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#un disco un brano
diceriadelluntore · 4 days
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Storia Di Musica #322 - Spoon, Kill The Moonlight, 2002
Alla cabina del mixer di The Stage Names dei Okkervil River c'era un ragazzo musicista, un batterista per la precisione: Jim Eno. Che all'uscita di quel disco era una sorta di celebrità della musica indie per via del gruppo che aveva fondato, circa dieci anni prima, con il cantante e chitarrista Britt Daniel. Ad Austin infatti agli inzi degli anni '90 fondano un gruppo che prende nome da una canzone dei leggendari Can, il famoso gruppo tedesco della Kosmik Music degli anni '70, che si chiama Spoon (da quel disco meraviglioso che fu Ege Bamyasi del 1972) e che faceva parte della colonna sonora di un film amato dai due ragazzi, Doppio Taglio (Jagged Edge), del 1985. Nel 1994 come duo con musicisti sessionisti incidono le prime canzoni: vanno in un EP, Nefarious (1994) e poi, assodati dalla etichetta Matador, in un LP, del 1996, Telephono, che vende poco ma viene notato da una certa critica come qualcosa di molto interessante. Nel 1997 un nuovo EP, Soft Effects, mostra l'embrione della loro musica futura: poco noisy, una musica geometrica che si rifà alla New Wave più illuminate (i Wire soprattutto) e una passione, soprattutto di Daniel, per Elvis Costello. Durante un concerto del 1996, invitano sul palco Josh Zarbo, bassista tra il pubblico, e finirà per suonare con loro per oltre dieci anni, fino al 2007. Nel 1998 hanno una grande occasione: li mette sotto contratto la Elektra, la leggendaria casa discografica dei The Doors, dei Love, centrale nella musica degli anni '70 negli Stati Uniti: esce persino un disco, A Series Of Sneaks, ma una serie di incomprensioni con il loro referente, Ron Laffitte, porterà ad una distribuzione scadente e persino a scelte produttive non concordate, tanto che la casa discografica li licenzia dopo un solo disco e gli Spoon dedicheranno a Laffitte una suite di sue brani, molto ironici ma potentissimi per la critica nei confronti dei suoi comportamenti, The Agony Of Laffitte e Laffitte Don't Fail Me Now che saranno incluse nella ristampa di A Series Of Sneaks del 2002, quando la band è sotto contratto con la Merge. Una delle etichette più importanti per la musica indipendente crede moltissimo in questo duo, che in tre anni scrive tre dischi bellissimi: Girls Can Tell del 2001 è l'antipasto per il disco di oggi, scelto per il misterioso motivo comune ai dischi di Aprile (che sono sicuro avete ormai capito).
Kill The Moonlight esce il 20 Agosto del 2002. È un disco che fa della semplicità sonora il suo fulcro, che non vuol dire affatto che sia un disco banale: anzi se ne apprezzano le idee, le influenze, le scelte degli arrangiamenti in modo più facile ed incisivo. È un disco che lascia da parte gli stili prefissati, meno dolente di Girls Can Tell, più gioioso e divertente, un omaggio alle loro passioni musicali. Il disco è trascinato da The Way We Get By, che diventerà molto famosa per l'uso in serie cult come The O.C., Scrubs e persino nella colonna sonora di Shameless (e di molti altri film). Il suono è semplice ma variopinto, con addirittura occasionali puntate di fiati, e per la prima volta il fulcro sonoro è di chitarra e pianoforte, quest'ultimo strumento mai usato precedentemente, nei crediti affidato al misterioso Eggo Johanson, in realtà lo stesso Britt Daniel (tra gli altri musicisti, il fido Zarbo e Mike McCarthy alla chitarra, altri due bassisti, Roman Kuebler e John Clayton, Matt Brown al sassofono e Brad Shenfield al Darbuka, che è un tamburo a cesto tipico della musica mediterranea, soprattutto lato africano). Meravigliosi gli intro di Small Stakes, molto rock, e quello quasi dadaista di Stay Don't Go. Someone To Look Foward To è più "sporca" e groove, salendo nei toni alti del canto tanto amati da Daniel. Jonathan Fisk è ritmica e sa di anni '80 (soprattutto nel timbro della batteria di Eno), ed è il più chiaro omaggio a Costello, anche nella tematica del brano (ricordi di bullismo da cortile, religione e politica di destra con "bombe atomiche e rasoi smussati"). C'è anche sufficiente angoscia in brani come All The Pretty Girls Go To The City. Ma è musicalmente che il disco sorprende: sono uno dei pochi gruppi rock indie del periodo che non "abusano" della chitarra ritmica fuzz, ricorrendo alle tastiere, che sono davvero la novità musicale nel loro stile, e anche ai campionatori. Chiude il disco un altro gioiello, Vittorio E., 3 minuti di malinconica e potente "anti-ballata".
Il disco viene osannato dalla critica, e finalmente anche dalle vendite: rientra in tutte le classifiche dei migliori dischi dell'anno 2002, del decennio 2000-2010 e persino nelle posizioni alte delle classifiche specialistiche dei migliori dischi indipendenti di sempre. Diventerà presto uno dei titoli migliori del catalogo Merge, dopo In the Aeroplane Over the Sea dei Neutral Milk Hotel e 69 Love Songs dei Magnetic Fields (li trovate tutte e due nelle Storie Di Musica). Ma il vero boom lo fece il disco successivo per gli Spoon: Gimme Fiction venderà centinaia di migliaia di copie, trascinato da un'altra canzone stupende, I Turn The Camera On, anch'essa usata in serie Tv (Veronica Mars, Bones e persino in una puntata de I Simpson), che segna il successo di una band che ha sempre fatto musica interessante, alla faccia di quel Ron Laffitte che non credette in loro.
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klimt7 · 2 months
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L'amor che move il sole e l'altre stelle
[ Dante, Paradiso XXIII, v.145 ]
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Perchè dietro questa ragazza
[ Angelina Mango ]
c'è una grande STORIA
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Sanremo 2007
LAURA VALENTE & PINO MANGO
I genitori di Angelina partecipano all'edizione di Sanremo 2007 e cantano il brano "Chissà se nevica"
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Anno 2014, 8 dicembre
Pino Mango durante il concerto a Policoro ( Matera) viene colto da malore e muore.
Poche settimane prima aveva confidato alla moglie Laura: "Cosa c’è di più bello che morire mentre fai musica davanti alla gente, e cioè mentre fai la cosa che ami di più in assoluto ?"
Anno 2019
La moglie di Mango, Laura Valente, ex cantante ed ex voce dei Matia Bazar, rilascia alcune interviste in occasione della pubblicazione del cofanetto con un volume contenente diversi scritti di Pino Mango, e il disco che rende omaggio alla sua intera carriera musicale.
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L'intervista alla madre, Laura Valente [2019]
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Anno 2024
Angelina Mango dopo aver partecipato alla edizione 2022 di "Amici", partecipa al Festival 2024 e trionfa con pieno merito sbaragliando avversari molto più noti e affermati di lei (Annalisa, Loredana Bertè, Mahmood, Emma, Fiorella Mannoia).
Nella serata di venerdì 9 febbraio con una esecuzione da brividi, che ha commosso tante persone sia in tv che nel Teatro Ariston di Sanremo, Angelina tributa un omaggio molto particolare, al padre Pino, eseguendo il suo brano "Rondine", in una versione del tutto inedita e con un nuovo arrangiamento curato da lei stessa e dal fratello maggiore Filippo (1995).
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Ecco, davanti ad una famiglia così, davanti ad un rapporto di questo tipo, davanti a una Storia del genere, le parole, tutte le parole possibili si diradano, rimpiccioliscono e infine scompaiono.
Resta solo un silenzio di ammirazione e commozione.
In ciò che ci è dato scorgere, io stesso, lo ammetto, fatico a trovare le parole.
Solo l'ascolto e il silenzio hanno senso.
Davanti a certi "miracoli'", ci si sente smarriti e disarmati. La commozione sommerge ogni cosa.
Una emozione che mi fa vedere la "magia" che sa trasformare le vite delle persone. Che può illuminarle!
E poi c'è la gratitudine per questa grande emozione che arriva a mostrarci, la trama di luce che attraversa ogni tempo e ogni spazio.
Le altre riflessioni e considerazioni, fatele Voi.
Io mi tengo stretta, questa emozione.
Pino Mango soltanto pochi anni fa cantava un brano: "L'amore è invisibile"...
Io per una volta, sento di doverlo smentire.
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Se siamo attenti, se impariamo a leggere e decodificare la realtà esterna, lo vediamo e lo sentiamo perfettamente, che l'Amore è l'energia, che innerva l'intero Universo.
Pino Mango, Laura, Filippo e Angelina stessa, ci tolgono ogni dubbio e incertezza al riguardo.
No. L'amore non è invisibile.
Lo possiamo annusare, fiutare nel vento e nel tempo, dentro le persone, in tutte le epoche.
Come un profumo di buono e di pulito, come un tepore di primavera, un sapore unico.
La magia che brilla negli occhi di chi è stato toccato da questo prodigio, arriva ovunque. È qualcosa di potente. Arriva a contagiarci e a cambiare, il nostro stesso modo di guardare il mondo.
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clacclo · 3 months
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Addio Adele, grazie di tutto, grazie di Bruce.
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Voglio ricordarla così, più che con le parole di The Wish, l'unico brano che Bruce abbia dedicato alla madre, ma anche uno dei più toccanti di una discografia che ha spesso fatto vibrare le corde del cuore, o attraverso le parole della autobiografia\spettacolo teatrale: sul palco dello stadio Marassi di Genova nel 1999 quando, con la sorella (la zia di Bruce), ballò una tarantella davanti al pubblico venuto a vedere quel bambino a cui comprò quella prima chitarra troppo grande per le sue mani.
Se abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti di Bruce, per tutte le volte che la sua musica ci ha tirato fuori dalle paludi dell'anima e per tutte le volte che ci ha fatto da sottofondo nei momenti più belli, allora il debito nei confronti di questa donna umile, che tutti i giorni si vestiva, truccava, metteva i tacchi e andava a fare la segretaria per mantenere una famiglia di tre figli ed un marito alcolizzato e depresso, sempre con il sorriso, sempre con leggerezza e allegria. Quella donna che ascoltava la radio in casa e faceva scoprire al figlio quella cosa per la quale era nato: il rock'n'roll.
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A dire il vero, la musica era il soul, a cui oggi Bruce è approdato con il suo ultimo disco Only the strong survive, ma la frase non sarebbe stata né di effetto né onesta rispetto alla carriera effettiva del nostro.
Non è un caso se uno dei bootleg più famosi, quello del concerto di San Siro del 1985 (comporto dei più belli che abbiano fatto, a detta di tutti i componenti della band), si chiami Back to roots - Bruce Zirilli.
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@clacclo
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falcemartello · 1 year
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Pink Floyd: i magnifici 50 anni del lato oscuro della luna.
Nella storia della musica ci sono i grandi album e poi c’è The Dark Side Of The Moon, che è molto più di un disco: un’opera d’arte che contiene tutte le arti. Un viaggio nel lato oscuro della mente umana che è suono, poesia, avanguardia elettronica e genialità grafica. Non c’è nulla di ordinario nel capolavoro dei Pink Floyd, nemmeno la sua genesi, considerato che la band lo eseguì dal vivo per intero nel 1972, in Inghilterra e Giappone, prima ancora che uscisse nei negozi (nel marzo 1973) e mentre buona parte dei brani stava assumendo la forma definitiva tra le mura degli Abbey Road Studios, a Londra, nelle pause tra uno show e l’altro. È musica “classica” The Dark Side Of The Moon, e non solo perché ha venduto quarantasette milioni di copie nel mondo e ha trascorso, lungo le decadi, 962 settimane nella classifica americana e conquistato quattordici dischi di platino in Inghilterra. In Italia, nel 2021 è stato di gran lunga il vinile best seller, surclassando i giovani virgulti del rap, i Beatles, i Queen, i Rolling Stones e gli Abba.
Non c’è competizione possibile con il disco cult dei Pink Floyd perché i dieci brani che lo compongono sono altro rispetto alle classificazioni musicali standard. The Dark Side Of The Moon è in sé un genere musicale, un volo pindarico in un suono senza tempo né spazio. Ne è la prova il fatto che nessuna delle dieci canzoni che lo compongono è mai diventata veramente un singolo di successo. Perché “il lato oscuro” è un disco che si ascolta tutto dall’inizio alla fine, come un’opera classica che non si può interrompere per chattare con lo smartphone. Inizia con il suono di un vero battito cardiaco e conduce in un viaggio attraverso la vita e le sue contraddizioni, fino al gran finale dove razionalità e follia si incontrano e si scontrano in Brain Damage ed Eclipse. Una chiusura ad effetto che è senza dubbio anche richiamo alla drammatica parabola umana dell’amico e compagno di band, Syd Barrett, costretto ad abbandonare il gruppo dopo due dischi per gravi problemi psicologici acuiti dall’abuso di sostanze lisergiche.
Ne avevano incisi sette di album i Pink Floyd prima di iniziare a registrare The Dark Side. Nel passaggio da gruppo visionario e psichedelico a band adulta pronta a incidere il suo capolavoro, fu decisivo l’ingaggio di Alan Parsons, tecnico del suono e musicista raffinatissimo. L’incontro dei quattro con Parsons è il passaggio chiave. Chiusi in studio di registrazione i fabolous five spingono la musica nel nuovo millennio con ventotto anni di anticipo.
Non c’è album venuto dopo o inciso negli ultimi tempi che non debba qualcosa alle tecniche di registrazione del “lato oscuro”. Le dissolvenze tra una canzone e l’altra, l’uso dei loop, all’interno di un brano, ovvero suoni registrati e ripetuti all’infinito, l’accelerazione elettronica di una parte lenta di pianoforte, l’uso creativo dei nastri di registrazione che venivano tagliati e poi incollati per creare un tutt’uno di effetti sonori cambiano per sempre le tecniche utilizzate in sala d’incisione. Ma non è tutto qui: nel mezzo della loro personale missione “lunare” i Pink Floyd optano per un’altra scelta rivoluzionaria, ovvero fare del loro nuovo disco una fantastica scatola magica di suoni, un mix indissolubile tra musica, voci e rumori di fondo catturati nella vita reale.
E allora ecco che nelle canzoni entra il crepitio delle monete agitate in una ciotola, il suono potente e ripetitivo di un registratore di cassa, una sinfonia di ticchettii vari registrati in un negozio di sveglie ed orologi, il fruscio delle banconote e poi le voci di gente comune di tecnici e impiegati degli Abbey Road Studios invitati davanti ad un microfono a rispondere liberamente a domande elaborate da Roger Waters (bassista, voce e principale compositore della band) sui temi della follia e della violenza in tutte le loro accezioni. Tra i tanti si presentarono anche Paul McCartney con la compagna Linda, ma le loro parti alla fine non vennero utilizzate nel missaggio finale. A chiudere il cerchio la copertina più iconica di sempre probabilmente ispirata ad un esperimento del matematico, fisico e filosofo Isaac Newton alla fine del milleseicento. Un fascio bianco di luce che attraversa un prisma e si scompone in sei fasci di luce che rappresentano i colori presenti in natura. Un concept puramente grafico, asettico, lineare, senza presenza umana, che ha stregato il pubblico e i critici. E che nessuno della band ha voluto mai spiegare nel suo reale significato perché è un luogo dell’inconscio come il monolite nero e lucido a forma di parallelepipedo che troneggia in 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. È l’arte che diventa mistero e capacità di stupire senza usare parole, solo la musica. Un approccio che i Pink Floyd fecero loro anche un anno prima di incidere il loro disco più importante scegliendo di esibirsi, nell’era dei giganteschi bagni di folla come Woodstock, Altamont o l’isola di Wight, da soli, al tramonto, nel cuore dell’Anfiteatro romano di Pompei. Il suono del silenzio.
Gianni Poglio
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seoul-italybts · 5 months
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[✎ ITA] Weverse Magazine : Recensione : Se Guardassimo nel Cuore di Jimin, Questo È Ciò che Troveremmo | 30.11.23⠸
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🌟 Weverse Magazine 🗞
Se Guardassimo nel Cuore di Jimin, Questo È Ciò che Troveremmo
__ Recensione del "Jimin's Production Diary  __
__ di RANDY SUH | 30. 11. 2023
Twitter  |  Orig. KOR 
Se dovessi descrivere Jimin in una parola, userei “accattivante”. Ha un aspetto ammaliante ed è un ballerino fantastico, ma ciò che apprezzo di più di lui è il modo in cui canta. La sua voce è diabolicamente seducente. La sua impronta canora è unica, delicata come il tratto raffinato di una penna ad inchiostro, eppure risoluta, e trovo ci sia una tumultuosa bellezza in tutto ciò— il tipo di carisma che non passa inosservato. Qualsiasi sia il brano che sta cantando, la sua voce vi dona quella che potremmo descrivere solamente come luce. Che si tratti di un leggero luccichio come di stella nel firmamento o di un lampo improvviso. Alla canzone “Angel Pt. 1”, colonna sonora dell'ultimo film della saga Fast & Furious, Jimin riesce a portare come una scossa improvvisa, anche se il suo a parte pentatonico non fa che ripetere la stessa melodia più e più volte. Ma quello è il potere della sua voce.
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I 10 anni di carriera di Jimin sono costellati da una serie di momenti mozzafiato ed iconici: la coreografia “333” al minuto 3:33 del video musicale di “FIRE”; i delizioso triplo attacco all'inizio di “Blood Sweat & Tears” rappresentato dai suoi passi di danza, la sua voce e la sua espressione facciale; le sue movenze, pari allo sfarfallio delicato di petali di ciliegio, in “Spring Day”; l'espressività della sua struggente performance in “Black Swan”; le varie esibizioni preparate per cerimonie di premiazione e spettacoli di fine anno come la cover di “Perfect Man” e la sua danza con i ventagli. Nel mondo idol, Jimin è un vero e proprio maestro ed è considerato uno degli artisti pop più grandi di questa generazione. Il modo in cui sa illuminare il palco, come per magia, è talmente impressionante che se effettivamente nel mondo idol esiste un ideale artistico cui aspirare, Jimin sicuramente lo ha già raggiunto.
Ma per arrivare a questo livello di perfezionismo, è evidente Jimin abbia dovuto fare i conti sia con le sue insicurezze che con l'impazienza. Se guardiamo ai vecchi filmati di retroscena delle sue esibizioni soliste e dei grandi eventi di fine anno, Jimin appare spesso angosciato - prima, durante e dopo la performance. E questo nonostante quelle fossero proprio le esibizioni che hanno suscitato maggiore entusiasmo. In un recente episodio di SUCHWITA con ospite TAEMIN (in cui Jimin fa un'apparizione a sorpresa), SUGA ha detto che quando Jimin sta per salire sul palco, gli altri membri dei BTS sono soliti “guardare e pregare [per lui]! Del tipo, ‘Ti prego, Jimin, cerca di non agitarti’.” Nonostante le performance di Jimin siano già assolutamente magnifiche, l'artista si pone standard sempre più vicini alla perfezione, caricandosi di tantissima pressione. È per questo che, a suo dire, sulle prove e le esercitazioni pratiche non transige, devono essere più che abbondanti. Ma questo suo perfezionismo sicuramente è un'arma a doppio taglio: è ciò che gli permette di allestire esibizioni mozzafiato, sì, ma è anche causa di una terribile ansia che non fa che consumarlo.
Con l'inizio del Secondo Capitolo dei BTS, Jimin ha rilasciato l'EP FACE, il suo primo album solista. Viste le traccie soliste scritte e pubblicate precedentemente nei progetti di gruppo, ciò che mi aspettavo dal suo EP erano brani similmente belli e coinvolgenti. Ma FACE è stata una vera e propria sorpresa, al di là di ogni aspettativa. Le canzoni non sono state commissionate individualmente a diversi autori, ma composte da un gruppo compatto di tre produttori – nell'arco di 10 mesi – in quello che è stato un processo creativo piuttosto intimo ed affiatato. Il risultato è stato un disco che, come suggerisce il titolo, offre uno sguardo al volto più naturale e vulnerabile di Jimin. Questo suggerisce anche che l'artista ha finalmente trovato le forze per fronteggiare le proprie insicurezze, la trepidazione e le difficoltà che possono sorgere nelle relazioni interpersonali, dalle quali, fino a quel momento, si era lasciato sopraffare.
Il Jimin’s Production Diary è un documentario - rilasciato su Weverse – che parla nel dettaglio del processo creativo seguito dall'artista. Come per l'album, il titolo di questo documentario è più che diretto ed esplicativo. Questo progetto, che rappresenta il presupposto creativo per la carriera solista di Jimin, ci mostra dunque chiaramente che lui non è solo un ideale artistico per giovani aspiranti idol o un interprete dal fascino diabolico, ma anche un essere umano: Jimin si è formato nei BTS, d'altronde, ha studiato musica, sì, ma anche come interagire con le/i fan, proprio alla maniera dei BTS, insomma.
Con il rilascio di FACE, Jimin è diventato il 3° membro dei BTS a contribuire al Secondo Capitolo del gruppo, nonché il 1° della vocal line. La rap line dei BTS è formata da RM, SUGA e j-hope, mentre la vocal line comprende Jin, Jimin, V e JungKook. Nonostante la suddivisione in questi due gruppi non sia poi così categorica, l'idea originaria per il gruppo vedeva i rapper concentrarsi sull'hip-hop ed i vocalist mirare ad un'immagine più simile a quella degli idol dei primi anni 2000. In un esperimento senza precedenti – almeno per il 2013 – unire questi due lati, la musica idol e quella hip hop, ha già portato ad una prima, elettrizzante reazione chimica.
Nei primi anni di gruppo, il compito di scrivere musica era per lo più responsabilità della rap line. Ancor prima del Secondo Capitolo, ognuno dei rapper aveva, dunque, già rilasciato minimo una mixtape e preso parte alla produzione album per i BTS. Dal canto suo, la vocal line ha dato il proprio apporto sia attraverso la stesura di alcuni testi di gruppo che il rilascio di tracce individuali. Ancor prima dell'evolversi del loro Secondo Capitolo, dunque, i membri dei BTS avevano già in programma di produrre e pubblicare delle mixtape soliste. E questa nuova fase delle loro carriere sembra aver presentato loro un bivio: pubblicare un progetto individuale di propria produzione, come una mixtape, o fare altrettanto ma con un po' di aiuto dall'esterno. Nel Commentary filmato per il suo documentario, Jimin ha confidato che l'idea che sta dietro all'album era mostrare tutto il suo potenziale in quanto idol.
Tuttavia, alla fine Jimin ha optato per scrivere musica che lo rappresentasse nel suo insieme [*e non solo come idol]. È sul finire del 2018 che ha pubblicato la sua prima traccia solista in acustico, “Promise”. Durante un V LIVE, successivo al rilascio, Jimin ha confidato che lavorare a quel brano lo ha aiutato a liberarsi di alcune emozioni che si teneva dentro da tanto. E FACE, in un certo senso, segue lo stesso principio, diventandone una sorta di sequel.
Ora che tutti i membri dei BTS hanno rilasciato i propri progetti solisti, possiamo constatare che Jimin è stato il primo e solo dei ragazzi della vocal line a pubblicare un album disvelativo insieme ad un gruppo ristretto di produttori.
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Credevo il processo creativo dietro ad un lavoro simile fosse stato fonte di considerevole stress e che l'avesse messo sotto pressione, ma il Jimin che ho visto nel suo Production Diary non mi sembra poi così turbato. Ovvio, questo tipo di progetto ha le sue difficoltà – e sono evidenti nel documentario – ma è altrettanto ovvio quanto Jimin sia felice e si sia divertito. Nel Jimin's Production Diary, vediamo l'artista impegnarsi seriamente sul lavoro insieme ad un gruppetto selezionato di persone di fiducia, invece che il mordi e fuggi di incontri con tante persone diverse, tipico di questo genere di progetti. Uno dei temi portanti dell'album di Jimin è la delusione che accompagna talvolta le relazioni interpersonali. Al contempo, però, l'artista sembra realizzare che è proprio grazie alle relazioni col prossimo che ha trovato la forza di andare avanti. Lo vediamo, infatti, tutto contento ballare insieme ai produttori sui beat cui stanno lavorando, ed esclamare pieno di entusiasmo quanto si sta divertendo. La parte migliore è proprio seguire man mano il membro dei BTS nella sua scoperta del piacere musicale. Nonostante la maggior parte del tempo lo si vede in luoghi mondani—come il suo salotto, l'appartamento del produttore Pdogg (che praticamente è diventato anche un po' casa di Jimin), lo studio presso la Hybe o la sala registrazioni—emotivamente parlando, Jimin sembra attraversare l'intera gamma emozionale umana, dimostrando d'essere più che un semplice cantante.
Il documentario ci offre anche uno sguardo su chi sono le altre persone che hanno aiutato a fare di FACE una realtà. I produttori della BIGHIT MUSIC, Pdogg e GHSTLOOP, ed EVAN compaiono praticamente in ogni scena, ed il modo in cui i quattro sono sempre seduti insieme a discutere e scambiarsi idee, procedendo poi a trasporle subito in note e testi, ricorda un po' il fare musica di una band. Dopo aver praticamente vissuto insieme per 10 mesi, Jimin ha addirittura rinominato il gruppetto come la Smeraldo Garden Marching Band, durante il gioco a quiz relativo al documentario. La BIGHIT MUSIC non è nuova a questo tipo di produzione completamente in proprio, specialmente in momenti cruciali—come nel caso di “FAKE LOVE”, ad esempio, il singolo principale dell'album dei BTS, LOVE YOURSELF: Tear (2018). È proprio questo il motivo per cui la musica dei BTS solitamente viene percepita come più ermetica ed introspettiva rispetto all'approccio usato tipicamente per il K-pop – i cui riconoscimenti presentano lunghe liste in cui compaiono tuttə coloro che hanno partecipato alla stesura dei brani ed un ampio catalogo di personale reclutato appositamente per il progetto. Il che è ancor più interessante e significativo, se consideriamo che l'album di Jimin è arrivato primo su diverse classifiche, inclusa la Billboard Hot 100.
Nel documentario, appaiono anche gli altri membri dei BTS. RM, ad esempio, entra in gioco quando il gruppo si trova in difficoltà con la prima parte del testo della title track, dà loro qualche saggio consiglio e poi esce di scena. RM aiuta Jimin a mettere ordine nelle sue emozioni, una volta trasposte su carta: “La cosa più importante è l'intenzione che sta dietro la canzone” dice, spiegando poi che un artista, innanzi tutto, deve essere ben consapevole e sicuro di ciò che vuole trasmettere; “Credo ci sia bisogno di una traccia, una storia” aggiunge, reiterando l'importanza fondamentale della narrazione; “Prova a buttare giù una bozza”, consiglia. JungKook, poi, compare in “Letter” - traccia dedicata alle/i fan – prestando, come sempre, un'incredibile performance nel ritornello. Un altro dei membri a comparire nel documentario è j-hope, il primo ad aver pubblicato musica individuale nel Secondo Capitolo dei BTS, con il suo album Jack In The Box. J-hope mostra il suo supporto, dando dei buoni consigli a Jimin nel momento in cui quest'ultimo sembra più incerto rispetto all'imbarcarsi per la prima volta in questa monumentale avventura solista: “Provaci. Fai questo tentativo, così poi vedrai” come si fa e su cosa concentrarsi per la prossima volta. Inoltre, nel video Commentary scopriamo anche che “Set Me Free Pt.2” si intitola così perché inizialmente SUGA avrebbe dovuto partecipare come rapper, e quindi il nome era un riferimento a “Interlude: Set me free”, una delle tracce della sua mixtape, D2.
Ciò che traspare chiaramente – e a più riprese – dal documentario è la tenacia di Jimin. Anche quando lo vediamo passare tutta la notte a contorcersi disperato nel tentativo di buttar giù dei buoni testi per il suo primo album, Jimin rifiuta di darsi per vinto. Proprio come prova e riprova le coreografie fino allo sfinimento, quando si tratta di scrivere canzoni, tiene duro fino alla fine. Ma la differenza principale rispetto al ballo, è che con i suoi testi non c'è dubbio Jimin si sia trovato faccia a faccia con le proprie emozioni e che abbia dovuto affrontarle. Nel Commentary, Jimin dice di essersi sentito un po' come un ragazzino “che tiene con costanza un diario personale” e tramite questo progetto ha potuto “mostrarne qualche pagina, una parte di me”. È un commento fatto con leggerezza, ma la sfida che ha dovuto affrontare con se stesso è evidente nel modo in cui dice “con costanza.”
È cosa risaputa che ognuno dei membri dei BTS adora esibirsi. Ed il motivo principale per il brivido e l'entusiasmo che provano sul palco è la presenza delle/gli ARMY. Quando scrivono musica, è in previsione del momento in cui potranno ritrovare il loro pubblico o arrivare ai cuori degli/lle ascoltatori—in altre parole, potremmo dire che si tratta di un esercizio di resistenza in previsione della futura gratificazione. A quanto sappiamo, quando il mondo ha dovuto chiudere i battenti a causa della soffocante pandemia da COVID-19, Jimin ha attraversato il periodo più difficile di tutta la sua carriera. Ma, ancora una volta, se l'è tenuto per sé – di propria volontà ed iniziativa – e questo, in un modo o nell'altro, gli ha poi permesso di creare FACE. Non è facile guardarsi dentro ed affrontare chi si è veramente. Non c'è dubbio, quindi, che dover andare a ripescare momenti emotivamente difficili per riviverne le sensazioni e poterne cantare sia doloroso. E sebbene non sia obbligatorio riversare tutta la propria anima nella musica, è proprio ciò che Jimin ha scelto di fare, e di farlo con estrema onestà—proprio come ha fatto RM con la sua mixtape omonima e SUGA con Agust D, quando i BTS erano relativamente ancora alle prime armi. Era qualcosa di cui sentivano il bisogno.
Ora che ho visto il Jimin’s Production Diary, trovo che il Jimin che ha rilasciato FACE sia molto diverso dall'uomo che era prima. Le insicurezze e la trepidazione non sono svanite, ma ora che ha avuto modo di sperimentare il senso di libertà che deriva dall'affrontare il proprio bagaglio emozionale, sono piuttosto sicurə che, quando sarà il momento di fare i conti con nuove sfide, non crollerà più come in passato. Non vedo l'ora di scoprire quale sarà la sua prossima mossa, adesso che è più orientato alla crescita personale che mai e si è creato delle basi solide da cui ripartire. Da grande fan della sua voce quale sono, la prospettiva [dei suoi futuri lavori] mi entusiasma molto, perché so che farà grandi cose con la sua voce magica. È con estrema sicurezza che mi sento di dire che l'unica persona al mondo che sa cantare come Jimin è Jimin stesso. Ho come l'impressione questo sia stato solo un assaggio dell'uomo che vedremo in futuro, del Jimin che sicuramente lavorerà con costanza incrollabile al suo prossimo progetto, forte di ciò che ha imparato nell'aprirsi e svelarsi al mondo grazie all'instancabile processo di analisi introspettiva che ha dovuto affrontare nello scrivere e promuovere quest'album.
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La scena del documentario che più mi è rimasta impressa è quella in cui, una volta finito di lavorare all'album, commenta: “Grazie a quest'opportunità, ho capito più chiaramente cosa dovrei e posso fare. E ora posso dire con sicurezza che ci sono tante più cose che vorrei provare.” Sebbene Jimin abbia già fatto tanto e sopportato ancor più, ha ancora sempre gli stessi occhi luccicanti da sognatore.
⠸ ita : © Seoul_ItalyBTS ⠸
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gcorvetti · 3 months
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Faber.
Oggi ricorre il 25esimo anniversario della morte di Fabrizio De Andrè, un artista che ha dato molto al cantautorato italiano e che ci ha lasciato poesie in forma musicale a dir poco stupende. Come già detto in alte occasioni "non siamo eterni" ma quello che facciamo resta nel tempo, chi per tutti e chi solo per i propri cari. Non c'è molto da aggiungere perché tutti conosciamo i suoi brani, ma in un periodo storico come questo è doveroso ricordare, non solo oggi ma sarebbe da fare spesso, figure importanti come la sua. Ieri in uno scambio di messaggi con Spock abbiamo parlato di musica, lui essendo uno scienziato non è molto preso come me, anche se in passato si dilettava a suonare il basso, gli ho detto alcune cose derivanti dalle mie ricerche sull'andazzo odierno una su tutte è il fattore "musica gratis", mi spiego, nella mia generazione (quella cresciuta senza internet) si dava un valore speciale alla musica, quando andavo a comprare un vinile poi tornavo a casa e lo ascoltavo anche più di una volta, leggendo i testi, scrutando la copertina e le informazioni contenute in essa, ecc ecc. Per me e per moltissimi della mia generazione il disco non aveva solo un valore economico ma anche artistico e affettivo, ne ho ancora parecchi. Quando leggevo le riviste di settore e c'era la notizia dell'uscita di un nuovo lavoro di una band che mi interessava mi segnavo la data e aspettavo pazientemente l'uscita, per poi agire come sopra descritto. Le nuove generazioni, diciamo dai millenials in poi, non hanno più questa pratica verso la musica, si anche grazie ad internet o all'uso sbagliato che si fa di questo mezzo potentissimo, la musica per loro è gratis perché la trovano facilmente sulle piattaforme di streaming o pirata oppure gli artisti stessi mettono nei loro profili le nuove uscite, quindi non si da più nessun valore alla musica, al lavoro di un artista, ma non perché non si paga più il disco, ma perché è a portata di mano. Il discorso come sempre è così ampio che ci vorrebbero una serie di post a catena o addirittura un saggio ma verrebbe a volumi come un'enciclopedia. Tornando al tema del post e precisando che non tutti hanno lo stesso modus verso la musica, fortunatamente, c'è chi è appassionato e valorizza il lavoro di un artista proprio per passione verso questa forma d'arte. Il brano che penso sia più adatto, e vi saluto, in questo periodo è il seguente. Grazie Faber.
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elorenz · 4 months
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Anche se tutti conoscono la cover di Beck nel film Sé mi lasci ti cancello di Michel Gondry, questa è la versione originale del brano. Questo gruppo inglese un tempo si chiamava Stackridge e il loro primo album risale al 1969. Hanno continuato a suonare con questo nome fino al 1977 sotto il genere Flok Rock e Progressive Pop, poi nel 79 con l'alternanza di alcuni membri della band cambiarono nome in Korgis. Successivamente tornarono alle origini e riunirono tutti i mebri della band.
Nel 2015 dissero che avrebbero fatto il loro ultimo tour - The Final Bow - così comprari al volo due biglietti e trascinai la mia compagna a Londra un paio di giorni per sentirli - cosa per cui le sono sempre stato grato perché aveva sentito una o due canzoni e niente di più. Il concerto fu dentro ad un pub, ed eravamo 20/30 persone e non so quanti di loro li conoscessero effettivamente. Il concerto durò un'oretta e mezzo e si esibirono in quei pezzi prog strani col violino e le acustiche. Mi feci autografare il biglietto e comprai la maglietta dell'ultimo tuor.
Ad oggi sono riuscito a trovare un solo disco loro.
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carmenvicinanza · 4 months
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Jane Birkin
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Jane Birkin, attrice, cantante e regista, è stata una delle figure più amate e iconiche della musica e del cinema.
Talento e presenza magnetica sullo schermo l’hanno resa una delle artiste più apprezzate di ogni tempo.
Ispiratrice di moda e stile, porta il suo nome la borsa più desiderata al mondo la “Birkin bag” di Hermès, creata apposta per lei nel 1984.
Una carriera eclettica, la passione per le arti e il suo impegno per diverse cause umanitarie l’hanno resa una personalità indimenticabile.
Nata il 14 dicembre 1946 a Londra, in Inghilterra, era la secondogenita del maggiore David Birkin (comandante della Royal Navy) e dell’attrice e cantante Judy Campbell, famosa per le sue interpretazioni nei musical di Noël Coward.
La sua carriera di attrice è iniziata a teatro, a 17 anni.
A 19 anni ha sposato il compositore John Barry, l’autore delle musiche dei film di James Bond, dalla cui unione è nata la sua prima figlia, Kate Barry, nata nel 1967.
A cinema ha esordito nel 1965 con Non tutti ce l’hanno di Richard Lester, ma è stato l’anno successivo, con Blow-Up di Michelangelo Antonioni che ha raggiunto la celebrità.
Nel 1968, sul set del film francese Slogan, ha conosciuto il cantante e musicista Serge Gainsbourg, con cui è nato un lungo sodalizio sentimentale e professionale che li rese una delle coppie più celebri e trasgressive del jet set dell’epoca.
Alla fine del 1968, incisero insieme il loro primo album, intitolato Jane Birkin – Serge Gainsbourg, anticipato dal celebre singolo Je t’aime… moi non plus, che fece scandalo per il testo esplicito che alterna parole d’amore alla descrizione di un rapporto sessuale. Vietato e censurato in diversi paesi, tra cui l’Italia, ha venduto oltre cinque milioni di copie in tutto il mondo.
Nel 1971 nacque la figlia, l’attrice Charlotte Gainsbourg.
Durante gli anni settanta, Jean Birkin ha inciso diversi album, scritti prevalentemente dal marito. Parallelamente proseguiva la sua carriera di attrice, ha recitato nei film La piscina, Il romanzo di un ladro di cavalli, Una donna come me, Assassinio sul Nilo. È stata anche diretta da Gainsbourg nel controverso Je t’aime moi non plus (1976), in cui ha recitato nuda per buona parte del film.
Nel 1980 si sono separati come coppia ma hanno continuato a collaborare a progetti musicali fino a quando lui è stato in vita.
La relazione col regista francese Jacques Doillon ha inaugurato una nuova fase della sua carriera, ha abbandonato l’immagine sexy e trasgressiva, per dare spazio alla sua personalità di donna più consapevole della propria forza e versatilità. Nel 1982 ha avuto una terza figlia, Lou Doillon, modella, cantante e attrice.
Ha recitato in oltre settanta film e stabilito un importante sodalizio professionale con la regista Agnès Varda, che nel 1988 le ha dedicato il film Jane B. par Agnès V.
È stata candidata due volte ai premi César, il principale riconoscimento cinematografico francese, nel 1984 e nel 1986.
Ha sempre alternato la carriera di attrice a quella di  cantante, Baby Alone in Babylone del 1983, scritto da Gainsbourg, le è valso il Disco d’oro in Francia. Nel 1987, ha iniziato un’attività di recital nei teatri. Nel 1990 è uscito Amour des feintes, l’ultimo album scritto per lei da Serge Gainsbourg. Dopo la morte di lui, avvenuta l’anno dopo, gli ha reso omaggio con Versions Jane, una raccolta di sue canzoni riarrangiate con vari musicisti ospiti, tra i quali Goran Bregović e Les Négresses Vertes. Ha continuato a onorare la memoria del suo pigmalione in eventi e recital teatrali. Nel 1998 À la légère è stato il suo primo album che non conteneva alcun brano dell’ex compagno.
Al cinema, La bella scontrosa di Jacques Rivette, le era valsa una candidatura come miglior attrice non protagonista ai Premi Cèsar del 1992.
Negli anni successivi ha continuato a incidere diversi album di successo in Francia, collaborando spesso con altri artisti come Paolo Conte, Manu Chao, Bryan Ferry, Caetano Veloso, Yann Tiersen e a esibirsi dal vivo in concerti e spettacoli teatrali.
Nel 2007 ha diretto il film autobiografico Boxes.
In seguito a una malattia cronica, si è ritirata dalle scene, chiudendo la sua carriera cinematografica con Quai d’Orsay di Bertrand Tavernier, nel 2013.
Molto attiva anche in ambito sociale e umanitario, da ambasciatrice di Amnesty International, è stata in Bosnia, in Cecenia, ha cantato in Cisgiordania e a Ramallah, e si è impegnata a favore delle vittime del conflitto in Ruanda. È stata fra le duecento persone firmatarie dell’appello contro il riscaldamento globale pubblicato nel 2018 in prima pagina dal quotidiano Le Monde.
Nel 2016 è stata omaggiata al Festival del Cinema di Locarno con un tributo alla carriera.
Nel 2021 la figlia Charlotte le ha dedicato il semi-documentario Jane by Charlotte.
Si è spenta nella sua casa di Parigi, il 16 luglio 2023, aveva 76 anni.
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Amanda Lear nasce come Amanda Tapp il 18 novembre del 1939 a Saigon. Trasferitasi a Parigi dopo aver finito le scuole elementari, studia alla Scuola d'Arte di San Martino di Londra nel 1964. In quel periodo, sale agli onori della cronaca in virtù della sua storia d'amore con Bryan Ferry, frontman dei Roxy Music, e inizia a lavorare come modella per Catherine Harle. La Lear diventa molto richiesta in breve tempo: fa la modella per Paco Rabanne, e viene immortalata dalle macchine fotografiche di Charles Paul Wilp, Helmut Newton e Antoine Giacomoni per testate come "Vogue", "Marie France" ed "Elle". Partecipa, inoltre, a sfilate per Antony Price, Ossie Clark e Mary Quant a Londra, e per Coco Chanel e Yves Saint Laurent a Parigi. Nel frattempo, nel 1965 a Parigi, in un locale chiamato "Le Castel", ha conosciuto Salvador Dalì, eccentrico artista spagnolo che è rimasto immediatamente colpito dall'affinità spirituale che intercorre tra i due. Amanda accompagnerà la vita del pittore surrealista nei successivi quindici anni, passando ogni estate con lui e sua moglie: avrà così l'opportunità di visitare i salotti parigini e scoprire i musei europei, oltre che posare per alcune sue opere quali "Voguè" e "Venus to the Furs". Il nome d'arte Amanda Lear pare sia stato proprio inventato dall'eccentrico pittore, foneticamente affine a amant de Dalí. Protagonista della copertina di "For your pleasure", disco dei Roxy Music del 1973, Amanda appare insieme con David Bowie nella serie tv "Midnight special", sulla Nbc. Sempre con Bowie l'anno successivo registra la sua prima canzone, "Star", che però non viene mai pubblicata. Il suo singolo di esordio sarà, invece, "Trouble", che tuttavia non otterrà il successo sperato, a dispetto delle lezioni di canto frequentate e pagate proprio da Bowie. Del brano, per altro, viene incisa anche una versione francese, che viene notata dall'etichetta Ariola Eurodisc: la casa discografica, tramite il produttore Antony Monn, le propone un contratto di sei dischi e sette anni per una cifra eccezionale. Il disco d'esordio si chiama "I am a photograph", e ottiene un successo strepitoso in Austria e in Germania. In Italia riuscì ad arrivare alla Top 10. Dall'album furono estratti alcuni singoli, tra cui Blood and Honey, Tomorrow e Queen of Chinatown che diventò il suo primo successo a livello europeo. L'album che seguì I Am a Photograph fu Sweet Revenge, un concept album che contiene un medley continuo nel primo lato. L'album riuscì ad arrivare nella Top 10 di alcuni paesi europei e fu certificato Disco d'oro in Germania Ovest e Francia. Dall'album fu poi estratto il singolo di successo Follow Me e la Top 20 Enigma (Give A Bit Of Mmh To Me). Per promuovere l'album Amanda Lear ne cantò le canzoni in varie emittenti televisive in Europa e altrove. In Italia e in Germania la promozione fu continua. Dopo aver preso parte al programma di Raidue "Stryx", dove interpreta il personaggio ambiguo di Sexy Stryx, la Lear nel 1978 ottiene un cameo nella pellicola "Zio Adolfo in arte Fuhrer" e in "Follie di notte", di Joe D'Amato. L'artista, però, non abbandona la carriera musicale, e dà alle stampe "Never trust a pretty face". Negli anni Ottanta, Amanda incide "Diamonds for breakfast", eccezionale successo di vendite in Svezia e in Norvegia, e "Incognito": accolto tiepidamente in Europa, si rivela un successo imprevisto in Sud America; l'unica hit destinata a lasciare il segno, però è "Egal". In Italia conduce "Ma chi è Amanda?" e due edizioni di "Premiatissima" su Canale 5, nel 1982 e nel 1983. Il 1984 è l'anno della pubblicazione di "My life with Dalì", la sua prima autobiografia, intitolata in Francia "Le Dalì d'Amanda". Poi Amanda Lear si dedica nuovamente alla musica dando alle stampe "Secret Passion". La promozione dell'album, tuttavia, va incontro a una pausa forzata, a causa di un incidente automobilistico che coinvolge la Lear, costretta a una convalescenza di diversi mesi.
Il 1988 vede la Lear tornare in vetta alle classifiche musicali con "Tomorrow (Voulez vous un rendez vous)", reinterpretazione di "Tomorrow" realizzata con Giovanni Lindo Ferretti, cantante dei CCCP Fedeli alla linea. Torna in tv nel 1993 nella serie "Piazza di Spagna", in cui interpreta se stessa, e in "Une femme pour moi", film tv di Arnaud Selignac; nel 1998 è la volta de "Il brutto anatroccolo", programma condotto in prima serata su Italia 1 con Marco Balestri. Nel frattempo, ricompare in passerella, sfilando per stilisti come Thierry Mugler e Paco Rabanne. Il nuovo millennio si apre con una tragedia: il marito di Amanda, Alain-Philippe, nel dicembre del 2000 muore a causa di un incendio divampato in casa. La Lear lo ricorda registrando il disco "Heart". In televisione, l'artista presenta "Cockatil d'amore" e "La grande notte del lunedì sera", condotta con Gene Gnocchi. Dopo aver fatto parte, nel 2005, della giuria di "Ballando con le stelle", nel 2008 appare in Francia in "La folle histoire du disco", in Italia in "Battaglia fra sexy star" e in Germania in "Summer of the '70s". Sempre nel nostro Paese, appare in un curioso cameo all'interno della soap opera di Raitre "Un posto al sole", dove interpreta la Morte. Ma gli anni Duemila di Amanda Lear sono contrassegnati anche dal doppiaggio (nel film "Gli incredibili", presta la voce a Edna Mode) e dall'esposizione delle sue opere d'arte: per esempio con la mostra "Never mind the bollocks: here's Amanda Lear", tenuta nel 2006. Dopo essere stata nominata Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere dal governo francese, nel 2009 pubblica l'album "Brief encounters". In una carriera poliedrica come la sua non può mancare il teatro, e così dal 2009 al 2011 inizia un tour con "Panique au Ministere", spettacolo teatrale che attraversa la Francia, il Belgio e la Svizzera. Dopo aver preso parte, come membro della giuria, a "Ciak, si canta!", varietà in onda su Raiuno, nel 2011 Amanda Lear incide il singolo "Chinese Walk", e interpreta, nuovamente a teatro, la commedia "Lady Oscar". Pittrice, cantautrice, presentatrice, Amanda Lear vive in Francia, a Saint-Etienne-du-Gres, non lontano da Avignone. Dall'inizio della sua carriera, l'artista francese ha dovuto convivere con le dicerie riguardanti la sua sessualità: si diceva, infatti, che Amanda, prima di diventare fotomodella, in realtà fosse un ragazzo, tale Renè Tapp, che si sarebbe sottoposto a un'operazione di cambio di sesso a Casablanca. La stessa Amanda Lear, tuttavia, in più di un'occasione ha smentito le dicerie a tal proposito, sostenendo che si trattava unicamente di una strategia pensata da lei, insieme con Dalì, per attirare l'attenzione e incrementare le vendite dei suoi dischi.
(da:https://biografieonline.it/biografia-amanda-lear)
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turuin · 6 months
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Immaginatevi la scena: siete i Beatles, avete appena pubblicato un disco destinato a fare epoca e, per i canoni del tempo, una cosa mai sentita prima. Tutti soddisfatti, due giorni dopo ve ne andate a vedere quel bravissimo chitarrista di cui si parla tanto, Jimi Hendrix, e lui - come se niente fosse e due giorni dopo l'uscita del vostro disco - vi fa una cover del brano portante! Così, come se fosse una roba normale.
Ecco, questa non è quella esatta registrazione, ma è stata presa due mesi dopo e rende comunque l'idea. Harrison e McCartney ci devono essere rimasti veramente secchi.
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diceriadelluntore · 1 month
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Storia Di Musica #318 - Black Widow, Sacrifice, 1970
Nella scelta di raccontare gruppi che hanno black nel nome, non si poteva non toccare il lato esoterico della musica: c'è tutto un filone metal, detto black metal, che porterà all'estremo queste tematiche, con un gusto quasi parossistico dell'orrido diventeranno una sorta di clichè. Il gruppo capostipite furono i leggendari Black Sabbath, ma qualche mese prima un altro gruppo che aveva black nel nome partorì un disco che se musicalmente si allacciava alle nascenti sonorità folk-prog nelle tematiche iniziava, in maniera tanto elegante quanto esplicita, l'anima nera della musica rock.
Il gruppo in questione si chiama Black Widow. All'inizio erano un sestetto, che si chiamava, nel 1966, Pesky Gee. Ne facevano parte: Kay Garret (voce), Kip Trevor (voce, chitarra e armonica), Jess "Zoot" Taylor (pianoforte e organo), Jim Gannon (chitarra e voce), Clive Jones (sassofono e flauto), Bob Bond (basso) e Clive Box (batteria), e con questa formazione pubblicano un album, fino a pochi giorni introvabile (ci sarà una ristampa ad aprile 2024), dal titolo Exclamation Mark nel 1969, che è un tentativo di farsi strada nell'affollatissimo panorama inglese di blues rock: il disco passò inosservato. In quell'anno Kay Garret lasciò il gruppo, che si riformò con il nome di Black Widow a partire dal 1970. E il batterista Cox ha un'idea. Affascinato dal mondo dell'occultismo, convince la band a recuperare materiale: leggono per settimane qualsiasi cosa riguardi l'argomento nella Biblioteca della città di Leicester e arruolano un maestro Wicca per raccogliere informazioni. Ne viene fuori così un disco sicuramente affascinante, dove alla musica sofisticata e dalle soluzioni particolari si canta in maniera spesso senza filtri di un rito ancestrale per richiamare entità misteriose. Sacrifice esce nel 1970, stesso anno del primo disco dei Black Sabbath, ma fu registrato nel 1969 e prodotto da quel Patrick Anthony Meehan che sarà produttore degli stessi Black Sabbath fino al 1976 (il loro periodo d'oro) per la CBS.
In Ancient Days parte con un sinistro organo hammond a cui in serie si aggiungono gli altri strumenti ed è "una chiamata del male" che subito muta in Way To Power: c'è l'introduzione di una sezione fiati (che sarà uno dei pilastri di tutto il disco con il rullare tribale della batteria). Il brano ricco di cambi di tempo e dai cori fa da apripista al loro brano più famoso. È sempre il flauto di Clive Jones il protagonista di Come To The Sabbath, che simboleggia con maestria l'abilità del gruppo di rifarsi a canti mistici tribali. Qui è l'andamento a crescere della velocità e dell'ossessivo ritmico ripetere del ritornello evocativo (Come, Come To Sabbath, Satan's There) a rendere la canzone ansiogena ed affascinante allo stesso tempo. Diventerà poi uno della cover preferite dai gruppi heavy metal, e persino i Black Sabbah e i sanguinosi Death SS ne faranno una riproposizione. Ma il disco è un susseguirsi di sorprese: Conjuration è il brano più dark, dalla ritmica marziale e sofisticata dove è facile sottolineare la bella voce di Kip Trevor. A questo punto c'è una sorta di parentesi gioiosa: Seduction e' una ballata meravigliosa che combina momenti jazz rock ed echi di bossa nova che stridono con il testo, vibrante e sensuale: Would you have me stay with you?\Squeeze and hold you tight?\Soothe you with my tongue and touch\Share your bed at night. Il disco si conclude con due brani: Attack Of The Demon con l'armonizzazione affidata all'organo (non c'e' praticamente chitarra ritmica) e la lunga e magnetica Sacrifice, che nei suoi 11 minuti si sviluppa in una lunga improvvisazione strumentale. Tutti i brani hanno apporti davvero minimi di chitarra elettrica, caratteristica che già ne fa un unicum. Il disco ebbe successo anche perchè la band organizzò uno spettacolo dal vivo dove oltre che cantare si esibiva in una sorta di vero rituale: ad un certo punto dello show, sbucando da parti diverse a seconda del luogo del concerto, si presentava in scena la moglie di Clive Box, che attraverso l'uso di fumogeni e carrucole sembrava volasse tra il pubblico, finchè, sul palco mentre suonavano, veniva distesa e "sacrificata". Il caso volle che una sera, presenti dei fotografi del News Of The World, il famoso tabloid scandalistico, la spada del sacrificio lacerasse il vestito della donna, che alla fine rimase nuda. Per alcuni show successivi, la trovata fu organizzata apposta, ma la foto sul giornale fece il giro di mezzo mondo, attirando le feroci critiche sulla band, alimentando lo scandalo sulle pratiche occulte seguite dai componenti del gruppo.
Inspiegabilmente, il gruppo abbandonerà le tematiche gotiche e mistiche, per riproporsi in veste folk prog nel secondo lavoro, Black Widow (1971): il segnale fu l'abbandono del batterista Box per Romeo Challenger. Rimangono un ascolto particolare e storico, sebbene in molti articoli vengono considerati fondatori del doom: possono esserlo per le tematiche, anche se il loro approccio fu quasi sistematico e pieno di fonti e non estemporaneo e spettacolare come altri, ma non lo furono certo per lo stile musicale, che rappresenta davvero un evento nel binomio rock ed occultismo.
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parmenida · 6 months
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Fossati: «Per Mina ho fatto una eccezione. Ora torno nel mio esilio.»
Mina Fossati, uscito il 22 novembre del 2019 e preceduto dal brano e dal video Tex Mex, è un lavoro struggente che parla di gelosia e di perdono. La collaborazione con Mina ha fatto uscire dall’autoesilio artistico Ivano Fossati («basta dischi e basta concerti» aveva detto nel 2011) che confessa: «Ho sempre sognato un disco con Mina. Quando ho ricevuto l’invito mia moglie mi ha detto: “se dici di no a Mina chiedo il divorzio”». Due anni fa cominciano le prove in studio. Le canzoni sono poche. Ma poi, spiega Massimiliano Pani, succede qualcosa di strano. Mina risveglia l’ansia creativa di Fossati. Mina diventa la sua musa. E a spizzichi e bocconi arrivano in studio nuovi provini. «Dei capolavori che ci lasciano a bocca aperta. Fossati scrive già i versi con l’attribuzione all’uno e all’altra. Ogni verso, ogni melodia, tiene conto delle vocazioni timbriche di ciascuno degli interpreti» dice Pani.
In questi due anni Fossati ha scoperto il segreto di Mina: «Dietro ogni parola c’è un pensiero. Se la volete annoiare parlatele del passato o fatele una lode. Se la volte far felice parlatele del presente o meglio ancora di un futuro progetto», racconta il cantautore. Non a caso la canzone che apre l’album, L’Infinito Di Stelle, pittorica, semplice ed elegante è il manifesto della filosofia del disco, «qui e ora», seguita da Farfalle, filastrocca gioiosa sulla consapevolezza felice del presente. In Ladro c’è una invettiva sul maschio bugiardo e fedifrago. Il rifiuto dell’amore è cantato in Come Volano Le Nuvole. La Guerra Fredda e Luna Diamante, che ha un sapore operistico, cantano i concetti di fatica e di attesa («Il tempo è un guardiano perfetto»).
«È bello lavorare con due giganti, perché non hanno fragilità, con le loro timbriche il ritrovarsi su una tonalità che è sempre un compromesso non li spaventa», spiega ancora Pani. E aggiunge: «Questo disco è un punto d’arrivo della mia carriera». Dopo il rock-blues Tex Mex, il disco ha una svolta veloce in Amore Della Domenica e Meraviglioso, È Tutto Qui, possente e penetrante. I suoni tendono all’Africa in L’Uomo Perfetto. Il sipario cala su Niente Meglio Di Noi Due. Una consapevolezza che aiuta a vivere «in questo mondo duro come un tamburo». Gran disco che unisce due grandi talenti in un’opera destinata a durare. Inoltre, Luna Diamante fa parte della colonna sonora del film di Ferzan Ozpetek, La Dea Fortuna. Fossati ha ribadito che il suo esilio artistico continuerà. Lo dice chiaramente: «Per Mina ho fatto un’eccezione».
- Mario Luzzatto Fegiz per Il Corriere Della Sera.
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clacclo · 3 months
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MARTE DIO DELLA GUERRA
Una realtà di cui abbiamo preso atto è che in questi tempi di guerra e di attacco generalizzato all'umanità da parte di un potere finanziario criminale resta pressoché muta la voce degli artisti contemporanei, ricordando che proprio gli artisti in ogni epoca hanno avuto il compito di rappresentare e svergognare tutte le violenze e le menzogne del potere. Proprio per questo vogliamo oggi ricordare un episodio quanto mai significativo del passato: era il 5 Luglio del 1969 e i King Crimson (di cui ricorreva ieri l'anniversario della nascita come Gruppo) si esibivano di fronte a più di 500.000 persone ad Hyde Park appena prima dei Rolling Stones che avevano organizzato il concerto gratuito. Ebbene, i Crimson aprirono il loro concerto con uno dei brani più feroci e innovativi della storia del Rock, quella 21st Century Schizoid Man (titolo quanto mai attuale) che in quell'Estate dell'amore era un vero pugno in faccia: parlava di guerra, di napalm, di innocenti uccisi, poeti ridotti alla fame, politici bruciati e dell'avidità senza fine dei potenti. La loro esibizione è rimasta nella leggenda e finì in maniera altrettanto clamorosa: chiusero il concerto suonando un brano del geniale compositore contemporaneo Gustav Holst che, studioso di teosofia e astrologia, aveva dedicato un disco ai Pianeti tracciando di ciascuno il carattere astrologico attraverso la musica: i Crimson scelsero Mars (Bringer of War) che il compositore aveva scritto nel 1914 nell'imminenza della Prima Guerra Mondiale, un brano potente e impressionante che con il suo incalzare fu definito "il più feroce pezzo di musica di tutti i tempi" ed evoca una scena di battaglia di immense proporzioni. Per aggiungere ulteriore drammaticità al brano uno dei tecnici della Band verso la fine del pezzo manovrò da sotto il palco una sirena d'allarme aereo: l'organizzatore del concerto che voleva far fretta al Gruppo perché lasciasse il palco agli Stones rimase così impressionato che li lasciò finire: così, in quel giorno di Luglio mezzo milione di spettatori non assistettero solo ad una delle più leggendarie esibizioni della storia del Rock ma ricevettero anche uno shock contenente un sinistro presagio rispetto al clima di falso e generale ottimismo che si cercava di imporre (ricordiamo che era al suo culmine la guerra del Vietnam).
Ci chiediamo perché non emergano oggi artisti di questa levatura a parlarci nella stessa lingua: evidentemente il lavoro che il potere finanziario ha svolto in questi anni in tutti i luoghi dell'istruzione e della cultura ha dato i suoi frutti creando quell'ultimo uomo di cui parlava lo Zarathustra di Nietzsche al mercato, quando avvertiva che si avvicinava il tempo in cui l’uomo "non genererà più stelle”, Il tempo che sarà quello “dell’uomo più disprezzabile, quello che non sa più disprezzarsi”...
Fonte:
https://t.me/labandadegliidraulici
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chez-mimich · 9 months
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JAMES BRANDON LEWIS: “FOR MAHALIA WITH LOVE”
Il titolo dell’ultimo straordinario lavoro di James Brandon Lewis e del suo “Quintet” lascia pochi dubbi e, se qualcuno ne avesse, potrà facilmente fugarli ascoltando questo disco. “For Mahalia with Love” è un magnifico omaggio di Brandon Lewis alla memoria della grandissima Mahalia Jackson, regina del Gospel, come fu soprannominata. Ma questo omaggio contiene in sè qualcosa di molto più intimo e profondo perché mediato dal ricordo che di Mahalia conservava la nonna di James Brandon Lewis e che è riportato nel retro della copertina, sotto forma di una struggente lettera del musicista a Mahalia. Scrive Brandon Lewis: “…Mahalia, mi sono innamorata di te dal giorno in cui mia nonna mi ha parlato di te, perché tutto ciò che la nonna menziona deve essere speciale. Le nonne occupano un posto speciale nel cuore e nella mente dei bambini. Ricordi tutto della nonna: cosa cucinava, cosa indossava, le sue parole di saggezza, l'odore della sua casa... “ Insomma un amore con salde radici e che viene da lontano. In questi casi, quando l’omaggio non è una occasione posticcia o una piccola convenienza, il risultato si sente subito nella musica ed é un meccanismo quasi automatico: così accade appena poggiato il dito sul tasto “play” e nelle cuffie si accendono le prime note di “Sparrow”, solenne introduzione e chiaro omaggio a “His Eyeis Is on the Sparrow”, composta da Charles H. Gabriel, e a “Even the Sparrow” dello stesso Brandon Lewis. La magia del sentire musicale di Mahalia Jackson sembra già manifestarsi forte e potente. “…Il suo occhio è sul piccolo passero…” diceva la canzone, riferito all’occhio di Gesù, e proseguiva “…Canto perché la mia anima è felice/Canto perché sono libera/Per il suo occhio sul piccolo vecchio passero/E so che sta vegliando su di me e su di te…” Come rendere al meglio la spiritualità e la profonda umanità di questi versi se non con l’amorevole sax di Brandon Lewis, accompagnato dalla cornetta di Kirk Knuffke e sostenuto dalla batteria di Chad Taylor? Anche in questa versione strumentale, con buona pace di De Gregori, gli uccellini non sono “soli nel sole”, ma sono protetti dal Signore e, senza un profondo senso religioso, se non si riesce a comprendere Mahalia Jackson, non si riesce nemmeno a comprendere la gioiosa religiosità nella musica di Brandon Lewis. Con “Swing low” potremmo percorrere un viale del Louis Armstrong Park di New Orleans dove si profila da lontano il “Mahalia Jackson Theater for the Performing Arts”; brano godibile e pieno zeppo di riferimenti allo swing e al vitalismo della black music. Cambiano i ritmi ma non cambiano le atmosfere sia con “Go Down Moses” fitto e dialogante, sia con “Wade in the Water”, con il suggestivo sottofondo delle percussioni di Taylor. “Calvary” è invece un dolente lamento religioso incentrato sulla sofferenza di Gesù che altro non è che la sofferenza del mondo. Chissà come sarebbe una Via Crucis con questo accompagnamento, dove il contorcimento degli animi e le inquietudini, come possono essere quelli dei sofferenti, prendono qui corpo nella musica. Orchestrazione completa e corposa dove trova spazio anche il violoncello di Chris Hoffman e il contrabbasso di William Parker. “Deep River” ci riporta a sonorità più intense e con tanto spazio per gli assoli, mentre la seguente “Eljia Rock” fa diretto riferimento al profeta Elia che, per la tradizione ebraica non morì, ma fu assunto in cielo con anima e corpo e quindi in diretto riferimento alla figura di Gesù tanto cara a Mahalia. L’immanenza del Signore (ma forse anche di Mahalia), è richiamata nel titolo di “Were You There”. Il lavoro si conclude con una magnifica versione rivisitata di “Precious Lord Take my Hand”, brano che la Jackson cantò all’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca. Un disco che omaggia giustamente la regina del gospel, ricorda l’amata nonna di Brandon ma che, naturalmente, splende di luce propria e che non si smetterebbe mai di ascoltare.
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true-trauma · 9 months
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E' uscito Africa unite.
Il 2 ottobre 1979 uscì il disco Survival di Bob Marley (e del suo gruppo, i The Wailers), sulla cui copertina erano riportate le bandiere nazionali della stragrande maggioranza dei paesi del continente africano, per il quale Bob si era ampiamente battuto.
Quel disco si apriva con So much trouble in the world, di cui parlai già lo scorso anno sull’iniziare dello scontro russo-ucraino. Composto da 5 brani per lato (lato a e lato b, per un totale di 10 brani), il lato b si apre col brano Africa unite che, come si può facilmente intuire, era simbolo del desiderio di Bob Marley nel vedere tutti i popoli africani in pace tra loro.
Quest’anno, la Island ha rilasciato il disco dal titolo Africa unite in cui raccoglie 10 brani della discografia e dei The Wailers che sono stati reinterpretati da altri artisti reggae/dancehall. La tracklist si compone come segue.
1. So much trouble in the world feat. Natty O e Winky D.
2. The belly full (but we hungry) con Rema e Skip Marley.
3. Redemption song feat. Ami Faku.
4. Waiting in vain feat. Tiwa Savage.
5. Turn your lights down low feat. Afro B.
6. Three little birds feat. Teni e Oxlade.
7. Buffalo soldier feat. Stonebwoy.
8. Stir it up feat. Sarkodie.
9. Jamming feat. Ayra Starr.
10. One love feat. Patoranking.Sapevi dell’uscita di questo progetto?
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danzameccanica · 3 years
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Quando uscì Diabolis Interium non stavo più nella pelle. Avevo conosciuto i Dark Funeral solo parzialmente con l’EP Teach Children to Worship Satan e poi avevo finalmente trovato da Musica Musica il primo The Secrets of the Black Arts. I Dark Funeral incarnavano tutto il black metal che volevo ascoltare e in cui volevo immedesimarmi in quegli anni; ricordo che in primo liceo, pur non avendoli mai ascoltati mi ridisegnai il loro logo sulla cartella di educazione tecnica. Ancora oggi, Vobiscum Satanas è un disco che non capisco granché, che non è entrato in me, forse per l’eccessiva somiglianza fra un brano e l’altro. Invece Diabolis Interium inizia ad essere variegato; c’è un ottimo lavoro di songwriting sulle chitarre che non sono più dei semplici e velocissimi power-chords ma iniziano ad essere più “swedish”. I Dark Funeral iniziano davvero a suonare in questo disco; certo sono ancora velocissimi, addirittura più veloci dei Marduk; ma ora il patto col diavolo ha davvero generato i suoi maligni frutti. Intanto il batterista Matte Modin (ex Defleshed) riesce a dare ai brani una vitalità disarmante; la doppietta Ahriman-Dominion è forse la più vincente fino al recente Where Shadows forever Reign.
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Al di là degli altisonanti titoli in latino, che all’epoca erano dei cliché, “An Arrival of Satan Empire” è una mazzata diretta e melodica (ricordo ancora il potente impatto quando li vidi nel 2002-2003 a Roma) mentre “An Apprentice of Satan” è stata ri-registrata in modo sbalorditivo rispetto al precedente EP. Prima era più classica, precisa, black metal old-school. Ora invece, intorno ai riff efficaci ma quasi banali, la batteria riesce a tirar fuori quanto ci sia di più maligno e possente. Le seconde voci aggiunte in produzione non fanno altro che aprire di più l’imbuto dell’Inferno verso Lucifero. Per non parlare dell’aura evocativa che emana il bridge del brano. “The Goddess of Sodomy” stranamente può risultare il brano più azzeccato dei Dark Funeral; stranamente perché il brano è una traccia in mid-tempo dove le chitarre tracciano dei riff alla Mayhem. “Thus I Have Spoken” è un brano che ricorda i Marduk di Opus Nocturne e, dopo un altro paio di doppiette sparate al fulmicotone, la conclusiva “Heart of Ice” è degna di interesse  sempre per le sue partiture chitarristiche che salgono in un climax davvero niente male.
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