Tumgik
#portamelo
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🫸✨️🫷
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Non è amore
quando siete a letto insieme
e tutto è perfetto
e tutto funziona.
Quello è importante
anzi fondamentale
ma si chiama chimica
e cammina da sola.
Amore è poter dire all’altro
scegli un tuo difetto qualsiasi
e portamelo qui
che vi bacio insieme.
Amore è potersi dire
scegli un tuo difetto qualsiasi
e prova a spaventarmi
che tanto io, li amo tutti.
Andrew Faber
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oltre-il-cuore · 2 years
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L'amore fa male perché colpisce il cuore.
Non mi aspettavo nulla dal mio futuro, perché sapevo che ogni giorni sarebbe stato un processo per me.
I muniti, il ticchettio dell'orologio che nel silenzio si faceva più assordante.
Non zittiva i mie pensieri.
Io non ho chiesto il tuo arrivo nella mia vita, quindi sono anche io una vittima.
I tuoi lineamenti sono così comuni dà ritrovarli ripetutamente in più volti.
Ma nessuno è te.
Nessuno è me.
Nessuno indossa la mia stessa maschera.
Mi chiederò come farò a vivere un giorno più, mente il sole con grande forza si alzerà in cielo.
E tutte le lacrime versate, saranno disinfettante per le mie ferite.
Io sto vivendo e questo mai nessuno potrà mai portamelo via.
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alonewolfr · 3 months
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Trovalo un ago nel pagliaio, portamelo, e poi avrò fede di poter ritrovare l'amore e la fiducia in te!
|| A. Di Carlo
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[TRAD ITA] 220402 STORIE INSTAGRAM DI JUNGKOOK:
“Yo amico, come  va?” “Come va?” “Non so come impressionare la mia cotta...C’è un metodo segreto?” “Vai dalla tua cotta e digli:’Ma! Mangia il tuo pranzo con me! Eu-Ie! Tenetevi per mano! Eu-Ie! Andate al parco Amusement! Eu-Ie!” “Lachibolala” “(Ripete ‘Lachibolala)” “Vai a scuola oggi” “Vorrei andare di nuovo a scuola anche io. Non studierò ma voglio tornarci” “Oppa, oggi ho bevuto il cocktail alla fragola, era buonissimo” “Voglio berlo anche io. Il cocktail alla fragola sembra essere delizioso. Non so se lo sembra soltanto. Portamelo!” “Canti sotto la doccia?” “È d’obbligo. Canto molto sotto la doccia. Non scherzo. C’è l’eco!” “Sarà difficile che Jungkook legga e risponda, piuttosto vincerò alla lotteria” “Non sarebbe più difficile vincere alla lotteria” “Voglio vedere la tua mano” “Ciao! La mia mano! Yah” “Denuncerò Jeon Jungkook. Perché sta dando al mio cuore un momento difficile...” “Farò una querela” “Jeon Jungkook, apri la porta...” “Non voglio! Non voglio aprirla! Aprila tu ed entra”
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©Emily) | Trans ©lovemazejikook
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occhietti · 4 years
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Non è amore
quando siete a letto insieme
e tutto è perfetto
e tutto funziona.
Quello è importante
anzi fondamentale
ma si chiama chimica
e cammina da sola.
Amore è poter dire all’altro
scegli un tuo difetto qualsiasi
e portamelo qui
che vi bacio insieme.
Amore è potersi dire
scegli un tuo difetto qualsiasi
e prova a spaventarmi
che tanto io, li amo tutti. 
- Andrew Faber
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mi1lkshake · 3 years
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cosa è rimasto di noi? cinque ore e ventiquattro minuti di musica, una playlist di spotify abbandonata, che l'abbonamento me lo paghi ancora tu una t-shirt blu troppo grande per il cassetto, ci stiamo in due, calda abbastanza da non essere mai sprecata un pezzo di carta e due parole rosse e mezzo, fa male pensieri svuotati, lettere ordinate senza più senso una poesia, una canzone, qualche strofa, qualche rima erano il nostro universo e ora sono solo inchiostro sprecato quante albe abbiamo dimenticato? quanto è morbida la tua pelle? le tue mani sanno ancora stringerne altre? le mie no mostrami il mondo e portamelo via, non pensavo esistesse tutto questo dolore l'hai detto tu, la luna che guardiamo resta sempre la stessa cosa è priorità? ci hanno regalato l'amore e l'abbiamo abbandonato lottare funzionerà? meglio aspettare? il tempo cura tutte le ferite, dicono, ma se due anime sono destinate come si fa? distrarsi, piangere, urlare: remare contro il destino porta felicità? io non ci credo mi hai mostrato il mondo e mi hai lasciato senza guida, è colpa mia? forse perché abbandoni? vivi meglio? me lo auguro la luce del sole che nasce parla di te, le lacrime sanno di te, il fumo sa di te: sei nei miei polmoni Non ti bastava il cuore? La persona giusta nel momento sbagliato il tempo cambia? ma piuttosto: il tempo si può cambiare? alcune parole non possono essere sprecate, ti ho visto dentro e so che tu non lo fai, allora perché combatterle? esiste qualcosa che compenserà il vuoto che abbiamo creato? note, stampe, viaggi, cocktail, un corpo caldo addosso: niente funzionerà sei sempre inizio e fine, indelebile impresso nell'anima quanto pensi prima di scrivere? quanto aspetti prima di parlare? hai paura di soffrire? e se ne valesse la pena? e se ci incontrassimo prima che l'accendino si scarichi? ma poi, è davvero un oggetto a tenerci uniti? non ha funzionato mai è la testa il problema, ma nemmeno più di tanto, la testa la controllo, lo spirito no
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quest anno è iniziato con il botto, il 31 dicembre passo la notte con uno (ovviamente già lo conoscevo da tempo) mai me sarei aspettata de portamelo dietro fino ad oggi ( e non perché stiamo insieme, perché me piace) ma è troppo concentrato sul suo ego e a me non me calcola. Marzo 2020 pandemia globale, ce chiudono in casa, una mia amica litiga con me senza dirmelo e tutto il mio gruppo improvvisamente non mi parla. Ci liberano, parlo con questa mia amica, me chiede “scusa” (nel suo linguaggio senza dirlo chiaramente, ma basta il pensiero) famo pace e il gruppo me chiede scusa. Namo in vacanza in un posto che non ve dico; l’ignoranza della gente, 10 giorni infernali, tra caldo, paura che ce facevano rimane lì e pervertiti in tutto il paese. Incontro uno, (che avevo conosciuto a Roma due anni prima) bello, intelligente ma ovviamente secondo voi me poteva anda bene? Ovvio che no, facciamoci piacere ancora lo stronzo. Settembre 2020, tornano gli attacchi di panico, le crisi d’ansia e il mio non sopportarmi più. Ottobre, (mio compleanno) passato in casa da sola perché non volevo vedere nessuno. Nel frattempo, migliore amico di mio cugino positivo, quarantena volontaria, poi tutto ok, tutti negativi. Ieri mattina apro gli occhi e dico: “daje è uscito suburra namo a vedello” dopo tre ore e un quarto passate davanti alla tv mi degno di guardare il cellulare, mille chiamate perse dal mio migliore amico. Lo richiamo, non me risponde, gli mando due messaggi, silenzio assordante. Ore 16:30, messaggio da lui: “amo... so positivo te devi fa er tampone” ............ grazie gesù, mi hai regalo un bellissimo anno, mercoledì ho il tampone me raccomando, non sia mai che me lo fai uscì negativo sennò con tutta sta gentilezza me preoccupo. So come Emily comunque, mapionderculo sempre.
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johnthanatoswick · 5 years
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Il sonno della ragione
Il Signor Gear se ne stava tronfio nel suo museo di quartiere, che naturalmente serviva solo come copertura per i suoi traffici illeciti. Possedeva una rete così ampia di contraffazione e furto di opere d’arte che il nome “Gear” faceva tremare chiunque al di là di tutti i sette oceani, chiunque ma non la Gran Tavola e un pugno di altre organizzazioni maggiori.«Regole, è sulle regole che si basa la civlità.», Winston aveva appoggiato un contenitore di legno rivestito di velluto sulla sua scrivania. Il contenitore era lungo circa una spanna, di colore nero. «L’obiettivo?», chiese John facendo planare lo sguardo sulla scatola e poi di nuovo su Winston. «E le regole spesso vanno al di là delle amicizie, per quanto qualcuno come noi potrebbe averne. Forse abbiamo più segreti che persone disposte a sacrificarsi per noi, non trovi Jonathan?», il modo in cui Winston spesso marcava quel nome faceva sentire l’Uomo Nero lontanamente in difetto. Winston si appoggiò allo schienale della sedia di pelle, reclinandosi di qualche grado all’indietro. Osservava John dal basso, con le mani incrociate e un’espressione paterna. «Chi?», incalzò John afferrando la scatola sulla scrivania e aprendola per scoprirne il contenuto. Trenta monete scintillanti erano disposte in una fila perfetta all’interno della scatola, abbracciate nel velluto nero come le iridi dell’Uomo Nero che sollevò lo sguardo penetrante verso Winston. «Ce ne sono altre cinque di quelle, se completi il contratto.», il direttore del Continental ci stava mettendo troppo tempo a rivelare il nome dell’obiettivo. John richiuse la scatola delicatamente e stette dritto, immobile, di fronte al criptico Direttore. La guerra di silenzi durò più del previsto e Winston purtroppo ebbe la peggio. «Thérèse Gear.» Il babajaga rimase imperturbabile, immobile, per diversi istanti. Dopo un’attenta riflessione John sospinse la scatola verso Winston. «Non io.» «Regole. Quelle stesse regole che ti hanno permesso di fare tutto quello che desideravi, quando volevi. Non si possono infrangere, Jonathan.» I capelli corvini del sicario ebbero un fremito, conseguenza di uno scatto nervoso della testa, a seguito di chissà quale pensiero teso. I nervi del sicario erano corde di violino e Winston le stava carezzando con maestria. Winston spinse di nuovo la scatola verso di lui, beffardo. «Perché Thérèse?», John si era inasprito, ma manteneva la sua proverbiale calma piatta. «Il Signor Gear tiene di certo alla propria vita e alla propria fama, ma non quanto tiene alla sua famiglia. Ha deliberatamente deciso di infrangere le regole e ora deve pagarne le conseguenze, ma deve anche essere un monito per tutti gli altri.» John osservò di nuovo la scatola di velluto, la stessa che avrebbe potuto contenere la sua anima ormai oscura come quel velluto. «Non puoi rifiutarti, lo sai come funziona.» «Cedo il mio contratto a Specter.» «No John. I sentimentalismi non fanno parte di questo posto già da molte decadi. Mi aspetto che tu lo porti a termine, o sarò costretto a prendere provvedimenti. A proposito, come sta Miss Forrester? È da qualche giorno che non ho il piacere di vederla.» L’espressione sicura e beffarda di Winston costrinse John a prendere delicatamente la scatola tra le dita e lasciare l’ufficio di Winston senza dire una parola. Non appena il sicario aveva varcato la soglia, Winston aveva perso istantaneamente vigore, abbandonandosi sulla poltrona con la fronte premuta contro una mano.John si trovava pesantemente seduto su uno degli sgabelli del bar, fissava il fondo del suo Bourbon, combattendo contro se stesso. «Che strano, un John pensieroso.», Specter comparve alle sue spalle e attese qualche istante prima di sedersi di fianco a lui, «Ho sentito che mi cercavi.» I due sicari non si guardarono direttamente in volto, non prima che John bevesse l’ultimo goccio del suo drink per poi sospingerlo verso la barista dal look pin up, che gli fece un gesto di saluto per nulla invadente. «Thérèse Gear.», sibilò l’Uomo Nero senza aggiungere altro. Specter dapprima aggrottò le sopracciglia, per poi distendere la sua espressione nell’incredulità. «Non possono avertelo chiesto davvero.» John osservò Specter a lungo e lentamente annuì arreso. «Regole. Il Signor Gear ha tirato troppo la corda e ora qualcuno deve pagare.», John sollevò due dita verso Addy che si mise subito a preparare altri due drink. «Comprensibile. Ma perché Thérèse? Perché non M.J. Gear? O la moglie...» John prese delicatamente tra le dita il bicchiere che Addy gli porse, Specter fece lo stesso «Se vuoi...» «No. È una cosa che devo fare da solo.», tagliò corto John. Addy si avvicinò ai due, ponendosi in mezzo, dall’altro lato del bancone, «So che non dovrei origliare ma, Jonathan, credo che lei ne sarebbe quasi felice. Forse più che un sicario vedrà una liberazione.» John sollevò un sopracciglio e lanciò uno sguardo intenso, scuro come la notte più buia, in direzione di Addy, che rispose con una scrollata di spalle e un sorriso innocente, «Credo che tra tutti i professionisti, se proprio dovessi finire in un contratto, spererei che sia tu a portarlo a termine.» John finì il suo drink e si alzò pesantemente, congedandosi dai due con “non mi siete per niente d’aiuto”.Dall’ingresso sul retro del Palazzo Gear una striscia di sangue partiva per segnare il percorso di morte lasciato da Mr Wick. I corpi stesi a terra nelle più disparate posizioni indicavano la solita tenacia del sicario, che sapeva essere una macchina anche quando non avrebbe affatto voluto. Le porte dell’ascensore si aprirono, due uomini di Gear si trovarono faccia a faccia con l’Uomo Nero, che non lasciò quasi loro il tempo di rendersene conto e li centrò con due colpi precisi e puliti alla fronte. Il sicario bloccò l’ascensore ed esitò. Il silenziatore stava fumando, lasciava dietro di sé una traccia grigia e volatile  mentre il sicario lentamente aveva preso ad avanzare nel corridoio. John restò fermo davanti alla porta, respirò lentamente, per poi posare delicatamente una mano sulla maniglia e aprire. La luce all’interno della stanza era fioca, i mobili erano antichi e lucidi, la maggior parte coperti da cuscini imbottiti in stile vittoriano. Sul letto una donna si stava dilettando con un libro di cui sfiorava le pagine con le dita, aspettò qualche momento prima di sollevare le iridi azzurre sul sicario. «Chi c’è? Papà?» John avanzò verso il lato del letto e si posizionò al lato di esso, in silenzio. La donna annusò l’aria, sentiva odore di bruciato e mosse le mani ossute e deformi verso di lui, cercando con il tatto una risposta. Le mani toccarono prima i suoi abiti macchiati di sangue, per poi salire a fatica verso il viso mentre la donna con sforzi dolorosi tentava di mettersi sulle ginocchia. Quando le mani sfiorarono la barba del sicario esse si ritirarono all’istante. «Non è possibile. Come...Come è possibile?» La donna infine cercò le mani del sicario e ne girò una tra le proprie. «Mani di velluto. Mr Wick? È arrivato il mio momento?» La donna era dapprima impietrita, ma poi una lacrima scese lungo la guancia pallida e scavata. Un sorriso consapevole si disegnò sulle sue labbra. «Hai fatto tanto per me. Ricordi quando venisti a salvarmi dopo il mio rapimento?», la donna scosse la testa, il ricordo bruciava ancora ma era lontano. Una nuova consapevolezza però si fece largo in lei, «Avevi però fatto un’ultima promessa. Ricordi?» La donna tastò nervosamente alla sua destra, cercando il comodino, tirò il cassettino e ne estrasse una siringa con una boccetta, porgendoglieli. Qualcuno arrivò di corsa urlando nel corridoio, la donna nella sua cecità sentì solo due netti colpi di pistola e poi di nuovo il silenzio. Deglutì e cercò di voltare il viso in direzione del sicario. «Mi dispiace per quello che è successo a tua moglie. Non l’ho conosciuta molto bene ma ho bei ricordi su di lei. Quando mio padre chiese il tuo pegno tu accettasti. Mi portasti a casa tua. Le dicesti che ero la figlia di un amico, di tenermi d’occhio per qualche giorno. Mi portava tre volte al giorno fuori, spingeva delicatamente la sedia a rotelle... Devi aver perso molto, John.» Le mani pallide di John stavano armeggiando senza esitazioni, aprì la siringa e infilò l’ago, con lo stesso recuperò il liquido dalla boccetta capovolta. Uno, due, tre, quattro, cinque milligrammi. Estrasse l’ago e appoggiò la boccetta sul comodino. «Sai se non fossi nata così, avrei voluto anche io far parte del tuo mondo. Quando ero piccola e venivi da mio padre sentivo un fermento che con me non si sarebbe mai e poi mai scatenato. Anzi, con me ci sono sempre stati sospiri, singhiozzi e pietà. Sono stata chiusa qui per anni. Non potevo andare a scuola e pensavo a cosa avrei potuto fare con un paio di occhi e delle ossa forti. Avrei davvero voluto far parte del Continental.» «No, non avresti voluto.» Sentendo la voce sommessa di John, Thérèse sorrise. «Eccoti finalmente. Speravo di percepire un po’ di umanità. Va bene, è arrivato il momento, spero che il pegno di mio padre sia valso a qualcosa, ma ne dubito.» «Ne dubito anche io.», ammise John in un soffio. La donna si stese e gli porse un braccio magro e pallido. John lo prese delicatamente e tastò alla ricerca di una vena. I suoi gesti erano tranquilli, rispettosi. «Ah John, un’ultima cosa.», la donna indicò l’altro capo della stanza, «Da quella parte c’è il regalo che mi hai fatto quando ero piccola. Portamelo, voglio che mi trovino così, voglio che sappiano che non è stato violento.» Il sicario indugiò, ma poi si diresse verso la bambola dai capelli biondi, gliela posò in grembo e attese. La donna gli porse di nuovo il braccio, sembrava tranquilla. John trovò facilmente la vena in quel braccio delicato, le sue ossa si sarebbero spezzate sotto una pressione poco più forte di quella. Infilò l’ago, lentamente e aspirò un po’ di sangue. Si sedette sul bordo del letto e attese, poteva ancora alzarsi e andarsene, poteva rinunciare, ma la mano di Thérèse si appoggiò sulla sua. «Ti prego John, questo calvario è già durato fin troppo. Ti prometto che ti saluterò Helen.» Il sicario indugiò ancora qualche istante prima di premere lentamente lo stantuffo e riversare tutto il contenuto della siringa nella vena della donna. Estrasse delicatamente l’ago e posò la siringa sul comodino. Rimase fermo a osservare la donna, immobile. «Sai mi ricordo ancora la prima volta che sei venuto da mio padre. Io riuscivo ancora a correre. Quel giorno stavo rincorrendo mio fratello e sono inciampata, cadendoti addosso. Ricordo ancora il silenzio atterrito che si creò subito dopo, ricordo bene la riverenza con cui ti avevano accolto e il terrore nei loro cuori. Però tu ti chinasti, mi porgesti gli occhiali e nel silenzio...più» la voce della donna si stava affievolendo, diventava più pesante, così come il respiro «...totale...dicesti...», la donna chiuse gli occhi e si addormentò profondamente. John stette a osservarla a lungo, senza temere che qualcuno potesse sopraggiungere alle sue spalle. Poi tolse delicatamente il cuscino da sotto la testa di Thérèse e lo pose delicatamente sul suo viso, dopo aver atteso di avere la forza di farlo, fece pressione con tutto il suo corpo sul viso della donna. Gli spasmi involontari di lei cessarono quasi subito, il sicario tolse subito il cuscino, ponendolo di nuovo sotto la sua testa. Le tolse i capelli spettinati dalla fronte e si alzò. «... Ti ho fatto male?», terminò la frase di Thérèse prima di allontanarsi cupo verso l’uscita.La porta dell’ufficio all’interno del salone espositivo si spalancò, il Signor Gear balzò in piedi e arretrò verso il muro decorato con un famoso dipinto di Goya. Davanti a sé vide corpi stesi, sangue e l’Uomo Nero che avanzava verso di lui. «John? No aspetta possiamo parlarne!», l’uomo aveva sollevato le mani in segno di resa, ma le abbassò quasi subito quando vide che il sicario indossava un’espressione disgustata e teneva in mano il medaglione del pegno. L’assassino lo gettò sulla scrivania e guardò l’uomo con sdegno, dopo di che se ne andò, silenzioso come era arrivato. Il Signor Gear prese il pegno tra le mani e lo aprì, era firmato anche dal sicario e la cosa lo lasciò confuso. La consapevolezza si fece via via più limpida e l’uomo si gettò sul telefono, compose il numero, ma non appena dall’altro capo risposero lui parve atterrito.Il sicario sentì il grido di dolore dell’uomo mentre risaliva in auto, era per quel motivo che diversi anni prima aveva lottato duramente per poter smettere con quella vita.
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Non è amore quando siete a letto insieme e tutto è perfetto e tutto funziona. Quello è importante anzi fondamentale ma si chiama chimica e cammina da sola. Amore è poter dire all’altro scegli un tuo difetto qualsiasi e portamelo qui che vi bacio insieme. Amore è potersi dire scegli un tuo difetto qualsiasi e prova a spaventarmi che tanto io, li amo tutti.
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abatelunare · 7 years
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Non parla più...
Quando i miei hanno un problema con il cellulare, vengono da me. Nonostante io non sia un tecnico. Nonostante il mio modello sia molto diverso da quello che hanno loro. Mia madre tempo fa ne ha preso uno con i tasti che "parlano". Ieri viene da me. Che cosa hai fatto al mio telefonino? Eh? I tasti non "parlano" più. E io cosa c'entro, non ho mica fatto niente. Mi faccio dare il cellulare. Frugo fra i menu. Ma non ci salto fuori. Allora vado su internet. Cosa fai? Eh cerco il manuale del tuo modello. Ma guarda che ce l'ho. Allora portamelo. Lo sfoglio. E trovo quello che cercavamo. Come riattivare i tasti "parlanti". C'è una certa discrepanza fra manuale e voci del menu, eh. Nel senso che non corrispondono al cento per cento. Però sono riuscito a risolvere il problema. Fino alla prossima volta.
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Elias Canetti, nel ‘92 -l’anno in cui sono nata- scriveva “La tortura delle mosche”. Un passaggio recita: Eratijarijaka: un'arcaica espressione poetica che nella lingua degli Aranda significa «anelando con tutto il cuore a qualcosa che è andato perduto». È una parola complicata da pronunciare, ma molto bella. Con una sola parola si esprime un mondo intero di emozioni. Anelare. Desiderare ardentemente. Con tutto il cuore. Completamente, in maniera appassionata. Qualcosa. Qualche cosa, con valore indefinito, ma non del tutto perchè non si tratta di una cosa qualsiasi. Che è andato perduto. Che si è perso, non si ha più. Sei il mio Eratijarijaka, tu. Non so se lo sai, ma lo sei. Sei quel qualcosa che prima avevo -o quantomeno mi sono illusa di possedere per un po’-, ma che poi ho perso, chissà come, chissà quando, chissà perchè. Ed il mio cuore, il mio intero cuore, anela di riaverti indietro. Di poterti stringere di nuovo, ancora, senza doverti mai più lasciare andare. Torna indietro. Torna qui, da me. Con me. La strada non è impossibile da percorrere; ti ho lasciato briciole di pane sul percorso, puoi ritrovarmi, se vuoi.  Ma è proprio questo il problema: devi volerlo. Lo vuoi? Pensi di poterlo volere, prima o poi? Di volermi? Io dei miei sentimenti sono sicura, devi diventarlo anche tu. Ti aspetto. Non lo farò per sempre, ma per un po’ sì. Ho iniziato ad aspettarti dal momento in cui hai voltato le spalle; in fondo, sono quella paziente e comprensiva dei due, no? Perciò, coraggio! Raccogli i cocci della tua anima, gettali alla rinfusa in un sacco e portamelo; vedrai che insieme aggiusteremo tutto. Te. Me. Noi. Devi solo tornare.  Torna indietro. Torna qui, da me. Con me.
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t4merici · 4 years
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Ne ho uno da 2000 pezzi con un sacco di nero non mi ci far pensare
Portamelo
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pangeanews · 4 years
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“Rivoluzionari contro noi stessi”: l’epopea di Guido Keller, il Kurtz di Fiume, l’eroe situazionista che gettò un pitale sopra Montecitorio
Il tramonto ha un fascino meridiano, immediato. Fiume è finita, l’esplosivo estetico, l’epicentro rivoluzionario, la supernova politica, ormai è cenere, ornamento letterario, liberazione abortita. Gabriele d’Annunzio, sopraffatto dalla fine, austero alla dissipazione, scrive a Guido Keller, è il 12 settembre 1921, la lettera è vertiginosa. “Sono tanto scontroso che stasera non mi piace di stare nemmeno con un compagno notturno come te. Non so se tu sia il Guido Keller di quella notte. Tutti cambiano intorno a me. E io sono stanco di fare da pietra di paragone. (…) Voglio andare a trovare nuovi compagni nel deserto: compagni trasparenti, con una testa di cristallo di rocca, come quei busti medicei di pietre dure. (…) La mia febbre di Ronchi mi torna con immenso brivido lirico. Te lo comunico a distanza. Una bella donna mi disse una sera: ‘Se volete essere più vicino a me, andatevene’. E vorrei stasera per unico nutrimento quel grappolo d’uva che in quella casupola di Ronchi fu messo accanto alla mia branda bruciante. Te ne ricordi? Non ne mangiai neppure un acino. Tu che sei mago, va, ritrovalo e portamelo. Il tuo Gabriele d’Annunzio”. Andarsene, per rendere tutto indimenticabile. Assegnare alle ceneri nitore di marmo.
*
Milanese, Acquario (nasce il 6 febbraio 1892), Guido Keller von Kellerer è barone, figlio di industriali della seta, scapigliato, direbbe l’allegro cinico – e geniale – conte Alberto Carlo Felice Pisani Dossi, con una maniaca passione per il volo. Icaro che s’inarca sul labirinto bellico, Keller è eroico durante la Prima guerra, il Lancillotto di Baracca – di cui reggerà la salma – “tre medaglie d’argento, 116 voli di scorta e caccia, 137 voli di crociera, 40 battaglie ingaggiate, 7 avversari abbattuti, infinite missioni per colpire o fotografare le trincee della prima linea nemica”. In volo, si dice, nei momenti di quiete, preferendo le nuvole all’uomo, cinto d’azzurro, legge L’Orlando furioso e la Vita del Cellini. Trae ispirazione dalla cavalleria magica, dall’ardore dell’arte. Lo chiamano l’Asso di Cuori. Sarà il solo a dare del tu al Comandante, a D’Annunzio, lì, nel fulgore di Fiume.
*
Ripeto. Ardo del tramonto, preferisco la luce obliqua, il corrusco che corrode le medaglie. Dopo Fiume Guido Keller, Achille dadaista, cocainomane perso, svanisce tra imprese folli, al limite dell’onirico. Nel 1923 è a Bengasi. Chissà se ha letto Conrad, fatto è che si tramuta in una specie di Kurtz dei deserti. “Come casa, sceglie un veliero in disuso dove accoglie la aristocrazia coloniale ma anche quella locale. In Africa scopre il fascino degli indigeni e trascorre molto tempo con loro nel deserto, fino a destare scandalo. Negligente, refrattario alla disciplina, affascinato dall’individualismo dei popoli ‘primitivi’, vola di oasi in oasi”. Un aneddoto ne coglie l’indole alla sfida: Keller è in ricognizione punitiva contro i ribelli al governo coloniale italiano. Il suo velivolo declina, abbattuto. I nemici si avventano contro il mezzo. “I ribelli accorrono per fargli la festa ma restano perplessi quando dalla fusoliera esce un uomo barbuto dalla pelle scura, vestito alla maniera araba. Keller conquista il capo dei ribelli col quale riesce a intendersi grazie a un interprete occasionale. Quando ormai è creduto morto, l’aviatore torna alla base a cavallo di uno splendido sauro bianco, scortato dalla tribù nemica in armi. Si potrebbe credere a un’invenzione dei biografi modellata sulla vicenda analoga accaduta sul finire della Prima guerra mondiale. Ma nell’Archivio del Vittoriale è conservata una fotografia che ritrae Keller e i suoi singolari accompagnatori”. Così scrive Alessandro Gnocchi, in un libro straordinario, Guido Keller. Ala-Pensiero-Azione (Giubilei Regnani, 2019), costruito con materiali sconosciuti tratti da una lunga speleologia negli archivi del Vittoriale, che finalmente rende chiaro il ritratto di un uomo anomalo, certamente anormale, su cui dovrebbe avventarsi un romanziere.
*
Il libro è tesoro per beati bibliomani, per altro: Gnocchi allinea alcuni testi di Keller pubblicati su La testa di ferro, testata fiumana diretta dal futurista Mario Carli e su Yoga, foglio ideato da Keller insieme a Giovanni Comisso, che dilaga l’impresa di Fiume come avventura dello spirito, d’allucinata consapevolezza (si dicono “Rivoluzionari non contro un partito o per un partito ma rivoluzionari contro quello che siamo. Rivoluzionari contro noi stessi onde si abbia a perdere le nostre false arroganze, le nostre vili menzogne le nostre tardive e appassite bellezze”).
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Fotografia autografa di Guido Keller inviata a Margherita Sarfatti
Torno al gorgo dei deliri, alla rassegnazione che sboccia in urlo, all’uomo impossibilitato alla vita perché immerso nella fatalità dell’eroico. Nel 1926 Keller è in Sudamerica. Cerca l’oro, ordisce rivolte, ambisce al grido. Kurtz si trasforma in Fitzcarraldo. “Perù e Cile sono le tappe più lunghe. Ma riesce a visitare il Brasile, il Venezuela e ad affacciarsi sul mare dei Caraibi. In Venezuela proverà a commerciare oro. La cosa non va in porto, anche se qualche piccola pepita gli rimane in tasca. A Lima è delegato al servizio dei fasci locali. Riprende a sniffare troppo… Keller sogna la fusione delle nazioni sudamericane in un unico blocco che in nome della latinità privilegi il commercio con l’Italia e si opponga al colonialismo economico degli Stati Uniti. Incontra politici, industriali, commercianti, aspiranti rivoluzionari. Non è solo il delirio di un cocainomane che a Lima prova tutte le qualità della magica polvere. L’ambasciata lo rimpatria per motivi poco chiari (sospetto traffico di oro, briciole racimolate lungo il corso del fiume Orinoco)”.
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Nel 1929, in una specie di previsione della morte, che accade il 9 novembre, a 37 anni – incidente stradale, nei dintorni di Magliano Sabina, circonfuso dall’enigma – Keller scrive con ossessione a D’Annunzio. Il 10 agosto: “Pronti ad un tuo cenno con un gruppo d’arditi di confine piombiamo oltre Fiume nel sonno della mezza estate per annientare il trattato di Rapallo. Così sapremo dare una realtà virile a questa barocca coreografia burocratica Imperiale… Se non vuoi essere il Nostro Condottiero sii il Compagno che ci aiuta ad uscire da questa morta gora in cui le qualità individuali nulla valgono”. Ma D’Annunzio è altro, altrove, ora. Keller gli destina il tradimento. “Il tuo letargo metafisico non ha vita. Invano ti illudi artefice di sogni col cesello della parola. La passione è nel sangue che anima la lama mortale. L’Uccidere è l’Arte più perfetta di Vita ch’io conosco”, gli scrive.
*
Sembra aver vissuto la vita da romanzo funambolico che non sapremmo più neanche desiderare, Keller. Di un gesto almeno gli siamo grati. Il 14 novembre 1920 su un biplano Ansaldo SVA sorvola la Capitale. Scorge Montecitorio. Sul regno dei parlamentari scaglia un pitale pieno di rape e carote. Con dedica: “Guido Keller, Ala: azione nello splendore, dona al Parlamento e al Governo che si reggono da tempo con la menzogna e con la paura, la tangibilità allegorica del loro valore”.
***
La riforma scolastica secondo Guido Keller. Per gentile concessione si pubblica un documento di Keller tratto dal libro, curato da Alessandro Gnocchi, “Guido Keller. Ala-Pensiero-Azione” (Giubilei Regnani, 2019).
La nuova scuola
AMORE
A proposito di scuola, il nostro grande amico Keller, l’asso famoso e una delle menti più elette che siano oggi a Fiume, come ebbe a dire lo stesso Comandante, ci invia questo abbozzo di programma scolastico. Lo pubblichiamo con grande piacere, e lo facciamo nostro:
I.
La scuola classica (teorica) deve riuscire pratica.
La scuola tecnica (pratica) deve riuscire utile.
La differenza tra le due scuole deve essere abolita, inquantochè la Vita non tollera che l’una sia spirito senza corpo e l’altra corpo senza spirito.
Colui che ha intenzione di non costruire troverà nella costruzione la ragione d’una maggiore contemplazione e il capitano di lungo corso mirando le stelle scoprirà per esse la rotta e la eternità dell’anima.
II.
Ogni grado di cultura è riuscito sinora soltanto che simmetrico volume, da oggi nella scuola deve essere valutato come termine asimmetrico per una continua reazione generatrice di vita. Centro della reazione è l’AMORE. L’abbandono della coltura verso l’amore ci fu imposto colla guerra sul nostro terreno dai nostri nuovi amici: coloro che furono foggiati prima di noi da vergini elementi in un quotidiano lavoro.
III.
L’amore è tanto più bello quanto più s’avvicina all’istinto (base divina) e quanto più s’allontana dalla ragione (base di misura d’ambiente irreale).
IV.
La gioventù avanti d’entrare nella scuola si trova nello stato di grazia. La scuola dovrà essere la ripetizione delle forze e degli avvenimenti che generarono il nostro abbandono. Procurerà l’avvicinamento alla terra senza interposizioni di pressanti speculazioni umane, ma mediante la libera intuizione del divino che porta al convincimento danzante della superiorità ed eternità dello spirito e della inconsistenza della materia.
V.
Il popolo senza la scuola; ma l’argomento III ha ottenuto tale grado di sapere da sorpassare chi fuori del suo ambiente, educato alla vecchia scuola sta come albero a cui siano state tagliate le radici. Così sussiste lo stesso raffronto tra la nostra razza occidentale e tutte quelle poste ad oriente, sfoggiate dalla terra. La nostra superiorità su di loro non poggia che sulla forza, mentre da esse a noi non venne che luce.
VI.
L’allodola alta nella luce del cielo canta a chi passa di mattina presto pei campi ancora intatti di rugiada.
(“La testa di ferro”, 13 giugno 1920)
L'articolo “Rivoluzionari contro noi stessi”: l’epopea di Guido Keller, il Kurtz di Fiume, l’eroe situazionista che gettò un pitale sopra Montecitorio proviene da Pangea.
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