Tumgik
#questa è una delle definizioni di amore
teredo-navalis · 2 years
Note
Com'è una relazione sana? Per me è: sconosciuta
mi dispiace e ti abbraccio💕 (però anche: come ti capisco)
ora nel risponderti mi sembra di stare flexando però, mannaggiaaaa. il post l'avevo scritto pensando in generale alle uscite pubbliche con il mio raga e amici miei o le sis, che poi mi fanno i complimenti e io sono tipo 🥺🥺LO SO.
mi sembra di dire delle ovvietà, però comunque per risponderti: una relazione sana è basata sulla sincerità e sull'ascolto (io vengo triggerata malissimo quando sorella1 es. si innervosisce/lamenta per qualcosa che ha fatto il suo 🤢ragazzo ma poi quando parla con lui fa finta che sia tutto ok, ma sei pazza? svegliaaaaa) con tanta ma tanta voglia di accettare/apprezzare/rispettare l'altro così com'è e capirlo/capire i suoi punti di vista, senza urlare senza alzare la voce senza muovere accuse, parlando apertamente dei propri sentimenti anche quando sono brutti e neri e non vorresti provarli, una relazione sana ti sostiene, è un rifugio ti ci senti protetto e sentendoti al sicuro riesci anche a lasciarti andare (parlo di me, che per un sacco di tempo sono stata restia a dimostrare affetto in generale per una serie di ragioni e qui invece mi sto riscoprendo perché appunto: mi sento al sicuro, e mi sembra di avere così anche molto più amore da distribuire in generale alle altre persone nella mia vita)
o per riassumere farò la cattolica della situazione(non lo sono più, ma mi hanno cresciuta così) e ti dirò quello che scrisse San Paolo ai corinzi(perché a volte pensandoci mi viene davvero in mente questa serie di definizioni): “l'amore è paziente, è benigno l'amore; non è invidioso l'amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.”
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i baci nella storia
baci più antichi delle arti figurative sono quelli conservati negli scavi di Pompei o nel Gabinetto erotico del museo archeologico di Napoli, in linea con una erronea tradizione storica, che vuole collocare la nascita del bacio, in senso moderno al I secolo a.C., quando per combattere l’abitudine di bere per le donne fu stabilito che qualsiasi uomo avesse incontrato per strada una sua parente poteva avvicinarsi per controllarne l’alito. Naturalmente se accertarsi della sobrietà è relativamente semplice, ben più difficile è assicurarsi dell’amore di una donna, per cui il bacio, da semplice avvicinamento delle labbra, sarebbe divenuto ciò che tutti noi ben sappiamo, sin da bambini.
I latini avevano tre diverse definizioni per il bacio: l’osculum rappresentava il rispetto ed era adoperato per l’amore filiale, il basium indicava affetto ed era usato per le mogli, il savium era espressione di libidine e si scambiava con le prostitute.
Uno dei baci più celebri della storia è quello di Giuda. Per secoli, attraverso il Medioevo quello ricevuto da Cristo è stato l’unico permesso tra le creazioni dell’arte, un bacio tra le tenebre che odora già di sangue, che costituisce il culmine dell’azione, bloccando i personaggi con uno stacco deciso, mentre gli occhi si guardano parlando.
Il soggetto è stato replicato infinite volte, dai capitelli romanici alle sgargianti miniature dei codici più preziosi, ma la vetta più alta viene toccata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, quando un Giuda brutto e dal volto malvagio cerca di abbracciare nostro Signore, avvolgendolo nel suo mantello giallo, mentre Cristo lo fulmina con uno sguardo severo e sprezzante.
In seguito l’iconografia sarà rivisitata da altri sommi artisti, dal Beato Angelico al Durer, da Van Dyck a Caravaggio ma l’episodio perderà la centralità drammatica riconosciutagli dal padre della nostra pittura, perché il bacio si è nel frattempo liberato da quell’aura di peccato ed è riconosciuto come espressione di affetto e di amore, trasformando il tradimento compiuto nell’Orto degli ulivi ad eccezione negativa.
Il genio di Giotto ci ha lasciato nella celebre Cappella degli Scrovegni altri esempi di baci, dopo l’interminabile cappa di silenzio che aveva avvolto questa perentoria manifestazione di sentimento nell’espressione artistica.
Tenero ed umanissimo è quello che si scambiano i genitori della Vergine davanti alla Porta Aurea, uno scambio di effusioni segno, non di una bruciante passione, quanto di una consolidata comunione fisica e spirituale. Altre forme di bacio che si possono osservare grazie al pennello di Giotto in quel grande affresco di umanità fissato nella mitica cappella è quello dei Re Magi al Bambinello in fasce, della Maddalena ai piedi del Cristo crocifisso, mentre il maestro di cerimonia delle nozze di Cana bacia compunto e più volte la coppa del vino. Esplodono fragorosamente sentimenti che parevano dimenticati ed erano soltanto repressi dalla morale corrente.
Negli stessi anni i poeti di corte fanno del bacio il fulcro delle loro narrazioni: furtivo, galante, appassionato e di rincalzo i pittori si fanno più espliciti ed audaci e ci rappresentano approcci di labbra sempre più amorose e sensuali, preludio allo scatenarsi delle passioni.
Gli artisti utilizzano il pretesto mitologico ed affidano il brivido del bacio a labbra divine o quanto meno eroiche, facendo rivivere sulla tela sottili emozioni e tresche amorose cantate da Ovidio, Catullo ed Omero.
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sognatricedistelle · 2 years
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“…perchè il nostro legame è unico nel suo genere e se fossi lontano da te, ti cercherei anche da distante. Ci ho pensato sai, possono andare via tutti da me, ma tu mi mancheresti più degli altri.”
Queste sono le parole che mi hanno scaldato il cuore oggi, espresse da una delle mie persone di vita❤️
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lanottediamsterdam · 4 years
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Mia nonna si chiama Iside, ogni tanto penso al suo nome e credo sia molto bello, suona un pò antiquato forse perchè mi rimanda all'egitto,a tempi lontani e mitologici, però è molto carino. La casa dei suoi sogni non era una grande villa, era una casettina su un piano solo, un'entrata con un vialetto corto, largo poco più di quattro metri, affiancato ai due lati da due piccole aiuole, il tutto circondato da una siepe bassa. Non ci sarebbero state molte stanze,un salotto con una credenza ampia per le tazze da tè ed i ninnoli, una piccola cucina, un bagno e due stanze da letto, una per sè ed una per mia mamma e suo fratello. Mio zio, è un nerd, lo è sempre stato ancor prima che nerd fosse una parola, o una moda,quando non si diceva nerd, non si diceva niente,ma la vicina di casa faceva le battute in chiesa alla domenica dicendo che avrebbero dovuto internarlo perchè quando i loro figli giocavano al campo da calcio lui abbracciava quello che faceva gol invece di dargli una pacca sulla spalla come un vero uomo, e una volta finita la partita non andava ad ubriacarsi con i compagni e, invece, tornava a casa a studiare. Dopo un paio di fallimenti amorosi piuttosto duri ha optato per una vita solitaria, fatta di lavoro notturno e sonno di giorno, non proprio il ritmo che favorisce una vita sociale sana, o una vita in generale. E’ un abile informatico, ha fatto il militare nonostante odi la guerra e dimostri una delicatezza inusuale in un ex militare. Non veste alla moda, anzi veste un pò male, larghi tutoni, pantaloni cargo con caviglie troppo abbondanti; indossa la flanella ad ogni occasione, maglie, maglioni, camicie; l'abbinamento di colori non pervenuto e ha zero gusto in fatto di stile,quando abbandona la flanella si adagia sul più classico e monocromatico pile. Non ha molta cura di sè, sembra sempre trasandato come se fosse tornato da un viaggio di sei mesi in Alaska, per chi lo ha visto invecchiare negli anni è palese che la cura del proprio aspetto è andata di pari passo con il rifiuto da parte della società di integrarlo e di comprenderlo, il rifiuto ricevuto dalle sue compagne dopo aver messo in gioco i suoi sentimenti a tutto tondo lo ha evidentemente portato a non curarsi e ad assecondare l'idea, ed inconsciamente a confermarla, che non valga e che sia un reietto andando così a proiettare su di sè per primo quell'idea errata che la gente comune ha di lui. E' un uomo imponente di quasi un metro e novanta, è un pò un bambinone, ma è una delle persone più buone che io abbia mai conosciuto, ha sempre avuto un rapporto adorabile con mia sorella che ha saputo assecondare in ogni evoluzione della sua crescita, con comprensione e amore, come se vedesse in lei la figlia che non ha mai avuto e, forse, mai avrà. E’ sempre disponibile ad aiutare la sua famiglia nonostante stia a un centinaio di chilometri da noi, è un grande amante degli animali tra l'altro, nella mia vita lo avrò visto soccorrere e curare cani, gatti,piccioni, canarini, pettirossi, ranocchie e addirittura un furetto. La sua vita l'ho sempre vista piuttosto triste, grigia oserei a causa di questo senso di solitudine autoimposta, come se questa fosse stata una sua scelta consapevole ma non gradita. Questa visione era anche dovuta al fatto che mio padre lo ha sempre utilizzato come esempio di persona "sfigata", l'esempio dell'uomo che non sarei dovuto diventare, uno spauracchio temibile di uno stereotipo da ridicolizzare ed usare come esempio per le peggiori definizioni, con l'arrivo dell'adolescenza ho compreso che si trattava di nient'altro che bullismo, un quarantenne che faceva il bullo con un altro adulto che non ribatteva mai, nonostante avrebbe potuto distruggerlo con poche parole ben disposte, una piccola presa di coscienza che d'improvviso iniziava ad aprirmi gli occhi su chi avessi al mio fianco e quali fossero i valori che importavano a me.
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cartofolo · 5 years
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Evoluzione oltre il tempo
Quando si parla di evoluzione, si immagina come l'ampliamento della propria coscienza in un percorso temporale. Solitamente si sente parlare di anima e di spirito. Prima di affrontare questo argomento, faccio una piccola premessa per intenderci sulla differenza che prospetto, fra queste due definizioni.
Per quello che ci viene indicato nell'esoterismo l'anima è quell'involucro semi-materiale che serve da ponte di congiunzione con il così detto "spirito" cioè la parte immortale dell'uomo, vera sede della coscienza e in continuo ampliamento conoscitivo. Dopo la morte del corpo fisico, l'individuo conserva la sua anima e tutte le caratteristiche della sua personalità in piani di esistenza progressivamente più raffinati, adatti a comprendere e tradurre allo spirito le esperienze appena trascorse nell'incarnazione terrena. Raggiunto il massimo piano  delle possibilità espressive di quell'individuo, non avendo altro da poter capire e esprimere, lo stesso sente il bisogno di reincarnarsi di nuovo per poter ampliare ulteriormente la sua conoscenza.
Le reincarnazioni procedono così toccando (da disincarnati) livelli sempre più elevati e raffinati, fino a quando si è maturata una coscienza tale che non vi è più bisogno di reincarnazioni e si può procedere liberi e autonomi su altri livelli di consapevolezza. In questo caso l'anima non è più necessaria e lo spirito è presente a se stesso e completamente autonomo.
E' già stato detto, e ho trattato questo punto in altre occasione, che l'individuo, ad un certo punto del suo evolvere (proprio quando raggiunge l'autonomia) scoprirà "l'essere"; cioè sarà consapevole della sua natura spirituale oltre il tempo. Infatti sappiamo che lo spirito non ha tempo, "l'essere" esprime la sua verità oltre ogni tempo in divenire. Dunque che tipo di evoluzione o quale realtà potrà scoprire?
La storia cronologica, è solo una piccola parte della realtà cosmica. Esiste un altro livello e un altro punto di vista in cui si può vivere la stessa storia e lo stesso racconto. Sappiamo che questo livello è, appunto, quello dello spirito, in cui non vi è più la necessità di percezione, perché si identifica con la realtà di sua appartenenza. Identificarsi vuol dire diventare la cosa che prima si osservava, e vuol dire anche "fondersi" con quella storia ed essere tutta le sensibilità che la rappresenta e la "sente".
Ci dicono che esiste un livello di coscienza in cui avviene questo miracolo. Questa, raggiunta una certa evoluzione, si potrà riconoscere in tutti i personaggi che prima sentiva separati da sé; sentirà di essere stato la madre e il figlio, il marito e la moglie, l'intervistatore e l'intervistato. Sa di esserli stati, sente che la sua individualità ha percorso, in tempi diversi tutti quei personaggi che ha osservato e vissuto come qualcosa di estraneo a se stesso; magari amati o odiati, ma comunque separati in un illusione che, in questo nuovo grado di coscienza, è superata in un realtà unitaria. Adesso si riconosce come il prodotto dell'evoluzione di entrambe le parti, il risultato delle esperienze di tutti coloro che riteneva diversi da sé (La comunione dei santi?).
Il suo tempo ha superato ogni cronologia, e si sta esprimendo come linfa vitale di tutta la storia cosmica che percorre il racconto, cogliendone l'essenza, per ogni aspetto; sentendo tutto il significato della storia, prima con le forme di vita più elementari (i cristalli), nel passaggio successivo con la sensibilità dei vegetali, in cui quell'individualità sente per quello che hanno significato "in tutta la storia cosmica". E così via per gli animali e, infine per l'uomo; per tutti gli uomini che hanno rappresentato quella qualità di "sentire" e che, quindi, possono far capo a quella Individualità; compresi, forse, anche l'intervistato e l'intervistatore del mio esempio.
Questa è la freccia del tempo spirituale (verticale, e non più orizzontale, in ampliamento del significato, e non più nello scorrere cronologico).
Naturalmente il racconto continua. Perché quell'individualità scoprirà un'espansione ulteriore nel percorrere il significato della storia cronologica, a livelli sempre più profondi, fondendosi con altre individualità, a cui stanno facendo capo altre qualità di sentire. E così via, fino al sentire unico, del massimo grado esprimibile nella manifestazione, cioè sentire d'essere tutto il Cosmo, sentire di essere stato tutte le espressioni, sensibilità e personalità che hanno contribuito a costruire l'unità del tutto-cosmico.
A questo punto il racconto è finito. Però non finisce il "respiro evolutivo". Ma di questo hanno detto poco o nulla, perchè è davvero fuori da ogni portata di comprensione.
Certi concetti, stravolgono completamente il nostro modo di pensare l'evoluzione in senso lineare, portando a un'idea di vera comunione con tutti gli esseri, al di là del loro vissuto storico e temporale.
Le affinità e le comunioni, infatti, seguono la loro logica naturale di affinità, considerando "tutta" la storia del Cosmo. Non importa quando si è vissuto o il tipo di esperienze fatte. Quello che conta è che il nostro modo di "sentire" la realtà, sia simile, e, poi, identico.
Il fatto è che noi siamo abituati a pensare che il tempo passato non esista più, in quanto è stato utile a generare il futuro, ma non è più nella nostra sfera di percezione, se non come ricordo storico. Così è per il futuro, il quale è solo ipotizzabile attraverso le conclusioni logiche di eventi che oggi stiamo smuovendo. Questi sono i nostri limiti e la nostra modalità di percezione. Per il senso dell'essere, del "sentire", invece, come abbiamo già visto, le cose sono molto diverse. In quanto percorre la storia per il suo significato, e non per il suo scorrere cronologico. Ecco che il significato (a qualunque livello possa essere compreso), coglie il senso di "tutto" il racconto, sentendo la parte vissuta dall'uomo del medioevo, come quella dell'uomo moderno per il contributo di sentire che questi individui hanno reso, e per la sensibilità simile (equipollente e, quindi, identica) che questi esseri hanno espresso. Forse è "la storia infinita" delle nostre leggende, ma anche quella grande luce di unione tra tutte le creature, di cui noi cogliamo solo un breve e infimo barlume nel sentimento di amore che possiamo esprimere come umani.
Così il racconto continua a essere percorso, ripeto, per il suo significato, donato da tutti gli esseri che si sono succeduti nel tempo cronologico.
Questo fatto come si può realizzare se non con una partecipazione di comunione e di identificazione con tutti i personaggi della storia che hanno la stessa sensibilità. Cioè che sono in grado di esprimere la stessa verità intima, anche se con caratteristiche di eventi esterni molto diversi. Dunque, noi diventiamo "quelli". Lo diventiamo perché non c'è niente che ci divida nel sentirci di esistere, perché ciò che sentiamo, della nostra storia, ha le stesse consequenzialità logiche di sensibilità, trasporto, amore e tensione verso l'Assoluto.
Ho detto "tensione verso l'Assoluto", ma ancora prima, tensione verso ciò a cui sentiamo di appartenere. Cioè quella parte della storia, che ha un significato ancora più profondo e chiarificatore di tutto il racconto. Cioè quell'Individualità a cui facciamo capo e che rappresenta il nostro futuro di "sentire" e di essere. Questa esiste già nella storia di tutto il racconto. Ma noi ancora non siamo in grado di farla entrare nella nostra sfera di sensibilità. Non ne abbiamo la consapevolezza. Però essa guida i nostri passi, perché ne ha già percorso il tracciato. E alcune piccole illuminazioni, intuizioni, ispirazioni, forse, provengono proprio da questo essere, che molti identificano con lo Spirito Guida o il proprio Angelo Custode.
Questa realtà, non è ancora nostra come consapevolezza, perché si parla di un piano di coscienza così elevato che non siamo ancora in grado di vivere consapevolmente. Però ne possiamo cogliere la logica, che deriva da una concezione dello spirito oltre la materialità. Altrimenti, se lo volessimo intendere solo attraverso i nostri limiti, lo confineremmo in un formalismo prettamente umano, e lo renderemmo limitato come lo siamo noi.
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giovanna-dark · 5 years
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Quando non riesco a dormire, la notte, faccio questo: mi tocco la faccia. È rassicurante toccarsi. Quando chiudi gli occhi e segui i contorni delle ferite che hai sulla faccia, sul collo, sul ventre, è come se entrassi in un’altra dimensione in cui il proprio corpo diventa una landa incognita, non la grottesca cosa distrutta che sai essere ora. Sfiorandoti con le mani puoi reinventarti le cose sulla superficie della tua pelle. Puoi immaginarti come una zolla. Le cicatrici si allungano e precipitano come microscopici crepacci e vette, o si restringono e si arricciano come le colline di un paese. Un tempo avevi un paese. Un tempo avevi un corpo. Un tempo c’era una ragazza guerriera di nome Giovanna. Lei fa questo di notte, quando non riesce a dormire: chiude gli occhi e fa scorrere ritualmente la punta delle dita sulla geografia della faccia. Anni d’infanzia e di famiglia retrocedono e affondano, rimpiazzati da valli e montagne di tessuto cicatriziale e invecchiamento. Sotto l’occhio destro, dove comincia lo zigomo, gli anni di guerra. La sua adolescenza incenerita. All’attaccatura del naso la pelle bruciata si increspa, quasi a spirale, e con l’immaginazione sente come, in tutti noi, amore e furore siano vicini. Cerchiamo di fingere che siano l’uno il contrario dell’altro, o due poli opposti, ma in realtà s’incontrano al centro della fronte. Formano un ponte, un legame. Giovanna sente la narrazione della fede all’attaccatura del naso. Sarebbe facilissimo per lei trapanarsi col dito il cranio penetrando nella materia grigia. Vicino alla mandibola, contro l’orlo della bocca, sento le persone che ho amato un tempo: la madre. L’orso. Il cane. E poi quello che ho imparato ad amare nella fatica e nella resistenza. Compagni e compagne d’armi. “Amore” è una parola che ha definizioni sempre esplosive raccolte agli angoli della bocca, una bocca che adesso assomiglia a uno squarcio frastagliato, ostile a ogni espressione, aperta solo al grido e alla preghiera. 
Nella pelle porto il segno della ferita originaria. io vivo nel corpo dell’assassino; vivo nel corpo di qualcuno che potrebbe dare la vita. Che senso ha dare la vita? È il tipo di domanda che mi pongo adesso. Una domanda senza senso. 
Qualunque siano le forme di vita rimaste sulla terra, chiunque siano quelli che si contorcono trascorrendo la loro miserabile esistenza di vermi, questo è un dramma in cui io non ho nessuna parte. 
Questo non è un semplice deposito di facce. Questo è anche un deposito di prigionieri. Sono anni che conducono questa danza bizzarra: scelgono la faccia. Caricano. Aspettano.
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artide · 5 years
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c’era quella canzone tanto in voga, in si minore, inziava con ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, un tale battiato franco la cantava, era l’anno 1996, ed io avevo otto anni, ma le uniche cure che potevo avere erano quelle dei miei genitori ed ancora ipocondrie era una parola a me sconosciuta, meno male che ipocondriaco non lo sono diventato, ma di male ne ho uno, purtroppo ben identificato, che forse è collegato lo stesso alla cura, come tutti i mali, ma per altre ragioni. tale franco, in questa poesia che poi non ha scritto lui ma un altro tale, sgalabro manilo di professione filosofo, vaga addirittura per i campi del Tennesse ma come vi è arrivato chissà, ma i suoi sogni, più veloci di aquile attraversano il mare i. Io che in Tennesse non ci sono mai stato ma qui a fianco, in pianura padana, ormai ci vivo, e anche se non sembra sono una persona semplice, mi sono domandato se davvero si può guarire da tutte le malattie, perché ci vuole una cura per le malattie, ma se esse sono nate dalla sua stessa mancanza? Ci sarà un rimedio che cura la mancanza di cura? buffo è il destino che ti porta a pensare che le cure si danno alle persone che stanno male, ma anche quando una persona sta bene, ci può essere un Interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività, come scrive il signor Treccani, nel suo vocabolario, che se spulciamo oltre ci offre altrettante definizioni di cura che occupano quasi un’intera colonna. Tutto questo spazio per un gesto così semplice e naturale, sembra impossibile che possa mancare cura nelle cose, nelle persone, delle malattie, dello spirito, eppure mi sembra che la noncuranza dilaghi sempre di più. Si sa i poeti scrivono di amore, di morte e di altre sciochezze, sempre per citare un’altro grande poeta Pavanese tale Guccini Francesco, addirittura se sono arrivati a scrivere di cura, in Si minore tra l’altro, vuol dire che ne siamo sempre più bisognosi.
A.
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Colore
Cos'è il colore? Le definizioni sono numerose, ma quella che mi piace di più è quella che dice che, il colore, non è altro che quello che rimane della luce. Ogni cosa, colpita dalla luce, assorbe parte delle frequenze dello spettro del visibile e assume un proprio colore. Il colore non è, quindi, una proprietà intrinseca dell'oggetto ma qualcosa di successivo, qualcosa che si applica ad esso in determinate condizioni. Nell'epoca moderna il colore è diventata una mera caratteristica, un qualcosa che possiamo applicare a qualsiasi cosa in maniera semplice e comoda. Possiamo acquistare zainetti bordeaux, sciarpe grigie o scarpe gialle in maniera semplice, immediata, veloce. Ed ogni oggetto ha quel colore, perfetto, perché se non fosse così lo percepiremmo come imperfetto, scartandolo proprio perché non perfetto, non uguale agli altri, non conforme alla nostra percezione delle cose. Ma il colore, di per sé, è imperfetto: naturalmente non esiste niente che abbia, nelle sue proprietà, un colore unico. Lì fuori ogni cosa è imperfetta, almeno nel colore, perché ogni foglia, materiale, persona, presenta uno spettro di colori vario e variopinto, che a volte si avvicina ad un colore singolo ma che, spesso, varia da un colore all'altro. E noi, questa imperfezione, la possiamo solo imitare, combinando i colori stessi e giocando coi contrasti. Se l'essere umano è stato bravo a raggiungere la perfezione grazie l'industria del colore, allo stesso tempo non riesce a essere imperfetto tanto quanto la natura stessa ed è assurdo, perché invece di ricercare la perfezione come in tutti gli altri ambiti della nostra vita ricerchiamo l'imperfezione. Imperfezione in un mondo, quello del colore, impossibile da raggiungere perché, nella casualità, l'uomo è stato sempre e sarà sempre limitato, proprio da sé stesso e dalla definizione di quello che è e proprio perché condizionato, in qualsiasi scelta. Quindi si cerca di avvicinarsi a quella casualità giocando coi colori, associandoli l'uno all'altro dando loro una nuova vita, complicandoli nel loro aspetto ma arricchendoli di caratteristiche che i colori, singolarmente, non hanno. Ma giocare coi contrasti, associare un colore ad un altro, è solo una parvenza di un qualcosa che non possiamo fare: creare colore dal nulla. Non possiamo farlo, non si può immaginare un colore che non esiste ed è per questo che, quello che siamo (e ciò che ne deriva, tra cui le nostre aspettative, le nostre paure, le nostre ansie, le nostre speranze) non può condizionarlo in alcun modo: il colore nasce e si evolve da solo perché esso esiste anche senza di noi; ma noi senza colore non esistiamo perché in esso ci ritroviamo, in ogni secondo, e per renderlo meno neutrale ai nostri occhi ed addomesticarlo facciamo delle associazioni che lo rende più accogliente ai nostri occhi ma, che, violano la sua neutralità. Una neutralità che violiamo con i ricordi, che essi ci riportano alla mente; con le emozioni, che essi ci provocano e con le persone, che ricordiamo nelle loro caratteristiche peculiari e nei loro colori. Colori che osserviamo con entusiasmo, rispetto, amore, malinconia, rabbia e nostalgia e, tutto ciò, grazie soltanto alla nostra unicità: biologica, grazie ai nostri occhi che, unici al mondo, trasmettono a quello che siamo il colore come informazione e con la nostra unicità mentale e caratteriale, che lo trasforma in quello che proviamo, sentiamo e percepiamo, grazie ad esso. È questo il motivo dell'esistenza del colore: l'interpretazione che diamo ad essi ci definisce, ci rende ciò che siamo e ci permette di guardare il resto del mondo con un occhio che solo noi abbiamo. Un occhio che ci rende unici, un occhio che rende noi, noi. E che ci permette di guardare il mondo in maniera unica, personale ed intima, come solo noi possiamo fare, come solo noi siamo capaci di fare. In maniera unica, proprio come unico è il colore.
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giancarlonicoli · 3 years
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11 nov 2020 12:55
“IL CALCIO E’ L’ULTIMA RAPPRESENTAZIONE SACRA DEL NOSTRO TEMPO” – PASOLINI E L'ANTOLOGIA DI ARTICOLI SULLA NATURA E IL LINGUAGGIO DEL GIOCO – LO SCRITTORE ERA UN’ALA DESTRA MA NON HA FATTO IN TEMPO A RIFLETTERE SUL POTENZIALE AUTODISTRUTTIVO DEL RUOLO, DA GEORGE BEST A GIGI MERONI – L’ESTASI DAVANTI A BULGARELLI, LE PARTITE CON CAPELLO E LA "GIOVENTU' MOSSA DALL'IDEALE TELEVISIVO DELLA FELICITA' SESSUALE" - LIBRO+VIDEO
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Estratto della prefazione di Gabriele Romagnoli al libro Pasolini- il mio calcio pubblicata da La Repubblica
Pier Paolo Pasolini e il calcio: storia di un amore grande, insolito e chiacchierato. Come ogni cosa sua, un po' fuori dal tempo, sempre avanti e di lato. Mai sopra: dentro. L' intellettuale in campo. Con lo sguardo partecipe, il sopracciglio disteso, il taccuino aperto.
Ecco, dimenticatevi il saggio di Eco su Mike Bongiorno del 1961. Pasolini non si siede per osservare, si mischia per capire. Dirà che il calcio è un linguaggio, i giocatori ne sono i cifratori e gli spettatori, i tifosi, i decifratori. E lui? In che ruolo si è espresso?
Questi nove articoli, sei di suo pugno e tre interviste, usciti tra il 1956 e il 1975, sono una piccola grande antologia, un discorso aperto. Al termine del Reportage sul Dio , uscito sul Giorno nel 1963, Pasolini suggerì di lasciare il personaggio «sulla vetta nell' illusione che tutto ciò gli spetti, che sia duraturo ». E noi ci congederemo da lui così, lasciandolo interprete e profeta, calciatore e metacalciatore, fonema e traduttore di quel discorso amoroso che è il gioco.
(...) Come i fuoriclasse che esprime, il calcio ha una natura difficile da cogliere, fermare, addomesticare. Scorrendo le pagine di Pasolini troviamo queste possibili definizioni: «È uno sport più un gioco», «è un sistema di segni, quindi un linguaggio», «è un concetto », «è un oppiaceo terapeutico», «è una rappresentazione sacra, l' ultimo grande rito». Tutte queste cose si possono tenere insieme per accumulazione? La risposta è sì, ma in un solo luogo: lo sguardo di Pasolini.
Un diverso occhio non coglierebbe l' una o l' altra e sarebbe inutile insistere. C' è chi percepisce il gioco, chi afferra il concetto, chi partecipa al rito. Solo l' esperienza multiforme di Pasolini poteva cogliere tutti gli aspetti in un sol colpo. È come se davanti a un solido qualcuno ne vedesse alcune facce e lui l' intera complessità. La sua osservazione percorre ogni lato. A cominciare dal campo, inevitabilmente di periferia, dove scende come giocatore.
Molte foto ce lo restituiscono con una maglia semplice, attillata, le maniche lunghe, i risvolti una riga controcolorata, pantaloncini corti, calzettoni abbassati alle caviglie. È un' ala destra e questo già vuol dire: mettersi di lato, lavorare di fantasia, cercare il senso per porgerlo ad altri, vanificarsi, infine farsi del male, annientarsi. Non ha fatto in tempo a riflettere sul potenziale autodistruttivo dell' ala destra, dilettante o professionista, da George Best a Gigi Meroni. E sul suo progressivo imborghesimento dopo gli anni Ottanta: con Causio, Sala, Conti sono finiti la poesia, il dribbling, la bestemmia contro la liturgia preconfezionata dall' allenatore. Con il dovuto rispetto, è bene gli sia stata risparmiata la linearità di Candreva. Ma Pasolini conosceva bene anche altri due ambienti fondamentali: il bar e lo stadio. Il primo si è dissolto, ma era il forum di quei tempi, la chat dove oggi si celebrano risse virtuali. Lì si concepivano i neologismi e i soprannomi.
Scaltri giornalisti li riportavano come invenzioni proprie, ma erano gli anonimi del sublime accanto alla cassa dei gelati a partorirle. (...) Ogni frase ha la sua parola chiave che la illumina. Al punto che "parola chiave" (ormai universalmente "password") è diventata la combinazione per le vere casseforti delle nostre esistenze.
In un fraseggio a cui partecipano ventidue "podemi" la parola chiave è il campione, quello che svia il flusso del discorso, lo accende di nuovo e imprevisto significato. Mai per inciso, mai avverbio, giunge per solito al fondo, come conclusione. Il portiere è uno stentato avvio o una mancanza finale provocata dall' assenza d' intervento.
Gli altri son mediani costruttori, sfarfallanti terzini, aggettivanti mezze ali. Il campione è il fine/la fine del discorso. Se riuscita, in forma di gol.
Pasolini ne ricostruisce il linguaggio e la natura. Bisogna ricordarsi che per lui i calciatori parlano con i piedi (come per Soriano con i piedi pensavano).
Quando porterà il suo microfono davanti alle loro labbra nei famosi Comizi d' amore sarà per chiedere ai giocatori del Bologna delle loro abitudini sessuali, non certo della disposizione a giocare in attacco o di rimessa. Di fronte a Giacomo Bulgarelli sembrò avere una visione. «Come avesse incontrato Gesù Cristo», racconterà Sergio Citti, uno dei suoi attori di fiducia. Gli propose addirittura di recitare per lui nei Racconti di Canterbury . Invano. Gli occhi cerulei di Bulgarelli erano fissi sul pallone. Pasolini vedeva altro e altro sentiva. Per lui il capitano del Bologna era letteratura pura.
Scriverà nel 1971 che «Bulgarelli gioca un calcio in prosa: è un "prosatore realista"». Così come Rivera è un «prosatore poetico» e Riva un «poeta realista». La poesia si connette invariabilmente al gol: è «invenzione, sovversione del codice, folgorazione ». Il campione è colui che ha questa capacità: illuminato dall' alto, crea, strappa, rimodella, riscrive la storia a modo suo. Questa sua grandezza gli è tanto familiare quanto incontrollabile. È lei a possederlo, non viceversa.
Potrebbe apparire una visione idealizzata, non fosse che a Pasolini è chiaro il percorso umano, fin troppo umano, il terriccio con cui è composta e da cui prende vita questa creatura destinata al sovrumano per elezione popolare. Si forgia nelle periferie di tutto il mondo, è fatta della materia dei sogni.
Quali? I sogni di riscatto di tutta quella «gioventù incastrata in una piccola sacca del destino » mossa, sentite, annotate, ricordate questa frase: «da quell' ideale, tutto sommato televisivo, della felicità sessuale». Era il 1963 e già Pasolini individuava le caratteristiche non dei re, ma dei tronisti del calcio.
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svevascoulture · 6 years
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PERCHÉ “Call me by your name” É UN RACCONTO SULL’AMORE
Call me by your name è una storia che istruisce e regala pienezza di esistere; ogni nuova visione di esso è una nuova visione di se stessi.
Si parla sempre di amore. Perennemente. Instancabilmente? No, a me stanca parlare d’amore, mi stanca leggere riguardo l’amore e mi stanca pensare ad esso, ciononostante parliamo sempre d’amore, leggiamo sempre riguardo l’amore e pensiamo perennemente e instancabilmente ad esso. 
Tante sono le definizioni che hanno voluto descriverlo, tante le opere artistiche che hanno voluto rappresentarlo, tante le parole che hanno tentato di coglierne l’essenza. 
Perché parliamo sempre di amore? Sappiamo cos’è? Abbiamo mai capito ed esperito questo gigantesco mito che ci accompagna dall’inizio delle nostre facoltà intellettuali?
Come già scritto sopra, personalmente non parlo spesso di amore, non sono nemmeno sicura di sapere cosa esso sia, né come si manifesti, non sono nemmeno sicura di sapere cosa implichi e se esista una definizione unitaria e univoca di questo concetto; mi sento ancora la ragazzetta “cinicosa” di sedici anni che storpia il naso di fronte ad argomenti così mainstream e blasonati. Prima o poi crescerò.
Nonostante questo, guardo e riguardo il film in questione e vedo amore. Vedo amore non perché i due protagonisti effettivamente si innamorano l’uno dell’altro e provano emozioni meravigliosamente inclini a ciò che abbiamo sempre identificato come l’a-m-o-r-e, vedo a-m-o-r-e perché il protagonista, l’adorabile Elio, a parer mio vive veramente una trasformazione di se stesso che è possibile, forse, solo tramite questo santissimo a-m-o-r-e.
Mi soffermo su una delle poche cose che possono definire l’amore, cioè sulla sua etimologia: amor, a sua volta a-mors, ricordo che mors significa morte e che anteporre una a significa negare il concetto successivo, e dunque etimologicamente (in una delle sue versioni) : amore significa assenza di morte. Ecco forse questo è il vero motivo per cui siamo ossessionati da questo fenomeno; se l’amore è un rimedio alla morte o una negazione di morte, allora in quanto essere finiti e infinitamente impotenti di fronte alla temuta morte, abbiamo tutto il diritto, o meglio, siamo del tutto giustificati, ad ossessionarci in merito ad esso.
E allora cos’è la morte? Considerando che nessuno potrà mai risorgere e descrivercela e considerando che siamo, fino a prova contraria, animali fatti di carne ed ossa, viviamo la morte come assenza di funzioni vitali, e dunque come apoteosi di f-i-n-e, “nulla eterno”, niente..
E allora cos’è la vita?  Sicuramente è la presenza di queste funzioni vitali, sì. Se dunque tali funzioni vitali possono esistere significa che esse possono agire, mutare, creare.. Dunque cos’è la vita se non continua trasformazione, continuo cambiamento?
Se allora l’amore è un antidoto alla morte, esso è anche un agente e facente parte di continua trasformazione, continuo cambiamento; se allora siamo così interessati ad esso è forse perché, spesso, l’amore ci permette, in maniera apparentemente semplice e naturale, di innescare questa continua trasformazione e questo continuo cambiamento.
Ed è per questo che dico qui che Call me by your name è un film che veramente parla di amore, poiché Elio vive l’amore.
Come le i busti antichi che riemergono dal Lago di Como impregnati di “nobil semplicità e quieta grandezza”, così Elio, ragazzino intellettualmente precocissimo, colto e caratterialmente dominato da un genuino logos ( NB non lo intendo solo come ragione, ma anche come conservazione), scoprirà e si trasformerà in un essere fatto di sesso e carne, in un ragazzo che migrerà dall’equilibrio e l’armonia tipici della grecità antica, verso ad una nuova umanità e mobilità tipica dell’arte ellenistica, quella di Prassitele, e tutto ciò sarà possibile attraverso lo scontro/incontro con Oliver.
Anche Oliver, dal canto suo, è un ragazzo che cerca di mediare, è conscio del suo appetito e conosce i propri limiti, pertanto anch’egli, così come Elio, ha sempre vissuto in funzione di una saggia armonia d’animo e temperamento con la consapevolezza che, come ricorda Eraclito, -acque sempre diverse scorrono per coloro che si immergono negli stessi fiumi-, e dunque che solo attraverso il continuo cambiamento certe cose possono rimanere le stesse.
La variazione che permette la permanenza, questa è la vera rivoluzione, questa è la forza creativa che l’amore può permettere: non si tratta di perdersi nell’altro, ma di perdersi con l’altro in una novità che ci rende noi stessi, e dunque gli stessi.
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[INTERVISTA] BTS X DAZED
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“Incontriamo i BTS, il fenomeno K-Pop che sta superando i record del mondo
Abbiamo parlato con RM, il rapper dei BTS, il gruppo formato da sette ragazzi che, grazie all’ultra-dedito fanbase, è diventato il più noto act sud coreano a fare scalpore all’ovest.
La linea telefonica si collega a Seoul dov’è quasi mezzanotte e dove RM, il leader dei BTS, il gruppo sud coreano formato da sette membri, sta ripensando ad un pazzo mese (appena trascorso) in cui hanno battuto record – alcuni stabiliti precedentemente da loro stessi, altri che non avevano mai pensato di raggiungere – uno dopo l’altro in un’onda implacabile.
“Sento come se fossimo un palloncino…,” ha detto RM e nella sua voce si percepisce una sfumatura di incredulità. Il loro ultimo mini-album Love Yourself: Her è l’album K-Pop più venduto di sempre sin dai preordini (oltre un milione solo nel paese), e con il singolo ‘DNA’ sono ora il gruppo K-Pop ad avere raggiunto i 10, 20 e poi i 100 milioni di visualizzazioni YouTube più velocemente. Poi ci sono le posizioni raggiunte nelle classifiche: #14 nella UK Album chart, Top 10 nella US Billboard 200 album chart, mentre DNA non solo ha regnato sulle classifiche iTunes del mondo ma è salita alla #67 della Billboard Hot 100, la posizione più alta mai raggiunta da un gruppo coreano.
Le aspettative per il comeback erano ovviamente alte; i BTS (i rapper RM, J-Hope, Suga e i cantanti Jimin, Jin, V e Jungkook) hanno raggiunto il livello ‘fenomeno’ l’anno scorso con il loro secondo full album WINGS e il singolo stile moombahton Blood, Sweat & Tears. Ma il 2017 ha già portato un nuovo quasi incredibile strato di successo. Ogni giorno ora porta un nuovo record, un nuovo articolo o una nuova stazione radio occidentale che manda la vivace ed electro-pop ‘DNA’. Se il loro potente ed energico fandom, conosciuto come ARMY, si è sentito anche solo momentaneamente travolto da tutto ciò, allora non è il solo.
“Tutto si sta muovendo così velocemente,” ha aggiunto RM lasciandosi scappare una risatina. Intrigante e carismatico nella conversazione, lui è un rapido pensatore laterale che riesce a trasportarti in un’equivalente mentale di una gigantesca montagna russa. “Non sappiamo dove andrà questo palloncino ma sto solo cercando di godermela perché prima di tutto questo c’è stata tanta sofferenza. Sto cercando di non perdere di vista ciò che stiamo facendo.”
Durante le settimane fin dalla sua pubblicazione a metà settembre, anticipato da una serie di trailer collegati al concept precedente di The Most Beautiful Moment in Life, Love Yourself: Her è diventato sempre più intricato. Saturo di doppi sensi (essendo sia una ricerca dell’amore sia una lettera diretta ai loro fan), per la maggior parte il suo sound possiede un groove sicuro di sé e ricercato, ma allo stesso tempo mette da parte la sua superficie scintillante dove lividi e graffi giacciono sulle sue membra anche nelle tracce più dolci come “Serendipity”.
Mentre non capita spesso che ci è possibile entrare nel ciclo vitale di un album dove il senno di poi comincia a risplendere e forse si comincia a definire la prossima fase di un artista, questa resta comunque un’esperienza curiosa, illuminante e leggermente fragile. Tuttavia, senza esitare un istante, ci immergiamo in Love Yourself: Her per esplorare immediatamente le parti indottrinate nella tradizione dei BTS, il suo impatto, le sue ombre e il sempre più vasto effetto che raggiunge chi lo possiede.
-DOMANDA- Al rilascio del nuovo album tu hai definito Love Yourself: Her un ‘punto di svolta’ e ‘il secondo capitolo’ dei BTS, indicando la musica come elemento fondamentale. In questo mese trascorso sono emersi altri elementi che aggiungono ragioni a queste definizioni? RM: Il concept di The Most Beautiful Moment in Life, che era per noi il primo capitolo, aveva quell’atmosfera perché eravamo partiti dal fondo ma in questo concept, Love Yourself, abbiamo iniziato a parlare di cose più allegre, come le cose reali della vita. Sul lato professionale siamo entrati nelle classifiche Billboard e in quelle UK e i nostri stadi stanno diventando sempre più grandi… quindi sia dentro che fuori è un punto di svolta per i BTS. Direi che siamo solo in un altro universo, come un granchio ora noi ci troviamo in una nuova conchiglia.
-DOMANDA- Due dei momenti più commoventi sono le tracce nascoste, il parlato ‘Skit: Hesitation & Fear’ e ‘Sea’. Entrambi riguardano le difficoltà affrontate al vostro inizio e le attuali preoccupazioni riguardo la fama e il successo. Perché era importante avere queste due tracce nello stesso album? RM: Inseriamo tracce nascoste quando vogliamo aggiungere dettagli, no? Lo ‘Skit’ era necessario per rendere comprensibile ‘Sea’. Credo che si rispondano a vicenda. In verità ho parlato per la prima volta di queste paure, della felicità, del mare e del deserto nel nostro primo album (2 Cool 4 Skool), queste erano le tracce nascoste: uno skit chiamato ‘On The Start Line’ e una canzone chiamata ‘Path’. Sono passati quattro anni e ora parlo di come abbiamo affrontato tutto ciò, di cos’è il mare e il deserto dentro di noi e di cos’è il futuro.
-DOMANDA- Siete tornati al punto di partenza e, cavoli, non me ne sono accorta. Quindi in questi quattro anni, usando questo ultimo concept, cos’hai dovuto accettare o imparare ad amare di te stesso che al tempo non ti piaceva? RM: Ummm, ho dovuto accettare il fatto che non tutti possono amarmi. Perché quando c’è l’amore c’è anche l’odio, quando c’è la luce c’è anche il buio. È stato molto difficile come artista accettare che ci sono molte persone che mi odiano ma dall’altra parte ci sono molte più persone che invece mi amano. Penso che tutti attraversino questa cosa.
-DOMANDA- Ricordi il momento in cui sei riuscito a dirti ‘ok, posso sopportarlo’? RM: A dire la verità ci sto ancora provando (ride). Non mi sento ancora realmente fuori da questo ma mi sto abituando. Sono come un surfista, all’inizio riesci solo a pagaiare e cadere dalla tavola ma con il passare del tempo riesci a stare in equilibrio sulle onde più grandi (ride).
-DOMANDA- Temi come fato e destino vengono trattati in questo album. Hai sempre creduto di avere un sentiero già stabilito? RM: Nietzsche… una delle sue famose frasi è amor fati o ‘ama il tuo destino’. Diciamo che io sono nato in Corea e tu, Taylor, sei nata in Australia e questo non lo possiamo cambiare, non possiamo avere la stessa vita. Amor fati non intende dire lasciare tutto al destino ma partire con l’accettare ciò che non possiamo cambiare. Amare il nostro destino e il nostro ambiente e poi pensare che possiamo fare qualcosa con il fato e cambiare direzione. Noi ci troviamo su sentieri stabiliti da quando siamo nati ma credo che possiamo comunque cambiare alcune cose. Quindi credo nel mio destino ma allo stesso tempo non ci credo (ride).
-DOMANDA- Che impatto ha sulla vostra creatività questo enorme successo che state ottenendo con l’album? Riuscite a pensare “scriverò questa canzone e vediamo come va” o pensate “devo scrivere una canzone che non può non essere incredibile”? RM: C’è pressione, non posso dire di non sentirla. Ciò che sta accadendo è molto per me e tutto quello che gira intorno ai BTS si muove così velocemente, come il creare dieci canzoni in sei mesi. Alcune volte è troppo ma ricordo sempre a me stesso com’era nel 2007, ho iniziato perché volevo dire qualcosa. C’era un messaggio che sentivo dentro di me e volevo condividerlo attraverso la musica, quindi quando sono nel mio studio a scrivere cerco di andare piano. Cerco di guardare in profondità, penso a cosa sto cercando veramente di dire.
-DOMANDA- Tranne quando le persone ti bussano alla porta dicendo “Hai finito? Hai una canzone per me?” RM: (ride) Ah sì, è per quello che le persone la chiamano deadline (scadenza), perché ti senti dead (morto).
-DOMANDA- ‘Mic Drop’, sia la canzone che l’esibizione, è ormai un classico dei BTS. ‘La mia borsa è piena di trofei…/ Gli hater stanno già rinunciando / Il mio successo è già così oro… / Hai già fretta di scappare.’ I BTS hanno sempre lottato per loro stessi ma cosa rende questa traccia fondamentale per il vostro nuovo capitolo? RM: Hitman Bang (il CEO/produttore del gruppo) voleva che in questa canzone lasciassimo uscire la rabbia e il dolore ma è stato difficile perché dentro non era rimasta nessuna rabbia o gelosia, sono soddisfatto ora (ride). Amo i nostri fan, tanti miracoli stanno accadendo ogni giorno. Non ho tempo per dare retta a chi ci odia. Penso che questo si colleghi al perché Her è un punto di svolta per i BTS e ‘Mic Drop’ (aiuta) a comunicare che noi lasciamo cadere il microfono ed il primo capitolo è finito. È molto divertente.
-DOMANDA- Quanti microfoni ha rotto Suga lasciandoli cadere alla fine delle esibizioni? RM: (ride) Oh, no non (ha ancora rotto quelli buoni) per ora. Ne compriamo di economici, quelli da karaoke che costano sui 30$.
-DOMANDA- È chiaro che vi stiate godendo la vita ora ma ci sono emozioni più oscure che si nascondono nell’album. È possibile che vedremo qualcosa di più di queste emozioni nel prossimo album? RM: Queste emozioni ci sono ancora, non se ne stanno andando ma hanno una forma diversa. Non penso che l’amore sia solo felicità, complimenti e luce. L’amore comprende anche cicatrici, un po’ di odio e alcune cose sporche che teniamo dentro di noi.
-DOMANDA- E immagino che nessuno sia felice al 100% per tutto il tempo, anche quando tutto sta andando bene… RM: Proviamo delle emozioni più oscure e a volte ci sentiamo così pesanti con questi record e gli articoli e le persone che dicono ‘Oh, voi rappresentate la Corea, voi state rendendo famosa la Corea!!’, e ogni secondo noi siamo tipo ‘Grazie mille’, ma sai io sono ancora qui nel mio piccolo studio e provo a scrivere alcuni testi ed è tutto quello che faccio. Sto ancora cercando di capire come affrontare questa cosa.
-DOMANDA- Quindi, oltre ai BTS, cosa ti rende felice? RM: Grazie per questa domanda, non molte persone me lo chiedono! (lunga pausa) Non ho la patente quindi vado in bicicletta lungo il fiume Han. Questo è ciò che amo veramente perché a nessuno frega niente di me per un momento. Mi sento così libero. Amo anche collezionare figure e guardare i film di notte così posso guardarli tutto da solo e seduto nel posto migliore.
-DOMANDA- Devi indossare cappello, occhiali e mascherina per evitare che ti riconoscano? RM: Non indosso mascherine, mi metto solo un cappello perché i miei capelli sono troppo colorati, troppo brillanti (ride).
-DOMANDA- Alcuni critici hanno avuto una conversazione online incentrata sulla possibilità dei BTS di essere nominati per un Grammy. Non è accaduto quest’anno ma il prossimo… non si sa mai! Come ti fa sentire questa cosa? RM: Ho sentito che le persone ne stanno parlando ma io cerco di non pensarci. Se inizio ad aspettarmi qualcosa rimango deluso. Un Grammy è tutto un altro livello, è tutto un altro mondo per noi!
-DOMANDA- Se doveste vincere ragazzi dovreste sul serio indossare del trucco waterproof. RM: Ovviamente. Tutti piangerebbero. Penso che dovremmo preparare anche un completo waterproof.
-DOMANDA- Magari potreste semplicemente indossare plastica dalla testa ai piedi. RM: (ride) Sì, potremmo indossare una tuta spaziale o qualcosa del genere.
-DOMANDA- Avete avuto un’estenuante tabella di marcia in Corea per questo mese, più due concerti in Giappone per 80,000 fan – qual è l’aspetto che ancora ora è il più faticoso e chi vi mantiene sani? RM: Dormire. Il non dormire trasforma un umano in un altro umano (ride). Culturalmente i coreani sono abituati ma è ancora tanto difficile. Ci abituiamo ma mai completamente. J-Hope prova sempre a farci forza e io gli sono molto grato. A dire la verità mi piace definirlo come un nuovo leader del gruppo.
-DOMANDA- Siete insieme da anni, chi nei BTS riesce ancora a sorprenderti? RM: V. Le sue parole sono folli e anche il suo inglese lo è. Crea nuove parole e nuova grammatica e mi sorprende sempre. Penso che sia anche abbastanza bravo in inglese perché riesce a parlare con chiunque, ha più confidenza, ha più fegato.
-DOMANDA- Dicono che quando impari una nuova lingua non puoi avere paura di fare errori. RM: (sospira) Io ho sempre paura di fare errori. Penso di essere nato con questo.
-DOMANDA- Mi sono sempre chiesta cosa fanno i BTS prima dell’uscita di un album, c’è un rituale? RM: Ci riuniamo nel nostro salotto, beviamo qualcosa e parliamo di come dovremmo affrontare gli impegni e di come ci sentiamo. Non è niente di che ma ci fa sentire diversi, ci dà la forza di continuare a correre e mantiene il nostro atteggiamento perché ci ricordiamo sempre di quando eravamo tristi e poveri (ride). La popolarità è una bolla. È una montagna, puoi salire con molta fatica ma scendere molto velocemente.
-DOMANDA- Okay, ultima cosa… tu sei il re del cinque e della stretta di mano che finiscono male. RM: (ride) Sì, è quello che i fan dell’Europa e dell’America dicono! Ma amano quei momenti, giusto! È una cosa culturale? Non so perché ma nessuno nota le mie strette di mano e i miei cinque. Le mie mani sono davvero grandi e sono alto due metri quindi possono vedermi facilmente. È davvero triste, vero? (ride).”
 Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©CiHope) | ©dazed
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tiseguiro · 4 years
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Vivere in maniera contemplativa
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“Il cristiano o è contemplativo o non è”.
Vivere in maniera contemplativa
L’oblato, o è contemplativo o non è.
Per essere contemplativi non è necessario andare a vivere in un deserto e nemmeno in un monastero. Stranamente, può capitare che uno viva nel deserto o in monastero e non sia affatto un contemplativo. O che viva assillato da una gran quantità di incombenze e lo sia.
S. Francesco di Sales scriveva: “E’ un’eresia voler escludere la devozione alla bottega degli artigiani. Perciò dovunque possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta”, dove al termine “devozione” potremmo tranquillamente sostituire “contemplazione”.
Lungo la storia della spiritualità, per molti secoli la contemplazione è stata considerata un fenomeno riservato esclusivamente allo stato di vita dei religiosi, sino al punto da fare equivalere questi due termini: “vita contemplativa e vita religiosa”. Si dava infatti per scontata l’incompatibilità tra azione o vita attiva e contemplazione o vita contemplativa. La vita nel mondo costituiva perciò un ostacolo insormontabile per un cristiano, che avrebbe dovuto abbandonare le attività secolari se avesse voluto arrivare ad essere contemplativo.
Vorrei fare riferimento in questo in contro a un santo dei nostri giorni: San José Maria Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei
Ha proposto con limpida dottrina, in modo aperto e perentorio la chiamata alla contemplazione in mezzo al mondo di tutti.
«La contemplazione non è per privilegiati. C’è chi, con conoscenze elementari di religione, pensa che i contemplativi stiano tutto il giorno in estasi. È una grande ingenuità. I monaci nei loro conventi hanno mille attività: puliscono la casa e lavorano per guadagnarsi la vita”.
Le definizioni classiche
Chiediamoci dapprima: cos’è la vita contemplativa? Potremmo dire: è la vita cristiana che si orienta decisamente verso la crescita della grazia e delle virtù teologali che ci permettono di contemplare Dio. In maniera sintetica: amore fedele proteso nella speranza.
La contemplazione è fede che vive nell’amore e che dovunque riconosce Dio e a lui si unisce.
E’ vita continuamente memore di Dio. E’ camminare alla Sua presenza.
Al di là delle forme che essa può assumere (diverse come è diversa ogni vita e ogni via), la contemplazione è un modo di guardare. Una forma particolare di conoscere.
«Contemplazione (...) è un’amorosa, semplice e permanente attenzione dello spirito alle cose divine» (S.F. di Sales): si mette in rilievo che la contemplazione consiste essenzialmente in un’attenzione o sguardo dello spirito che ha le caratteristiche della semplicità e della costanza.
Tutti siamo chiamati ad essere contemplativi in mezzo al mondo
S. José Maria Escrivà:
«La contemplazione non è per privilegiati. C’è chi, con conoscenze elementari di religione, pensa che i contemplativi stiano tutto il giorno in estasi. È una grande ingenuità. I monaci nei loro conventi hanno mille attività: puliscono la casa e lavorano per guadagnarsi la vita».
La vita, così com’è, è chiamata a divenire il luogo della nostra contemplazione.
Voi siete oblati…e siete laici, ed è importante avere ben chiaro che c’è una grazia speciale di Dio in questo vostro genere di esistenza. La vita di tutti i giorni – lo sappiamo - non può scorrere parallela rispetto al cammino di fede.
Provo a descrivere la vita dei laici. La prima caratteristica è l’eterogeneità. Tra le esistenze cristiane, è quella più esposta al rischio della dissipazione, della dispersione.
Il laico è risucchiato da ritmi vorticosi, interpellato da relazioni diversissime, alcune delle quali ingovernabili. Una famiglia si allarga perché viene alla luce un bambino…oppure una grave malattia colpisce un membro della famiglia… addio al buon ordine della vita…i ritmi ne sono sconvolti…addio alle giornate programmate, dove tutto è registrato…
Una domanda: in questa eterogeneità non vi è forse la possibilità di una sintesi più piena?
La vita di tutti i giorni deve diventare la nostra cella monastica!
Mi aiuto con un detto rabbinico:
“Bisogna stare in piedi, ma non troppo; stare seduti, ma non troppo; camminare, ma non troppo”.
Il significato di questo detto, di primo acchito forse un po’ enigmatico, applicato alla vita, è il seguente. L’essere in piedi indica l’ascolto della parola; l’essere seduti indica la meditazione, la riflessione su di sé, il camminare è l’incontro con gli altri. Sono, in fondo, le tre relazioni che ci costituiscono: Dio, noi stessi, gli altri.
Questa è l’immagine della vita di un laico cristiano. Non ci sono “recinti sacri” , né orari canonici. Il laico si trova nel mondo, ha a che fare con gli altri, è “stiracchiato” da mille incombenze. Le tre relazioni (io, Dio, mondo) sono spesso una matassa aggrovigliata. Si sta in piedi, ci si siede, si cammina. Spesso con nostalgia di una preghiera più quieta e distesa, di spazi di silenzio, di desiderio di ritagliare dei momenti di contemplazione, ma si è costretti a correre affannosamente perché le relazioni umane impongono i loro ritmi. Poi magari, sul far della sera, prima di spegnere la luce, si trova un po’ di tempo per sé e per Dio.
Ogni tanto, si riesce, sgomitando contro l’invasività degli affari e la scaletta degli impegni, a ritagliarsi un po’ di tempo libero mai troppo ampio e a “stare in piedi”, si sa che si tratta di un breve interludio, una sosta all’oasi, mentre il cammino che sta davanti è ancora lungo, dovrà solcare monti e valli, attraversare deserti.
La citazione di Francesco di Sales ricordata all’inizio vuole essere una garbata contestazione a un modo di pensare che voleva la contemplazione impossibile o assai ardua per chi conduce una vita “normale”.
Ci conforta l’esperienza di santi come Agostino e Gregorio: strappati, a causa degli eventi, dalla tranquillità della vita monastica, pur tormentati di non poter più vivere l’unificazione agognata, non hanno abbandonato la loro occupazione per tornare alla loro clausura.
Escrivà:
“Siamo obbligati a fare della nostra vita ordinaria una preghiera continua, perché siamo anime contemplative in mezzo a tutte le strade del mondo”.
“Dovunque stiamo, in mezzo al rumore della strada e delle occupazioni umane – in fabbrica, all’università, nelle campagne, in ufficio, in casa – ci ritroviamo in una semplice contemplazione filiale, in costante dialogo con Dio. Perché tutto – persone, cose, lavoro – ci offre l’occasione e il tema per una continua conversazione con il Signore”. “…portare a Dio tutte le cose”.
Scrive un sacerdote, autore di un bellissimo saggio sui salmi come preghiera dei laici:
“La vocazione dei laici è una vita d’acrobati: un continuo abbandonare la sbarra del trapezio per abbrancare al volo le mani di qualcuno che ci aspetta in volo. Casa, famiglia, lavoro, piatti da lavare, biancheria da stendere, nipotini da ritirare all’asilo. E’ fatta di questa pasta l’inquieta vita dei laici. […]
E’ in questa vita che la preghiera è chiamata a fiorire. Una vita che, nonostante i mille propositi teorici, rimarrà sempre una corsa contro il tempo, un donare i mille impegni e le molte preoccupazioni, che proprio non ne vogliono sapere di presentarsi in fila indiana, comandati e ligi […] e che anzi sembra proprio che lo facciano di proposito a comparire tutti insieme, in un colpo solo, e a sovvertire la buona disposizione delle cose da fare” [1].
“Lo straordinario è per noi l’ordinario: l’ordinario vissuto con perfezione. Sorridere sempre, passando sopra – anche con eleganza umana - le cose che danno fastidio: essere generosi senza taccagnerie. In una parola, fare della nostra vita normale una continua preghiera” (Escrivà).
“…senza rendercene conto, pensiamo tutto il giorno al Signore e ci sentiamo spinti a mettere Dio in tutte le cose che, senza di Lui, ci appaiono scialbe. Arriva il momento in cui non è possibile distinguere dove termina la preghiera e comincia il lavoro, perché il nostro lavoro è anche preghiera, contemplazione, vera vita mistica di unione con Dio – senza stranezze – è divinizzazione”.
“Non condividerò mai – anche se la rispetto – l’opinione di chi separa l’orazione dalla vita attiva, come se fossero incompatibili. Noi figli di Dio dobbiamo essere contemplativi: persone che, in mezzo al frastuono della folla, sanno trovare il silenzio dell’anima in dialogo permanente con il Signore; e sanno guardarlo come si guarda un Padre, come si guarda un Amico, che si ama alla follia”. “Contempla il Signore dietro ogni avvenimento, ogni circostanza, e così saprai trarre da tutti gli eventi più amore di Dio e più desiderio di corrispondere, perché Egli ci attende sempre….”.
Scoprire e cercare Dio in ogni cosa
Dio è là dove siamo noi! Chi ama Dio e lo cerca, lo cercherà in ogni luogo e in ogni attività; e sia l’attività che il riposo, tutto gli serve per trovare e gustare Dio.
Rinnovare la consapevolezza della presenza di Dio. Sapere che Lui c’è, che io sono in Lui, che il suo amore mi circonda, mi avvolge.
Il Signore Gesù è come il sole che illumina nel quale tutto ha senso.
“Non vi è altra strada, figli miei: o sappiamo trovare il Signore nella nostra vita ordinaria, o non lo troveremo mai. Per questo vi posso dire che la nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia e alle situazioni che sembrano più comuni, il loro nobile senso originario, metterle al servizio del Regno di Dio, spiritualizzarle, facendone mezzo e occasione del nostro incontro continuo con Gesù Cristo”.
“Siatene pur certi, figli miei: qualsiasi specie di evasione dalle realtà oneste di tutti i giorni significa per voi uomini e donne del mondo, il contrario della volontà di Dio”.
“No, figli miei! Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che dev'essere - nell'anima e nel corpo - santa e piena di Dio: questo Dio invisibile lo troviamo nelle cose più visibili e materiali”.
A queste testimonianze si aggiunge la voce di madre Mectilde de Bar:
“Quando svolgete un lavoro, fatelo sotto lo sguardo di Dio e per Dio, con tutta la perfezione possibile. Date gloria a Dio compiendo perfettamente ciò che vi comanda”[2].
“Tutta la perfezione del cristianesimo consiste in uno sguardo attuale a Gesù Cristo, e in un’adesione o sottomissione continua al suo beneplacito. Questi due punti racchiudono tutto, e la loro pratica fedele vi condurrà al più alto grado di perfezione. Beata l’anima che li osserva.
Il primo punto consiste nel vedere Gesù Cristo in tutte le cose, in tutti gli avvenimenti e in tutte le azioni, in modo tale che questa visione divina ci tolga la vista delle creature, di noi stesse e dei ostri interessi, per non vedere altro che Gesù Cristo. In una parola significa avere Dio attualmente presente”[3].
I frutti della contemplazione
Con la fede Dio ci dà occhi nuovi: i suoi occhi! Con la grazia dell’amore ci dà un cuore nuovo: il suo! Se accettiamo il dono e sappiamo trarne profitto, potremo guardare con i suoi occhi e vivere con il suo cuore.
Noi abbiamo ricevuto la caparra del dono della contemplazione. Se la fede e l’amore aumentano, si trasformeranno in fede che vive nell’amore e che riconosce Dio ovunque e in tutto si unisce a lui.
“Il primo grado di umiltà consiste nel porsi sempre davanti agli occhi il timor di Dio, per evitare nel modo più assoluto di vivere da smemorati”.
E’ un cammino che richiede pazienza e fortezza. Chi non progredisce, regredisce. A mano a mano che procediamo, però, vediamo Dio in ogni cosa e perciò sentiamo di essere più uniti a lui che è tutto. Saremo così in grado di offrire agli altri i frutti dei nostri doni di contemplazione. E il “polso” è il nostro agire, la nostra carità, la nostra affabilità, la nostra semplificazione nelle parole, nei gesti, persino nel nostro contegno esterno, nel nostro modo di vestire, di atteggiarci.
Pellegrinaggio in cui “veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3,18).
Che cosa è essenziale allora? Azione o contemplazione? Impegno o separazione dal mondo? Seguendo il nostro detto rabbinico: alzarsi, sedersi o camminare? La risposta è: l’uno e l’altro e l’altro ancora. L’essenziale è non uscire dallo sguardo di Dio stare alla sua presenza…l’essenziale è lasciare che tutto sia unificato dall’amore e incamminarsi decisamente in questa via. Coraggio!
[1] G. Cazzulani, Un giro di valzer con Dio. Pregare i Salmi, da laici, ed. Ancora, Milano 2006, pp. 22.23.24.
[2] Catherine Mectilde de Bar, Lettere di un’amicizia spirituale, ed. Ancora, Milano 1999, p. 121.
http://www.benedettineghiffa.org/index.php?option=com_content&view=article&id=73%3Avivere-contempl&catid=41%3Aoblazione-testi&Itemid=88&lang=it
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massimo15691 · 5 years
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il valore della parola Umanità e la contraddizione della vivisezione..
Oggi voglio parlarvi della,parola umanità partendo dalla sua definizione,dalla radice,dall:etimologia.umanitàL'insieme dei caratteri essenziali e distintivi della specie umana.Tralasciando l'umanità come l'essere umano e l'insieme degli esseri umani, concentriamoci sull'umanità come atteggiamento, come sentimento. Le parole negative sono un sacco, più di quelle positive. E tante volte dispiace vedere come una parola neutra, col tempo, possa volgersi verso significati scuri: ma non è questo il caso.. rado capita di imbattersi in parole così cruciali, dai cui sensi dipende il modo di concepire noi stessi. Dai significati che attribuiamo all'umanità, intesa come dote, come sentire, dipende l'immagine ideale che abbiamo dell'essere umano. Se questa parola indicasse meschinità, ingordigia, odio, dentro la nostra mente germinerebbe inevitabile un'idea di umano vile, senza speranza - e tale sarebbe l'idea di noi. Ma non è così. Gli umani, tanto divisi, quando sono chiamati a dire chi sono con la lingua che parlano, non hanno dubbi su che cosa l'umanità sia. L'umanità è un poderoso combinato di solidarietà, compassione, comprensione, amore, perdono, cura, gentilezza. Tanto grande da avere contorni nebulosi, ma tanto chiaro da non recare in sé la più microscopica traccia di male. Sembra un po' esagerato, non è vero? Ma è un sintomo forte rispondere alla domanda "Chi vorresti essere?" quando ti domandano "Chi sei?". Chi, secoli fa, ha iniziato ad usare questa parola in un senso così positivo, come noi, ha riconosciuto in quei sentimenti, in quegli atteggiamenti la parte migliore di sé, quella da scrivere nel curriculum, nella presentazione - quella radice che se non ci fosse lo scuro dei giorni farebbe un fusto tutto fiori.ma se la parola umanità é neutra perche non è applicabille alle specie animali?se é lo stesso UNESCO nel definire patrimonio dell'umanità la specie animale, La Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Mondiale culturale e naturale, adottata dall’UNESCO nel 1972,,perché si continua a torturare specie animali in nome della ricerca scientifica?1. Una definizione e i suoi problemi Nelle lingue neolatine, come già nel latino stesso, il termine «umanità» presenta una peculiare ambiguità: esso significa da una parte l'insieme di tutti gli uomini viventi, dall'altra la qualità morale che (in prima approssimazione) rende l'uomo degno di esser chiamato tale, cioè senza la quale egli sembrerebbe più simile nel suo cieco agire ad un animale feroce. «Disumano» significa quindi qualcosa come «spietato», «insensibile». Una delle definizioni più soddisfacenti di questo secondo significato si trova ripetutamente in Kant, il quale per altro non cade nella notata ambiguità lessicale perché può agevolmente distinguere nella lingua tedesca la Menschheit, l'«insieme degli uomini», dalla Humanität, la «qualità morale dell'uomo». Ecco come Kant si esprime nella Metafisica dei costumi: Congratulazione e compassione (sympathia moralis) sono sentimenti sensibili di piacere o dispiacere (che dunque sono da chiamare «estetici») per lo stato di benessere o dolore degli altri (sentimento comune, sensazione partecipativa), per i quali già la natura ha posto negli uomini la recettività. Tuttavia, il far uso di questi come di mezzi per promuovere la benevolenza attiva e razionale costituisce un dovere ulteriore (benché solo condizionato), che va sotto il nome di umanità (humanitas), poiché qui l'uomo viene considerato non puramente come essere razionale, ma anche come animale dotato di ragione. Questa può essere posta solo nella facoltà e volontà di essere partecipi gli uni degli altri in rapporto ai propri sentimenti (humanitas practica), oppure puramente nella recettività per il comune sentimento del benessere o del dolore (humanitas aesthetica), che la natura stessa dà. La prima cosa è libera e viene dunque chiamata partecipativa (communio sentiendi liberalis); la seconda non è libera (communio sentiendi illiberalis, servilis) e può chiamarsi comunicativa (come il calore o le malattie infettive), o anche passione comune, giacché essa si diffonde naturalmente tra uomini che vivono gli uni accanto agli altri. Solo nei confronti della prima esiste un dovere (A 129-130). Queste osservazioni di Kant si situano palesemente su un piano differente da quello puramente razionale e formale della fondazione dell'etica. Qui infatti, dove entrano in gioco le concrete determinazioni dell'agire umano, non si può prescindere dai dati sentimentali. Essi vengono considerati da Kant come una sorta di prerequisiti, offerti in dotazione dalla natura, per rendere la vita morale di fatto accessibile, anche nella sua bellezza, ad esseri umani che non sono pura razionalità. Quella che viene in particolare qui chiamata in causa è la «recettività» per quel sentimento partecipativo che ci fa sentire gioie e tristezze altrui come gioie e tristezze nostre, semplicemente in forza della comune appartenenza alla specie umana. Malgrado la terminologia leggermente diversa, sembra qui di trattarsi di uno dei quattro «concetti preliminari estetici», indicato all'inizio dell'opera come «amore per il prossimo»: essi sono preliminari perché, essendo condizioni della moralità nel suo esercizio effettivo (e non solo nella sua definizione formale), non possono essere oggetto di un imperativo, pena la caduta in contraddizione. Ecco come stanno le cose riguardo all'amore: L'amore è questione della sensazione, non del volere, e io non posso amare perché voglio, tanto meno perché devo (essere costretti all'amore): dunque il dovere di amare è un'assurdità (Unding) [...] Avere un dovere per l'amore (in quanto piacere immediatamente connesso con la rappresentazione dell'esistenza di un oggetto), cioè dover essere costretti a provarne piacere, è una contraddizione.se volete continuare la lettura leggere qui https://mondodomani.org/dialegesthai/gs02.htm
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cerchiofirenze77 · 7 years
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La giustizia e il vero bene
Mi rendo conto quanto sia difficile vedere la vita e gli avvenimenti in funzione di una giustizia che non punisce e non premia, ma realizza l'armonia dell'essere e gli permette di esprimere la sua creazione. Eppure hanno spiegato bene come funziona l'evoluzione: noi siamo creatori della nostra stessa realtà. Non c'è niente e nessuno che fa per noi e nemmeno c'è chi può farci qualcosa se noi stessi non ci siamo messi nelle coindizioni di averne bisogno.
Concetti come male o malvagio sarebbe completamente da cancellare dal nostro linguaggio. Anche la distinzione fra karma negativo e positivo, sono definizioni che riguardano la nostra percezione delle cose, non la realtà di quello che ci capita.
Con l'analisi approfondita e libera da ogni pregiudizio, ci si accorge che tutto è bene e tutto quello che ci accade, è sempre sviluppato nella tensione e nella finalità di un'armonia di noi stessi con noi stessi. Questa sta ampliando il senso dell'essere nel riconoscere gli altri, nel sentirli in forme sempre più intime, partecipative e addirittura identificative. Chiamiamolo amore, se vogliamo, ma non confondiamolo con i sentimenti umani che ne sono solo il prologo. Il karma ha questa funzione come legge che ci guida e ci aiuta a disegnare il nostro destino là dove non siamo in grado di esserne autori consapevoli. (Umberto Ridi)
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