora e mezza: le campestri sono simili come tipo di sforzo ma sono molto più corte. Nel frattempo i chilometri passano e finalmente inizio a vedere il paese. Sull'ultimo strappo riprendo un tipo e lo stacco sul rettilineo finale. Traguardo, fine, casa.
Quando racconto al Micky che un paio di persone mi hanno superato in discesa mi dice che dobbiamo diminuire il volume e aumentare la forza: mi dimostro poco interessato alla cosa. Cerco di spiegargli che la priorità non sempre è migliorare e che non a tutti i problemi bisogna cercare delle soluzioni, e che preferisco divertirmi e godermi il processo senza chiedere di più alla corsa. Roby allora mi ha chiesto a cosa serva un allenatore: a migliorare, certo, ma non significa che questa sia la priorità. Non sono disposto a togliere tempo alla cosa che mi piace fare di più, e cioè correre, per fare degli esercizi orribili solo per non farmi superare da due stronzi in discesa o per correre in un'ora in meno la 100 miglia "X". Cerco di fare del mio meglio ma senza bruciare il percorso. Ho sentito spesso amici fare frasi del tipo "quest'anno voglio dare tutto quello che riesco a dare". No, non me ne potrebbe fregare di meno; preferisco arrivare tra 20 anni ancora con la voglia di correre e con qualcosa da scoprire. Non vincerò mai una 100 miglia e non sarò mai un campione, e questo è uno dei più grandi regali che il destino potesse farmi. Non devo impegnarmi a vincere niente perché semplicemente non posso farlo, così posso godermi il processo senza riempirmi la testa di aspettative e di puttanate, senza fare un wannabe e senza dover attendere le aspettative di nessuno. Posso semplicemente dare quello che ho voglia di dare nel momento in cui voglio darlo. Al 13 marzo 2024, nel TRC, sono quello che ha corso più chilometri di tutti, e forse sono l'unico che non ha ancora deciso che gara fare quest'anno. Perché non ha importanza, l'unica cosa che conta è uscire a correre, per il resto, Syrah quel che Syrah.
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incamminoblog · 5 days
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Don Luciano Labanca "Domenica delle Palme o della Passione del Signore/B: Spogliarsi di tutto
Domenica delle Palme anno B Mc 14,1-15,47 Con la celebrazione della Domenica delle Palme e della Passione del Signore, come in un solenne portale liturgico, si entra nei riti della Settimana Santa, la Grande Settimana, cuore di tutto l’anno liturgico, in cui la Chiesa fa memoria viva della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù, invitando i fedeli a seguire Gesù da vicino in quelle ore tragiche,…
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abr · 1 year
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(,..) Oggi è difficilissimo immaginare un altro Papa che pronunci qualcosa di simile al Discorso di Ratisbona. Ve lo ricordate? Correva l'anno di relativa grazia 2006 e nella città tedesca dove secoli prima si era tenuta la famosa Dieta, gli ultimi colloqui tra cattolici e luterani prima del Concilio di Trento, il Papa tedesco ebbe a pronunciare con la sua voce mite un discorso che incendiò il mondo.
In verità non disse nulla di nuovo, si limitò a riesumare dall'oblio l'esortazione dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo a un interlocutore musulmano: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». Chiunque conosca anche solo un poco l'infelice storia del Mediterraneo e l'infelicissimo Corano avrebbe potuto considerare tale affermazione quasi un'ovvietà. (...).
Niente da fare, impossibile discutere. (...) Ma la cosa più impressionante fu la solitudine del Papa, che non venne difeso da nessuno dei cardinaloni sempre pronti al dialogo ecumenico, ovvero all'ecumenica calata di braghe.
(...) Quella combattuta sul campo liturgico è stata un('altra) delle numerose battaglie perse. (...) chi subdolamente, chi addirittura esplicitamente, quasi tutti i vescovi osteggiarono il motu proprio che liberalizzava la messa in latino (...), l'uso dell'italiano e delle altre lingue nazionali è il risultato (parole sue) della «mania di render tutto facile e alla mano che, in fondo, riduce il tutto all'opera soltanto umana, e lo deruba dello specifico del Cristianesimo».
Non so quando e se vedremo ancora un Papa capace di definire il buddismo «un autoerotismo spirituale» e l'evoluzionismo una forma di fantascienza. (...)
Adesso i pastori devono avere l'odore delle pecore (...). Gli intellettuali non sono simpatici, lo sappiamo, e però se non si approfondiscono più i grandi classici e i testi sacri finiremo con l'appartenere totalmente al presente (come i cani di Cesar Millan, ndr), al mondo e al suo nero principe. Basta andare a messa la domenica per ascoltare il conformismo ecclesiastico, il pronto adeguarsi alle idee correnti (ambientalismo, immigrazionismo...).
Pier Paolo Pasolini veniva definito «intellettuale scomodo». Sebbene con stile tanto diverso anche Joseph Ratzinger lo è stato, a Ratisbona, prima di Ratisbona, dopo Ratisbona, incompreso fuori dalla Chiesa e boicottato dentro (l)a Chiesa (...).
Camillo Langone forever, via https://twitter.com/CamilloLangone/status/1609866924992888832
(la mia sintesi è: perfetto, lucidissimo preparatissimo ma troppo "tecnico" per fare il lavoro del leader, ciò che è proprio della Cattedra di Pietro. Ideale secondo, consigliori, spalla ma non braccio né destro né sinistro, dell'energico Wojtila).
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theladyorlando · 3 months
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The Moon Also Rises
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La voce di Johnny Flynn non è più quella di prima: non è la voce spessa dei suoi esordi, quella che ad ascoltarla mi veniva in mente un olio denso, scuro, ben pigmentato, che un pennello stende con caparbietà avanti e indietro. Quella lì era una voce consistente, un timbro caldo e distribuito in maniera uniforme sulla tela. Adesso invece al posto del pennello si sente chiaramente che c'è una mano nuda a dipingere, e che a volte lo fa con le stesse unghie: la voce densa si è spezzata in un urlo, si è graffiata sopra alla tela, ed è bellissima, è sensuale ed è, se possibile, ancora più precisa di prima.
L'autunno me l'ha portata dentro al frutto della sua fatica, la fatica di Johnny Flynn. Lui però mi ha avvisata per tempo, e io così ho avuto modo di vivermi l'attesa, di assaporarla. Insieme al suo amico e scrittore Robert MacFarlane e a un'allegra compagnia di nomadi inglesi -quelli che se ne vanno in giro per boschi e campagne senza scarpe e sotto la pioggia, per capirci- Johnny Flynn ha piantato dei semi che in questi mesi hanno germogliato, e io li ho guardati venire su come ho fatto con tutti gli alberi dietro cui mi sono andata perdendo nell'anno. Un calendario.
Il primo seme è stato "The Wild Hunt": lo ha piantato in terra a dicembre dello scorso anno, e a me è sembrato come di vederlo, Johnny Flynn, mentre infilava le dita nella terra fredda e mi diceva, guardandomi bene dentro agli occhi, che quella era una caccia folle: è una caccia folle la caccia al nome del male, la caccia alla tana, la tana del Primitivo. E così improvvisamente diventa una caccia folle anche quella alle cose scontate, le cose banali che tutto a un tratto ti accorgi di non avere più tra le mani: la competenza dei medici, il giusto ricovero, il pronto soccorso, la cura che ti spetta: il Natale il compleanno la pizza del sabato sera. Quella caccia, vedrai, farà tremare i tuoi amori più certi, farà precipitare l'impalcatura del tuo cielo. Io l'ho ascoltato cantarmela lo scorso anno a dicembre come se dicembre non dovesse mai finire, quando la camelia era l'unica spaventosamente fiorita in giardino come una cosa fuori dalla natura, e il suo, allora, mi è sembrato piuttosto l'urlo di un animale, il grido di una creatura selvatica che non sa dove trovare riparo dalla caccia, non sa più dov'è la sua tana. Oh the wild hunt, the wild hunt: qualcosa di incomprensibile o qualcosa che devo aver frainteso, mi sono detta. E invece il calendario, ormai chiaramente liturgico, è andato avanti con il seme di Pasqua: "Coins for the Eyes". Adesso l'urlo, il graffio sulla tela, si era trasformato in una piccola ballata in tre quarti, dolce, quasi acustica, e la caccia, che in fin dei conti era la mia -inutile continuare a negarlo, non avevo frainteso- aveva trovato la sua proporzione più conveniente, la sua direzione più chiara: guardata da dentro a questa canzone la caccia è una ricerca, e il suo movimento cadenzato insegna la pazienza con cui bisogna condurla. Ora che conosciamo bene il nome urlare non serve a niente, basta praticare l'esercizio, un esercizio di pazienza, di concentrazione, un esercizio di ricerca. Come quando mio padre si stampava le mappe dell'impero romano o della Grecia antica per capire meglio come tradurre una versione contorta, come quando studiava epigrafia e nessuno glielo aveva mai chiesto. Come gli alberi che escono dall'inverno, con pazienza, e mettono i fiori, alcuni addirittura senza foglie. E così in tre quarti abbiamo visto sbocciare i fiori, tutti i fiori, e in tre quarti ci siamo addentrati in quanto ci avanzava dell'anno: a un certo punto inevitabilmente abbiamo riconosciuto i primi sentori dell' impietosa, della temibile estate, finché proprio non la abbiamo vista bene in faccia e le siamo così andati incontro senza opporle resistenza, senza nuove canzoni, senza nuovi semi, con pazienza e in tre quarti. Questa è stata la nostra vera quaresima, il nostro deserto: l'estate. Abbiamo guardato l'estate seccarli, i semi, inaridire la terra, fare scempio dei fiori, spaccare i marciapiedi. Alla fine, giunti nel cuore di quella, la abbiamo vista portarsi via mio padre, e così, in tre quarti, piegati nel nostro esercizio di pazienza, lo abbiamo salutato, con dignità credo.
Ma il calendario non era finito: e a settembre infatti è ricominciato quello scolastico. Allora siamo tornati tutti a scuola, come se niente fosse, e lì dentro abbiamo continuato a fare esercizio, a testa bassa. Ad interromperlo è arrivato improvviso l'annuncio: in questi mesi, diceva, anche se da molto lontano e senza scarpe ai piedi, noi abbiamo lavorato, abbiamo fatto un lungo esercizio qui su, un esercizio intorno all'oscurità e alla luce, all' inverno e alla primavera, alla sepoltura e alla rivelazione, a storie tempo stagioni fantasmi e sentieri, amore e fiumi, e tra poco ne consegneremo i frutti a chiunque avrà voglia di ascoltare. Insomma, neanche il calendario di Johnny Flynn si era esaurito, e il primo frutto raccolto ad ottobre, il primo singolo, è stato "Uncanny Valley": quest'estate ci siamo persi tutti in una vallata inquietante, dice, nessuno ha una mappa per uscirne, e c'è un'enorme confusione qui dentro. Forse mi sbaglio, ma mi sembra che Johnny Flynn ora stia ridendo; che urli ancora invece lo sento benissimo: ride e urla che il lutto non è solo una croce, è anche una delizia, è il nostro privilegio e noi dobbiamo penetrarlo, dobbiamo attraversarlo come fosse una vallata dopo aver scalato la più alta delle montagne.
Quello che viene dopo è semplicemente il raccolto: e io che l'ho aspettato come si aspetta una vita che viene al mondo, con un po' di apprensione e insieme con il timido desiderio di riconoscere nei tratti del viso la somiglianza, alla fine l'ho rincosciuta: quando ho ascoltato l'album per la prima volta di notte, nel mio letto, sotto a coperte pesanti, era di nuovo inverno e ho capito subito che in tutti quei mesi Johnny Flynn non aveva mai smesso di guardarmi negli occhi. Lui ha continuato a tirarmi per la manica, a strattonarmi, mi ha richiamata, mi ha scritto, mi ha raccontato: alla fine lui mi ha raccontata, nel suo calendario. Ha raccontato di tutti gli alberi dietro ai quali io ho guidato la mia macchina quest'anno (the beech is lifting me, ash is reaching me), del saluto che mio padre continua a darmi giorno dopo giorno (be not afraid, sing and pray, cry and sway as I enter the shade); di quel dicembre che pareva non volesse mai finire ("A Year-Long Winter"); e poi mi ha raccontato, ancora una volta, "Coins for the Eyes". Vedo però che la semplice ballata in tre quarti è maturata in questi mesi, e da fiore che era in primavera adesso è diventata un bellissimo frutto rotondo, forse un melograno? È diventata un inno, cantato a piena voce, a più voci. Io l'ho ascoltata, nella sua prima e piu dimessa versione, sulla strada che portava al cimitero, il giorno in cui ci hanno consegnato le ceneri e noi le abbiamo riposte nella tomba ancora senza nome. E poi un altro giorno mi è arrivata questa foto, la foto della lapide che era pronta, finalmente. E io a quel punto mi sono chiesta come ci si comporta davanti alla foto della lapide di tuo padre che ti arriva su WhatsApp: è bella, carina, mi piace, grazie mille? In quel momento mi sono costretta all'esercizio del pianto perché quello mi sembrava opportuno, ma non mi è salita nessuna lacrima sinceramente, se non quelle solite, le lacrime della stanchezza. Niente di ciò che ha a che vedere con la morte appartiene a mio padre, mi sono detta come mi ero già detta guardando la bara ad agosto. Questo però gli inglesi lo chiamano denial, e anche se io davvero continuo ostinatamente a credere che lui sia più vivo di me sopra quelle mappe dell'impero romano che vedo con la coda dell'occhio spuntare dalla sua libreria, so bene che negare non è una cosa sana.
E così la scorsa settimana, tornando al cimitero per vederla, questa famosa lapide montata, ho ascoltato la nuova versione di "Coins for the Eyes", l'inno: il melograno. Pare che almeno una canzone di quest' album la abbiano registrata dentro a una tomba antica, che il coro che sento in questi ritornelli pieni di vita, pieni di voce, di tante voci veramente, venga proprio da una sepoltura. Quando l'ho raccontato a mia madre lei mi ha detto, prendendomi in giro, che ci vuole pure un po' di leggerezza nella vita, dai, e questi non ce l'hanno per niente. Ma lei non sa che se veramente è questa la canzone, e voglio pensare che sia proprio questa, io sulle sue note sono arrivata alla tomba e l'ho trovata piena, piena di gente scalza, gente che si sgola, che canta a squarciagola, canta la vita stupenda di mio padre tra i tanti padri che se ne sono andati. Quest'inno è così lontano dalla pesantezza che mi sembra proprio il suo esatto contrario: al punto che questa canzone mi ha riconciliata con quel paese dove mio padre ora è tornato e dove io da piccola ho passato le più noiose e pesanti domeniche di bambina. Un paese dove tutti sembrano avere due sole cose a cui pensare: sposarsi o morire. Un paese che è come costruito intorno al suo cimitero, pare proprio invitare al cimitero, così mi è sempre sembrato. Che lo abbia sempre invitato al cimitero, a mio padre. Beh oggi sento di andarci quasi leggera, al cimitero da lui, mi sento invitata, e quelle canzoni che vengono da così lontano, da un altro luogo, un altro anno, da un'altra fatica, risuonano perfettamente per le strade del paese dove mio padre riposa in questo momento. Io amo tutto di lui e non voglio vivere nella negazione: non mi nego niente, le mappe e la bara, la vita e la morte: è un mio diritto, la mia delizia, il mio privilegio. E me lo ha raccontato Johnny Flynn, urlandolo a volte, a volte ridendo e cantandolo con leggerezza, a volte facendone un inno gioiso e a più voci: il calendario di un anno che abbiamo trascorso insieme, e io non lo sapevo.
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schizografia · 3 months
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Vorrei invitarvi ora a spostarvi in Germania, nei primi anni Venti del XX secolo, ma non nei disordini e nei tumulti che segnano in quegli anni la vita delle grandi città tedesche, bensì nel silenzio e nel raccoglimento dell’abbazia benedettina di Maria Laach in Renania. Qui un oscuro monaco, Odo Casel, pubblica nel 1923 (lo stesso anno in cui Duchamp finisce o, piuttosto, abbandona in uno stato di “definitiva incompiutezza” il Grande vetro) Die Liturgie als Misterienfeier (La liturgia come festa misterica), una sorta di manifesto di quello che sarebbe stato più tardi definito Movimento liturgico.
[…] Alla base della dottrina di Casel sta infatti l’idea che la liturgia (si noti che il termine greco leitourgia significa ‘opera, prestazione pubblica’, da laos, ‘popolo’, ed ergon) sia essenzialmente un “mistero”. Mistero non significa però, in alcun modo, secondo Casel, insegnamento nascosto o dottrina segreta. In origine, come nei misteri eleusini che si celebravano nella Grecia classica, mistero significa una prassi, una sorta di azione teatrale, fatta di gesti e parole che si compiono nel tempo e nel mondo per la salvezza degli uomini. Il cristianesimo non è pertanto una “religione” o una “confessione” nel senso moderno del termine, cioè un insieme di verità e di dogmi che si tratta di riconoscere e di professare: è, invece, un “mistero”, cioè una actio liturgica, una performance, i cui attori sono Cristo e il suo corpo mistico, cioè la Chiesa. E quest’azione è, sì, una prassi speciale ma, insieme, essa definisce l’attività umana più universale e più vera, in cui è in gioco la salvezza di colui che la compie e di coloro che vi partecipano. La liturgia cessa, in questa prospettiva, di apparire come la celebrazione di un rito esteriore, che ha altrove (nella fede e nel dogma) la sua verità: al contrario, solo nel compimento hic et nunc di questa azione assolutamente performativa, che realizza ogni volta ciò che significa, il credente può trovare la sua verità e la sua salvezza.
Secondo Casel, infatti, la liturgia (ad esempio, la celebrazione del sacrificio eucaristico nella messa) non è una “rappresentazione” o una “commemorazione” dell’evento salvifico: è essa stesso l’evento. Non si tratta, cioè, di una rappresentazione in senso mimetico, ma di una (ri)presentazione in cui l’azione salvifica (la Heilstat) di Cristo è resa effettivamente presente attraverso i simboli e le immagini che la significano. Per questo, l’azione liturgica agisce, come si dice, ex opere operato, cioè per il fatto stesso di essere compiuta in quel momento e in quel luogo, indipendentemente dalle qualità morali del celebrante (anche se questi fosse un criminale - se, ad esempio, battezzasse una donna con l’intenzione di farle violenza - l’atto liturgico non perderebbe per questo la sua validità).
[…] Come, secondo Casel, la celebrazione liturgica non è un’imitazione o una rappresentazione dell’evento salvifico, ma è essa stessa l’evento, allo stesso modo ciò che definisce la prassi delle avanguardie del Novecento e delle loro derive contemporanee è il deciso abbandono del paradigma mimetico-rappresentativo in nome di una pretesa genuinamente pragmatica. L’azione dell’artista si emancipa dal suo tradizionale fine produttivo o riproduttivo e diventa una performance assoluta, una pura “liturgia” che coincide con la propria celebrazione ed è efficace ex opere operato e non per le qualità intellettuali o morali dell’artista.
In un celebre passo dell’Etica nicomachea, Aristotele aveva distinto il fare (poiesis), che mira a un fine esterno (la produzione di un’opera), dall’agire (praxis), che ha in se stesso (nell’agir bene) il suo fine. Fra questi due modelli, liturgia e performance insinuano un ibrido terzo, in cui l’azione stessa pretende di presentarsi come opera.
Giorgio Agamben
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istanbulperitaliani · 4 months
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Venerazione della Madonna a Costantinopoli
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La Vergine Maria era la patrona e la protettrice di Costantinopoli. Per il popolo bizantino Maria divenne un amuleto contro gli assedi e le guerre, contro le malattie ed i mali. Le sue icone venivano usate come arredo liturgico, affisse alle pareti delle abitazioni, portate nelle processioni, cucite sugli abiti, indossate come collane.
Ogni volta che l'esercito bizantino vinceva le sue battaglie e stabiliva il suo dominio, le icone della Madonna venivano trasportate in processione per i festeggiamenti.
Processioni che venivano realizzate anche durante gli assedi che ha subito Costantinopoli nel corso dei secoli. Qualche giorno prima della conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (29 maggio 1453), durante una processione per invocare l'aiuto della Vergine, l'icona di Maria cadde a terra. Un evento interpretato come un segno di Dio che abbandonava gli assediati.
Autoproduzione digitale in AI realizzata 23/11/2023 by Istanbulperitaliani.
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thebeautycove · 9 months
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OMANLUXURY - ZAFAR - Private Collection - Eau de Parfum - Novità 2023 - Overwhelmed by the enthralling energy of this scent. To me a moment in time. A precious elevation ritual. Ravishing oriental notes are perfectly blended and released in the subliminal message of frankincense. .  Quando la fragranza ti trascina nel gorgo di pensieri insondabili. C’è questa energia che sovrasta, una forza d’attrazione alla quale rispondi con pienezza di partecipazione sensuale. Con Zafar, nuova creazione, tra le più poderose ed espressive della superba collezione OmanLuxury, il mio senso primario ha subito capitolato. Sarà per questa costante necessità di saggiare l’ignoto interiore e portare a galla ricordi perduti, o forse, più semplicemente, perché mi ha restituito un desiderio tenuto a bada da tempo, visitare in Oman la regione del Dhofar, terra dell’incenso, patrimonio Unesco dell’umanità. E qui i wādī con le piantagioni di Boswellia Sacra, pianta che produce la preziosa resina dell’olibano (l’incenso omanita è considerato il più pregiato al mondo). Passare da Salalah per far tappa al Museo del Frankincenso e infine Zafar, storico porto del sud, custode di storia e tradizioni delle rotte commerciali dell’incenso, dei profumi, delle spezie. Eccolo nel nome l’omaggio del brand alle proprie radici, ad un luogo che raccoglie un rilevante patrimonio culturale e lo rende orgogliosamente evidente nei raffinati accordi del jus. C’è un potente richiamo alla gentilezza, all’accoglienza nello start lucente, esperidato fruttato con bergamotto mela pompelmo, offerti con una magnifica corbeille di fiori, mughetto gelsomino iris fiore d’arancio, aspersi dall’aroma dolcemente resinoso (non incombente, non liturgico) dell’olibano. Sembra sondare l’infinito questa dolcezza che avanza, velata e suggestiva, profonda e benefica, prodiga nel racconto di miti e leggende d’Oriente, che muove oltre la materia, in una sublime armonia trascendentale, colma della saggezza odorosa di ambra, legni, tonka, vaniglia, oud. Non una fragranza. Un rito di elevazione.
Rimarchevole il nuovo flacone con eleganti rifiniture dorate. Creata da Pierre-Constantin Guéros. Eau de Parfum 100 ml. Online qui
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 ©thebeautycove   @igbeautycove
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chez-mimich · 1 year
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CONSIDERAZIONI SEMISERIE SULLA PASQUA DI NOSTRO SIGNORE (E SULLA NOSTRA)
Da bambino per me la Pasqua era qualcosa di assolutamente misterioso, non solo per la Resurrezione di nostro Signore, ma della Pasqua mi stupiva lo schiacciamento temporale, per così dire. Erano passati solo tre-quattro mesi dal Natale (a seconda se la Pasqua fosse “bassa” o “alta”) e trovavo quel bambino nato in una mangiatoia, già uomo e uomo perseguitato e messo in Croce. Eppure io andavo a Messa tutte le domeniche e non mi perdevo una sola “puntata” della vita di Gesù Bambino. Però, per me c’era qualcosa che non tornava proprio nell’anno liturgico. Non riuscivo mai a capire come il neonato Gesù, dopo pochi mesi, fosse un trentatreenne a cui molti volevano male. Più che “come”, non riuscivo a capire “quando” fosse diventato grande senza che io me ne accorgessi. Ma il dopo-Pasqua era anche peggio, perché fino alla Resurrezione non c’erano problemi. Deposto il corpo di Gesù dalla Croce, portato nel sepolcro con quel pietrone davanti, sapevo che dubbi non potevano essercene. Poi Gesù risorge ed io non riuscivo a farmi una ragione, non tanto che Gesù fosse risorto (io tifavo per lui perché sapevo che sarebbe risorto, visto che Gesù e Zorro erano i nostri due supereroi), ma non riuscivo a immaginare le donne che fecero la scoperta. Le identificavo con le tante vedove di Sant’Agabio, il quartiere dove sono nato e vissuto, che andavano al cimitero a trovare i loro mariti. Come avrebbero reagito se sul cancello del cimitero avessero trovato il custode che diceva: “I vostri mariti non sono più qui…” Comunque dopo Pasqua il mistero si infittiva perché il Mariulin, pur seguendo tutte le nuove avventure di Gesù risorto, non si capacitava di come, verso il principio dell’estate con l’Ascensione, Gesù Cristo sparisse di nuovo, ma questa volta chiamato dal suo papà vero, quel Dio che noi bambini avevamo timore al solo nominarlo. Durante il “tempo ordinario” della Chiesa, il sacerdote alla domenica continuava con i Vangeli e le letture che lo riguardavano come se niente fosse, ma io nei banchi della chiesa di Sant’Agabio a Novara, non mi davo pace e mi chiedevo dove fosse finito. Poi verso l’autunno, alla prima domenica di dicembre o anche all’ultima di novembre, incominciava l’Avvento e Gesù doveva ancora nascere. Mi mancava sempre un pezzo, ma cominciavo a capire che la storia era circolare e si sarebbe ripetuta sempre così. Naturalmente noi bambini, contravvenendo a quello che ci diceva Don Carlo, consideravamo il Natale più importante della Pasqua, non tanto perché considerassimo il nascere più credibile del risorgere, ma per il fatto che era praticamente l’unica occasione dell’anno nella quale ricevevamo un giocattolo in regalo. La Pasqua comunque tornava come il Natale, ed io il venerdì Santo, me lo immaginavo sempre come un oscuro giorno di pioggia (e spesso lo era, perché una volta in primavera pioveva davvero) e passavo poi un paio di giorni in ansia perché mi chiedevo se Gesù ce l’avrebbe fatta, anche questa volta, a resuscitare. Da quando sono bambino (ma mi dicono anche prima), ci è sempre riuscito. Il problema vero è che oggi per i bambini, per i loro papà e per le loro mamme, la Pasqua è un ponte con il mare, le città d’arte e le piste da sci e nessuno è più sconvolto da quell’uomo sulla Croce (eppure ce ne sono ancora tantissimi intorno a noi) e tantomeno è più in ansia nell’attesa di sapere se anche questa volta Gesù ce la farà a resuscitare. Comunque ce la farà, ve lo dico io. Buona Pasqua a tutti.
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Benedetto XVI: "il fine della liturgia è Dio"
L’eredità liturgica di Benedetto XVI esprime in primo luogo il primato dell’adorazione, consapevole che l’autentico rinnovamento liturgico non passa per istruzioni e regolamenti né per una malintesa partecipazione. Di qui l’impegno per una “riforma della riforma”, partendo dal proprio esempio nelle celebrazioni pontificie. Continue reading Untitled
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