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josefcapicotto-blog · 5 years
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LO STATO NAZIONALSOCIALISTA
Lo Stato Nazionalsocialista è quanto di più profondo e perentorio possa esserci, rappresenta una netta spaccatura con le concezioni precedenti di stato, da quello liberale, libertario a quello assolutistico.
E l’insieme nazionale rappresenta la netta spaccatura con la concezione sociale emersa dopo il 1789 in Francia.
Lo Stato Nazionalsocialista si pone l’onere di rappresentare il III Reich, definizione di eredità storica, che senz’altro glorifica lo stato, ma al contempo onora la grandezza del popolo germanico, cosicché riecheggi nella mente dei tedeschi il Sacro Romano Impero e l’impero tedesco di Guglielmo II.
Nella sua essenza lo Stato nazionalsocialista è una forma più che un concetto, concezione divergente con l’auto concetto attualistico di Gentile in Italia.
Lo stato è per il nazionalsocialismo la più alta espressione della vitalità nazionale, degli animi tedeschi, ed è alla fine di tutto il popolo stesso.
Così come per il fascismo, che però auspicava uno stato strutturato, il nazionalsocialismo ripudia lo stato come ente/istituzione di tipo assistenzialista, o direbbero gli attuali economisti cosmopoliti, di “welfare”.
Lo stato è vitalità, è il popolo, è la razza, e assume una forma conservativa.
Come già espresso da Hobbes nel de Cive, la società degli uomini è mossa da uno spirito di auto conservazione, cioè tende a conservare la propria essenza meccanicisticamente, con il moto auto diegetico.
Mira alla conservazione di sè, dunque della propria natura, della propria razza, ed è per questo un mezzo per un fine;
“Lo stato è un mezzo per un fine. Il suo scopo è la conservazione ed il progresso di
una società dal punto di vista fisico e spirituale”.
“I diritti umani superano la legge di stato”.
Adolf Hitler
Per il Nazionalsocialismo, lo stato è un mezzo per preservare la razza, per
migliorare l’essere umano come uno strumento biologico creato da uomini per l’uomo. Lo Stato nel concetto Nazionalsocialista esiste solo come il popolo lo accetta perché esiste per loro”
Concezione rivoluzionaria e deterministica puramente germanica e sociale.
È la teoria dell’Etno-Stato Transitorio, in cui Razza, Stato, Nazione fungono da sinonimo e costituiscono un sinolo simbiotico, di conseguenza la transitorietà è data sia dal finalismo che lo stato si auto pone, sia dal costante mutamento formale a cui è soggetto.
Rientra sicuramente l’ontologia politica, per la quale le comunità politiche devono rispecchiare l’essenza naturale della comunità stessa, da non confondere assolutamente con il giusnaturalismo, affiliato di solito al contrattualismo, per il quale in sintesi, la società si pre-determina su alcuni diritti meramente naturali, che regolano la co esistenza degli individui.
Nell’ontologia Nazionalsocialista si inserisce il concetto di Pangermanesimo e dello stato Fichtiano.
È una questione prettamente culturale, razziale, linguistica, sociale.
È un concetto totalizzante che ha espressione nei discorsi sulla nazione tedesca, e sul concetto di rivalsa del popolo/razza, ripreso in parte da hegel (volksgeist).
Il fine del lebensraum è l’edificazione del pangermanesimo, riunire tutti le genti di origine, lingua e cultura tedesca, che erano ancora non definitivamente unite dopo il primo conflitto mondiale.
Lo spazio è dunque il territorio del reich in cui dovrebbero essere compresi i territori germanici (parte della polonia, austria, sudeti, cecoslovacchia e austria)
Vitale perché solo riunendo le genti tedesche è possibile dar vita alla nazione tedesca.
Una volta unita la germania, il popolo tedesco, in una sorta di prosopopea, così come il dotto ha il compito di riportare le genti sulla retta via, verso lo splendore così la Germania potrà essere la guida “morale” di tutta l’europa.
Il discorso sulla moralità è altrettanto complesso, di fatti il nazionalsocialismo ripudia ogni tipo di moralità ed eticità (morale universale) altra grande differenza con il fascismo italiano e lo stato etico Gentiliano.
Le azioni degli individui sono dettate esclusivamente dallo spirito, non da una plasticità formalizzata che devitalizzerebbe la natura del popolo, l’individuo agisce di spirito, innalzandosi ad oltreuomo, liberamente e in pura ottica essenzialista.
Il culto del capo nel nazionalsocialismo si fonda su tutto quanto detto precedentemente, infatti lo stato, inteso alla maniera nazionalsocialista e germanica è un sinolo politico, in cui capo, stato e nazione coincidono ontologicamente, in cui il capo sia proprio quel dotto al quale il destino affida le sorti del popolo, il quale dovrà rappresentare il popolo e costituire con il popolo un tutt’uno.
Il capo è la manifestazione di una volontà divina, un’astuzia della ragione direbbe hegel, ma soprattutto il capo è uno spirito libero, un essere superiore ed amorale, poiché non ha alcun giudizio di libera volizione, non si aliena socraticamente dalla realtà, bensì si pone escatologicamente.
Vi è il superamento netto della concezione di bene e male affermando l’unica via dell’onore, verso la vittoria, il trionfo della razza, inteso anche come presa di coscienza, preservazione e manifestazione.
Questa concezione spirituale e meta-politica fu molto apprezzata dal filosofo italiano Julius Evola, il quale definì lo stato nazionalsocialista un fuhrer-staat, cioè quanto detto prima, una simbiosi perfetta.
In ultimo, altra caratteristica fondamentale dello stato è l’anti parlamentarismo, che accomuna anche il fascismo italiano, per il quale il parlamento è un organo prima di tutto estrinseco alla nazione, in secundis un organo formale anti popolare, particolaristico in cui non si fanno assolutamente gli interessi della nazione ma gli interessi di poche persone, di fazioni ristrette, di gruppi economici e di potere.
Ancora, il parlamento viene visto come un luogo di perdigiorno, di fannulloni, di parassitismo, un vero peso alle spalle delle popolo - possiamo citare senz’altro il famoso “bivacco” di mussolini, il quale con le secessione dell’Aventino del 1924 con una dura prova forza mostrò alla nazione come si potesse lavorare anche meglio senza il parlamento.
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purpleavenuecupcake · 4 years
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L’attività diplomatica di Leone XIII:  da effimeri successi a grandi conquiste
(di Claudio Mancusi) Il pontificato di Pio IX era stato essenzialmente difensivo e, pur avendo purificato la Chiesa, l’aveva isolata troppo dalla società non consentendole d’intrecciare relazioni con i gruppi e le idee allora dominanti. Per il bene stesso della religione cattolica era giunto il momento d’attuare una nuova tattica occupandosi di ristabilire i contatti e di trovare qualche terreno d’incontro con il “mondo”, perché, in caso contrario, un’intransigenza portata all’eccesso avrebbe reso sterile di buoni risultati qualsiasi buona attività ecclesiastica. Ma per fare questo era necessario superare una pregiudiziale presentatasi per la prima volta alla morte di Pio IX; infatti la Chiesa si trovò davanti al caso delicatissimo di dover tenere il conclave per la scelta del successore del defunto pontefice senza quella libertà di movimenti che le era offerta per l’innanzi dal possesso di uno Stato suo proprio. Qualcuno avanzò la pazzesca opinione di allontanarsi da Roma, ma per fortuna il buon senso prevalse e tutto si svolse regolarmente, risultando eletto, il 20 febbraio 1878 il cardinale camerlengo Gioacchino Pecci, arcivescovo di Perugia, che prese il nome di Leone XIII.  I timori degli “ultra” di questa e di quella sponda del Tevere (cioè dei più intransigenti clericali e dei più accesi anticlericali) si dimostrarono, in quella come in altre circostanze, sbagliati e la situazione –che era indubbiamente difficile e complicata– non fu mai portata alle estreme conseguenze né da parte della Santa Sede né da parte del Regno d’Italia, lasciando invece al tempo di sanarla; tutti finirono con il rendersi conto che la Chiesa Cattolica stava godendo ormai di un nuovo tipo di libertà, forse non peggiore di quello garantitole per l’innanzi da un pezzo di terra o dagli appoggi interessati di qualche sovrano protettore. Il tentativo di far cadere –insieme con i poteri temporali ecclesiastici– anche il prestigio spirituale, la funzione sacerdotale, fallì pienamente ed il compito insostituibile di una società ecclesiale brillò di una nuova luce, perché non fu offuscato dalle incombenze temporali (che spettavano di diritto ad altri) e si rivolse peculiarmente alla formazione interiore e personale dei fedeli. Il lungo pontificato di Leone XIII (morì novantaquattrenne il 20 luglio 1903) presenta due aspetti preminenti, abbastanza facilmente individuabili; una serie di affermazioni dottrinali e prese di posizione ideologiche in campo filosofico, biblico e sociale. Per comprendere quello che avvenne in Germania bisogna ritornare un po’ indietro e ricordare che il Bismarck, onnipotente ministro del re di Prussia diventato anche imperatore, ubriacato dai successi ottenuti ovunque, aveva dato inizio ad un’astiosa guerra di religione volendo piegare ai suoi fini politici anche i cattolici; questa guerra fu chiamata del Kulturkampf, quasi si trattasse di una battaglia combattuta in nome della cultura e del progresso contro l’oscurantismo e i residui di un passato vergognoso;  insomma la ragione si ergeva contro la superstizione, di cui la Chiesa cattolica era ritenuta depositaria e propagandista. La proclamazione dell’infallibilità pontificia, uscita dal concilio ecumenico Vaticano del 1869-70, aveva fortemente preoccupato Bismarck (ma non lui solo, perché anche l’Austria denunciò il Concordato dichiarando che uno dei contraenti, cioè la Santa Sede, aveva mutato la sua natura); egli affermò che un cattolico si trovava d’ora in avanti legato da due vincoli di fedeltà, verso il pontefice e verso lo Stato di cui era cittadino, e che l’uno era incompatibile con l’altro.  Era un comodo pretesto per colpire il gruppo parlamentare cattolico, divenuto molto forte al Reichstag; il Cancelliere trovò l’appoggio dei cosiddetti “vecchi cattolici”, un gruppo di professori capeggiato dal Dollinger, che crearono uno scisma non accettando il dogma dell’infallibilità. Costoro tuttavia, malgrado l’appoggio governativo, non ebbero alcuna importanza in Germania mentre i deputati del Centro –come fu chiamato il partito cattolico- che era guidato da Luigi Windthorst e s’ispirava alla viva sensibilità sociale del vescovo di Magonza, mons. Ketteler, svolsero un’energica opposizione alle misure persecutorie del Bismarck riuscendo alla fine ad avere la vittoria su tutto il fronte. Il complesso delle leggi anticattoliche fu chiamato “leggi di maggio” perché votato in quel mese dell’anno 1873 e comportava il controllo statale sulle scuole tenute da religiosi, la limitazione dell’attività dei Gesuiti e di altri Ordini, la subordinazione delle nomine ecclesiastiche alle autorità civili e finanche facilitazioni per coloro che apostatassero. L’applicazione dei provvedimenti fu anche più dura ed astiosa della lettera stessa di essi (al contrario di quello che avveniva in Italia) e nel giro di pochi anni tutti i vescovadi rimasero scoperti mentre lo Stato, ripristinando un diritto di patronato, affidava a laici l’uso di benefici minori, né mancarono arresti in massa di sacerdoti, sospensioni e trasferimenti, e, per ultimo, la rottura delle relazioni diplomatiche tra Berlino ed il Vaticano. Una ben orchestrata propaganda metteva in pessima luce il Cattolicesimo di fronte alla coscienza nazionale ed alla civiltà moderna. I risultati furono perfettamente opposti a quelli desiderati; i deputati del centro vedevano ad ogni elezione aumentare il loro numero ed il Bismarck finì con il capire che la sua tattica era sbagliata; buttando a mare il ministro dei culti, egli iniziò un lento riavvicinamento con la Chiesa emanando via via “leggi di pace” con il quale era abolito il tribunale per gli affari ecclesiastici, restituiti i seminari, riammessi i religiosi, ristabilite le relazioni diplomatiche. Quasi a dimostrare tangibilmente l’avvenuto accordo, il Bismarck compì il gesto simbolico di chiamare Leone XIII come arbitro in una controversia che era sorta tra la Germania e la Spagna circa il possesso delle isole Caroline nell’Oceano Pacifico; il papa compose la delicata vertenza con soddisfazione di entrambe le potenze interessate. Senza seguire caso per caso le polemiche e le lotte verificatesi nei singoli Stati tedeschi in quello stesso periodo di tempo, si può passare all’Austria, che riservò all’imperatore il diritto illimitato di regole tutti gli affari della  Chiesa e mise sotto il controllo statale l’amministrazione delle proprietà del clero. Alla fine del secolo sorse anche un movimento di separazione da Roma basato sul principio che il cattolicesimo era il principale ostacolo all’unione di tutti i tedeschi (pangermanesimo), e soltanto lo zelo dei vescovi e dei religiosi ridusse le cattive conseguenze di tale iniziativa. Anche in Boemia l’organizzazione ecclesiastica cattolica fu accusata di essere un sostegno della tirannia asburgica e di reprimere l’elemento nazionale ceco; invece in Polonia la salda fede cattolica era un fattore di speranza per quanti vivevano oppressi dalla Russia, benché il papa Leone XIII avesse riallacciato amichevoli rapporti con lo Zar alla salita al trono di Nicola II (1894) ritenendo che –non appena vi fosse un minimo di garanzia– era meglio mantenere contatti e buone relazioni in vista del raggiungimento del bene comune e di una larga possibilità di azione per i cattolici nella vita pubblica e sociale dei singoli paesi. Anche con la Svizzera vi furono approcci per il ristabilimento della gerarchia cattolica nel paese; con l’Inghilterra, dove il moto di ritorno verso Roma diveniva sempre più rapido ed imponente, avvennero novità soddisfacenti; in Belgio (dove Leone era stato nunzio e che quindi conosceva bene nella sua struttura politica) la collaborazione dei cattolici con le altre forze continuava felicemente; negli Stati Uniti, immenso territorio aperto all’apostolato cattolico, la religione godeva grande libertà essendo la Chiesa del tutto staccata dallo Stato, nel frattempo le immigrazioni di Irlandesi e d’Italiani spostavano le proporzioni confessionali; in Spagna il pontefice invitò i cattolici ad aderire lealmente al governo di Alfonso XII per impedire il prolungarsi di lotte intestine dannose alla Chiesa non meno che allo Stato, ma, così facendo, si liquidavano anche tutti i residui di legittimismo liberando la religione dai lacci della politica che si erano colà rivelati dannosi ai veri interessi spirituali. Un curioso incidente diplomatico scoppiò con il Portogallo perché questo Stato non volle riconoscere le nuove giurisdizioni ecclesiastiche create in India dalla Santa Sede e pretese che l’arcivescovo di Goa –che era un portoghese– avesse ancora un potere su tutta la regione; lo scisma si trascinò per l’ostinazione del clero locale e l’appoggio dato dal governo ai ribelli, ma finì con un concordato in cui all’arcivescovo era riservato solamente il titolo onorifico di “Patriarca delle Indie”. Anche nelle missioni il vecchio sistema del patronato andava scomparendo senza rimpianti, non avendo dato buoni frutti per la confusione della religione cattolica con la dominazione coloniale europea.  Che cosa avvenne in Francia dopo l’abdicazione di Napoleone III nel 1870 e mentre i Tedeschi proclamavano imperatore di Germania il re di Prussia in quello stesso palazzo di Versailles che era stato il soggiorno dei sovrani borbonici? Parigi era insorta travolgendo ogni ordinamento costituito, e il suo arcivescovo, insieme a molti altri preti, dopo essere stati presi come ostaggi, vennero fucilati.  Non fu facile al governo repubblicano –che aveva preso stanza nel Sud del paese– ristabilire la sua autorità nella capitale, ma per noi ciò che interessa è l’atteggiamento delle nuove forze verso la Chiesa, dato che –come si disse– i clericali avevano appoggiato assai l’imperatore napoleonico e questi era sempre stato il tutore dello Stato della Chiesa. Ora il potere temporale non esisteva più, ma le rivendicazioni di esso da parte del papa erano sempre vibrate né l’intesa, sul piano politico, tra l’Italia e la Francia era facile o gradita alle due parti; di conseguenza vi erano tutti gli elementi per creare un complicato intreccio d’interessi in cui Chiesa e Stato, religione e politica, partiti e tendenze, convinzioni e personalismi facessero di volta in volta da bandiera o da scudo ed alimentassero movimenti, polemiche, iniziative dando luogo spesso a complicazioni, insuccessi, rapide fortune, improvvisi cambiamenti di fronte e (perché no?) anche a qualche buon risultato. Non si può non riconoscere negli esponenti repubblicani francesi (Leone Gambetta, Giulio Grévy e altri) un sincero amor patrio ed una tenace volontà di ripresa nazionale, tuttavia il loro feroce anticlericalismo era, oltre tutto, fuori luogo in una situazione generale così delicata; la parola d’ordine dopo le elezioni del 1877 fu “Le cléricalisme, voilà l’ennemi !” e la battaglia fu sostenuta senza tregua né esclusione di colpi contro tutte le istituzioni cattoliche con l’intento di arrivare alla scristianizzazione della scuola e della cultura, al divieto delle manifestazioni pubbliche del culto, all’espulsioni di molti religiosi ed alla rottura dei legami con Roma. Fu una ventata d’irreligione quale mai si era vista in precedenza; nondimeno la prova dolorosa fu feconda perché affinò la vocazione religiosa del clero francese e migliorò la preparazione culturale del nucleo del laicato conservatosi fedele alla Chiesa. I cattolici erano rimasti per la maggior parte attaccati alle idee monarchiche e dimostravano in ogni modo la loro ostilità al regime repubblicano, ma il pontefice li invitò ad accettare la nuova costituzione ed a servirsi dei mezzi legali (parlamento, giornali) per opporsi alle manovre anticlericali invece di isterilirsi nei vani sogni di restaurazione di un passato anacronistico e malvisto dalla maggioranza dei concittadini. Fu proprio per dimostrare i sinceri proposti di Leone XIII che il cardinale Lavigerie, arcivescovo di Algeri, fondatore della Congregazione dei Padri Bianchi per la conversione degli Arabi, compì un gesto clamoroso accogliendo nel suo palazzo il 12 novembre 1890 gli ufficiali della flotta francese in visita alla città ed elevando un brindisi al banchetto d’onore per la salute della Repubblica; il ralliement era fatto, ma non ebbe sviluppi e mancò la formazione di un partito repubblicano-legalitario-cattolico-conservatore, che avrebbe potuto incidere sull’evoluzione politica della Francia. Poco più tardi lo stesso papa intervenne con un’enciclica, Au milieu des sollicitudes, per ripetere al clero e al popolo che era pericoloso lasciare andare le cose verso la totale separazione della Chiesa dallo Stato ed era necessario un esprit nouveau di conciliazione verso la Terza Repubblica; ma anche questa volta fu poco seguito ed i cattolici ralliés furono pochi e malvisti da tutti, né essi seppero agire con abilità ed energia in modo da controbilanciare la propaganda anticlericale. Per di più scoppiò il famoso “affare Dreyfus”, che vide i cattolici schierati quasi al completo dalla parte degli antidreyfusiani – che erano anche antisemiti ed antirepubblicani – e ciò gettò nuova cattiva luce sui clericali, aiutando la definitiva scissione tra la Chiesa e la società laica ed intellettuale francese; le Congregazioni religiose, che avevano in mano l’educazione della gioventù, furono particolarmente colpite e la politica religiosa puntò verso la denuncia del Concordato napoleonico, che era ancora in vigore. In conclusione, l’intensa attività diplomatica di Leone XIII rispondeva ad un disegno che gli consentì di raggiungere feconde conquiste accanto a effimeri successi; il pontefice era convinto della necessità della restaurazione del potere temporale della Chiesa (ma non nelle vecchie forme ed estensione), tuttavia non si limitò a protestare, come il predecessore, bensì chiese esplicitamente l’appoggio di alcune potenze conservatrici. Per ben tre volte inviò appelli a Francesco Giuseppe imperatore di Austria, ma ebbe sempre risposte evasive anche se gentili. Con Bismarck tentò qualcosa del genere, ma ebbe soltanto buone parole; per far da contrappeso alla Triplice Alleanza il papa vide di buon occhio la stipulazione dell’Intesa franco-russa, ma anche da quella parte nulla fu fatto per la causa del potere temporale, ed anzi verso la fine del secolo il riavvicinamento franco-italiano non poté riuscire gradito Leone perché toglieva sempre più l’Italia dal suo isolamento diplomatico, ne consolidava le istituzioni ed accresceva il prestigio diplomatico del nuovo Stato senza obbligarlo a cercare in un accordo con la Santa Sede l’appoggio negatogli altrove. D’altra parte Leone XIII –come è ben noto– guardò con simpatia le nuove forze popolari ed allargò l’orizzonte sociale della Chiesa auspicando la compatibilità del Cristianesimo con la democrazia moderna; sembrò, dunque, che volesse conciliare cose contraddittorie, dato che si volgeva verso i sovrani assoluti e insieme verso gli esponenti più avanzati delle rivendicazioni popolari, verso governanti (come quelli francesi) che si dichiaravano apertamente anticlericali ed erano notoriamente affiliati a sette segrete e verso i più strenui oppositori di qualsiasi ordinamento liberale e costituzionale. Forse l’incertezza era nelle cose stesse, nel dilemma aperto da secoli tra la Chiesa e la società moderna, in quanto la prima non poteva non sostenere il principio di autorità e dell’unica verità di cui era depositaria, l’altra si presentava come assertrice della critica, della discussione e della tolleranza. Read the full article
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