Qualche anno fa, ebbi il coraggio di entrare in solitaria nell’accademia delle belle arti, uno dei miei luoghi preferiti, in cui trascorrerei molto tempo, se ne avessi a disposizione. Inconsapevole perlustrai ogni aula, incuriosita dalle persone e soprattutto dalle loro creazioni, poiché, in esse riesco ad intravedere un pezzo della loro storia, della loro vita e soprattutto della loro anima. Nonostante, ci fossi andata molte volte in compagnia, non avevo mai visto la Pinacoteca all’ultimo piano, dopo tre infinte rampe di scale, giunsi a destinazione. Iniziai a guardare molte opere, tuttavia, mi diressi senza indugi verso l’ala della pittura romantica, restai li con il tepore della luce del sole che irradiava l’intera stanza, creava un’atmosfera sospira ed eterna, in cui passato e presente si univano annullando la concezione stessa del tempo. Ad un tratto mi girai per inoltrarmi in un’altra ala e riconobbi un ragazzo, che molti anni prima, frequentava alcuni miei conoscenti. Ci salutammo come se fossimo vecchi amici e decise di accompagnarmi per tutto il tempo, affiancandomi e parlandomi fra le opere. Mi parlò della sua concezione dell’arte, di quanto tempo trascorreva fra quei dipinti per sentirsi meno solo e affranto, ciò che mi rimase più impresso fu un’opera d’arte: una parete completamente nera, al cento c’era sospeso un cuore nero da cui colava un liquido nero, liquido che aveva contaminato anche le pareti. Ne parlammo a lungo, giungendo alla conclusione che l’arte per quanta paura possa fare, troverà sempre il modo per sfiorare i sentimenti e l’anima, come il liquido del cuore colpiva le pareti. Da quel giorno non ci siamo mai più incontrati, ma custodirò per sempre questo ricordo, noi due li fra le parti costituite d’arte a parlare della nostra arte.
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Daniela Strună è un artista catartica
La Pittrice Daniela Strună alla Mostra personale “SOLA NEL PARADISO”
Daniela Strună è un’artista catartica. Vede con uno sguardo astratto l’universo di cui noi umani facciamo parte. Le piace sognare ancora gli unicorni e draghi come al mondo fatato dell’infanzia protetto dagli angeli, anche se le sue opere hanno lo sfondo grigio del quotidiano vivere e sentire, dove non manca la luce,…
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Nel 1975 Pelosini allestisce una antologica a Bordighera presso il Palazzo del Parco
Fernando Pelosini, Ilvallone del Sasso a Bordighera. Fonte: art. Idal cit. infra
Fernando Pelosini dopo aver frequentato l’Istituto Professionale di Savona nel 1942 inizia la sua attività artistica.Fra il 1945 ed il 1946 a Bordighera segue gli insegnamenti di Giuseppe Balbo.Nel 1947 inizia a frequentare lo studio del pittore Giuseppe Ferdinando Piana con cui si perfeziona ulteriormente e con cui…
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Nel 1975 Pelosini allestisce una antologica a Bordighera presso il Palazzo del Parco
Fernando Pelosini, Ilvallone del Sasso a Bordighera. Fonte: art. Idal cit. infra
Fernando Pelosini dopo aver frequentato l’Istituto Professionale di Savona nel 1942 inizia la sua attività artistica.Fra il 1945 ed il 1946 a Bordighera segue gli insegnamenti di Giuseppe Balbo.Nel 1947 inizia a frequentare lo studio del pittore Giuseppe Ferdinando Piana con cui si perfeziona ulteriormente e con cui…
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Expo Artistico Itinerante "Vivinart" a VILLA PISANI
Il presidente Mirco Barison, questa mattina, in conferenza stampa, con il Vice Sindaco di Monselice Prof. Andrea Parolo, la presidente della Pro Loco di Monselice Maria Grazia Canazza che, insieme a Beti Cotic, ha presentato l’associazione VIVERE IN ARTE ETS e la Mostra “VIVINART” Expo Artistico itinerante a Villa Pisani a Monselice.
Nella prestigiosa sede di Villa Pisani dal 25 novembre al 2…
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Richard Diebenkorn, pittore statunitense (1922-1993)
[*]
[*] Seated Figure, (1964)
[*] Seated Woman No. 44 (1966)
[*] Seated woman wearing polka-dot blouse (1967)
https://urgetocreate.tumblr.com/
https://www.mutualart.com/
https://www.pinterest.it/
https://alongtimealone.tumblr.com/
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-------NAPOLI A OCCHIO NUDO-------
DAL CERRIGLIO A ZÌ TERESA STORIE DI TAVERNE, PITTORI, AMORI E BELLE EPOQUE.
a cura di #NunzianteRusciano
La taverna a Napoli per tutto l’Ottocento, nei documenti d’archivio, nelle memorie dei viaggiatori e nei racconti degli scrittori napoletani, e perfino nei quadri e nelle fotografie il popolo minuto di Napoli vive la sua vita quotidiana in un solo modo: come in preda a una febbre che esaspera i gesti, i movimenti e la voce.
Le taverne eranoil luogo in cui questa febbre si manifestava nei gradi e nei toni più accesi. Non c’è posto per l’idillio nelle bettole del popolo “minuto” di Napoli, rumori, gridi, flussi di folla si stagliano netti in una luce che Dupaty chiamò inesorabile, e che arroventa con i suoi riflessi anche il buio dei vicoli e delle topaie, in cui si ricovera un’umanità estrema. Nelle donne del popolo “minuto” la tensione è spesso patetica e teatrale, perché quelle donne sono sempre madri e sorelle, e dunque si sentono in diritto di partecipare alle pene degli uomini, in nome di quel privilegio della sofferenza che è stato esaminato dalla Jeuland- Meynard.
Un quadro di Vincenzo Migliaro “La pagliarella” è dipinto con i colori aspri della realtà delle bettole e con la luce, che Dupaty chiamò inesorabile, della Napoli plebea. Ma il migliore commento del quadro si trova nei verbali di polizia che raccontano storie di taverne e di ostesse. Concetta, l’ostessa della “ Taverna della Zoccola”. Una certa Concetta si prostituì per anni lungo le banchine del Porto: fu una di quelle prostitute che polizia e preti del sec.XIX chiamavano "stradaiole", perché per le strade più malfamate di Napoli raccattavano i loro clienti, e per strada, negli angoli bui, facevano mercato del loro corpo. Le schede della polizia, prima e dopo il 1860, attribuiscono alle stradaiole volgarità estrema di modi e di linguaggio, e pare che i commissari di polizia, prima e dopo il 1860, proprio nella volgarità del linguaggio vedessero una minaccia per la moralità pubblica e per il prestigio del sistema. E non sbagliavano: perché spesso l’esasperata volgarità linguistica di queste donne portava in sé un sarcasmo istintivo, che demoliva l’ipocrisia delle istituzioni e il perbenismo dei filistei. E dunque donna Concetta non si smosse di un pelo quando clienti e guardie appiopparono anche a lei il titolo di ‘a zoccola, la zoccola, il topo delle chiaviche. Conclusa la carriera, Concetta piantò frasca dalle parti del Mandracchio e alla bettola diede un nome strepitoso, la “Taverna della Zoccola”, e un’insegna che era uno sberleffo, e cioè il disegno, scavato nella pietra, di un topo di chiavica, di una zoccola, appunto.
Se dobbiamo credere ai verbali di polizia e alle velenose censure dei parroci, anche le ostesse vesuviane mettevano nella libertà dei loro comportamenti un eccesso di aggressività, un’ostentazione ora rabbiosa, ora irridente.
Era questa ruvidezza di modi la loro risposta all’asprezza di un ambiente che pareva conoscere soltanto le ragioni della violenza e della prevaricazione: ed erano ragioni condivise da tutti i ceti sociali, che ne avevano fatto il fondamento primo della comune scala di valori. Nel 1843 un’ostessa di Ottajano venne dipinta, nelle lettere anonime e dai verbali della Sottointendenza, come una Circe che trascinava nel fango della lussuria i potenti: il giudice, il futuro sindaco, imprenditori di pura fede borbonica, avvocati liberali: una donna ferina, insomma, e per questa ferinità, irresistibile. Era impossibile che il marito non vedesse e non sapesse: tra l’altro, anche una sorella di lui, dell’oste, trescava con un giovane sacerdote: e la notizia della tresca aveva già raggiunto le orecchie sante del vescovo. Non si sa se il vescovo e il sottointendente sapessero che l’oste non era quel babbeo infelice e sfortunato che i loro informatori disegnarono. Il marito dell’ ostessa mangiatrice di uomini era membro importante di una squadra di contrabbandieri facili all’uso del coltello e della pistola, ed era fratello di uno dei più violenti campieri del Principe di Ottajano. E’ prababile, dunque, che l’oste consentisse all’ostessa di lanciare le sue reti, all’interno di un gioco in cui si intrecciavano interessi illegali, prestiti usurai, ricatti e delazioni: il giudice, per esempio, dilapidò al tavolo da gioco un patrimonio notevole, e il rabbioso disgusto di sé lo portò infine alla morte.
Nessuno ha descritto questo stato delle cose più realisticamente di Vincenzo Migliaro. Nel quadro La pagliarella l’uomo , il capo chino su un piatto di spaghetti , è immerso nell’ombra stinta dello spazio coperto dalla pergola: è una sagoma nera tra le nere forme di pali, di tronchi sottili, di rami che si incrociano. Nel verde nero delle masse delle foglie filtrano macchie di luce gialla e rossa. La luce dell’ampio paesaggio che sta oltre la pagliarella si indebolisce in alcune gradazioni di celeste intorno al fumo delle ciminiere di Bagnoli e sull’acido giallo dei cespugli di ginestra. Tutto il primo piano è occupato da una splendida popolana, costruita con i colori della luce che filtra tra gli strati più alte delle foglie: il rosso del foulard e il cupo arancione della gonna ritornano fusi nel profilo del volto. La donna, sostenendosi sul braccio teso, appoggia la mano destra sul pilastro del cancello, e porta la gamba destra verso di noi; ma guarda verso l’uomo che sta sotto il pergolato, e la natura del suo sguardo, che non vediamo, è tuttavia svelata dal braccio sinistro piegato sul fianco, e dall’anca che sopporta il peso del corpo. È una posa loquace: vuole dire rimprovero, sfida, fastidio, e attraverso la congiunzione con il nitido profilo del volto, anche disillusione e stanchezza. In questo quadro c’è una salda unità formale, costruita sulla sapiente coordinazione delle linee e delle masse. E tuttavia vi è rappresentato un mondo sconnesso e disarticolato: cose e persone parlano attraverso un verboso silenzio, la cui voce sia avverte anche in fondo ai colori scuri.
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