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#perché quello è uno strumento africano
forgottenbones · 5 years
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toscanoirriverente · 6 years
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Il traffico di umani dall’Africa, le mafie e la complicità dei razzisti
Il traffico di esseri umani nel mondo frutta 150 miliardi di dollari alle mafie, di cui 100 miliardi vengono dalla tratta degli africani. Ogni donna trafficata frutta alla mafia nigeriana 60 mila euro. Trafficandone 100mila in Italia, la mafia nuove un giro di 600 milioni di euro all’anno. Nessun africano verrebbe di sua volontà, se sapesse la verità su cosa lo attende in Europa.
Non mi infilo nell’eterna guerra civile italiana basata su fazioni e non contenuti, ma da afrodiscendente italiano e immigrato ora negli Stati Uniti credo sia arrivato il momento di parlare e trattare l’immigrazione o meglio la mobilità come un problema e fenomeno strutturale che ha vari livelli e non come uno strumento per fare politica o da trascinarsi come i figli contesi di due genitori che li usano per il loro divorzio come arma di ricatto.
Secondo stime dell’ONU, ogni anno sono trafficati milioni di esseri umani con una stima di guadagno delle mafie di 150 miliardi di dollari di fatturato ripeto 150 MILIARDI. (le allego la news di AlJaazera non de Il Giornale o il Fatto Quotidiano). Io non so se lei ha mai vissuto o lavorato nell’Africa vera e che Africani conosce in Italia o se da giornalista si informa su testate anche non italiane, ma il traffico di esseri umani con annessi accessori vari ( bambini, organi, prostituzione ) non è un fenomeno che riguarda solo l’Italietta dei porti sì o porti no, ma è un fenomeno globale che fattura alle mafie africane, asiatiche, messicane, 100 – e ripeto 100 – Miliardi di dollari alll’anno.
Questi soldi poi non vengono certo redistribuiti alla popolazione povera di questi paesi, ma usati per soggiogarla ancora di più con angherie di ogni genere, destabilizzarne i già precari equilibri politici, reinvestirli in droga e armi.
Si è mai chiesto perché, a parità di condizioni di povertà e credenza che l’Europa sia una bengodi, quelli che arrivano da Mozambico, Angola, Kenya sono pochissimi, o quelli che arrivano dal Ghana (il Ghana che è il mio Paese d’origine ha una crescita del PIL del 7% e una situazione di assenza di guerre e persecuzioni) provano a venire? Perchè esiste una cosa chiamata Mafia Nigeriana, che pubblicizza nei villaggi che per 300 euro in 4 settimane è possibile venire in Italia e da lì se vogliono andare in altri Paesi Europei. Salvo poi fregarli appena salgono su un furgone aumentandogli all’improvviso la fee di altri 1000 $, la quale aumenta di nuovo quando arrivano in Libia dove gliene chiedono altri 1000$ per la traversata finale. Il tutto non in 4 settimane come promettono, ma con un tempo di attesa medio di un anno.
In tutto questo ci aggiungo minori che vengono affidate a donne che non sono le loro veri madri, che poi spariranno una volta sistemate le cose in Europa e di centinaia di donne che saranno invece dirottare a fare le prostitute ognuna delle quale vale 60 mila euro d’incasso per la mafia stessa. Solo trafficandone 100.000 verso l’Italia la mafia nigeriana muove un giro di affari di 600 milioni di euro all’anno.
A questo si somma quello che perde l’Africa: risorse giovani. Ho conosciuto ghanesi che hanno venduto il taxi o le proprie piccole mandrie per venire in Europa e ritrovarsi su una strada a elemosinare o a guadagnare 3 euro all’ora, se gli va bene, trattati come bestie e che non riescono neanche a mettere ovviamente da parte un capitale come era nei loro progetti. E anche se desiderano tornare non lo faranno mai per la vergogna perché non saprebbero cosa dire al villaggio, non saprebbero come giustificare quei soldi spesi per arrivare in Europa, anzi alimentano altre partenze facendosi selfies su facebook, che tutto va bene per non dire la verità per vergogna e quindi altri giovani (diciottenni, non scolarizzati ) cercano di venire qui perché pensano che sia facile arricchirsi.
Che senso ha sostenere che questo traffico di “schiavi” e questa truffa criminale della mafia nigeriana, come quelle asiatiche in Asia, deve continuare?
A chi fa bene? Non fa bene al continente africano, non fa bene al singolo africano arrivato qui, perchè al 90 per cento entra in clandestinità e comunque non troverà mai un lavoro dignitoso; non fa bene all’Italia che non ha le risorse economiche e culturali per gestire e sostianzialmente mantenere tante persone che non possano contribuire specialmente in un Paese dove il 40% dei coetanei di questi giovani africani è già senza un lavoro; e non fa bene neanche all’immagine che l’europeo ha dell’Africano perché lo vede sempre come una vittima, un povero, un soggetto debole.
Questo da africano, ma anche essere umano, è l’atteggiamento più razzista che ci sia oltre che colonialista perché non aiuta nessuno, se non le mafie e chi lavora in buona o malafede in tutto questo indotto legato alla prima assistenza.
Con 5 mila dollari è più facile aprire una piccola attività in molti Paesi dell’Africa che venire qui a mendicare e se solo fosse veramente chiaro e divulgato questo concetto il 90 per cento delle persone non partirebbe più probabilmente neanche in aereo per l’Italia.
Specialmente chi ha forse la quinta elementare e 20 anni. Non è lo stesso tipo d’immigrazione di 30 anni fa dove molti erano anche 30enni, alcuni laureati, ma molti con diploma superiore e comunque trovavano lavori nelle fabbriche e in situazioni dignitose.
Non conosco la situazione delle ONG che si occupano dell’assistenza marittima, ma conosco benissismo quelle che operano in Africa di cui la maggioranza sono solo un sistema parassitario. Per i maggiori pensatori Africani e veri leader politici una delle prime cose da fare è proprio cacciare dall’Africa tutte le ONG, perché seppure il personale che ci lavora sono in buonafede, i giovani volontari, il sistema ONG serve a controllare e destabilizzare l’Africa da sempre, oltre che creare sudditanza all’assitenza, senza contare il giro finanziario di donazioni e sprechi fatti dalle ONG per mantenere dirigenti sfruttando l’immagine del povero bambino africano.
Basta con questo modo di pensare controproducente, razzista, e ignorante. Sarebbe curioso vedere qualcuna di queste ONG fare iniziative a Scampia mettendo nelle pubblicità le foto di qualche bambino napoletano.
Siamo stanchi di questa strumentalizzazione che fate su questo tema per i vostri motivi ideologici o le vostre battaglie fascisti o antifascisti sulla pelle di un continente di cui conoscete poco o che avete romanticizzato e idealizzato e che usate per mettere a posto la vostra coscienza o lenire i sensi di colpa del vostro status privilegiato. E’ ora di fare analisi serie e porre in campo soluzioni concrete vincenti, non di avvelenare i pozzi di un partito o dell’altro, perchè chiunque vinca perde l’Africa.
Sarebbe bello un reportage di Edo State in qualche villaggio per capire a che livello di furbizia, cattiveria, fantasia criminale sono arrivati e scoprirete che forse solo trasportare e illudere un giovane analfabeta di vent’annni e la sua famiglia è il minimo che questa potentissima e sottostimata organizzazione criminale fa ogni giorno, sfruttando la disperazione e ignoranza delle gente di cui alcuni disposti a tutto, persino a vendere un figlio appena nato per 100 dollari.
Se questo verrà tollerato ancora i rischi non saranno solo per l’Italia, ma anche per i Paesi Africani dove oltre al problema di dittatori si aggiungerà quello di Narcos al livello della Colombia di Escobar o il Messico di El Chapo con ancora più morti e sottosviluppo di quello che già c’è.
di Fred Kuwornu
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exterminate-ak · 6 years
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(perché mi sono rotta di leggere tutti quelli che su facebook parlano di “cultura della morte”) (e perché mi sono rotta di questi ipocriti, che un bimbo africano può anche crepare di fame, di malattie curabilissime, o affogato, sticazzi, ma la vita (vita?) di un bianco inglese deve essere tutelata contro ogni evidenza scientifica e contro ogni buon senso e contro ogni legge e contro ogni barlume di compassione) Kate James e Tom Evans, i genitori di Alfie, come è comprensibile, si sono opposti a questa decisione. Nessuno vuole arrendersi alla morte, soprattutto quando a morire è un bambino così piccolo. Anche nel caso di Alfie hanno iniziato a circolare video e foto di Alfie che “sorride”, nessuno però ha spiegato che le analisi e l’elettroencefalogramma hanno dimostrato che i sorrisi sono in realtà dei riflessi involontari quando non addirittura il frutto delle convulsioni. Durante il processo è emerso che la risonanza magnetica ha certificato che il cervello di Alfie è “devastato” dalle convulsioni. I talami – si legge nelle conclusioni – ovvero le strutture svolgono la funzione di centro di coordinamento del cervello “sono completamente scomparsi”. Per questo motivo Alfie è cieco, sordo e refrattario ad ogni forma di stimolo. Ammesso e non concesso che sia cosciente deve essere terribile vivere in una condizione di dolore così indicibile da non poter essere comunicata o compresa. Al contrario di quello che ha scritto oggi Matteo Salvini su Facebook non è il “pensiero unico” che sta condannando a morte Alfie: è la malattia. ... su richiesta dei genitori di Alfie il bambino è stato fatto visitare da specialisti provenienti dalla Germania e da Roma. Tutti gli specialisti, fa sapere l’Alder Hey, concordano nel fatto che Alfie sia incurabile. I genitori di Alfie sono Cattolici e il padre è volato a Roma per incontrare Papa Francesco nella speranza che il pontefice possa intercedere per portare Alfie al Bambin Gesù interferendo di fatto nelle decisioni della magistratura di uno Stato sovrano. Ed è curioso che proprio Salvini ed un eurodeputato dell’UKIP chiedano di violare la sovranità di uno Stato. Durante l’udienza è emerso chiaramente come anche gli specialisti dell’ospedale del Vaticano non diano alcuna speranza di guarigione per Alfie. Nel verbale del processo di primo grado però è citato un report dei medici del Bambin Gesù dove viene evidenziato che durante il trasporto – che dovrà essere fatto in ambulanza, elicottero e aereo – Alfie potrebbe soffrire proprio a causa della stimolazione dovuta al viaggio di ulteriori crisi epilettiche che potrebbero danneggiare ulteriormente il cervello. Il Bambin Gesù dice che “l’intera procedura di trasporto rappresenta un rischio” per il bambino. Molti politici pro-life della Lega sono scesi in campo per “salvare” Alfie. Matteo Salvini ha scritto su Facebook che “il pensiero unico” condanna a morte Alfie e che “in Inghilterra vogliono staccare la spina a questo angioletto”. Senza spiegare che nessuno ha condannato a morte Alfie Evans.     L’europarlamentare della Lega Mara Bizzotto ha presentato un’interrogazione urgente alla Commissione UE per chiedere che «le Istituzioni europee intervengano con ogni strumento presso il Governo del Regno Unito affinché vengano tutelati e riconosciuti il diritto alla vita e alla libertà di cura e di circolazione all’interno del territorio europeo di Alfie e dei suoi genitori». La Lega è sempre quel partito che da decenni lamenta delle ingerenze dell’Unione Europea negli affari interni dei paesi membri e che oggi chiede alla UE di andare contro le sentenze dei giudici britannici. Anche il il senatore leghista Simone Pillon, che crede all’esistenza delle streghe e organizza il Family Day si è unito all’appello contro quella che definisce “cultura dello scarto” e aggiunge: “Proporremo modifiche alla legge italiana e alle linee guida europee per garantire in ogni caso che nessuno sia privato dei supporti vitali”.
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https://www.supremecourt.uk/docs/in-the-matter-of-alfie-evans-court-order.pdf
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italiacamerun · 3 years
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Perchè investire in Africa nel 2021?
https://aedic.eu/investire-in-africa/perche-investire-in-africa-nel-2021/
Perchè investire in Africa nel 2021?
Perchè si è aperto il mercato unico più grande del mondo!!!
  Il 1 gennaio 2021 si è aperto il mercato unico più grande del mondo, ed è stata ufficializzata l’unione doganale africana e quindi investire in questo nuovo mercato che in sordina nel 2020 si è aperto come mercato unico africano, ora aprire una azienda di produzione assume un ruolo strategico per le aziende che sono interessate a processi di internazionalizzazione e sviluppo di aree vergini con materie prime da trasformare per essere poi rivendute sul mercato interno. 
Quì sotto il video ufficiale la cerimonia di apertura di AfCFTA
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  l’Unione Africana è il più grande mercato unico del mondo
  Oggi il continente africano è diventato la più grande area di libero scambio del mondo. L’accordo che ne è alla base si chiama African Continental Free Trade Area (AfCFTA), vi aderiscono tutti gli stati ad eccezione dell’Eritrea e prevede l’eliminazione dei dazi sul 90% dei prodotti e dei servizi.
L’obbiettivo dell’unione africana quello di incrementare il volume degli scambi commerciali tra i diversi Paesi e favorire la creazione di milioni di posti di lavoro nel continente.
In questo momento l’economia africana vive e si appoggia in grande parte sulle esportazioni verso l’Europa e l’Asia. Gli scambi delle merci interne al continente rappresentano appena il 15% del totale. Ora i prodotti più venduti verso l’estero sono le materie prime frutto delle attività estrattive che impattano e che hanno riflessi occupazionali limitati nel continente.
Ed è proprio a questa criticità che l’AfCFTA vuole trovare e implementare soluzioni eliminare questo problema. Nella cerimonia ufficiale di lancio dell’accordo è stato più volte sottolineato che l’eliminazione dei dazi e delle barriere non tariffarie,  questo potrà creare nuove opportunità per piccole e medie imprese, in settori che potranno dare uno sbocco importante all’occupazione femminile, spesso concentrata nell’economia informale, e a quella giovanile.
In tal senso :
“L’African Continental Free Trade Area non deve essere solo un accordo commerciale ma uno strumento per lo sviluppo dell’Africa”, ha affermato Wamkele Mene, segretario generale del segretariato della zona di libero scambio continentale africana, aggiungendo che l’obiettivo è quello di raddoppiare in 15 anni il volume degli scambi interni e “uscire dal modello economico coloniale che abbiamo ereditato e che per 50 anni abbiamo mantenuto”.
La Banca mondiale ha sottolineato in un suo studio che se l’African Continental Free Trade Area sarà reso effettivo in tutti i suoi aspetti, il 2035 potrebbe essere l’anno che sancirà la fine della povertà per decine di milioni di persone e l’Africa potrebbe vedere il proprio Pil complessivo aumentare notevolmente. Come le economie occidentali anche l’economia africana subisce i contraccolpi della crisi legata alla pandemia da Covid-19.
L’Africa si sta dimostrando inaspettatamente molto resiliente alla pandemia globale di Covid-19: la crescita del PIL nel continente africano è stimata al 1% contro il 4% di inizio anno. L’aspetto più sensazionale è rappresentato proprio dalla errata proiezione formulata dalla comunità scientifica ad inizio marzo che paventava in Africa una catastrofe umanitaria dovuta alla diffusione del contagio del coronavirus di Wuhan.
Sul fronte sanitario i numeri parlano da soli: in Africa vi sono stati 2 morti per milione di abitanti contro i 200 per milione dell’Europa. Analizzando il ranking mondiale questo quadro appare lampante: infatti le prime tre nazioni africane per numero di contagiati risultano rispettivamente Sudafrica (19), Egitto (26) e Nigeria (50).
Come leggiamo dal sito web del notissimo ed esperto consulente finanziario Eugenio Benetazzo di cui vi invito a sentire nel video sottostante le previsioni in materia dello sviluppo e opportunità per i futuri investimenti nel continente Africano.
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Il continente Africano al momento risulta più colpito a livello economico che umanitario in quanto il gran parte del PIL africano dipende dalle esportazioni di materie prime, sia industrial che soft commodity. Diversamente invece da quanto accaduto a Stati Uniti ed Europa, il continente africano non risulta colpito nella filiera produttiva e sul versante occupazionale proprio in considerazione della sua stessa struttura economica ancora poco interconnessa con le altre aree macroeconomiche del mondo. Inoltre le economie africane che trainano la crescita del continente soprattutto Nigeria, Sudafrica ed Egitto non hanno implementato misure di espansione monetaria al pari di quanto varato dalle economie occidentali per far fronte alle misure di emergenza sanitaria.
L’organismo che oggi ha il compito di di vigilare e accompagnare l’implementazione dell’accordo ha sede ad Accra, capitale del Ghana, e il segretariato lavora con Afreximbank per creare una piattaforma commerciale panafricana che consenta alle piccole imprese di commerciare efficacemente senza i confini e in diverse valute.
“Spesso negli accordi commerciali i grandi vincitori sono i paesi già industrializzati e le grandi aziende che possono accedere ai nuovi mercati letteralmente dall’oggi al domani”,
ha dichiarato Wamkele Mene al Financial Times, il segretario ha spiegando che sarebbe un grave fallimento se l’integrazione del mercato finisse per accentuare le disparità tra gli stati.
Un altra testimonianza sugli interventi e sulle opportunità per chi investe in Africa e sulle grandi opportunità nel più grande mercato del mondo ci arriva da questo video da vedere assolutamente. Nel video ci parla il Banchiere Euvin Naidoo che apre il suo intervento esordendo così:
Benvenuti in Africa! O forse dovrei dire: “Benvenuti a casa”. Perché è qui che tutto è cominciato, vero? Analizzando fossili di diversi milioni di anni fa, tutto sembra testimoniare che la storia della nostra specie, così come la conosciamo, sia cominciata proprio qui. Nei prossimi quattro giorni faremo un viaggio eccezionale. Ascolterete storie da “Africa: Il prossimo capitolo”. Storie fantastiche, e aneddoti dei relatori. Ma vorrei, per un attimo, fare il contrario, tirare in ballo una questione e “ripulire l’aria”, per così dire. Qual è la cosa peggiore che abbiate mai sentito sull’Africa? Non è retorica. Voglio che mi rispondiate, davvero. Avanti! La peggiore. Carestia. Corruzione. Ancora. Genocidio. AIDS. Schiavitù. Basta così.
Il banchiere d’affari sudafricano Euvin Nadoo spiega perché investire in Africa:
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purpleavenuecupcake · 4 years
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Editoria: "Afrika. Chiavi d'accesso", un libro unico per conoscere un continente davvero speciale
Juorno.it  ha letto in anteprima il libro  “Afrika. Chiavi d’accesso” di Ebone Edizioni, il cui autore è Francescomaria Tuccillo. A breve il libro, unico nel suo genere, potrà essere acquistato in tutte le librerie italiane ed aprirà ai lettori una bellissima finestra su un continente ricco di risorse e davvero molto speciale che merita di essere conosciuto tramite le parole dell'autore che dell'Africa ha fatto una sua seconda casa.
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Le sue pagine propongono una visione d’insieme, scritta da una penna fluida e costellata di episodi di vita reale, di quello che è definito nella premessa ”uno dei luoghi tra i più misteriosi del nostro pianeta”. È così. Dell’Africa parliamo molto (quasi solo a proposito di migrazioni) e sappiamo poco. Vale quindi la pena di approfondire il tema con l’autore che Juorno.it ha intervistato. Cominciamo dal titolo. Perché “Afrika” con la ”k”? Semplicemente perché così si scrive in swahili, la lingua “trasversale” dell’Africa subsahariana, dove ho vissuto per anni. Quella “k” vuole dunque essere un omaggio alla cultura africana, oltre che un piccolo dettaglio che può suscitare curiosità in chi osserva la copertina. Anche il sottotitolo è interessante: ”chiavi di accesso”. Che cosa intende esattamente? Intendo indicare l’obiettivo della pubblicazione, che non è quello di esaurire in poche pagine il vastissimo e complesso tema africano, ma piuttosto di offrirne alcune chiavi di lettura a tutti coloro che per ragioni di lavoro, di studio o di curiosità intellettuale intendono conoscere meglio un continente molto diverso dagli stereotipi in cui è confinato dai nostri pregiudizi. L’Africa non è solo una meta turistica esotica, come pensano alcuni, o una minaccia di invasioni migratorie, come credono in troppi. È molto altro e molto di più. Riuscirebbe a dirci in sintesi che cos’è l’Africa di oggi? L’esercizio è difficile. Non a caso il primo capitolo del libro s’intitola ”Si fa presto a dire Africa”. Il continente africano è un mosaico quanto mai eterogeneo di climi, ambienti naturali, popolazioni, tradizioni, ceti sociali. È insieme caldissima e fredda, arida e fertile, moderna e conservatrice, poverissima e ricca, cristiana, musulmana e pagana, internazionale e tribale, postcoloniale e libera da sudditanze di ogni genere. Provo tuttavia a riassumerne i tratti essenziali citando tre elementi che mi paiono fondamentali: risorse naturali, democrazia e gioventù. Le risorse naturali africane sono tra le più ricche e strategiche del pianeta. L’Africa possiede petrolio, gas, uranio, radio, ferro, cromo, fosfati. Produce il 50% dell’oro, il 60% dei diamanti e il 97% del rame mondiali. E potrei continuare. Inoltre sta vivendo una fase, faticosa ma decisiva, di passaggio dagli antichi leaders for life alla democrazia reale, che è sempre condizione di stabilità e di sviluppo economico e sociale. Non a caso la crescita media dell’Africa subsahariana nel 2019 è stimata al 4% dal Fondo Monetario Internazionale, con un picco in alcuni paesi: in Kenya per esempio supererà il 6% e in Etiopia sarà del 7,7% quest’anno e dell’8,8% nel 2020. Infine e soprattutto l’Africa è il continente più giovane del mondo. Oggi l’occidente invecchia costantemente. La popolazione africana invece ha un’età media di 18 anni. A questo dato è utile affiancare quello della crescita demografica: gli africani sono oggi un miliardo e trecento mila e nel 2050 diventeranno due miliardi e mezzo, saranno più numerosi dei cinesi e per la metà in età da lavoro, perché il loro aumento non è dovuto a incremento delle nascite, come si pensa a torto, ma a una maggiore durata della vita. Sono numeri destinati a spostare i baricentri del pianeta cui siamo avvezzi da secoli: quello politico ed economico, così come quello sociale e culturale. Una rivista italiana è uscita con una bella copertina, nel suo ultimo numero. Accanto a un neonato di colore ha messo in rosso il titolo: “Questo bambino salverà il mondo“. E lo ha commentato con un sottotitolo: ”La popolazione mondiale invecchia e calerà entro la fine del secolo. Ma c’è un continente che potrà ancora contare sull’energia dei giovani: l’Africa“. È così. E con questi giovani dovremo confrontarci per sopravvivere.
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  Siamo pronti a farlo? In altri termini, come l’Italia e l’Europa si stanno relazionando con l’Africa dal punto di vista economico e politico? Per essere diretto, le rispondo con una sola parola: male. Mentre i giganti orientali – Cina e India – hanno compreso da tempo il peso strategico dell’Africa e mai vi sono stati così attivi dal punto di vista commerciale, politico e militare, l’Europa si presenta in maniera frammentaria e incerta. E l’Italia, ripiegata su se stessa e sulle sue diatribe interne, è pressoché assente. È un peccato. Gli europei in generale e gli italiani in particolare hanno molte affinità storiche e culturali con il continente africano e, se agissero in maniera strategica e non occasionale, potrebbero costruire in Africa e con l’Africa prospettive concrete di sviluppo per le loro economie, i loro giovani e il loro futuro. Come ho scritto nel libro, spazio ce n’è ancora. Tempo invece molto poco, perché le altre potenze mondiali si stanno muovendo in maniera assai più rapida e strutturata di noi. Tra le chiavi di accesso all’Africa e ai suoi mercati, qual è la più importante? Non ho dubbi: la cultura, in senso lato. Per cultura intendo innanzi tutto una conoscenza della storia, delle tradizioni, dei costumi e della società che consenta di andare oltre i preconcetti e di accostarsi all’Africa con consapevolezza. Inoltre, per passare al settore economico e industriale al quale il libro si rivolge prioritariamente, cultura significa pensiero lungo o strategia. Un errore delle imprese italiane che hanno tentato di fare business in Africa è sempre stato il tatticismo spicciolo. Alludo alla tendenza a cogliere al volo le opportunità senza costruire una relazione stabile nel tempo, senza conoscere i bisogni reali dei paesi africani e facendo troppo spesso ricorso alla corruzione come strumento di marketing.
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La corruzione è, tra tutti i tatticismi possibili, il più stupido: a parte le valutazioni etiche, dal punto di vista economico genera forse valore immediato, ma compromette nel medio-lungo termine la reputazione e lo sviluppo sostenibile di chi la pratica. Potrei citarle decine e decine di esempi di pratiche corruttive che hanno generato perdite di contratti, problemi giudiziari e addirittura, alla fine, il fallimento delle aziende coinvolte. L’ultimo episodio riguarda un’impresa di costruzioni in Kenya: sei dei suoi dirigenti sono oggetto di un mandato internazionale di cattura, i lavori infrastrutturali che stava facendo sono annullati e l’azienda è in concordato fallimentare. Eppure uno dei problemi dell’Africa è proprio la corruzione. È forse per questo che le imprese italiane si sono “adeguate”, praticandola anche loro? Non credo, perché quelle stesse aziende non l’hanno praticata solo in Africa ma anche altrove, Italia compresa. Chi considera la corruzione uno strumento di crescita, tende a corrompere sempre, chiunque e dappertutto. Aggiungo che molti paesi africani, consapevoli che corruzione è sinonimo di paralisi, la stanno ora combattendo con ogni mezzo. Penso di nuovo, per citare solo due casi, al Kenya e all’Etiopia. Infine è interessante ricordare i dati dell’ultimo rapporto di Transparency International, l’organismo che misura la corruzione percepita in 180 nazioni del mondo. Se è certo che questo problema resta forte in Africa, alcuni dei suoi paesi hanno registrato un netto miglioramento e hanno un punteggio superiore all’Italia, che con 52 punti su 100 resta il paese più corrotto dell’Europa occidentale. Non abbiamo quindi molto da insegnare a nessuno. E, in ogni caso, la corruzione altrui non giustifica mai la nostra, né eticamente né economicamente. Lei ha trascorso in Africa dieci anni della sua vita professionale e ci è andato a vivere al culmine della sua carriera italiana, quando cioè stava esercitando con successo la professione di avvocato tra Napoli e Roma. Perché questa scelta inconsueta? È stata una scelta… di spazio e di libertà. Mi spiego. La nostra è una società chiusa, fatta di potentati, di caste e di cosche. Se non si appartiene – né si vuole appartenere – a uno di questi gruppi di potere in Italia non si va avanti. Il lavoro e il merito non solo non sono sufficienti per crescere personalmente e professionalmente, ma addirittura costituiscono un ostacolo. In un mondo in cui l’acquiescenza conta più della competenza, chi è capace di fare il suo mestiere e ha un pensiero libero è visto come una minaccia.
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In Africa non è così. In Africa ci sono ancora lo spazio e la libertà di costruire qualcosa senza piegare la schiena di fronte al potente di turno. In Africa il merito conta ancora più dei titoli. In Africa ci si può reinventare un cammino. La mia storia lo dimostra: ho iniziato a lavorarci come avvocato d’affari, poi ho creato la mia piccola impresa che ha avuto successo. Infine sono stato assunto come dirigente da un grande gruppo industriale italiano. Questa eterogeneità di percorso, che mi ha arricchito, da noi sarebbe stata impossibile. Ma non vorrei parlare solo del mio esempio. Guardiamo anche agli africani. Chi è oggi ai vertici di alcuni paesi, o lo è stato ieri, ha cominciato davvero dal basso. Penso a Jomo Kenyatta, leader del movimento anticolonialista keniota e primo presidente dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Jomo è nato in una tribù interna del paese e ha perso i genitori da piccolo. Ha vissuto in un orfanotrofio di missionari scozzesi che, vista l’intelligenza del ragazzino, gli hanno pagato gli studi in Europa. Penso al mito africano per eccellenza: Nelson Mandela. Nato in una famiglia di contadini di un minuscolo villaggio sudafricano, Madiba è diventato avvocato, leader eroico del movimento anti-apartheid, prigioniero per ventisette anni e poi presidente della sua nazione e uomo della riconciliazione tra neri e bianchi. Penso infine al giovane Abiy Ahmed Ali, primo ministro etiope e premio Nobel per la pace 2019. Lo ha ricordato lui stesso a Oslo, ricevendo il premio pochi giorni fa: è nato in un villaggio senza impianti idrici e senza energia elettrica. Era uno di quei bambini che andavano a prendere l’acqua nei punti di distribuzione con i secchi in spalla. E oggi ha due lauree, parla quattro lingue e sta trasformando radicalmente il suo paese. Hanno due punti in comune, questi tre signori di epoche e nazioni diverse: la cultura e il carisma. Tutti e tre hanno studiato accanitamente per diventare quel che sono diventati. Tutti e tre hanno o avevano una personalità che sa convincere, motivare, influire sulla società e sulle sue dinamiche. Ecco: gli studi e il carisma sono ancora, laggiù, criteri di valutazione delle persone. Da noi – e lo dico con amarezza – gli studi contano sempre meno e il carisma è confuso con la paccottiglia propagandistica. Anche per questo ho deciso di vivere in Africa e ci torno, adesso, ogni volta che mi è possibile. Lei è napoletano e l’editore del suo libro anche. È un caso? No, non credo. Napoli è il “ponte sul Mediterraneo” per eccellenza, per storia, per cultura. E l’Africa è affacciata sul Mediterraneo. Non è quindi un caso che io mi sia sentito naturalmente spinto verso quelle rive. Né che un editore napoletano, che ringrazio, si sia interessato al mio libro e lo abbia pubblicato con convinzione. La nostra “polis” è aperta al mondo, da sempre. È tollerante, generosa e curiosa. Auguriamoci che lo resti. Il suo futuro, e quello delle sue imprese industriali e artigiane, dipenderà molto dalla capacità di dialogare con altre parti del pianeta. E con l’Africa in particolare.   Read the full article
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«Così in Nigeria strappo le donne ai trafficanti di esseri umani»
Con un documentario in cui sei donne raccontano la loro odissea che le ha portate a battere sui marciapiedi in Italia, padre Francis Rozario, da Benin City, gira villaggi, scuole e chiese svelando i meccanismi perversi con cui le organizzazioni criminali, responsabili dei viaggi verso l'Europa, ingannano i giovani locali spingendoli a migrare. «Ci sono persone che vengono pagate per trovare giovani da far partire verso l’Europa. La nostra attività anti-tratta va a toccare il business delle organizzazioni criminali». «Volete fare davvero qualcosa? Pagate gli studi a una ragazza nigeriana, solo così sfuggirà alla rete della prostituzione che la porterà da voi». Così padre Francis racconta alla Nuova BQ la sua sfida alle organizzazioni criminali.
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di Nico Spuntoni (04-11-2019)
“Sto implorando tutti voi: non attraversate quel mare che porta in Europa! Stop! Stop! Per favore, state a casa. Costruite un futuro migliore per la vostra vita, potete ancora farlo in Nigeria”. Non sono le parole del prototipo del sovranista italiano, ma l’accorato appello di una migrante nigeriana che si rivolge ai suoi connazionali ancora in patria. La sua supplica, insieme a quella di altre cinque donne con la stessa storia, fa parte del documentario sul fenomeno della tratta degli esseri umani realizzato da Antonio Guadalupi e padre Francis Rozario. Si chiama “How much..”, la stessa domanda che le ragazze nigeriane passate dai barconi ai marciapiedi si sentono rivolgere dai clienti occidentali. Quest’opera, prima ancora di essere un docu-film di denuncia sociale per sensibilizzare gli spettatori italiani sul dramma che si nasconde dietro al fenomeno della prostituzione, rappresenta un valido strumento da utilizzare per scoraggiare le partenze dietro a false promesse.
Lo scopo dichiarato dagli autori, infatti, è quello di far conoscere ai giovani nigeriani e alle loro famiglie la triste realtà di un racket ramificato e in mano ad organizzazioni spietate. Grazie alle testimonianze di sei sopravvissute che oggi risiedono in Italia all’interno di strutture protette, suore e missionari anti-tratta che operano nel difficile contesto del Paese africano hanno la possibilità di mostrare direttamente nei villaggi, nelle scuole e nelle chiese il lato oscuro dell’immigrazione clandestina. Padre Francis Rozario è uno di quei pastori con “l’odore delle pecore”: missionario della Sma, è vissuto sei anni in Nigeria dove torna frequentemente per portare avanti il suo impegno anti-tratta. La Nuova BQ lo ha intervistato per avere un’immagine veritiera, senza i filtri dell’ideologia e della propaganda, sul traffico di esseri umani proveniente dal Paese africano e diretto verso l’Europa.
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Padre Rozario (in foto), dalle testimonianze del documentario emerge come siano principalmente le donne a convincere le ragazze – e le loro famiglie - a partire verso l’Italia con la promessa di un lavoro sicuro e redditizio. È un metodo collaudato dai trafficanti per rendere più rassicurante la proposta? Molto spesso sono persone arrivate in città dai villaggi a svolgere questo compito: vengono pagate per trovare giovani da far partire verso l’Europa. Le individuano in base alla vulnerabilità e poi ne conquistano la fiducia prospettando loro un futuro migliore. Le vittime non sempre sono inconsapevoli di ciò che le spetta, ma sottovalutano i pericoli della schiavitù sul marciapiede e pensano di poter sopportare, si convincono del fatto che possa durare quei pochi mesi necessari per mettere da parte un po’ di soldi per fare una vita dignitosa a casa. Ma non è così e ben presto, loro malgrado, lo scoprono.  Anche per questo abbiamo scelto di chiamare il documentario “How much…”: è la domanda che fanno loro i clienti, ma anche quella che si trovano a rivolgere ai trafficanti quando si rendono conto di avere un pesantissimo debito da ripagare per restituire le spese del viaggio.
Siamo abituati a pensare che la causa maggiore delle partenze sia la povertà. Eppure Benin City, principale punto di partenza del traffico di migranti orientato alla prostituzione, non è certo il centro più povero nella Nigeria… Benin City non è povera. Io ho vissuto per anni nella Nigeria settentrionale. In quelle zone rurali, le persone non hanno niente ma sono molto orgogliose, lavorano gli animali, si aiutano tra loro e non si sentono povere. Nei villaggi si può mangiare e dormire senza spendere soldi, mentre nella città la vita è cara e la povertà si sente. Ci sono tante ragazze che, trasferitesi dai villaggi alle città per lavorare o studiare, si ritrovano senza soldi per vivere. È su questa fascia di persone, la più vulnerabile, che puntano i trafficanti. Questo è il dramma che c’è dietro i numeri dell’esodo da Benin City. Le false promesse dei trafficanti non funzionano nei villaggi, mentre hanno grande presa nelle città.
Voi, come Società delle Missioni Africane, insieme alle suore di Nostra Signora degli Apostoli, avete creato un team che opera sul campo a Benin City per prevenire il traffico di essere umani. Come funziona il vostro lavoro di coscientizzazione e a quali rischi siete esposti? Sappiamo che questa nostra attività anti-tratta va a toccare il business delle organizzazioni criminali, grazie a Dio, però, finora non siamo mai stati minacciati. La nostra priorità è quella di avvertire a livello locale dei pericoli a cui si va incontro scegliendo di partire. Il primo lavoro che facciamo per prevenire è quello di identificare le persone più vulnerabili che possono cadere facilmente nelle false promesse dei trafficanti e dei loro complici. Ad esempio, quelle ragazze che sono arrivate in città dai villaggi e lavorano nelle case dei ricchi facendo le domestiche ma non ce la fanno neppure a pagare le spese più piccole. Una volta individuati questi casi, noi le identifichiamo e poi ci occupiamo di informarle sui pericoli di chi sceglie di intraprendere i viaggi della speranza. A questo scopo ci è molto utile il documentario: lo mostriamo nelle scuole, nei villaggi, nelle chiese ed anche attraverso un canale televisivo. Ogni volta che c’è una proiezione, ci accorgiamo subito che la gravità del problema arriva agli spettatori e questo grazie alle testimonianze dirette delle vittime, che sono nigeriane come loro. La visione di “How much” ha portato molte donne ad abbandonare il proposito di partire.
Che fine fanno le vittime della tratta che decidono di tornare a casa? Come vengono accolte dalle loro comunità originarie? Il ritorno a casa è molto difficile perché, pur libere dalla schiavitù del marciapiede, si ritrovano ad avere a che fare con problemi vecchi e nuovi. Erano partite perché non potevano studiare o non trovavano lavoro e una volta tornate si ripresentano gli stessi ostacoli. A ciò si aggiunge la perdita del rispetto a livello sociale; il reintegro nella società è molto difficile e purtroppo molte di loro, non trovando alternative, rifiniscono facilmente nel giro dello sfruttamento sessuale anche in patria per poter sopravvivere economicamente. Una volta cadute nella trappola è molto difficile uscire dal vortice della prostituzione. Per questo la cosa migliore è convincere queste ragazze ad evitare le partenze verso l’Europa, mettendole a conoscenza dei pericoli a cui vanno incontro.
Come funziona la ‘macchina’ dei trafficanti? Esiste una base propagandistica di cui si servono per convincere le persone a partire? I trafficanti pubblicano su Facebook le foto delle ragazze schiavizzate in Europa mostrandole come se vivessero nel benessere per invogliare le loro connazionali a partire dalla Nigeria. Benin City, poi, è piena di alberghi. Eppure non è una città turistica! In realtà, queste strutture servono come base per i trafficanti che mettono in bella vista i soldi e cercano in questo modo di attirare le ragazze più vulnerabili nella loro rete. La macchina propagandistica di questi criminali opera anche attraverso alcune chiese pentecostali: ci sono autoproclamati pastori che sono complici dei clan e fungono da intermediari per reclutare le future schiave. A Benin City si vedono ovunque i loro cartelli pubblicitari sui quali promettono di far ottenere la benedizione di Dio per diventare ricchi o di far ottenere più facilmente il visto per espatriare. Questi pastori, una volta attirate le vittime con queste pubblicità ingannevoli, raccontano loro di avere un amico che può aiutarle ad andare in Europa e in questo modo le mettono in contatto con i trafficanti. Addirittura alcuni di loro si sono prestati ad officiare i giuramenti di fedeltà con cui i clan tengono in scacco le ragazze, proprio come fanno anche gli stregoni.  Lo scorso anno ci sono stati degli arresti che hanno smascherato questa rete criminale. La teologia della prosperità è pericolosa: fa passare il messaggio che il ricco è benedetto da Dio, mentre il povero è maledetto. Così, per uscire da questa maledizione le famiglie sono disposte a lasciar partire le proprie figlie nella speranza di un riscatto sociale.
Nel documentario le sopravvissute raccontano che poco prima di salire sull’imbarcazione che le porterà dalla Libia all’Italia c’è un ripensamento generale per le condizioni del mare e viene chiesto allo scafista arabo di rinunciare alla traversata, ma lui inizia a frustare i migranti e dice loro che non hanno scelta, costringendoli a procedere. Perché li obbligano a partire? Perché in alcuni casi i ‘magnaccia’ hanno già pagato l’intermediario affinché conduca quei disperati fino alla destinazione prestabilita. In altri casi, invece, i migranti pagano per ogni tratta e chi non ha soldi è costretto ad aspettare per continuare il viaggio. Le ragazze pagano spesso con il loro corpo, i ragazzi o lavorano o chiamano parenti ed amici per farsi mandare i soldi. Se il ‘magnaccia’ ha già pagato, come nel caso del documentario, le ragazze sono già diventate schiave e devono arrivare in Europa a tutti i costi.
Qual è il ruolo delle navi delle Ong che operano nel Mediterraneo? In Italia se ne parla tanto: c’è chi le elogia perché salvano vite, ma c’è anche chi le accusa di complicità con i trafficanti. Adesso la situazione è diversa rispetto al passato. Il loro rapporto non è chiaro, ma non parlerei di complicità. Sinceramente non ho elementi per esprimermi su questo. Non sappiamo se queste Ong sappiano o meno i dettagli dei migranti che arrivano, anche se a volte abbiamo visto gli scafisti buttare in acqua le persone quando le navi stanno per sopraggiungere. Sinceramente non ho elementi per esprimermi su questo. Quello che posso dire, però, è che i trafficanti hanno dimostrato di conoscere molti dettagli e probabilmente dispongono di una rete molto informata in Nigeria, in Medioriente ed in Europa.
Nell'appello che conclude il vostro documentario, il cardinale John Onaiyekan usa parole chiare e forti rivolte alle famiglie nigeriane: "non siate stupidi e non lasciate partire le vostre ragazze perché allettati dalla prospettiva di ricchezza!". La politica dell’accoglienza a tutti i costi predicata spesso in Europa non rischia di ostacolare l’impegno della Chiesa locale? Ci vuole un po’ di tutto. Non possiamo far venire tutta l’Africa in Europa! E’ importante chiedere agli africani di rimanere nelle loro terre e svilupparle. Al tempo stesso, non possiamo bloccare una persona in un determinato territorio perché siamo tutti cittadini dell’universo. L’essere umano si sposta in continuazione, fa parte della sua natura. Non bisogna chiudersi, ma rimanere aperti ed accettare l’incontro. Ma occorre incoraggiare la gente a rimanere in Africa e lavorare per farla crescere. Non dobbiamo fare propaganda per far venire tutti.
L’Europa cosa dovrebbe fare per “aiutarli a casa loro”? La soluzione migliore sarebbe quella di contribuire a pagare gli studi delle ragazze più bisognose in Nigeria.  Lì, se studiano, trovano lavoro. Quindi, occorre istituire più borse di studio per ragazze povere. In Nigeria tutti vogliono studiare, c’è un desiderio molto grande rispetto agli altri Paesi. Un altro aiuto potrebbe arrivare contribuendo a sostenere le rette degli alloggi delle studentesse:  formandosi, queste ragazze possono diventare più qualificate e non cadere nelle facili promesse dei trafficanti.
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pangeanews · 6 years
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Da Pallone d’Oro a Presidente della Liberia: intervista a George Weah. “Roberto Baggio mi ripeteva che ‘è tutto un magna magna’”
Lunedì 22 gennaio 2018. George Weah, 51 anni, ex calciatore, ha giurato come Presidente della Liberia. Gli ho inviato un messaggio di congratulazioni. Mi ha risposto. Il nostro è un rapporto sincero, leale, di collaborazione umanitaria che parte da lontano. Da quando era arrivato al Milan dove ha giocato dal 1995 al gennaio 2000 mettendo a segno 58 gol in 147 partite, vincendo due scudetti e un Pallone d’Oro (primo giocatore africano a vincerlo). Non sono mai stato un cronista sportivo né un tifoso rossonero sfegatato. Ma Weah al Milan faceva notizia. Così l’avevo intervistato.
George Weah oggi. Dal calcio alla presidenza della Liberia
E dopo i soliti convenevoli sulle tattiche, i dribbling e le trasferte Weah (che per i giornali era diventato Re Leone o King George o Big George o Giorgino) aveva cominciato a parlare dei problemi della sua Liberia e di come risolvere la povertà dei bambini. Davanti al mio stupore mi aveva spiegato «quando sono in campo mi concentro sulla partita. Quando esco dallo stadio non guardo i programmi di calcio e non leggo i giornali sportivi ma mi occupo dei problemi della mia terra. Lo sport è uno strumento per aiutare il mio popolo». Ci accomunava, e tutt’ora ci accomuna, la collaborazione con Unicef anche se in ruoli diversi (lui è testimonial e ambasciatore). E sempre per Unicef, da quel momento siamo rimasti in contatto, anche solo al telefono o via mail o attraverso skype. L’ultima volta l’ho incontrato a Bruxelles. Era settembre dello scorso anno e Weah era in piena campagna elettorale. Che ha vinto. E poi, come ho detto, le congratulazioni per la conquista della Presidenza e uno scambio di commenti e sensazioni sul suo futuro. Perciò questa non è una semplice intervista. È una specie di raccolta di confidenze private, battute spiritose, frasi che l’hanno reso famoso, ricordi divertenti ma anche l’analisi obiettiva di sconfitte politiche e di rivincite orgogliose, speranze deluse e sogni dissolti prima dell’alba ma poi risognati per realizzarne almeno uno. Che finalmente si è concretizzato. E Weah ce l’ha raccontato. In esclusiva. Sentimentale.
Partendo dal calcio è diventato Presidente.
Dal calcio si imparano molte cose.
Anche dai colleghi?
Soprattutto italiani.
Per esempio?               
Quando giocavamo insieme nel Milan Roberto Baggio mi ripeteva che «è tutto un magna magna».
Se l’è ricordato?        
Ho messo la lotta alla corruzione al primo punto del mio programma.
E la libertà?
Liberia deriva dal latino liber. La libertà è alla base del mio programma politico.
Baggio raccontava che in  albergo lei dormiva sul pavimento.
Un modo per ricordare a me stesso le mie origini. Da dove sono partito. Da una bidonville di Monrovia.
Prima del calciatore aveva fatto altri mestieri?
Centralinista alla Liberia Telecommunications Corporation.
Sempre Baggio diceva che lei a tavola sceglieva sempre il riso.
Un altro modo per ricordare che nel mio villaggio mangiavamo solo una manciata di riso.
È importante non montarsi la testa?
Fondamentale. Lo facevo da calciatore famoso, a maggior ragione da Presidente.
Però sa anche scherzare sulle sue origini.
L’umorismo e la voglia di sorridere non devono mai mancare.
Servono anche a sdrammatizzare il razzismo dilagante?
Non l’ho mai avvertito in Italia. Almeno, non con me.
Baggio è famoso anche per la sua fede buddhista, lei invece è un musulmano convertito.
La mia famiglia, specialmente mia nonna paterna che mi ha cresciuto, era cristiana.
Come  mai ha cambiato maglietta?
Dio è grande e buono, comunque lo si chiami. Ma credo che quella musulmana sia la religione giusta per me.
Tutti   ricordano quando pregava anche in mezzo al campo.
Prego cinque volte al giorno. Anche per strada, anche quando giocavo.
Anche come  Presidente?
Molto di più. Ne ho bisogno. La responsabilità è enorme. Ma so che Dio mi è vicino. E mi aiuta.
A proposito di partita, è vero che ha inserito nel protocollo d’investitura presidenziale una partitella di calcio?
Il calcio unisce. Quando eravamo in guerra, l’unica cosa che univa la gente era il pallone.
Quindi rientra nei festeggiamenti nazionali?
Weah All Stars contro Armed Force Liberia, l’esercito.
Maglietta numero 9 e fascia da capitano?
Fascia da capitano ma maglietta numero 14.
Ha segnato? 
Il primo dei due gol che ci hanno permesso di vincere 2 a 1.
Sarà istituzionalizzata la partitella di fine settimana?
Non credo. È stata una delle ultime volte che mi avete visto giocare a calcio.
Partita anche diplomatica con il calcio d’inizio dell’ambasciatrice statunitense.
L’appoggio statunitense è stato fondamentale. Barack Obama ci ha aiutato nella crisi dell’Ebola e non solo.
E con Trump?
Il fatto che abbia definito shitholes i Paesi africani non ci fa stare tranquilli.
Una prospettiva che rende ancora più difficile il suo ruolo.
So di avere gli occhi puntati addosso. Sento lo scetticismo di molti.
Di chi?
Di chi pensa che un ex calciatore non possa essere un buon Presidente.
Forse  perché tutti  conoscono il suo curriculum sportivo, pochi quello accademico.
Scuola media al Congresso musulmano, scuola superiore alla Wells Hairston High School, laurea in Arte e Amministrazione sportiva alla Parkwood University di Londra, dottorato onorario in Umanità dal A.M.E. Zion University College della Liberia, master in Pubblica Amministrazione e business management alla DeVry University in Florida.
Basta così! Forse manca la preparazione politica…
Nei sei anni del mio mandato dimostrerò il mio valore.
Dicono che lei non  sappia parlare in pubblico con proprietà di linguaggio politico ed economico.
Parlo di progetti e di cose concrete.
Le rinfacciano che in tre anni al Senato non abbia brillato.
Brilla l’amore che ho per la mia gente.
Che cosa ha promesso?
Più strade e nuovi posti di lavoro.
Ci sono cartelli per le strade che le ricordano di mantenere le promesse.
Lo so. Il Governo precedente ha promesso e non ha mantenuto.
Perché lei sarà diverso?   
So di che cosa ha bisogno la mia gente. Non dimentico mai da dove arrivo.
Ce la farà?
Ce la dobbiamo fare. Le aspettative delle persone mi danno la carica giusta.
Troppo ottimista?
I giovani mi hanno votato perché sperano di cambiare la propria vita come ho fatto io.
Non tutti nascono Weah.
Tutti però possono provarci.
Liberian dream?
Il mio compito è di dare ai giovani un sogno.
I sogni sono desideri?
Voglio provare a dare ai giovani l’opportunità che ho avuto io.
Claudio Pollastri
*
(L’intervista di Claudio Pollastri, pubblicata parzialmente per gentile concessione, si può leggere nel numero 684 di “Studi Cattolici”, febbraio 2018; info: www.ares.mi.it)
L'articolo Da Pallone d’Oro a Presidente della Liberia: intervista a George Weah. “Roberto Baggio mi ripeteva che ‘è tutto un magna magna’” proviene da Pangea.
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femmelynch · 3 years
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Perchè investire in Africa nel 2021?
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Perchè investire in Africa nel 2021?
Perchè si è aperto il mercato unico più grande del mondo!!!
  Il 1 gennaio 2021 si è aperto il mercato unico più grande del mondo, ed è stata ufficializzata l’unione doganale africana e quindi investire in questo nuovo mercato che in sordina nel 2020 si è aperto come mercato unico africano, ora aprire una azienda di produzione assume un ruolo strategico per le aziende che sono interessate a processi di internazionalizzazione e sviluppo di aree vergini con materie prime da trasformare per essere poi rivendute sul mercato interno. 
Quì sotto il video ufficiale la cerimonia di apertura di AfCFTA
youtube
  l’Unione Africana è il più grande mercato unico del mondo
  Oggi il continente africano è diventato la più grande area di libero scambio del mondo. L’accordo che ne è alla base si chiama African Continental Free Trade Area (AfCFTA), vi aderiscono tutti gli stati ad eccezione dell’Eritrea e prevede l’eliminazione dei dazi sul 90% dei prodotti e dei servizi.
L’obbiettivo dell’unione africana quello di incrementare il volume degli scambi commerciali tra i diversi Paesi e favorire la creazione di milioni di posti di lavoro nel continente.
In questo momento l’economia africana vive e si appoggia in grande parte sulle esportazioni verso l’Europa e l’Asia. Gli scambi delle merci interne al continente rappresentano appena il 15% del totale. Ora i prodotti più venduti verso l’estero sono le materie prime frutto delle attività estrattive che impattano e che hanno riflessi occupazionali limitati nel continente.
Ed è proprio a questa criticità che l’AfCFTA vuole trovare e implementare soluzioni eliminare questo problema. Nella cerimonia ufficiale di lancio dell’accordo è stato più volte sottolineato che l’eliminazione dei dazi e delle barriere non tariffarie,  questo potrà creare nuove opportunità per piccole e medie imprese, in settori che potranno dare uno sbocco importante all’occupazione femminile, spesso concentrata nell’economia informale, e a quella giovanile.
In tal senso :
“L’African Continental Free Trade Area non deve essere solo un accordo commerciale ma uno strumento per lo sviluppo dell’Africa”, ha affermato Wamkele Mene, segretario generale del segretariato della zona di libero scambio continentale africana, aggiungendo che l’obiettivo è quello di raddoppiare in 15 anni il volume degli scambi interni e “uscire dal modello economico coloniale che abbiamo ereditato e che per 50 anni abbiamo mantenuto”.
La Banca mondiale ha sottolineato in un suo studio che se l’African Continental Free Trade Area sarà reso effettivo in tutti i suoi aspetti, il 2035 potrebbe essere l’anno che sancirà la fine della povertà per decine di milioni di persone e l’Africa potrebbe vedere il proprio Pil complessivo aumentare notevolmente. Come le economie occidentali anche l’economia africana subisce i contraccolpi della crisi legata alla pandemia da Covid-19.
L’Africa si sta dimostrando inaspettatamente molto resiliente alla pandemia globale di Covid-19: la crescita del PIL nel continente africano è stimata al 1% contro il 4% di inizio anno. L’aspetto più sensazionale è rappresentato proprio dalla errata proiezione formulata dalla comunità scientifica ad inizio marzo che paventava in Africa una catastrofe umanitaria dovuta alla diffusione del contagio del coronavirus di Wuhan.
Sul fronte sanitario i numeri parlano da soli: in Africa vi sono stati 2 morti per milione di abitanti contro i 200 per milione dell’Europa. Analizzando il ranking mondiale questo quadro appare lampante: infatti le prime tre nazioni africane per numero di contagiati risultano rispettivamente Sudafrica (19), Egitto (26) e Nigeria (50).
Come leggiamo dal sito web del notissimo ed esperto consulente finanziario Eugenio Benetazzo di cui vi invito a sentire nel video sottostante le previsioni in materia dello sviluppo e opportunità per i futuri investimenti nel continente Africano.
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Il continente Africano al momento risulta più colpito a livello economico che umanitario in quanto il gran parte del PIL africano dipende dalle esportazioni di materie prime, sia industrial che soft commodity. Diversamente invece da quanto accaduto a Stati Uniti ed Europa, il continente africano non risulta colpito nella filiera produttiva e sul versante occupazionale proprio in considerazione della sua stessa struttura economica ancora poco interconnessa con le altre aree macroeconomiche del mondo. Inoltre le economie africane che trainano la crescita del continente soprattutto Nigeria, Sudafrica ed Egitto non hanno implementato misure di espansione monetaria al pari di quanto varato dalle economie occidentali per far fronte alle misure di emergenza sanitaria.
L’organismo che oggi ha il compito di di vigilare e accompagnare l’implementazione dell’accordo ha sede ad Accra, capitale del Ghana, e il segretariato lavora con Afreximbank per creare una piattaforma commerciale panafricana che consenta alle piccole imprese di commerciare efficacemente senza i confini e in diverse valute.
“Spesso negli accordi commerciali i grandi vincitori sono i paesi già industrializzati e le grandi aziende che possono accedere ai nuovi mercati letteralmente dall’oggi al domani”,
ha dichiarato Wamkele Mene al Financial Times, il segretario ha spiegando che sarebbe un grave fallimento se l’integrazione del mercato finisse per accentuare le disparità tra gli stati.
Un altra testimonianza sugli interventi e sulle opportunità per chi investe in Africa e sulle grandi opportunità nel più grande mercato del mondo ci arriva da questo video da vedere assolutamente. Nel video ci parla il Banchiere Euvin Naidoo che apre il suo intervento esordendo così:
Benvenuti in Africa! O forse dovrei dire: “Benvenuti a casa”. Perché è qui che tutto è cominciato, vero? Analizzando fossili di diversi milioni di anni fa, tutto sembra testimoniare che la storia della nostra specie, così come la conosciamo, sia cominciata proprio qui. Nei prossimi quattro giorni faremo un viaggio eccezionale. Ascolterete storie da “Africa: Il prossimo capitolo”. Storie fantastiche, e aneddoti dei relatori. Ma vorrei, per un attimo, fare il contrario, tirare in ballo una questione e “ripulire l’aria”, per così dire. Qual è la cosa peggiore che abbiate mai sentito sull’Africa? Non è retorica. Voglio che mi rispondiate, davvero. Avanti! La peggiore. Carestia. Corruzione. Ancora. Genocidio. AIDS. Schiavitù. Basta così.
Il banchiere d’affari sudafricano Euvin Nadoo spiega perché investire in Africa:
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purpleavenuecupcake · 4 years
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Editoria: "Afrika. Chiavi d'accesso", un libro unico per conoscere un continente davvero speciale
Juorno.it ha riportato la recensione del libro  “Afrika. Chiavi d’accesso” di Ebone Edizioni, il cui autore è Francescomaria Tuccillo.Si tratta di una pubblicazione snella e molto stimolante.
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Le sue pagine propongono una visione d’insieme, scritta da una penna fluida e costellata di episodi di vita reale, di quello che è definito nella premessa ”uno dei luoghi tra i più misteriosi del nostro pianeta”. È così. Dell’Africa parliamo molto (quasi solo a proposito di migrazioni) e sappiamo poco. Vale quindi la pena di approfondire il tema con l’autore che Juorno.it ha intervistato. Cominciamo dal titolo. Perché “Afrika” con la ”k”? Semplicemente perché così si scrive in swahili, la lingua “trasversale” dell’Africa subsahariana, dove ho vissuto per anni. Quella “k” vuole dunque essere un omaggio alla cultura africana, oltre che un piccolo dettaglio che può suscitare curiosità in chi osserva la copertina. Anche il sottotitolo è interessante: ”chiavi di accesso”. Che cosa intende esattamente? Intendo indicare l’obiettivo della pubblicazione, che non è quello di esaurire in poche pagine il vastissimo e complesso tema africano, ma piuttosto di offrirne alcune chiavi di lettura a tutti coloro che per ragioni di lavoro, di studio o di curiosità intellettuale intendono conoscere meglio un continente molto diverso dagli stereotipi in cui è confinato dai nostri pregiudizi. L’Africa non è solo una meta turistica esotica, come pensano alcuni, o una minaccia di invasioni migratorie, come credono in troppi. È molto altro e molto di più. Riuscirebbe a dirci in sintesi che cos’è l’Africa di oggi? L’esercizio è difficile. Non a caso il primo capitolo del libro s’intitola ”Si fa presto a dire Africa”. Il continente africano è un mosaico quanto mai eterogeneo di climi, ambienti naturali, popolazioni, tradizioni, ceti sociali. È insieme caldissima e fredda, arida e fertile, moderna e conservatrice, poverissima e ricca, cristiana, musulmana e pagana, internazionale e tribale, postcoloniale e libera da sudditanze di ogni genere. Provo tuttavia a riassumerne i tratti essenziali citando tre elementi che mi paiono fondamentali: risorse naturali, democrazia e gioventù. Le risorse naturali africane sono tra le più ricche e strategiche del pianeta. L’Africa possiede petrolio, gas, uranio, radio, ferro, cromo, fosfati. Produce il 50% dell’oro, il 60% dei diamanti e il 97% del rame mondiali. E potrei continuare. Inoltre sta vivendo una fase, faticosa ma decisiva, di passaggio dagli antichi leaders for life alla democrazia reale, che è sempre condizione di stabilità e di sviluppo economico e sociale. Non a caso la crescita media dell’Africa subsahariana nel 2019 è stimata al 4% dal Fondo Monetario Internazionale, con un picco in alcuni paesi: in Kenya per esempio supererà il 6% e in Etiopia sarà del 7,7% quest’anno e dell’8,8% nel 2020. Infine e soprattutto l’Africa è il continente più giovane del mondo. Oggi l’occidente invecchia costantemente. La popolazione africana invece ha un’età media di 18 anni. A questo dato è utile affiancare quello della crescita demografica: gli africani sono oggi un miliardo e trecento mila e nel 2050 diventeranno due miliardi e mezzo, saranno più numerosi dei cinesi e per la metà in età da lavoro, perché il loro aumento non è dovuto a incremento delle nascite, come si pensa a torto, ma a una maggiore durata della vita. Sono numeri destinati a spostare i baricentri del pianeta cui siamo avvezzi da secoli: quello politico ed economico, così come quello sociale e culturale. Una rivista italiana è uscita con una bella copertina, nel suo ultimo numero. Accanto a un neonato di colore ha messo in rosso il titolo: “Questo bambino salverà il mondo“. E lo ha commentato con un sottotitolo: ”La popolazione mondiale invecchia e calerà entro la fine del secolo. Ma c’è un continente che potrà ancora contare sull’energia dei giovani: l’Africa“. È così. E con questi giovani dovremo confrontarci per sopravvivere.
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  Siamo pronti a farlo? In altri termini, come l’Italia e l’Europa si stanno relazionando con l’Africa dal punto di vista economico e politico? Per essere diretto, le rispondo con una sola parola: male. Mentre i giganti orientali – Cina e India – hanno compreso da tempo il peso strategico dell’Africa e mai vi sono stati così attivi dal punto di vista commerciale, politico e militare, l’Europa si presenta in maniera frammentaria e incerta. E l’Italia, ripiegata su se stessa e sulle sue diatribe interne, è pressoché assente. È un peccato. Gli europei in generale e gli italiani in particolare hanno molte affinità storiche e culturali con il continente africano e, se agissero in maniera strategica e non occasionale, potrebbero costruire in Africa e con l’Africa prospettive concrete di sviluppo per le loro economie, i loro giovani e il loro futuro. Come ho scritto nel libro, spazio ce n’è ancora. Tempo invece molto poco, perché le altre potenze mondiali si stanno muovendo in maniera assai più rapida e strutturata di noi. Tra le chiavi di accesso all’Africa e ai suoi mercati, qual è la più importante? Non ho dubbi: la cultura, in senso lato. Per cultura intendo innanzi tutto una conoscenza della storia, delle tradizioni, dei costumi e della società che consenta di andare oltre i preconcetti e di accostarsi all’Africa con consapevolezza. Inoltre, per passare al settore economico e industriale al quale il libro si rivolge prioritariamente, cultura significa pensiero lungo o strategia. Un errore delle imprese italiane che hanno tentato di fare business in Africa è sempre stato il tatticismo spicciolo. Alludo alla tendenza a cogliere al volo le opportunità senza costruire una relazione stabile nel tempo, senza conoscere i bisogni reali dei paesi africani e facendo troppo spesso ricorso alla corruzione come strumento di marketing.
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La corruzione è, tra tutti i tatticismi possibili, il più stupido: a parte le valutazioni etiche, dal punto di vista economico genera forse valore immediato, ma compromette nel medio-lungo termine la reputazione e lo sviluppo sostenibile di chi la pratica. Potrei citarle decine e decine di esempi di pratiche corruttive che hanno generato perdite di contratti, problemi giudiziari e addirittura, alla fine, il fallimento delle aziende coinvolte. L’ultimo episodio riguarda un’impresa di costruzioni in Kenya: sei dei suoi dirigenti sono oggetto di un mandato internazionale di cattura, i lavori infrastrutturali che stava facendo sono annullati e l’azienda è in concordato fallimentare. Eppure uno dei problemi dell’Africa è proprio la corruzione. È forse per questo che le imprese italiane si sono “adeguate”, praticandola anche loro? Non credo, perché quelle stesse aziende non l’hanno praticata solo in Africa ma anche altrove, Italia compresa. Chi considera la corruzione uno strumento di crescita, tende a corrompere sempre, chiunque e dappertutto. Aggiungo che molti paesi africani, consapevoli che corruzione è sinonimo di paralisi, la stanno ora combattendo con ogni mezzo. Penso di nuovo, per citare solo due casi, al Kenya e all’Etiopia. Infine è interessante ricordare i dati dell’ultimo rapporto di Transparency International, l’organismo che misura la corruzione percepita in 180 nazioni del mondo. Se è certo che questo problema resta forte in Africa, alcuni dei suoi paesi hanno registrato un netto miglioramento e hanno un punteggio superiore all’Italia, che con 52 punti su 100 resta il paese più corrotto dell’Europa occidentale. Non abbiamo quindi molto da insegnare a nessuno. E, in ogni caso, la corruzione altrui non giustifica mai la nostra, né eticamente né economicamente. Lei ha trascorso in Africa dieci anni della sua vita professionale e ci è andato a vivere al culmine della sua carriera italiana, quando cioè stava esercitando con successo la professione di avvocato tra Napoli e Roma. Perché questa scelta inconsueta? È stata una scelta… di spazio e di libertà. Mi spiego. La nostra è una società chiusa, fatta di potentati, di caste e di cosche. Se non si appartiene – né si vuole appartenere – a uno di questi gruppi di potere in Italia non si va avanti. Il lavoro e il merito non solo non sono sufficienti per crescere personalmente e professionalmente, ma addirittura costituiscono un ostacolo. In un mondo in cui l’acquiescenza conta più della competenza, chi è capace di fare il suo mestiere e ha un pensiero libero è visto come una minaccia.
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In Africa non è così. In Africa ci sono ancora lo spazio e la libertà di costruire qualcosa senza piegare la schiena di fronte al potente di turno. In Africa il merito conta ancora più dei titoli. In Africa ci si può reinventare un cammino. La mia storia lo dimostra: ho iniziato a lavorarci come avvocato d’affari, poi ho creato la mia piccola impresa che ha avuto successo. Infine sono stato assunto come dirigente da un grande gruppo industriale italiano. Questa eterogeneità di percorso, che mi ha arricchito, da noi sarebbe stata impossibile. Ma non vorrei parlare solo del mio esempio. Guardiamo anche agli africani. Chi è oggi ai vertici di alcuni paesi, o lo è stato ieri, ha cominciato davvero dal basso. Penso a Jomo Kenyatta, leader del movimento anticolonialista keniota e primo presidente dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Jomo è nato in una tribù interna del paese e ha perso i genitori da piccolo. Ha vissuto in un orfanotrofio di missionari scozzesi che, vista l’intelligenza del ragazzino, gli hanno pagato gli studi in Europa. Penso al mito africano per eccellenza: Nelson Mandela. Nato in una famiglia di contadini di un minuscolo villaggio sudafricano, Madiba è diventato avvocato, leader eroico del movimento anti-apartheid, prigioniero per ventisette anni e poi presidente della sua nazione e uomo della riconciliazione tra neri e bianchi. Penso infine al giovane Abiy Ahmed Ali, primo ministro etiope e premio Nobel per la pace 2019. Lo ha ricordato lui stesso a Oslo, ricevendo il premio pochi giorni fa: è nato in un villaggio senza impianti idrici e senza energia elettrica. Era uno di quei bambini che andavano a prendere l’acqua nei punti di distribuzione con i secchi in spalla. E oggi ha due lauree, parla quattro lingue e sta trasformando radicalmente il suo paese. Hanno due punti in comune, questi tre signori di epoche e nazioni diverse: la cultura e il carisma. Tutti e tre hanno studiato accanitamente per diventare quel che sono diventati. Tutti e tre hanno o avevano una personalità che sa convincere, motivare, influire sulla società e sulle sue dinamiche. Ecco: gli studi e il carisma sono ancora, laggiù, criteri di valutazione delle persone. Da noi – e lo dico con amarezza – gli studi contano sempre meno e il carisma è confuso con la paccottiglia propagandistica. Anche per questo ho deciso di vivere in Africa e ci torno, adesso, ogni volta che mi è possibile. Lei è napoletano e l’editore del suo libro anche. È un caso? No, non credo. Napoli è il “ponte sul Mediterraneo” per eccellenza, per storia, per cultura. E l’Africa è affacciata sul Mediterraneo. Non è quindi un caso che io mi sia sentito naturalmente spinto verso quelle rive. Né che un editore napoletano, che ringrazio, si sia interessato al mio libro e lo abbia pubblicato con convinzione. La nostra “polis” è aperta al mondo, da sempre. È tollerante, generosa e curiosa. Auguriamoci che lo resti. Il suo futuro, e quello delle sue imprese industriali e artigiane, dipenderà molto dalla capacità di dialogare con altre parti del pianeta. E con l’Africa in particolare.   Read the full article
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MALARIA: UNA PIAGA CHE SURCLASSA IL COVID-19
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MALARIA: UNA PIAGA CHE SURCLASSA IL COVID-19
Ad oggi l’argomento principale di discussione, sia in campo politico che economico, è il Covid-19. Eppure esistono malattie che stanno causando epidemie ben più gravi che causano milioni e milioni di morti in tutto il mondo. Una di queste è la malaria: presente sulla Terra dal Neolitico, è citata su a testi cinesi e indiani vecchi di millenni; perfino Omero la cantò nell’Iliade, la questione sembra però dimenticata, perché? Il 94% di tutti i decessi per malaria avvengono in Africa e questo può essere un motivo, di tutto quello che avviene in questo continente si parla poco. Ogni anno il prezzo che l’Africa paga per la presenza della malaria è elevatissimo: gli ultimi dati dell’OMS, risalenti al 2018, parlano di 228 milioni di malati e oltre 405.000 morti (a fronte di 3.662.000 casi di COVID-19 e 252.747 vittime). Nel 2018, il costo della malaria in termini di vite umane è altissimo: il 67% dei decessi per malaria (272.000) sono bambini di età inferiore ai 5 anni. Per fronteggiare la malattia lo stesso anno, sono stati spesi oltre 5 miliardi di dollari (di cui 2,7 miliardi per il suo controllo e per finanziare i tentativi di eliminarla da parte di governi di paesi dove è endemica). Il maggior numero di contagi si verifica in Nigeria (quasi il 24% di tutti i morti per malaria a livello mondiale), seguita dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Tanzania, dall’Angola, dal Mozambico e dal Niger. Nei giorni scorsi, uno studio condotto da ricercatori del Kenya e del Regno Unito i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications, ha annunciato di aver trovato un possibile strumento per ridurre sensibilmente i contagi, se non addirittura azzerarli. Analizzando le zanzare Anopheles sulle rive del lago Vittoria, in Kenya, i ricercatori avrebbero scoperto una microspora, microsporidia MB, presente nell’intestino e nei genitali degli insetti che impedisce la trasmissione del parassita che causa la malaria. “La ricerca ha dimostrato che il microbo viene trasmesso dalle zanzare femmine alla propria prole ad alti tassi, e non uccide o provoca danni evidenti all’ospite”, ha detto Jeremy Herren, del Centro internazionale di fisiologia ed ecologia degli insetti (Icipe) del Kenya. Non è ancora del tutto chiaro in che modo agisca la microsporidia MB, se attivando il sistema immunitario della zanzara (rendendo impossibile la diffusione di infezioni) o agendo sul metabolismo della zanzara (reso inospitale per il parassita della malaria). Il problema è che in natura questa microspora si trova solo nel 5% degli insetti. Secondo i ricercatori sarebbe sufficiente che il 40% delle zanzare di un territorio potessero diventare portatrici di microsporidi MB per ridurre drasticamente il numero di casi di malaria. “I dati che abbiamo finora suggeriscono che è un blocco molto potente della malaria”, ha dichiarato Herren. “Siamo entusiasti del suo potenziale per il controllo della malattia”. Di questo fenomeno e dell’esistenza di questo fungo e i suoi effetti sulla malaria avevano parlato anche Jacob C.Koella, Lena Lorenz e Irka Bargielowski, nel 2009. Nel loro lavoro dal titolo Microsporidians as Evolution‐Proof Agents of Malaria Control, pubblicato sul volume 68 di Advances in Parasitology, si riporta che i “microsporidiani parassiti che infettano le zanzare potrebbero essere agenti potenzialmente efficaci e sostenibili per il controllo della malaria”. Con il risultato che “l’intensità della trasmissione può essere notevolmente ridotta”. I ricercatori keniani e del Regno Unito hanno ribadito la tesi che esiste un modo per ridurre drasticamente (se non annullare) i casi di malaria e salvare quasi mezzo milione di vite umane ogni anno. La questione Covid-19, che attualmente monopolizza il dibattito sanitario mondiale, riguarda una malattia che non figura nemmeno nelle statistiche sulle cause di morte e morbilità del Global Burden of Disease Study, il progetto internazionale che coinvolge ricercatori provenienti da 127 paesi. La malaria, invece, occupa una posizione di rilievo in questa classifica sia a livello globale che, soprattutto, nel continente africano, dove uccide quasi una persona su sette.
Nel mondo si muore più di malaria che di morbillo o di leucemia o di epatite o di diabete e, sicuramente, più che di Covid-19.
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MALARIA: UNA PIAGA CHE SURCLASSA IL COVID-19
Ad oggi l’argomento principale di discussione, sia in campo politico che economico, è il Covid-19. Eppure esistono malattie che stanno causando epidemie ben più gravi che causano milioni e milioni di morti in tutto il mondo. Una di queste è la malaria: presente sulla Terra dal Neolitico, è citata su a testi cinesi e indiani vecchi di millenni; perfino Omero la cantò nell’Iliade, la questione sembra però dimenticata, perché? Il 94% di tutti i decessi per malaria avvengono in Africa e questo può essere un motivo, di tutto quello che avviene in questo continente si parla poco. Ogni anno il prezzo che l’Africa paga per la presenza della malaria è elevatissimo: gli ultimi dati dell’OMS, risalenti al 2018, parlano di 228 milioni di malati e oltre 405.000 morti (a fronte di 3.662.000 casi di COVID-19 e 252.747 vittime). Nel 2018, il costo della malaria in termini di vite umane è altissimo: il 67% dei decessi per malaria (272.000) sono bambini di età inferiore ai 5 anni. Per fronteggiare la malattia lo stesso anno, sono stati spesi oltre 5 miliardi di dollari (di cui 2,7 miliardi per il suo controllo e per finanziare i tentativi di eliminarla da parte di governi di paesi dove è endemica). Il maggior numero di contagi si verifica in Nigeria (quasi il 24% di tutti i morti per malaria a livello mondiale), seguita dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Tanzania, dall’Angola, dal Mozambico e dal Niger. Nei giorni scorsi, uno studio condotto da ricercatori del Kenya e del Regno Unito i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications, ha annunciato di aver trovato un possibile strumento per ridurre sensibilmente i contagi, se non addirittura azzerarli. Analizzando le zanzare Anopheles sulle rive del lago Vittoria, in Kenya, i ricercatori avrebbero scoperto una microspora, microsporidia MB, presente nell’intestino e nei genitali degli insetti che impedisce la trasmissione del parassita che causa la malaria. “La ricerca ha dimostrato che il microbo viene trasmesso dalle zanzare femmine alla propria prole ad alti tassi, e non uccide o provoca danni evidenti all’ospite”, ha detto Jeremy Herren, del Centro internazionale di fisiologia ed ecologia degli insetti (Icipe) del Kenya. Non è ancora del tutto chiaro in che modo agisca la microsporidia MB, se attivando il sistema immunitario della zanzara (rendendo impossibile la diffusione di infezioni) o agendo sul metabolismo della zanzara (reso inospitale per il parassita della malaria). Il problema è che in natura questa microspora si trova solo nel 5% degli insetti. Secondo i ricercatori sarebbe sufficiente che il 40% delle zanzare di un territorio potessero diventare portatrici di microsporidi MB per ridurre drasticamente il numero di casi di malaria. “I dati che abbiamo finora suggeriscono che è un blocco molto potente della malaria”, ha dichiarato Herren. “Siamo entusiasti del suo potenziale per il controllo della malattia”. Di questo fenomeno e dell’esistenza di questo fungo e i suoi effetti sulla malaria avevano parlato anche Jacob C.Koella, Lena Lorenz e Irka Bargielowski, nel 2009. Nel loro lavoro dal titolo Microsporidians as Evolution‐Proof Agents of Malaria Control, pubblicato sul volume 68 di Advances in Parasitology, si riporta che i “microsporidiani parassiti che infettano le zanzare potrebbero essere agenti potenzialmente efficaci e sostenibili per il controllo della malaria”. Con il risultato che “l’intensità della trasmissione può essere notevolmente ridotta”. I ricercatori keniani e del Regno Unito hanno ribadito la tesi che esiste un modo per ridurre drasticamente (se non annullare) i casi di malaria e salvare quasi mezzo milione di vite umane ogni anno. La questione Covid-19, che attualmente monopolizza il dibattito sanitario mondiale, riguarda una malattia che non figura nemmeno nelle statistiche sulle cause di morte e morbilità del Global Burden of Disease Study, il progetto internazionale che coinvolge ricercatori provenienti da 127 paesi. La malaria, invece, occupa una posizione di rilievo in questa classifica sia a livello globale che, soprattutto, nel continente africano, dove uccide quasi una persona su sette.
Nel mondo si muore più di malaria che di morbillo o di leucemia o di epatite o di diabete e, sicuramente, più che di Covid-19.
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purpleavenuecupcake · 5 years
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CFA, Macron hai la soluzione a sorpresa in tasca: mettri la moneta africana sotto la Bce
(di Massimiliano D’Elia) Donato Masciandaro su il Sole24Ore compie dei veri e propri voli pindarici tra il CFA ( Franco Africano) e l’Euro, cercando di far capire che l’esigenza di creare una moneta nelle ex colonie francesi ed ancorarla ad una moneta stabile, l’euro, con garanzia del ministero del Tesoro francese, sia stata un’esigenza  di stabilità in paesi, quelli delle ex colonie transalpine, ad altissimo pericolo di infiammabilità. Oggi, quindi, atteso che è necessario ancorare una moneta debole ad una più forte e stabile, perchè non mettere a garanzia del CFA la Bce e non più il Tesoro francese? Questa è stata la richiesta avanzata più volte dalla stessa cancelliera Angela Merkel al presidente Macron che ha sempre evitato di approfondire l’argomento con evidente “nonchalance”. Come sostiene Masciandro il franco  africano e l'euro hanno svolto bene la loro funzione primaria di assicurare la stabilità, tenendo lontano i governi nazionali dalla politica monetaria. La politica monetaria è uno strumento di politica economica straordinariamente efficace nel nascondere l’analisi reale  dei costi e dei benefici di qualunque intervento pubblico. Essendo un debito che si può produrre nell'immediato a costo zero, con costi che invece emergeranno più avanti e colpiranno in maniera diseguale i cittadini, la moneta è uno strumento perfetto per chi può avere un obiettivo di tipo elettorale o ideologico. Allo stesso modo ha funzionato l'euro che ha sottratto in 19 Paesi europei la tutela della stabilità monetaria all'incertezza e all'instabilità di una gestione a opera dei governi nazionali, assegnando il relativo mandato a una banca centrale indipendente, la Bce.   In parallelo, l'esperienza del Cfa è quella di 15 Paesi africani che condividono un regime monetario con tre principali proprietà comuni: hanno legato il cambio della propria valuta all'euro; la credibilità di tale legame è garantita dal ministero del Tesoro francese; le politiche fiscali possono dover rispettare criteri compatibili con il mantenimento della credibilità del cambio. Tale azione economica ha difeso gli strati più deboli della popolazione dai rischi di bolle inflazionistiche o finanziarie, ha aumentato gli scambi commerciali, quindi la crescita economica.  Anche speculari sono stati i costi percepiti: le classi politiche inefficienti o opportunistiche che non riescono a disegnare le politiche economiche idonee per fronteggiare il ciclo economico, finiscono per lamentare la cosiddetta perdita di sovranità monetaria. Infine i due regimi monetari sono intrecciati, sostiene Masciandaro. Il Cfa è un esempio di "eurizzazione" ibrida: la valuta è credibile perché è agganciata a una moneta stabile.  Oggi il garante è il ministero dell'Economia francese e in termini economici, esiste un costo atteso, corrispondente al rischio di dover garantire tutte le passività monetarie potenzialmente convertibili. L’auspicato beneficio transalpino dovrebbe essere quello di incrementare gli scambi con la Francia. Le stime finora disponibili ci dicono che sia costi che benefici attesi non sono rilevanti, rispetto alle dimensioni dell'economia francese. Perché non pensare ad una completa "eurizzazione" del Cfa? Il garante della convertibilità dovrebbe divenire, quindi, la Bce: sarebbe un mirabile passo in avanti che darebbe l’impulso perduto al sentimento europeista dei paesi comunitari che, giorno dopo giorno, si sta disperdendo in inopportune “querelle” elettorali. Se davvero la Francia volesse dimostrare la sua "buona fede", dovrebbe passare la palla alla Bce. Il tempo stringe e tale mossa darebbe un colpo di mannaia incredibile alle accuse, spesso fuori dalle righe, di alcuni esponenti del M5S. Read the full article
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