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#soggetto sacro
fashionbooksmilano · 2 years
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Divina India    Sacred India
Itinerari d’immagini n.33
Marilia Albanese
Le fotografie sono di Emilio Garavoglia
Be-Ma Editrice, Milano 1990, 147 pagine, ill. a colori nel testo, In-16°,   ISBN 88-7343-094-8
euro 25,00
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Collana a cura di Franco Bassi, grafica di Luca Pratella
“Divina India”, Libro di stampe popolari indiane a soggetto sacro curata dalla Prof.ssa Marilia Albanese, direttore dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente. Sotto la vivacità cromatica e l’ingenuità dei segni, queste stampe nascondono capacità di comunicazione impensabili. Si trovano un po’ dovunque in tutta l’India e, nonostante le diversità locali, gli indù le sanno capire nei loro reconditi significati. Ogni personaggio divino, dalle sembianze immaginifiche, con i suoi simboli misteriosi e i suoi mitici attendenti, esprime la sua “rivelazione”, contribuendo così alla costruzione dell’immenso mosaico sacro che copre il composito continente indiano. Le stampe di questo itinerario rappresentano l’iconografia più emblematica per accostarsi al pantheon indù. In un mondo etnicamente, linguisticamente e storicamente composito come quello del sub-continente indiano, l’immagine sacra, e tutto ciò che essa evidenzia, rappresenta un veicolo di comunicazione ottimale.
14/08/22
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti 
L'ICONA E L'IMPULSO A NARRARE
L’icona è un soggetto-oggetto di devozione: non il semplice calco figurato dell’immagine divina, ma esso stesso una presenza sacra, un segno terragno espressivo dell’immateriale.  Così la si concepisce nel culto cristiano orientale e con tale connotazione essa s’impone ai fedeli di un mondo lontanissimo, tra i secoli VI e VII, qualcuno sostiene anche l’VIII secolo nel caso della Madonna Theotokòs conservata in S. Maria in Trastevere, a Roma.  La chiesa, molto antica – la prima edificazione risale al II sec. d.C. – ed arricchita nel corso dei secoli (fino al XIX) da vari interventi tanto da ospitare un’antologia di tecniche, stili e forme, presenta una pianta basilicale absidata a tre navate (le colonne, che sostengono la classica architrave dei modelli architettonici paleo-cristiani, sembrerebbero essere state prelevate dalle terme di Caracalla) costellate, quella destra e quella sinistra, di cappelle dedicate, presenti anche ai lati dell’abside: la cappella del coro, a destra, e la cappella Altemps a sinistra nella quale si trova l’icona detta anche “Madonna della Clemenza”.  Si tratta di un encausto, procedimento pittorico assai datato e tecnicamente complesso: la finalità è quella di conservare, di acquisire anche per la pittura parietale quei requisiti di resilienza tipici dell’arte musiva.  In effetti, il dipinto su parete ha mantenuto in discreta parte le caratteristiche materiali della rappresentazione consentendo di distinguere le quattro figure nimbate che lo compongono: al centro la Madonna, in ieratica frontalità, vestita ed abbigliata sfarzosamente tanto da suscitare la comparazione con la basilissa Teodora del celebre mosaico absidale di S. Vitale a Ravenna; la vergine, che appare intronizzata – si distinguono i terminali quadrangolari dei bracci del trono – regge sulle gambe il cristo bambino che ha il volto adulto tipico di una lunga tradizione iconografica, anch’egli porporato ed in posa frontale a stagliare lo sguardo sull’astante.  Le sacre figure occupano la parte avanzata della rappresentazione mentre i due angeli o i santi che le contornano ai fianchi, permangono dietro il trono, caratterizzati da una tunica chiara eppure bordata da inserti color porpora che richiamano l’abito talare di ecclesiasti di alto rango.  Sono queste figure ad introdurre nel testo pittorico un accenno narrativo (peraltro presente, talvolta, nelle raffigurazioni musive bizantine) ammiccando allo spettatore e protendendo con garbo il palmo della mano a presentare, a proteggere, a incorniciare, le sacre ed intoccabili divinità.  E sono sempre queste due figure, arretrate come sono, a costituire una sorta di piano prospettico di fondo che conferisce la sensazione visiva dell’avvento dei corpi divini della Vergine e del Cristo, a segnalare la duplice natura, a suggerire l’intuizione tutta spirituale del soprasensibile incarnato eppure capace di mantenere la purezza del sacro.
In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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icasblog222 · 2 years
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🔮 La divinazione è uno strumento di crescita personale e di aiuto al prossimo da moltissimo tempo.
Questa pratica permette di dare uno sguardo al futuro e di rendere più chiaro il presente.
È un mezzo per sperimentare il Divino che c’è dentro di noi e per portare consapevolezza nel nostro cammino.
È una comunicazione diretta con l’Universo.
I metodi divinatori ci mostrano il nostro ruolo nella creazione del nostro futuro, spronandoci a cambiare interiormente.
Ci insegna che nulla è già scritto lavorando su predizione provabili, quasi mai parla di certezze assolute.
Sono molti gli strumenti di cui l’arte divinatoria si serve:
🔮 I tarocchi sono delle carte che possiedono un significato antico, sacro e magico. Offrono una visione pratica, psicologica e spirituale aiutandovi a mettere chiarezza nelle vostre situazioni.
🔮 Il pendolo è uno strumento molto semplice perché lavora con le energie circostanti. Può essere usato per connettersi con il proprio sé superiore o con altre entità.
🔮 La chiromanzia è l’arte di saper leggere le mani riuscendo a delineare il profilo del soggetto e il suo destino in questa vita.
🔮 La tasseomanzia, ovvero la lettura dei fondi del tè ( o del caffè) , é una pratica antichissima. Ti permette di guardare al tuo futuro tramite delle forme che le foglie del tè lascia al termine della bevanda in fondo alla tazzina.
🔮 L’astrologia è basata sulla posizione dei pianeti, del Sole, della Luna e delle forze che rispettivamente rappresentano. Il tema natale mostra la posizione di ognuno descrivendone la loro influenza sul carattere del soggetto e sulla personalità, permettendoci di capire i nostri talenti, difetti e inclinazioni.
🔮 Le Rune sono un alfabeto oracolare scandinavo, ogni lettera ha un nome, un suono e un significato magico e profetico diverso.
Tramite questi strumenti potresti ricevere delle risposte a delle domande, dei consigli spirituali o un suggerimento pratico.
Ovviamente non sono gli unici, esistono molte altre pratiche divinatorie, se ti piacerebbe scoprirle o vorresti approfondirne qualcuna, fammelo sapere!
Se ti è piaciuto il post e vuoi supportarmi, lascia un like e condividilo
Grazie 🙏🏼🥰
Ig: @__ahata
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chez-mimich · 2 days
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LA CASA DEL SORDO
Assistere al capricco teatrale “La casa del sordo”, dell’Odin Teatret di Eugenio Barba è un po’ come trovare una istantanea di cinquant’anni fa in un cassetto: la si guarda con tanta nostalgia di quegli anni, ma anche con grande tenerezza. La fotografia però è sbiadita dal passare del tempo e non ha più nulla della sua originaria brillantezza. Ecco, se mi è concesso usare una metafora, sceglierei questa per descrivere cosa ho provato assistendo sabato scorso al Teatro Menotti di Milano alla rappresentazione dell’Odin su testo di Else Marie Laukvik ed Eugenio Barba. Con la rappresentazione di sabato si è chiusa una intera settimana dedicata all’Odin Teatret con presentazioni di libri, film, laboratori e conferenze dedicati ai “60 anni dell’Odin Teatret” fondato nel 1964 da Eugenio Barba a Oslo e poi trasferitosi a
Holstebro in Danimarca. Mostro sacro dell’avanguardia teatrale, si devono a Eugenio Barba, e al suo Odin, molte delle invenzioni, delle teorie, delle provocazioni del teatro di ricerca che venne poi definito “Terzo Teatro”. L’Odin fu il luogo, fisico ed ideale, dove un attore poteva “imparare ad imparare” (secondo un celebre motto del teatro); forse più che “spettacoli” l’Odin ha sempre prodotto esperienze, performance, “training”. Oggi le potremmo chiamare “residenze”, cioè un gruppo di artisti che permangono in un dato luogo e che lavorano congiuntamente su loro stessi, cimentandosi su un tema dato. L’Odin è più che altro questo, una perenne residenza artistica che ha saputo coniugare tutte le specificità della culture locali rituali, etniche, musicali dei luoghi in cui si è svolta. Lo sfondamento della “quarta parete”, a vantaggio di una circolarità dialettica tra performer e “spettatori”, l’abolizione del sipario, gli attori sempre in scena, l’utilizzo di materiali poveri o poverissimi (le “carabattole” di cui parlava in una intervista a “Scena” un giovane Eugenio Barba), sono queste le caratteristiche fortemente innovative dell’Odin, una specie di “agit-prop” declinato su grandi temi antropologici. E dopo questo “pippone” sull’avanguardia teatrale cosa resta da dire de “La casa del sordo”? Si tratta di un “pasticcio” teatrale ovvero “una specie di fantasia improvvisata che passa da un tema all’altro” come lo definì il compositore tedesco Michael Prætorius. Soggetto del “pastiche” è il pittore Francisco Goya, sordo totale dall’età di 46 anni, che si trova nella sua casa di Bordeaux dopo essere fuggito dalla Spagna, secondo il racconto che ne fa Leocadia Zorilla, dinnanzi allo stesso Goya nell’ultima notte della sua vita. Il racconto tocca gli eventi politici e culturali che hanno influenzato la vita di Goya, come l’Età della Ragione, il Romanticismo, l’Inquisizione e la Rivoluzione Francese. Un’ora abbondante di spettacolo, non riesce a convincere appieno lo spettatore che non sia passato attraverso quella indispensabile iniziazione alle avanguardie artistiche teatrali degli anni Sessanta e Settanta. Un testo, ma sopratutto una mise-en-scène, per adepti votati al sacrificio teatrale (e uso questo termine senza nessuna ironia). Il teatro come rito di evocazione non sembra più poter far parte della normale programmazione teatrale per un pubblico vasto. Occorre dire che al Teatro Menotti, Emilio Russo, direttore artistico, ha intrattenuto brevemente il pubblico su cosa stava per vedere, anzi su a cosa stava per assistere, e occorre altresì dire, che il pubblico non sembrava proprio essere capitato lì per caso e, pur tuttavia, è mancata quella ovazione finale che ci si poteva attendere, anche per la presenza in sala dello stesso Eugenio Barba.
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roma-sera-giornale · 3 months
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Bisogno di sacro
il rapporto tra religione e società è venuto via via ridefinendosi, mettendo sempre più in evidenza la tensione dialettica fra l’istituzione del credere e la libertà di scelta del soggetto.
De Ficchy Giovanni La ricerca e lo sviluppo di un “senso del sacro” ha sempre accompagnato l’uomo.  L’esperienza del sacro è da sempre presente nell’essere umano che prende coscienza del mistero insondabile, amico e nemico al contempo, della natura.  Il mondo moderno, contrariamente a quanto sarebbe accaduto nelle epoche precedenti alla nostra, non perderebbe nulla se eliminassimo Dio dalla…
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crazy-so-na-sega · 3 months
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Il gusto di approfondire. Di andare oltre i confini disciplinari. Solo per curiosità, per ampliare le conoscenze, solo per il desiderio di sapere fine a se stesso, senza ritorno. Oggi quasi tutto si fa per un fine: un voto, un esame, un concorso, un titolo. È la morte del sapere.
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-Il Rabdomante
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Ogni tentativo di ripensare le nostre categorie politiche deve muovere dalla consapevolezza che della distinzione classica fra zoé e bios, tra vita naturale ed esistenza politica (o tra l’uomo come semplice vivente e l’uomo come soggetto politico), non ne sappiamo piú nulla. Nel diritto romano arcaico homo sacer era un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che non doveva però essere messo a morte nelle forme prescritte dal rito. È la vita uccidibile e insacrificabile dell’«uomo sacro» a fornire qui la chiave per una rilettura critica della nostra tradizione politica. Quando la vita diventa la posta in gioco della politica e questa si trasforma in biopolitica, tutte le categorie fondamentali della nostra riflessione, dai diritti dell’uomo alla democrazia alla cittadinanza, entrano in un processo di svuotamento e di dislocazione il cui risultato sta oggi davanti ai nostri occhi. Seguendo il filo del rapporto costitutivo fra nuda vita e potere sovrano, da Aristotele ad Auschwitz, dall’Habeas corpus alle Dichiarazioni dei diritti, il libro di Agamben cerca di decifrare gli enigmi – prima di tutti il fascismo e il nazismo – che il nostro secolo ha proposto alla ragione storica. Fino a vedere, nel campo di concentramento, il paradigma biopolitico nascosto della modernità in cui città e casa sono diventate indiscernibili e la possibilità di distinguere tra il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico ci è stata tolta una volta per tutte.
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jacopocioni · 7 months
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Le curiosità dei fiorentini, sesta triade
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La sesta triade delle domande dei fiorentini curiosi. Dopo le ferie estive si ricomincia con le pubblicazioni. Domanda di Laura: Mi piacerebbe rivedere una foto del vecchio ponte di Melegnano. Sono nata nel 1950 e lo attraversavo coi miei genitori e fratellini perché abitavamo in via lungo le mura di Santarosa 3. Ricordo che ogni volta avevo paura a passarci sopra perché’ lungo il camminamento di ferro c’erano delle spaccature che a me piccola sembravano enormi …chissà se voi avete ancora le foto di quel vecchio ponte. Fotografie fornite da Patrick Sansom:
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Fotografia e disamina fornita da Maurizio Ferrini:
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Credo possa essere interessante anche questa foto del Ponte di Melegnano. Viene dall'archivio personale di Emanuela Currini, la mia compagna, che ne autorizza la diffusione. Ritrae in primo piano Emanuela nelle braccia di suo padre Mario Currini. Siamo nei primi anni '50. Quanto alla paura di un bambino che passava su uno di quei ponti (era la stessa cosa per Carraia o Santa Trinita) anche io ho ricordi nitidi. Non si trattava di "spaccature". La struttura portante del ponte era fatta a losanghe, è facile immaginare per motivi di solidità. Quando si passava a piedi vicino al punto della diagonale verticale ci si trovava davanti ad uno spazio aperto che un bambino avrebbe potuto attraversare senza nemmeno chinare la testa. La sicurezza era data dalla forte stretta della mano del genitore ma vedere il pelo dell'acqua sotto ai propri piedi faceva veramente impressione. Domanda di Lucia: Personalmente ero a conoscenza dell’esistenza degli “8 di Balia”, banda di intransigenti che circolavano per Firenze a cogliere in fallo uomini, donne e bambini, quest’ultimi perchè magari giocavano nei pressi di una chiesa ed offendevano pertanto la religione. C’è da dire, a questo proposito, che i ragazzi dell’epoca che abitavano in città non sapevano mai dove andare a giocare perchè a quei tempi esistevano tantissime chiese e sicuramente perdevano più tempo a cercare un posto per giocare in santa pace che a giocare veramente. Comunque il mio commento è per un’altra cosa: cioè ad un certo punto ho letto nell’articolo “10 di balia” e vi chiedo è un errore oppure hanno messo addirittura 10 persone a fare i “cani da guardia”? In riferimento a questo articolo: Famiglia Castellani Risposta di Alberto Chiarugi: Buon giorno. I Signori Otto di Guardia e Balia, erano i poliziotti dell’epoca. Il popolo li chiamava “birri” i modo spregiativo. Risedevano nel Palazzo del Bargello comandati da un Sergente, agli ordini del Podestà. Dovevano mantenere l’ordine, controllare la moralità. Per quanto riguarda i “bandi di pietra apposti sui palazzi signorili o sui muri delle chiese e dei conventi, a salvaguardia del luogo sacro e il riposo dei signori. C’erano scritte per i trasgressori: multe, tratti di corda e la minaccia del libero arbitrio. Significava che il malcapitato caduto in fallo, era soggetto alle punizioni più severe. I ragazzi, non potevano giocare a palla e pallottole per non disturbare. C’era in voga di giocare al Calcio ovunque, chiudendo le strade con panche, sedie e altro. Molte volte il pallone, nella foga del gioco, veniva scagliato nelle botteghe degli artigiani facendo danni. I Dieci di Balia venivano scelti in tempo di guerra. Domanda di Enrica: da Pontassieve, come faccio x sapere di più sulla storia di San Salvi? C’è un libro che mi possa dare maggiori informazioni? Grazie. Risposta di Gabriella Bazzani: San Salvi - Storia di un manicomio di Donatella Lippi Chiunque desideri porre una domanda può leggere qui: https://www.florencecity.it/le-curiosita-dei-fiorentini-fate-le-vostre-domande/ Read the full article
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libroazzurro · 8 months
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È PIÙ SACRO VEDERE CHE CREDERE - FARE POLITICA
Pan ci insuffla nel sangue grave agitazione, ed esaltazione, e, misto alla meraviglia, dolore. Tutto è così vero, e vivo, e noi vi apparteniamo, e ci appartiene. Quando Pan si manifesta, un brivido sale lungo la schiena, e quel sentimento in cui terrore e gioia sono tutt’uno, ci rende improvvisamente vivi nel solo modo in cui lo si è: nella relazione di ogni oggetto con l'altro, ognuno all'altro graziosamente soggetto. Su questo sentimento che fa tremare, secondo Platone, si fonda la città; e, infatti, Pan, quando ci libera dalle nostre mediocri volizioni nell'angoscia, ci rivela cosa fare. "Dovete solo fare politica", ci dice Pan.  
Nell’immagine, “Pan e Dafni”, gruppo scultoreo in marmo di età tardo imperiale (I-II sec. d. C.) copia di un originale ascrivibile al tardo ellenismo, conservato presso Le Gallerie degli Uffizi di Firenze (Foto © Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli Uffizi, concessa con licenza CC BY-NC 2.0 IT).
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.
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amicidomenicani · 11 months
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Quesito Sono nuovamente a lei: come mai il diacono che non ha ricevuto il sacramento dell'Ordine non può rimettere i peccati in confessione, mentre può rimetterli, quasi per assurdo, nel sacramento del Battesimo… amministrato agli adulti? Grazie, Maria  Risposta del sacerdote Cara Maria, 1. vanno fatte due precisazioni: innanzitutto il diacono ha ricevuto l'Ordine sacro secondo il suo grado proprio. La seconda, non soltanto i diaconi, ma tutti, anche i non battezzati, in caso di necessità possono amministrare il battesimo. E con questo vengono rimessi i peccati. 2. La tua domanda, tuttavia, è pertinente perché chiedi come mai alcune persone, anzi, tutti possano rimettere i peccati amministrando il battesimo e non possano rimetterli nel sacramento della confessione. 3. È vero che ambedue i sacramenti rimettono i peccati. Ma il modo è diverso. E lo sta a dimostrare il fatto che possono ricevere il sacramento della penitenza solo coloro che sono stati battezzati. Cristo infatti ha istituito questo sacramento a modo di giudizio dicendo: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,23). Ora la Chiesa può pronunciare un giudizio solo su coloro che le appartengono, e cioè solo sui battezzati. Chi invece non è ancora battezzato non appartiene alla Chiesa. Per questo non è richiesta la confessione sacramentale prima di ricevere il battesimo. 4. Poiché il battesimo è strettamente necessario per la salvezza, Cristo istituito per questo sacramento la materia più comune, l'acqua. Ugualmente ha determinato nei casi di necessità il ministro più comune: qualsiasi persona, anche non battezzata, purché battezzi secondo l'intenzione della forma stabilita dalla Chiesa. 5. Ma c'è anche un'altra motivazione portata da San Tommaso. Il nostro dottore angelico ricorda che i sacramenti sono ordinati alla santificazione. Per attuare tale santificazione talvolta è necessaria una materia santificata e un ministro sacro, come nel caso della cresima (cfr. Somma teologica, Supplemento 18,1). In questo sacramento la materia santificata è il sacro crisma benedetto dal vescovo. Il ministro santificato è il vescovo o comunque un sacerdote che viene santificato per mezzo dell'ordine sacro. 6. “Altre volte per il sacramento si richiede solo la santificazione della materia, come nel battesimo, poiché essa non ha un ministro determinato nei casi di necessità: e allora tutta la virtù o l'efficacia sacramentale risiede nella materia” (Ib.). La materia consiste nell'acqua versata sul battezzando pronunciando le parole determinate da Cristo. 7. Per cui il battesimo amministrato in caso di necessità da un islamico, che abbia l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, ha la medesima efficacia del battesimo amministrato dal Papa. L'efficacia non dipende infatti dal ministro, ma dall'acqua accompagnata dalla parola. 8. Questo viene reso ancor più evidente dal fatto che possono ricevere il battesimo sia gli adulti, sia i bambini, sia coloro che sono privi di all'uso di ragione. Inoltre il battesimo, come tu giustamente osservi, elimina ogni colpa (peccato) e ogni pena. 9. “Altre volte infine per il sacramento è indispensabile la consacrazione o santificazione del ministro, senza nessuna santificazione della materia: e allora tutta la virtù del sacramento risiede nel ministro, come avviene appunto nella penitenza. Perciò il potere delle chiavi che risiede nel sacerdote sta all'effetto del sacramento della penitenza come la virtù che risiede nell'acqua del battesimo sta all'effetto del battesimo” (Ib.). In questo sacramento il sacerdote agisce in persona Christi perché è santificato da Cristo sia per mezzo dell'ordine sacro sia per il potere che Cristo gli ha dato di rimettere i peccati. Qui il ministro ha il potere di eliminare ogni colpa, ma non ogni pena perché questa è misurata anche dalle disposizioni del soggetto. 10. Pertanto il sacerdote, agend
o in persona Christi, rimette i peccati. Il laico o il diacono che amministra il sacramento del battesimo, più che rimettere i peccati, fa sì che mediante il sacramento vengano rimessi peccati a colui che viene battezzato. Ti benedico, ti auguro ogni bene e ti ricordo nella preghiera. Padre Angelo
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Che cosa porta molte persone a credere che la bibbia, un 'testo sacro', contenga delle verità? L'indottrinamento religioso imposto fin da bambini, che, pur in presenza di dati reali, di conoscenze scientifiche, non permette ad un soggetto di perdere la superstizione maturata.
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personal-reporter · 1 year
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Venezia nel Settecento a Torino
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Dal 20 aprile al 3 settembre 2023, a quasi un secolo, dalla prima esposizione dedicata alla Venezia del Settecento, a cui Pietro Accorsi diede un forte contributo, la Fondazione Accorsi-Ometto di Torino renderà omaggio al mito della Serenissima con una mostra, curata da Laura Facchin, che intende raccontare la vita della città lagunare nell’ultimo periodo della sua storia, delineandone la società e mostrandone gli aspetti più affascinanti. La produzione artistica veneziana del XVIII secolo è una delle più ricche, variegate e qualificate del panorama europeo, dove ai margini della politica internazionale e della grande economia, la città puntò  sull’aura del suo primato nelle arti visive e musicali e su una  strategia di immagine che ne fecero una delle mete più ambite e predilette del Grand Tour internazionale. Venezia era  un punto di riferimento per l’Europa intera, in grado di attrarre non solo nobili aristocratici in cerca di svago, ma anche avventurieri, fuoriusciti politici e personaggi del mondo dello spettacolo bramosi di notorietà, con l’ebanisteria, i tessuti, i merletti di Burano e i vetri di Murano contraddistinti dall’alta qualità delle materie prime e dalla finezza della lavorazione. La città contava  ben diciassette teatri, oltre a sale da concerto e  locali pubblici e privati, ove si esibiva l’orchestra tutta femminile diretta da Antonio Vivaldi, uno dei più originali compositori del Settecento. Nel 1797, in seguito agli accordi di Campoformio, si concluse la millenaria storia della Serenissima Repubblica di San Marco dopo che Napoleone, cedendo la città e buona parte dei territori di terraferma all’Austria, ne segnò la fine. La mostra è articolata in otto aree tematiche che si sviluppano, oltre che negli spazi espositivi del Museo, anche in un percorso lungo le sale dedicate alla collezione permanente. Nella prima l’immagine di Venezia che i turisti del Grand Tour diffusero è restituita attraverso una serie di vedute realizzate sia dai grandi nomi della tradizione veneziana, da Luca Carlevarjis a Michele Marieschi, sia dagli artisti europei che soggiornarono nella Serenissima. Una serie di tele a soggetto mitologico e sacro evoca la lunga stagione che, dalla fine del Seicento, vide numerosi artisti di origine veneziana, come Giambattista Tiepolo, impegnati nella grande decorazione di luoghi di culto e, soprattutto, di residenze principesche in tutta Europa. Nel calendario dei viaggiatori del XVIII secolo, Venezia era da vedere in diversi momenti dell’anno: dal Carnevale, in febbraio, denso di feste e spettacoli, all’altrettanto emozionante e sontuosa festa della Sensa, con il rito dello Sposalizio del Mare, che aveva luogo il giovedì dopo la quinta domenica di Pasqua, senza dimenticare le celebrazioni per la festa del patrono San Marco. Momenti cardine della socialità cittadina furono spesso illustrati in dipinti, come quelli qui esposti, All’opposto, le vedute di interni, ideate dai Longhi, riflettono una sensibilità tipica che ricerca una dimensione più intima e privata dell’abitare. mobili e oggetti d’arte a Venezia nel Settecento. Gli itinerari sulla Laguna vedevano, spesso, la partecipazione ad intrattenimenti musicali: dalle esecuzioni, tipiche della tradizione veneziana, che si svolgevano presso gli istituti assistenziali dove giovani orfane si esibivano in spettacoli canori graditi all’aristocrazia e ai numerosi viaggiatori, alle accademie  musicali organizzate nelle dimore del patriziato veneziano. La presenza della comunità ebraica a Venezia, che risaliva al X secolo, ebbe il suo culmine nel corso del Seicento, con importanti testimonianze di quelle arti del lusso che caratterizzarono l’immagine internazionale della Serenissima e che sono rappresentate in mostra da una serie di preziosi argenti. A seguito degli esiti della guerra di Candia, dopo la metà del XVII secolo, il patriziato veneziano cominciò a realizzare il declino politico e finanziario della Serenissima Repubblica di Venezia, che proseguì lungo il XVIII secolo, mitigato, nel fronte economico, dall’indotto del Grand Tour e dal mantenuto prestigio internazionale in ambito culturale e artistico. Il mito di Venezia, tuttavia, non fu dimenticato e venne  ripreso, nel tempo, da innumerevoli artisti come Giorgio de Chirico che, con le sue due vedute di Venezia, conclude la mostra. Read the full article
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti 
L'ICONA E L'IMPULSO A NARRARE
L’icona è un soggetto-oggetto di devozione: non il semplice calco figurato dell’immagine divina, ma esso stesso una presenza sacra, un segno terragno espressivo dell’immateriale.  Così la si concepisce nel culto cristiano orientale e con tale connotazione essa s’impone ai fedeli di un mondo lontanissimo, tra i secoli VI e VII, qualcuno sostiene anche l’VIII secolo nel caso della Madonna Theotokòs conservata in S. Maria in Trastevere, a Roma.  La chiesa, molto antica – la prima edificazione risale al II sec. d.C. – ed arricchita nel corso dei secoli (fino al XIX) da vari interventi tanto da ospitare un’antologia di tecniche, stili e forme, presenta una pianta basilicale absidata a tre navate (le colonne, che sostengono la classica architrave dei modelli architettonici paleo-cristiani, sembrerebbero essere state prelevate dalle terme di Caracalla) costellate, quella destra e quella sinistra, di cappelle dedicate, presenti anche ai lati dell’abside: la cappella del coro, a destra, e la cappella Altemps a sinistra nella quale si trova l’icona detta anche “Madonna della Clemenza”.  Si tratta di un encausto, procedimento pittorico assai datato e tecnicamente complesso: la finalità è quella di conservare, di acquisire anche per la pittura parietale quei requisiti di resilienza tipici dell’arte musiva.  In effetti, il dipinto su parete ha mantenuto in discreta parte le caratteristiche materiali della rappresentazione consentendo di distinguere le quattro figure nimbate che lo compongono: al centro la Madonna, in ieratica frontalità, vestita ed abbigliata sfarzosamente tanto da suscitare la comparazione con la basilissa Teodora del celebre mosaico absidale di S. Vitale a Ravenna; la vergine, che appare intronizzata – si distinguono i terminali quadrangolari dei bracci del trono – regge sulle gambe il cristo bambino che ha il volto adulto tipico di una lunga tradizione iconografica, anch’egli porporato ed in posa frontale a stagliare lo sguardo sull’astante.  Le sacre figure occupano la parte avanzata della rappresentazione mentre i due angeli o i santi che le contornano ai fianchi, permangono dietro il trono, caratterizzati da una tunica chiara eppure bordata da inserti color porpora che richiamano l’abito talare di ecclesiasti di alto rango.  Sono queste figure ad introdurre nel testo pittorico un accenno narrativo (peraltro presente, talvolta, nelle raffigurazioni musive bizantine) ammiccando allo spettatore e protendendo con garbo il palmo della mano a presentare, a proteggere, a incorniciare, le sacre ed intoccabili divinità.  E sono sempre queste due figure, arretrate come sono, a costituire una sorta di piano prospettico di fondo che conferisce la sensazione visiva dell’avvento dei corpi divini della Vergine e del Cristo, a segnalare la duplice natura, a suggerire l’intuizione tutta spirituale del soprasensibile incarnato eppure capace di mantenere la purezza del sacro.
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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           UOMINI ILLUSTRI DEL SUD
"PIETRO DA MORRONE - CELESTINO V, PAPA"
                   [Parte Seconda]
«Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis, infirmitate
personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem; sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et Dignitati, oneri, et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore.»
(«Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe [di questa plebe], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale» Celestino V - Bolla pontificia, Napoli, 13 dicembre 1294 tratta da Wikipedia).
La bolla pontificia, pare fosse stata compilata proprio dal cardinale Caetani, il quale, vista l'impossibilità di controllare il Papa come aveva auspicato e visto che Carlo d'Angiò lo aveva praticamente sequestrato, intravedeva in questo “abbandono” la possibilità di ascendere egli stesso al soglio pontificio con veva aderito all'elezione di Pietro da Morrone.
Dopo appena undici giorni le dimissioni, il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo papa nella persona del cardinale Benedetto Caetani, di Anagni. Aveva 64 anni ed assunse il nome di Bonifacio VIII.
Caetani, temendo uno scisma da parte dei cardinali filo-francesi fedeli a Carlo e Celestino, ordinò subito che l’ex papa fosse messo sotto controllo, per evitare un rapimento da parte dei suoi nemici e la proclamazione di un antipapa. Celestino, informato della decisione del nuovo papa dai cardinali a lui fedeli, tentò la fuga verso oriente per raggiungere la sua cella sul Morrone e poi Vieste sul Gargano e da qui imbarcarsi per la Grecia, ma il 16 maggio 1295 fu catturato presso Santa Maria di Merino da Guglielmo Stendardo II, connestabile del regno di Napoli, figlio del celebre Guglielmo Stendardo detto "Uomo di Sangue" [6].
Catturato, fu condotto alla rocca di Fumone, in Ciociaria, territorio dei Caetani e ivi rinchiuso; qui il vecchio Pietro, quasi novantenne, morì il 19 maggio 1296 [7]. La versione ufficiale sostiene che Pietro sia morto dopo aver recitato, stanchissimo, l'ultima messa. La teoria secondo la quale Bonifacio ne avrebbe ordinato l'assassinio, secondo noi, è priva di fondamento, anche se, di fatto il Papa ne ordinò l'arresto che causò la morte. Considerato il carattere di Pietro, l’età e la stretta sorveglianza cui era soggetto non ce ne sarebbe stato motivo. Il "foro" che si vede nel cranio potrebbe essere la conseguenza di un ascesso di sangue[8]. Bonifacio portò il lutto per la morte del predecessore e celebrò una messa pubblica in suffragio per la sua anima dando inizio, poco dopo, al processo di canonizzazione.
Fu sepolto nei pressi di Ferentino, nella chiesa di Sant'Antonio sita nell'abbazia celestina che dipendeva dalla casa madre di Santo Spirito del Morrone. Nel febbraio 1317, le spoglie furono traslate a L'Aquila, nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove era stato incoronato Papa. Sulla data e sulle modalità di traslazione delle spoglie vi sono tuttavia diverse versioni.
Il 5 maggio 1313, fu canonizzato da papa Clemente V, a seguito di sollecitazione da parte del re di Francia Filippo il Bello e per acclamazione popolare, accelerando moltissimo l'iter avviato da Bonifacio.
Le tribolazioni di Pietro da Morrone riprendono nel XX secolo. Il 18 aprile 1988 la salma di Celestino V fu rubata e venne ritrovata, dopo due giorni, nel cimitero di Rocca Passa, nel comune di Amatrice. Non si sono mai scoperti né i mandanti né gli esecutori. In seguito al terremoto dell'Aquila del 2009, il crollo della volta della basilica ha provocato il seppellimento della teca con le spoglie, recuperate poi dai Vigili del Fuoco, dalla Protezione Civile e dalla Guardia di Finanza.
Al di là di queste vicende rimane tuttavia l'atto di coraggio di Celestino, che rifiutò di servire la "chiesa politica", anche perché la figura di umile e sprovveduto frate di provincia che ci viene tramandata non corrisponde a realtà: Pietro da Morrone fondò un proprio ordine, guidò monasteri, fece costruire abbazie. Il motivo vero della rinuncia è dunque riconducibile alla sua limpida condotta morale, alla volontà di non essere un servo del potere politico e al riconoscere, egli stesso, la sua incapacità di opporsi a tale organizzazione. Forse è questa la ragione per la quale questo papa viene ancora oggi ricordato con ammirazione e a titolo d'esempio.
NOTE
[1] Dante narra di "colui che fece per viltade il gran rifiuto" (Inf. III, 58-60). Il personaggio, volutamente ignoto, venne identificato in Celestino V, ma ci sono diversi studiosi che propongono ipotesi diverse. Dante, che sceglieva nel modo più preciso possibile le parole, scrive di un "rifiuto" mentre quella di celestino fu una "rinuncia" che è cosa ben diversa. Inoltre Dante era profondamente religioso e non avrebbe mai posto all'inferno un santo (il poema venne pubblicato nel 1319, sei anni dopo la santificazione di Celestino). Alcuni studiosi avallano l’ipotesi che Dante si riferisca al cardinale Matteo Rosso Orsini. Quest'ultimo, dopo la rinuncia di Celestino, era stato eletto papa al primo scrutinio dal Conclave ma rifiutò l'elezione per poi sostenere la candidatura del futuro papa Bonifacio VIII. Se avesse accettato il papato avrebbe dovuto mettersi al di sopra delle parti, mentre, con l'elezione dell'amico Caetani, riuscì a far espellere l’odiata famiglia dei Colonna, sequestrandone i beni e privandola dei titoli.
[2] Era una sorta di Padre Pio ante litteram!
[3] E’ bene ricordare che il Regno di Sicilia, che divenne duplice solo dopo la guerra del Vespro, era e rimase, nella parte continentale, un feudo del Papa, che ne concedeva o avallava di volta in volta il possesso e lo sfruttamento ad un suo vassallo. Questo stato di fatto, questo “contratto” era ogni anno rinnovato con la cerimonia della “Chinea”.
[4] Da non confondere con Carlo detto Martello (circa 685 – Quierzy-sur-Oise, 22 ottobre 741) figlio di Pipino d’Héristal ed eroe della battaglia di Poitiers nell’ottobre del 732.
[5] Celestino V istituì a Collemaggio un prototipo del Giubileo, successivamente copiato dal suo successore Bonifacio VIII.
[6] Guglielmo Stendardo (Guillaume Étendard, sceso in Italia a seguito di Carlo I d’Angiò) nel 1268, mentre Carlo I d'Angiò si trovava a Lucera, fu mandato ad arginare una parte dell'esercito di Corradino di Svevia che era sbarcato in Sicilia al comando di Corrado Capece. Stendardo vinse e si segnalò per le atrocità commesse, in particolare ad Augusta e a Centuripe, dove la popolazione fu massacrata: allo stesso Capece, prima di essere impiccato ed esposto sulla spiaggia di Catania, furono cavati gli occhi. Per la crudeltà mostrata in Sicilia, fu detto uomo di sangue. È sepolto nella Basilica di San Lorenzo Maggiore di Napoli. ( http://it.wikipedia.org/ )
[7] Eliminato un potenziale antipapa, il primo atto politico cui Bonifacio dovette adempiere fu la risoluzione della controversia che si protraeva dall'epoca dei "vespri siciliani", cioè dal 1282, tra gli angioini e gli aragonesi per il possesso della Sicilia. A Napoli governava Carlo II d'Angiò e in Sicilia Federico d'Aragona. Il 12 giugno del 1295, spinto dal Papa, che parteggiava per l'angioino avendolo questi aiutato nella cattura del Morrone, Giacomo II sottoscrisse il Trattato di Anagni con il quale rinunciava ad ogni diritto sulla Sicilia a favore del Papa. Mentre questi, a sua volta, li trasferiva a Carlo d'Angiò. Ma la Sicilia si ribellò, preferendo come re il suo governatore Federico d'Aragona e non l'angioino. Il Papa fu costretto ad acconsentire e incoronò Federico nella cattedrale di Palermo il 25 marzo 1296. Questa incoronazione fu la prima amara sconfitta per papa Bonifacio. Questa sconfitta sarà sanzionata successivamente e definitivamente con la Pace di Caltabellotta, stipulata nel 1303 tra Roberto d'Angiò, figlio di Carlo II, e Federico. L'accordo prevedeva la distinzione politica fra il Regno di Sicilia, in mano agli angioini e limitato alla parte continentale del meridione d'Italia, ed il Regno di Trinacria, costituito dalla Sicilia e dalle isole adiacenti, con Federico III d'Aragona come re indipendente e assoluto.
[8] La Santa Sede non consente di divulgare i risultati delle analisi condotte su spoglie di Santi. E’ uno Stato sovrano: può farlo.
BIBLIOGRAFIA
María Burani, Celestino V. Papa, ermitaño y santo, Pueblo Nuevo. 1993.
Paolo Golinelli, Celestino V. El papa campesino, Mursia, Milán, 2006
Ignazio Silone, La aventura de un cristiano pobre, Mondadori, Milán
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pevons · 1 year
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“Ave Regina Cælorum”, tecnica mista su tela, cm. 40 x 50; verniciato, firmato, con timbro e certificato d’autenticità www.claudiopavone.it «“Ave Regina Cælorum” è l’espressione latina che denomina una delle quattro antifone mariane con le quali la Chiesa Cattolica onora e invoca Maria. A ciò si ispira ispira questa rara e pregiata opera. Il soggetto, come è evidente, raffigura la Madre di Dio col Bambino, in una rappresentazione molto toccante. Compaiono diverse scritte, in latino: il testo dell’antifona stessa, divisa in due blocchetti di testo, e i Titoli dei due Santi Personaggi dipinti. L’esecuzione, a tecnica mista, è particolarmente minuziosa ed accurata, realizzata “col pennello fine”, proprio come si addice al sacro soggetto. Un invito dunque “di alta qualità” alla devozione e alla preghiera. Un invito potente alla speranza!” (G.Y.H.T.) L’opera è pronta da appendere ed è dotata di un dispositivo realizzato dall’autore per rendere invisibile l’attaccaglia #cernuscosulnaviglio #artistcoachingitalia #arteastrattacontemporanea #arteastrattamoderna #pitturasacra #sacro #artereligiosa #pitturasacra #artereligiosa #artesacra #pitturasacracontemporanea #pitturasacra #pitturasacramoderna #pittoriitalianicontemporanei #natale #pittori_uniti_italia #abstractart #abstractpainting #abstract #landscape #paesaggio #garden #Comune_Cernusco_sul_Naviglio #comunedicernuscosulnaviglio #artcollector  #artcollectors #artcollectorsofig #collezionistiartecontemporanea #collezionistiartemoderna (presso Cernusco sul Naviglio) https://www.instagram.com/p/Cmt2VajjLYc/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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iltrombadore · 1 year
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Mastro Gisberto, il pittore più toscano della Scuola Romana 
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A tener viva la memoria del 'maestro Gisberto', caro amico di mio nonno Francesco, mi resta un suo disegno e il libriccino Hoepli del 1935 in cui il poeta Libero De Libero lo presenta tra gli artefici della nuova pittura italiana seguita al 'Novecento' e maturata a Roma nell'ambiente dei 'Valori Plastici'. Gisberto Ceracchini (1899-1982) era venuto giovanissimo a Roma, qui si era formato alla scuola postimpressionista di Armando Spadini, ma aveva presto assunto una maniera tutta sua, autodidatta toscanissimo com' era di Foiano della Chiana, testimone delle pareti a fresco o dei trittici di legno in tante chiese dove si esercitarono le virtù plastiche da Duccio a Piero e tutti gli altri...
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Questa fonte d'ispirazione fu il tratto distintivo di uno stile: linguaggio da primitivo, volumi squadrati e spesso monumentali, segno inciso dai contorni netti, richiamo a modelli lineari del primo '400, o anche giotto-masacceschi, che dà forma a sentimenti semplici e sinceri, elementari e anacronistici.
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Ceracchini, come mio nonno Francesco, viveva in Villa Strohl-fern, dove accatastava tele su tele a soggetto sacro, dopo che, negli anni Trenta, la sua vena narrativa si era precisata in visioni di vita e intimità domestica del mondo contadino da cui proveniva (era figlio di una agiata famiglia di campagna).Il paesaggio, anziché ritratto naturalisticamente, appare filtrato dalla memoria, investito da un'atmosfera di magica sospensione.
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Invitato alle principali mostre del Novecento (1926 e 1929) Gisberto Ceracchini ebbe il culmine di notorietà negli anni Trenta per poi avere nel dopoguerra un ripiegamento e subire oblìo per essere stato egli fin troppo legato al 'novecentismo' cui per partito preso si opposero i nuovi venuti del secondo dopoguerra. Io ne avevo fin da ragazzo una sincera stima e quasi venerazione, quando, di rado, mi capitava di sbirciare nel suo studioi a lucernario dove comparivano grandi figure 'sironiane' stese a pasta densa e poggiate su cavalletti o sostegni di fortuna.
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Ceracchini era sempre sorridente, di poche parole. Come mio nonno, sostava in Piazza del Popolo assieme agli amici artisti, quando si distaccava dall'eremo dello studio. Si ritirò anziano a vivere sul lago di Bolsena e vi morì nel 1982. Oltre a De Libero, di lui scrissero Roberto Longhi, Margherita Sarfatti, Francesco Trombadori, Giovanni Scheiwiller, Sandro Volta.
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chez-mimich · 2 years
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ROBERTO CALASSO: “SOTTO GLI OCCHI DELL’AGNELLO”
Qual è davvero il ruolo dell’Agnello nelle Sacre scritture? Per mano di chi e per volontà di chi è stato ucciso? E perché? Nessuno ha mai saputo rispondere a queste domande e anche pochi se le sono poste. Non ci è riuscito nemmeno Roberto Calasso, nel suo “Sotto gli occhi dell’Agnello”, uscito qualche mese fa da Adelphi. Se era ovvio non aspettarsi una risposta, era ancor più ovvio che, a porsela (finalmente), fosse uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento. Nelle intenzionalità del volumetto vi è forse la ricerca di qualche legame con un altro importante (ed imponente) volume di Calasso, “Il cacciatore celeste” del 2016, dove si ipotizza essere la caccia (divina od umana) la causa ancestrale di tutte le umane disgrazie. In “Sotto gli occhi dell’agnello”, come spesso accade, Calasso prende spunto da una enigmatica e sconvolgente opera d’arte per argomentare sul tema. L’opera è il celeberrimo “Polittico di Gand” di Van Eyck, dove lo sguardo fisso, ipnotico e privo di espressione dell’agnello, il foro sul petto dell’animale, dal quale sgorga un fitto e regolare flusso di sangue, suggeriscono ipotesi e insinuano dubbi nel grande studioso. Se Gesù viene ucciso per mano degli uomini, nessuno sa chi uccide l’Agnello. Anche nel libro dell’Apocalisse, l’Agnello sembra essere una figura inavvicinabile e sopravvive, come figura simbolica, anche all’Apocalisse stessa. Una figura trionfante quindi che proprio Jahvè volle come vittima, “altrimenti la macchina del mondo non si sarebbe messa in moto”. Mentre Gesù venne ucciso dopo una lunga vicenda, tutta nella Storia umana, narrata nell’Antico e nel Nuovo Testamento, l’Agnello viene ucciso al principio di tutto e aspetta la sua sposa, quella Gerusalemme Celeste che nessuno ha mai visto. Solo l’uccisione di un mondo può mettere alla luce un mondo nuovo. Per secoli nessun artista osò raffigurare l’Agnello, proprio per questa sua icasticità concettuale e nemmeno, dopo il “Polittico di Gand”, nessun altro artista si cimentò nell’impresa. Gesù non ha successori, mentre l’Agnello continua a dominare la storia sacra (e del Sacro); forse un altro Paracleto, è ciò di cui necessita il mondo e forse il Paracleto, avvocato del mondo, è il soggetto cui si riferisce il libro dell’Apocalisse: “Tu sei degno di ricevere il libro e di aprire i sigilli, poiché sei stato ucciso e hai riscattato Dio con il tuo sangue”. Se così fosse, secondo l’ipotesi suggerita da Calasso, non solo tutta la Cristologia, ma persino tutta la dottrina della Chiesa ne uscirebbe sconvolta. Certo, quella di Calasso, potrebbe essere solo una provocazione (lontana anni luce da quelle un po’ pecorecce alla Dan Brown per intenderci), ma pur sempre una provocazione, benché eruditissima ed appena suggerita. “Sotto gli occhi dell’Agnello” è la dodicesima opera sulla ricostruzione del Sacro che Roberto Calasso aveva intrapreso nel 1983, con l’indimenticabile “La rovina di Kasch”, un percorso dal fascino assoluto e dalla enigmaticità tangibile, con teorie nutrite dal dubbio eppure così straordinariamente credibili e possibili. Anche da morto (ma sarà morto veramente?), Calasso continua a far sentire la sua incorporea presenza…
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