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Russia Ucraina: un conflitto che indebolisce la situazione finanziaria mondiale
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Russia Ucraina: un conflitto che indebolisce la situazione finanziaria mondiale
In questi giorni si è tornato a parlare di Ucraina. Non del fronte militare: di quello non si parla più da settimane. E nemmeno delle mancate elezioni presidenziali: previste per la primavera 2024, non si sa se e quando si terranno. Così come della scomparsa (giusto per usare un eufemismo) di centinaia di milioni di dollari in armi e armamenti regalate all’Ucraina dai Paesi occidentali: dopo il report ufficiale degli USA nel quale si parlava di oltre un miliardo di dollari in armi e armamenti di cui si erano perse le tracce, nei giorni scorsi è venuta a galla la sparizione di un’altra quarantina di milioni di dollari di aiuti dei quali non si sa più che fine abbiano fatto.
Nei giorni scorsi, i Paesi del G7 (Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Giappone) e dell’Unione Europea hanno deciso di rinnovare il proprio sostegno al governo di Zelensky concedendo altri 50 miliardi di dollari di aiuti, da ora fino al 2027. Quello che hanno dimenticato di dire è che questa somma (tutt’altro che bruscolini: si pensi a quanti problemi potrebbero essere risolti con tutti questi miliardi), probabilmente, non servirà a nulla. Per diversi motivi.
Il primo è la situazione finanziaria di questo Paese. Secondo Il Fondo Monetario Internazionale, il debito pubblico dell’Ucraina è praticamente un pozzo senza fondo. Solo per il 2024, il Fondo Monetario Internazionale stima il deficit di finanziamento dell’Ucraina superiore ai 40 miliardi di dollari. Gli aiuti dei Paesi del G/ e dell’UE non basterebbero nemmeno a coprire questo. Ma non basta: secondo le stime della Banca Mondiale, il fabbisogno a lungo termine dell’Ucraina per la ricostruzione ammonterebbe a 411 miliardi di dollari. Alcuni Paesi europei hanno espresso scetticismo sulla decisione di continuare a versare montagne di denaro all’Ucraina. “Tutti si rendono conto che 50 miliardi di euro non sono sufficienti”, ha detto Johan Van Overtveldt, conservatore belga che presiede la commissione Bilancio del Parlamento europeo.
A questo si aggiunge un’altra riflessione. I 50 miliardi di euro che l’UE dovrebbe regalare all’Ucraina dovrebbe provenire dal bilancio centrale. Questo, sulla carta, non dovrebbe inficiare altre voci di spesa già in crisi (si pensi alle polemiche di questi giorni sulle politiche agricole). Per questo motivo si starebbe pensando di trovare altrove i fondi. Tra le soluzioni proposte ci sarebbe quella di consentire a Kiev di emettere dei “bond zero coupon”, ovvero dei titoli di stato senza cedole periodiche ma con interessi pagati tutti insieme al momento della restituzione del prestito. Ma vista la voragine dei debiti dell’Ucraina nessuno comprerebbe questi titoli. Per questo,  alcuni “furbetti” dell’alta finanza hanno pensato di utilizzare, a garanzia di questi bond, gli asset della banca centrale russa congelati in Europa il cui valore si aggira intorno ai 250 miliardi di euro.
Inutile dire che esistono fortissimi dubbi sulla legittimità e sulla legalità di questa manovra: finora nessun tribunale si è pronunciato su questi fondi e Mosca ha annunciato l’intenzione di ricorrere in ogni sede contro iniziative di questo genere.
Il trucco sarebbe continuare a [fingere di voler] aiutare Kiev coprendo i rischi con gli asset russi, ma rimandando la questione sulla reale possibilità di farlo a un futuro non meglio definito. Un’operazione questa che comporta rischi e problemi non indifferenti di vario genere. Soprattutto per i Paesi Europei, alcuni dei quali hanno detto chiaramente di non essere d’accordo. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron hanno dichiarato che questo modo di fare, a lungo andare, potrebbe addirittura destabilizzare l’euro. Già perché tra le cose che gli “ideatori” di questa trovata non hanno detto c’è anche che la maggior parte delle riserve russe oggetto della manovra sono in euro. La Banca centrale russa aveva scelto questa moneta ritenendola più sicura e affidabile del dollaro, in considerazione del minore (rispetto al dollaro) rischio che gli asset venissero requisiti. Far crollare questa fiducia nell’euro come valuta internazionale alternativa al dollaro e soprattutto sicura potrebbe avere conseguenze non da poco sui mercati finanziari.
Ma non basta. Buona parte delle riserve russe sequestrate si troverebbero in Belgio, nel depositario centrale Euroclear. Qualora i contenziosi legali non avessero un esito come quello sperato dai Paesi del G7, potrebbero esserci conseguenze di natura geopolitica: aver venduto obbligazioni basate sull’ipotesi dell’esproprio degli asset russi, avrebbe effetti rilevanti anche sui dialoghi di pace proposti da molti Paesi europei (Italia inclusa). Per non parlare delle conseguenze che avrebbe sulla decisione dell’UE di applicare una tassa sui profitti generati dagli asset russi depositati in Euroclear che, nel 2023, hanno già prodotto 4,4 miliardi di euro. Una manovra per la quale diverse aziende russe coinvolte hanno già avviato diversi procedimenti legali. Quasi tutti nei tribunali russi.
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Ma i Paesi felici lo sono davvero?
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Ma i Paesi felici lo sono davvero?
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Da molti anni, i Paesi nordici sono in vetta alle classifiche dei Paesi più felici. Qui la qualità della vita è elevata e il benessere diffuso. L’ultimo World Happyness Record vede ai primi tre posti Finlandia, Danimarca e Islanda con Svezia e Norvegia rispettivamente al sesto e al settimo posto. Praticamente un dominio assoluto.
Eppure, esistono alcuni dati che potrebbero mettere in dubbio questi risultati. A cominciare dal tasso di suicidi. Secondo alcuni studi, la media globale dei suicidi è di 9 casi per 100mila abitanti, con un tasso di depressione del 3,9% e un divario non indifferente tra uomini (15 casi su 100mila) e donne (4 casi su 100mila). Ebbene, i Paesi scandinavi quelli ritenuti da molti i più felici al mondo restano anche quelli in cui ci si suicida di più. Almeno a livello europeo. In Islanda la percentuale di suicidi sarebbe di 11,2 casi per 100mila abitanti. Poco superiore in Norvegia (11,8 su 100mila). Ben più alta in Svezia (12,4) e ancora di più in Finlandia (addirittura 13,4 casi per 100mila abitanti), praticamente una volta e messo la media mondiale.  È vero che negli ultimi anni le percentuali sono calate ma il fenomeno sarebbe tutt’altro che risolto: i tassi standardizzati mostrano che in questi Paesi il numero di suicidi è ben al di sopra della media mondiale.
Percentuali in nessun caso confrontabili con quelle di Paesi come il Lesotho dove il tasso di suicidi è superiore a ottanta casi per 100mila abitanti. O della Guyana (40,9 per 100mila abitanti). Ma il confronto con altri Paesi sviluppati è sorprendente: in Italia il tasso di suicidi sarebbe poco superiore a 4 casi per 100mila abitanti. Solo poco più alto in Spagna: 5,3 casi per 100mila. Anche in Cina questo valore è sorprendentemente basso: 6,7 casi per centomila abitanti. Molto alto invece in un altro Paese “sviluppato” ai vertici tra le classifiche dei Paesi dove la gente vorrebbe vivere: gli USA. Qui il tasso di suicidi è addirittura di oltre 14 casi per 100mila abitanti.
Com’è possibile che in questi Paesi “ricchi” e “felici” ci sia una voglia di suicidarsi così elevata? Una spiegazione è che si tratterebbe di Paesi tanto “felici” quanto “chiusi”: secondo l’InterNations Expat Insider 2016 survey, la Danimarca sarebbe è tra i Paesi dove “è più difficile fare amicizia”. E ancora. Svezia e Danimarca sono tra i Paesi in Europa dove si registra il più alto numero di aggressioni sessuali. Nel 1994, la Svezia è stato il primo Paese al mondo con metà Parlamento composto di sole donne. Da allora ha battuto ogni record mondiale di parità di genere. Eppure, la Svezia sarebbe tra i Paesi con il maggior numero di violenze sessuali al mondo: 53,2 stupri ogni 100 mila abitanti, superata solo dal piccolo stato del Lesotho, nell’Africa del sud, che registra 91,6 abusi sessuali ogni 100 mila abitanti. La Svezia pare che detenga anche il record di bambini confusi col proprio genere sessuale. Louise Frisén, psichiatra infantile all’Ospedale pediatrico Astrid Lindgren, ha dichiarato all’Aftonbladet che nel 2016 ben 197 bambini si sono proposti per una “transizione”, per cambiare sesso: “C’è un aumento del cento per cento ogni anno, e le persone che stiamo vedendo sono più giovani e sempre più bambini”.
In Norvegia c’è un altro record: quello di “capitale [europea] dell’eroina”. È quanto emerge dall’analisi delle acque delle fogne di Oslo che contengono più anfetamine di qualsiasi altro Paese europeo. A Oslo si registrerebbe anche il più alto numero di morti per overdose del continente. Secondo Michael Booth, autore del libro “The Almost Nearly Perfect People”, gli abitanti di questi Paesi sono “quasi” perfetti. Quasi, appunto. Un quasi che porta gli abitanti di questi Paesi a utilizzare farmaci antidepressivi in quantità impressionante. Secondo un recente rapporto, il trenta per cento delle donne islandesi avrebbe avuto almeno una prescrizione di antidepressivi nel corso della vita. Si stima che il 38 per cento delle donne danesi e il 32 per cento per cento degli uomini danesi riceveranno un trattamento di salute mentale a un certo punto durante la loro vita.
Dati che mostrano che le persone che vivono in questi Paesi trovano difficoltà a misurare la propria felicità. Fino al punto da essere indotti a commettere gesti estremi. Un problema così diffuso che anche il Consiglio dei ministri Nordico e l’Istituto di ricerca sulla Felicità di Copenaghen hanno cercato di spiegarsi i motivi di questi dati così alti. Lo studio intitolato “In the Shadow of Happiness” ha cercato di analizzare cinque fattori che influenzano i livelli di infelicità: problemi di salute, disagio psicologico, differenze di reddito, disoccupazione e isolamento sociale. Dai dati relativi al periodo tra il 2012 e il 2016, emerge un’immagine tenebrosa dei Paesi nordici. Il 12,3% della popolazione dei Paesi nordici è in condizioni di infelicità e di sofferenza psicologica. Una percentuale che sale al 13,5% fra i giovani tra i 18 e i 23 anni e al 19,5% tra le ragazze svedesi (contro il 13,8% dei ragazzi). Ancora peggiore la situazione degli anziani: il 16% degli over 80 scandinavi sarebbe in condizioni di sofferenza per problemi fisici, di salute e solitudine. In Danimarca il 18,3% dei giovani tra i 16 e i 24 anni mostra problemi psicologici, percentuale che sale al 23,8% per le ragazze di questa fascia di età. In Norvegia tra il 2012 e il 2016 il disagio mentale dei giovani è aumentato di un incredibile 40%.
Problemi dei giovani che, come dimostra la percentuale di suicidi, non riguardano solo i Paesi scandinavi ma molti Paesi “sviluppati”. In teoria quelli dove proprio la ricchezza e l’elevato livello di sviluppo dovrebbero rendere la vita più facile. Ma non è così. Secondo uno degli autori dello studio, Michael Birkjaer, in tutto il mondo occidentale i giovani devono fare i conti con livelli di stress, solitudine e disturbi mentali elevatissimi. “I problemi psicologici in questa fascia di età si manifesta sotto forma di stress, ansia, depressione, comportamenti autolesionistici, consumi di antidepressivi e, in casi estremi, suicidio – si legge nel report. In Finlandia, il Paese più felice secondo il World Happiness Report 2018, “il suicidio rappresenta addirittura un terzo delle cause di morte tra i giovani tra i 15 e il 24 anni”. Questo a volte si intreccia con altri fenomeni pericolosi: la Finlandia, ad esempio, sarebbe il terzo Paese al mondo per diffusione di armi da fuoco (dopo Stati Uniti d’America e Yemen).
C’è, però, chi ha avanzato un’altra teoria: l’origine del malessere dei giovani scandinavi potrebbe derivare dalla percezione della necessità di emergere. “Abbiamo indizi sulle cause del problema: in Danimarca, per esempio, esiste una grande cultura del perfezionismo” ha detto Birkjaer. Ragazzi e ragazze sono portati sempre di più a essere i primi. Anche sui social media. Oggi i giovani – non solo nei Paesi scandinavi – considerano i social network un momento di socialità reale. In alcuni casi il più reale della realtà. Un dato che troverebbe conferma anche dalle percentuali di suicidi in Giappone: 12,2 per 100mila abitanti, una percentuale simile a quella dei Paesi scandinavi. Anche qui, sin dalla tenera età, i bambini sono portati a credere che l’importante non è vivere ma primeggiare.
Quale che sia la causa, restano i numeri impressionanti relativi ai suicidi. “Nonostante alcuni progressi, nel mondo si registra un suicidio ogni 40 secondi” ha dichiarato il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus. “Ognuno di questi decessi è una tragedia per famigliari, amici e colleghi”. I morti per suicidio sono più di quelli per Hiv, cancro al seno o per omicidi. Tra i giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni il suicidio è la quarta causa di morte violenta (dopo gli incidenti stradali, la tubercolosi e la violenza interpersonale).
E molte volte le cause che hanno portato al suicidio sfuggono a letture superficiali su cosa possa rendere o meno felice una persona.
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Cassandra Crossing/ Archivismi: Cassandra tra i ghiacci
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Cassandra Crossing/ Archivismi: Cassandra tra i ghiacci
(570) — Abbiamo visto che l’archiviazione a prova di secoli tra i ghiacci esiste davvero. Ma come può fare Cassandra per “congelare” le sue esternazioni?
12 gennaio 2024 — Nelle 10 puntate della prima campagna di Archivismi abbiamo raccontato dell’archiviazione di 566 numeri di Cassandra Crossing su Internet Archive. Nelle successive due puntate abbiamo raccontato storia e tecnologie che rendono possibile l’archiviazione a lungo termine nell’Artico, con periodi di conservazione stimati tra i 500 ed i 1000 anni.
Resta da trattare il punto più importante; come fare per archiviare laggiù.
La buona notizia è che è semplice e relativamente economico, quella cattiva è che bisogna capire ed adeguarsi ad un processo tanto lento quanto “alieno”, e quindi apparentemente innaturale nella sua lentezza se non lo si conosce nei dettagli.
Si trova spiegato, in maniera un po’ dispersiva, sul sito dell’Arctic World Archive. Ne ricapitoliamo qui le fasi principali, per aver chiaro il processo. Per archiviare delle informazioni è necessario:
Aprire un account sul portale AWA, che è gratuito per i primi 45 giorni, poi 9 Euro/mese.
Creare un film virtuale, caricarvi i file e folder da archiviare; se necessario caricare anche i metadati, sia standard che personalizzati in caso di esigenze particolari. I dati resteranno sempre disponibili sul cloud del portale AWA, per tutto il tempo in cui l’account sarà attivo.
Finalizzare il film, pagando l’importo con carta di credito (139 Euro per un film da 1 GB).
Attendere il successivo turno di deposito dei film nell’archivio e la relativa cerimonia, che per ovvi motivi climatici e di distanza avvengono di rado, tipicamente una-due volte l’anno (ma tanto non abbiamo fretta perché lavoriamo per i secoli a venire). Alla cerimonia si può assistere da remoto o, se avete il tempo ed i soldi per un viaggio complicato ma affascinante, anche di persona. E se avete ancora più soldi potete far organizzare un deposito ed una cerimonia quando volete, a vostro esclusivo uso e consumo.
A questo punto, se le vostre esigenze di archiviazione sono terminate, l’account può addirittura essere chiuso. Si perde in tal caso la possibilità di accedere ai dati nel cloud, e non si fornisce più un piccolo sostegno economico all’Archivio.
C’è da tener presente che, data la natura del progetto, salvo diversi accordi i dati archiviati diventano, in prospettiva, pubblici.
La memoria del pianeta.
Se questo non fosse quello che vi serve, possono comunque essere presi accordi ad-hoc. Comunque, ricordate che in questi casi la crittografia è sempre la vostra amica migliore.
Nel caso che invece abbiate esigenze molto maggiori o particolari, esplorate gli account di fascia superiore, ed eventualmente contattate l’azienda via email.
E cosa ha fatto, per adesso, Cassandra? Ha incaricato il suo alter ego nel mondo materiale di eseguire queste attività.
Così il malcapitato ha dovuto:
Creare un account minimale (45 giorni gratis, poi 9 Euro/mese)
Creare il film più piccolo possibile, di 1 GB, con durata “eterna”. I film virtuali “piccoli” vengono scritti tutti insieme su un singolo film fisico, che cuba 120GB. Potete comprarne anche uno intero tutto vostro, nel qual caso potete anche gestirlo fisicamente. Oltre a trovare cose utili con cui riempirlo, ricordatevi però che dovrete scucire circa 9000 Euro.
Inserire gli articoli di Cassandra Crossing, prelevati direttamente da Internet Archive. Tuttavia ho il forte sospetto che abbia inserito qualche file personale, anzi “romantico”, insieme a quelli della rubrica.
Informarsi sulla data del prossimo deposito, non ancora fissata ma prevista a giugno.
Inserire i dati della carta di credito e mettere il dito sul tasto “invio”.
Poi fermarsi, perché ci sono ancora due mesi di tempo per utilizzare la prossima data di deposito, ed io e lui dobbiamo ancora decidere come finire di riempire il film, che è ancora per due terzi vuoto.
Avete qualche suggerimento? Qualche cosa da inserire nello spazio libero del film di Cassandra? Fatecelo sapere, scrivendo a Cassandra od a Marco.
Cassandra ringrazia chi ha avuto la pazienza di seguirla fino qui e annuncia la sospensione del racconto della terza campagna di Archivismi.
Ma gli Archivismi invece continuano; non devono mai fermarsi!
Scrivere a Cassandra — Twitter — Mastodon Videorubrica “Quattro chiacchiere con Cassandra” tempo Lo Slog (Static Blog) di Cassandra L’archivio di Cassandra: scuola, formazione e pensiero
Licenza d’utilizzo: i contenuti di questo articolo, dove non diversamente indicato, sono sotto licenza Creative Commons Attribuzione — Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale (CC BY-SA 4.0), tutte le informazioni di utilizzo del materiale sono disponibili a questo link.
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L'Antartide e i suoi misteri
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L'Antartide e i suoi misteri
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Quello dell’Antartide è un tema che, oggi più che mai, affascina per tutta una serie di motivi. Le distese ghiacciate paiono nascondere segreti che le varie spedizioni, nel corso degli anni, non solo non hanno diradato ma, al contrario, hanno contribuito a infondere un’aura di mistero ancora più fitta.
Antartide che, molto stranamente, risulta presente in certe mappe antiche quando ancora non era stata ufficialmente scoperta e, aspetto decisamente singolare, risulta priva di ghiacci, come se le mappe in questione fossero successive trascrizioni di antiche mappe nautiche risalenti a un lontano passato in cui il continente era privo di ghiacci.
Ecco quindi il perché alcuni studiosi hanno ritenuto che la tanto discussa Atlantide, di cui ci parla diffusamente Platone in alcuni suoi Dialoghi, sia da ricercare proprio in Antartide, dove attualmente le coltri di ghiaccio nasconderebbero le antiche vestigia.
In tutto questo non si può dimenticare il forte interesse del regime hitleriano verso il polo australe, con numerose missioni e ingente dispiegamento di mezzi per andare a creare delle basi proprio in Antartide. Quale il fine di andare così lontano dal suolo germanico? Che cosa cercavano i tedeschi e che cosa hanno portato al polo sud con decine di U-boot giunti in loco per motivi che sfuggono appieno?
Domande cui il saggio “Sotto l’Antartide”, Edizioni Facciamo Finta Che, cerca di dare una risposta, esaminando anche la testimonianza dell’ammiraglio Byrd e i dettagli dell’operazione Highjump che lo vide protagonista nel 1947 a capo di una missione dai fini non totalmente chiari nemmeno oggi.
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L'Antartide e i suoi misteri
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L'Antartide e i suoi misteri
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Quello dell’Antartide è un tema che, oggi più che mai, affascina per tutta una serie di motivi. Le distese ghiacciate paiono nascondere segreti che le varie spedizioni, nel corso degli anni, non solo non hanno diradato ma, al contrario, hanno contribuito a infondere un’aura di mistero ancora più fitta.
Antartide che, molto stranamente, risulta presente in certe mappe antiche quando ancora non era stata ufficialmente scoperta e, aspetto decisamente singolare, risulta priva di ghiacci, come se le mappe in questione fossero successive trascrizioni di antiche mappe nautiche risalenti a un lontano passato in cui il continente era privo di ghiacci.
Ecco quindi il perché alcuni studiosi hanno ritenuto che la tanto discussa Atlantide, di cui ci parla diffusamente Platone in alcuni suoi Dialoghi, sia da ricercare proprio in Antartide, dove attualmente le coltri di ghiaccio nasconderebbero le antiche vestigia.
In tutto questo non si può dimenticare il forte interesse del regime hitleriano verso il polo australe, con numerose missioni e ingente dispiegamento di mezzi per andare a creare delle basi proprio in Antartide. Quale il fine di andare così lontano dal suolo germanico? Che cosa cercavano i tedeschi e che cosa hanno portato al polo sud con decine di U-boot giunti in loco per motivi che sfuggono appieno?
Domande cui il saggio “Sotto l’Antartide”, Edizioni Facciamo Finta Che, cerca di dare una risposta, esaminando anche la testimonianza dell’ammiraglio Byrd e i dettagli dell’operazione Highjump che lo vide protagonista nel 1947 a capo di una missione dai fini non totalmente chiari nemmeno oggi.
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Dal 10 all'11 febbraio di Piero Visani
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Dal 10 all'11 febbraio di Piero Visani
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     Nel giusto moltiplicarsi di commemorazioni sulle foibe e l’esodo (forzato) degli italiani da Istria e Dalmazia, mi permetterei di aggiungere – da “bastian contrario”, che è una peculiarità caratteriale che rivendico molto volentieri – che domani, 11 febbraio, ricade il novantesimo anniversario dei Patti Lateranensi e del Concordato tra Stato e Chiesa.
     Data per me epocale perché, in poco meno di un decennio (23 marzo 1919 – 11 febbraio 1929), un movimento politico nato con un’ideologia rivoluzionaria passava con la massima disinvoltura dal programma di “svaticanizzare” l’Italia alla Conciliazione, assumendo dunque le caratteristiche di movimento autoritario moderato-conservatore, una sorta di franchismo ante litteram, il quale, non contento di essere sceso a patti con la monarchia sabauda, ora sceglieva come secondo “compromesso storico” quello con il Vaticano.
     Nella mia visione del mondo, ai compromessi si acconciano i molto forti e i molto deboli: i primi perché sanno che, a gioco lungo, saranno sempre loro a trionfare, facendo decantare e spegnere l’eventuale carica rivoluzionaria di coloro con cui li stringono; i secondi perché non sono convinti (o non sanno…) di quel che fanno e sperano, in tal modo, di spegnere ostilità che potrebbero essere virulente e potenti, nella pia illusione di riuscire a gestirle e a controllarle, come infatti il regime fascista scoprì poi con chiarezza il 25 luglio del 1943…
       Ecco, dovessi menzionare una data subito dopo le comprensibili celebrazioni odierne, ricorderei con forza quella di domani, perché è un classicissimo caso di “partirono preti (è corretto scriverlo, direi) e tornarono curati”. E infatti…
      Nessuna svaticanizzazione, nessunissimo “imperialismo pagano”, solo un po’ di lotta (forse vittoriosa, o no?) contro i “boy scout”. Chi si contenta muore e, se non lo sa, glielo faranno scoprire alla prima occasione…
Piero Visani
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Cassandra Crossing/ Archivismi: Cassandra e la miniera
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Cassandra Crossing/ Archivismi: Cassandra e la miniera
(569) — Archiviare per dei secoli richiede tecnologie poco comuni ma tutto sommato semplici. Ma dove, esattamente, può essere realizzato un tale archivio?
12 gennaio 2024 — Nelle 10 puntate della prima campagna di Archivismi abbiamo raccontato l’archiviazione di 566 numeri di Cassandra Crossing su Internet Archive, che tra l’altro ieri l’ha anche promossa a Collezione; la seconda campagna, quella di archiviazione dei 106 video di Quattro Chiacchiere con Cassandra è stata invece appena accennata nella precedente puntata perché troppo semplice e veloce. Siamo stati davvero bravi!
Abbiamo poi raccontato la tecnologia di registrazione digitale più durevole oggi sul mercato, accennando anche al fatto che la durata certificata a temperatura ambiente può essere ulteriormente estesa abbassando la temperatura di conservazione.
Come si possono conservare delle bobine di pellicola fotografica, ben protette dentro contenitori appositamente progettati, e poi sigillate in buste di materiale protettivo, a temperature molto al di sotto della nostra temperatura ambiente di circa 20 gradi?
Spoiler: la soluzione non è quella di dotarsi di grossi frigoriferi, ma di trovare un’adatta “temperatura ambiente”.
Per fortuna, non c’è bisogno di essere pionieri; basta seguire quello che hanno fatto i pionieri di un diverso tipo di archiviazione, di cui molti non hanno mai sentito parlare.
E ancora una volta Cassandra deve chiedere pazienza ai 24 irriducibili lettori, perché è di nuovo necessario riavvolgere il nastro (qui potremmo dire la pellicola), anche se solo di una quarantina di anni. E non di archiviazione di dati dovremo parlare, ma di archiviazione di semi; sì, semi e campioni genetici.
Nel 1984, la Nordic Gene Bank creò un impianto di sicurezza per lo stoccaggio di semi in una miniera di carbone dismessa nelle isole Svalbard. Il permafrost (il terreno permanentemente gelato), le infrastrutture disponibili e la cooperazione con la compagnia carboniera Store Norske Spitsbergen Kullkompani permisero la creazione di una struttura che avrebbe conservato una raccolta di semi in un contenitore d’acciaio all’interno della miniera di carbone n. 3 a Longyearbyen, miniera che si inoltra per 300 metri nel permafrost della montagna.
Nel 2001 fu stipulato il Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura (ITPGRFA), che prevedeva l’istituzione di un sistema mondiale comprendente regole per l’accesso e la condivisione generalizzata dei benefici di tali risorse.
Tuttavia uno studio nel 2004 rivelò che il permafrost — che mantiene una temperatura costante di circa -3,5°C — non era ottimale per la conservazione del patrimonio genetico; inoltre lo stoccaggio dei semi in una miniera di carbone esposta a un livello elevato di gas idrocarburi non era geneticamente sicuro.
Il governo norvegese valutò allora la creazione di una struttura più adatta e, nell’ottobre 2004, si impegnò a finanziare e realizzare lo Svalbard Global Seed Vault, realizzando una costruzione scavata nel permafrost privo di carbone, dotata di un impianto di raffreddamento attivo per abbassare ulteriormente la temperatura fino a -18 °C, cioè alle condizioni standard per le banche genetiche.
Il Global Seed Vault in questa nuova struttura è stato inaugurato il 26 febbraio 2008; ancora oggi tuttavia molti pensano che esso si trovi invece nella miniera di carbone abbandonata, e non in una struttura nuova, scavata appositamente. Questo tour virtuale vi permette di visitare la nuova struttura.
Ma allora se alle Svalbard ci sono solo semi — diranno i 24 infastiditi lettori — dove sono i dati?
Risposta facile. Ricordate che il primo deposito di semi realizzato nel 1980 si trovava nella miniera di carbone n. 3 a Longyearbyen? Bene, con la creazione della nuova struttura la miniera è tornata sfitta, ed una piccola azienda norvegese, creata apposta dalla già nominata Piql, ha pensato bene di rilevarla e di creare il primo deposito di dati nell’Artico, l’Arctic World Archive. Uno yuppie direbbe Tecnologia + logistica = servizio innovativo.
Certo, il look avveniristico da bunker del Global Seed Vault qui non c’è; il look è più simile a quello della miniera di Indiana Jones ed il Tempio maledetto, con in più un tocco di Cronache del Dopobomba.
Ma laggiù, in fondo ad una galleria resa praticabile da puntelli e reti metalliche antinfortunistiche, occhieggia un container di acciaio inossidabile …
… pieno di contenitori avvolti in quella che sembra stagnola, ma che in realtà sono buste sigillate. Nella maggior parte di queste buste è custodita la prima campagna di archiviazione di Github.
Il Github Archive Program nel 2000 ha archiviato in 186 contenitori di pellicola una copia di tutti i progetti attivi (incluso quello del sito di e-privacy!) e li ha immagazzinati nella miniera n.3, battezzando l’iniziativa Arctic Code Vault; successivamente c’è stata una ulteriore campagna di archiviazione, ed una successiva è prevista in data non ancora fissata.
Ma Cassandra dove è finita — interloquisce nervosamente il più indisciplinato del 24 lettori — è tutto interessante, ma veniamo al punto!
Beh, il punto … sarà nella prossima puntata di Archivismi.
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La battaglia di Eylau (8 febbraio 1807)
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La battaglia di Eylau (8 febbraio 1807)
L’8 febbraio 1807, a Eylau, nella Prussia orientale, la Grande Armata napoleonica si scontrò contro russi e prussiani in una battaglia che rappresentò il primo momento di crisi della tattica napoleonica.
      Ottenebrati da una tempesta di neve, i francesi devono subire la superiorità numerica dei russi e la loro maggiore abitudine a operare in condizioni climatiche estreme, nel gelo dell’inverno dell’Europa orientale.
         La situazione risulta più volte critica per i francesi, al punto che Napoleone, per la prima volta nella storia dell’Impero, è costretto ad impegnare in combattimento anche la Vecchia Guardia, di norma sempre tenuta in disparte come riserva suprema.
         Il semplice avanzare, in ranghi serrati, dei Granatieri a piedi della Guardia, con i loro grandi colbacchi di pelo, in taluni casi è in grado di mettere in fuga i reparti russi, spaventati dall’enorme prestigio che accompagna questo corpo d’élite.
         La situazione generale della Grande Armée, tuttavia, resta critica, e allora Napoleone è costretto ad ordinare una gigantesca carica di cavalleria, al fine di alleggerire la pressione russa: oltre 12.000 cavalieri, guidati personalmente da Gioacchino Murat, fasciato in una delle sue rutilanti uniformi e armato di un semplice frustino, si scagliano contro le colonne russe, bloccandone l’avanzata e stabilizzando la situazione tattica.
       Nel corso della giornata, tuttavia, la situazione non muta di molto, anche se alla fine i russi si ritirano, consentendo a Napoleone di cantare vittoria, ma a costo di ben 10.000 uomini, tra morti e feriti. Un terribile massacro, da cui emerge con chiarezza che il genio napoleonico, là dove non può fare riferimento alle sue insuperate capacità di manovra, non è in grado di ottenere risultati altrettanto convincenti in termini di scontro di logoramento, di battaglia d’attrito. Occorrerà attendere fino al successivo mese di giugno perché, nella battaglia di Friedland, la campagna contro Russia e Prussia possa dirsi definitivamente conclusa a vantaggio della Francia.
      Nell’immagine che illustra queste righe, il generale Lepic, comandante dei Granatieri a cavallo della Guardia Imperiale, esorta i suoi uomini a tenere alta la testa, sotto il fuoco dell’artiglieria russa, con le celebri (e chiare) parole: “Haut la tête ! La mitraille n’est pas de la merde !”
Piero Visani
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La battaglia di Eylau (8 febbraio 1807)
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La battaglia di Eylau (8 febbraio 1807)
L’8 febbraio 1807, a Eylau, nella Prussia orientale, la Grande Armata napoleonica si scontrò contro russi e prussiani in una battaglia che rappresentò il primo momento di crisi della tattica napoleonica.
      Ottenebrati da una tempesta di neve, i francesi devono subire la superiorità numerica dei russi e la loro maggiore abitudine a operare in condizioni climatiche estreme, nel gelo dell’inverno dell’Europa orientale.
       La situazione risulta più volte critica per i francesi, al punto che Napoleone, per la prima volta nella storia dell’Impero, è costretto ad impegnare in combattimento anche la Vecchia Guardia, di norma sempre tenuta in disparte come riserva suprema.
       Il semplice avanzare, in ranghi serrati, dei Granatieri a piedi della Guardia, con i loro grandi colbacchi di pelo, in taluni casi è in grado di mettere in fuga i reparti russi, spaventati dall’enorme prestigio che accompagna questo corpo d’élite.
       La situazione generale della Grande Armée, tuttavia, resta critica, e allora Napoleone è costretto ad ordinare una gigantesca carica di cavalleria, al fine di alleggerire la pressione russa: oltre 12.000 cavalieri, guidati personalmente da Gioacchino Murat, fasciato in una delle sue rutilanti uniformi e armato di un semplice frustino, si scagliano contro le colonne russe, bloccandone l’avanzata e stabilizzando la situazione tattica.
       Nel corso della giornata, tuttavia, la situazione non muta di molto, anche se alla fine i russi si ritirano, consentendo a Napoleone di cantare vittoria, ma a costo di ben 10.000 uomini, tra morti e feriti. Un terribile massacro, da cui emerge con chiarezza che il genio napoleonico, là dove non può fare riferimento alle sue insuperate capacità di manovra, non è in grado di ottenere risultati altrettanto convincenti in termini di scontro di logoramento, di battaglia d’attrito. Occorrerà attendere fino al successivo mese di giugno perché, nella battaglia di Friedland, la campagna contro Russia e Prussia possa dirsi definitivamente conclusa a vantaggio della Francia.
      Nell’immagine che illustra queste righe, il generale Lepic, comandante dei Granatieri a cavallo della Guardia Imperiale, esorta i suoi uomini a tenere alta la testa, sotto il fuoco dell’artiglieria russa, con le celebri (e chiare) parole: “Haut la tête ! La mitraille n’est pas de la merde !”
  Piero Visani
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Cassandra Crossing/ Archivismi: Cassandra attraverso i secoli
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Cassandra Crossing/ Archivismi: Cassandra attraverso i secoli
(568) — Cassandra non si accontenta, vuole arrivare più lontano e vuole sopravvivere non per decenni ma per secoli o millenni. Ce la può fare?
10 gennaio 2024 — Nelle precedenti 10 puntate di Archivismi abbiamo descritto la prima campagna di archiviazione; quella della rubrica Cassandra Crossing su Internet Archive. E’ stato un lungo percorso, poiché siamo partiti dallo studio della struttura di Internet Archive, seguito la preparazione dei dati, realizzato qualche decina di righe di script per automatizzare il tutto, eseguito gli upload veri e propri, ed infine la ripulitura dei dati e la correzione degli errori nei metadati.
Oggi invece introdurremo la terza campagna di archiviazione di Cassandra Crossing.
“Ohibò — dirà qualcuno dei più informati 24 lettori — la terza campagna? Ma dove ci hai raccontato la seconda?”
Giustissimo, la seconda non l’ho raccontata perché è stata troppo facile e veloce.
La seconda campagna consisteva nell’archiviazione dei 106 video di Quattro Chiacchiere con Cassandra su Internet Archive. Cassandra ha deciso di non parlarne perché è appena finita, ed ha richiesto solo 20 minuti di preparazione del foglio elettronico di bulk upload e circa un’ora di caricamento. E’ pur vero che avevamo maturato una preziosa esperienza precedente, che i metadati inseriti sono elementari e che i dati di partenza erano già ben strutturati, ma una cosa così semplice e veloce non poteva meritare una pur breve esternazione di Cassandra. Per cui la butto li, andatevi a vedere il risultato, e passiamo davvero alla terza campagna di archiviazione, che ve lo anticipo, sarà ben più stuzzicante.
Dobbiamo però, come Cassandra vi ha ormai abituato, raccontare un po’ di storia. Veramente assai più di un po’, visto che non si tratta di partire dall’alba di Internet, nemmeno dall’alba dei computer, ma addirittura dall’alba della scrittura, il che vuol dire riavvolgere il nastro, così all’ingrosso, di 5 millenni abbondanti. E’ da quella remota epoca che è giunto fino a noi il primo archivio di informazioni omogenee, scritto in caratteri cuneiformi su circa 4.000 tavolette di argilla. Se consideriamo la tavoletta di argilla come supporto informativo, potremmo dire che le tavolette di Uruk si sono rivelate molto durevoli, facendo impallidire tutti i moderni supporti informatici.
E’ pur vero che innumerevoli altre tavolette di argilla non hanno superato, come le loro più famose 4000 colleghe, il lungo viaggio fino a noi, ma comunque l’efficacia del supporto rimane notevole.
I rotoli di pergamena si sono rivelati poco meno durevoli; i più antichi superano infatti di poco i duemila anni, e la durata “media” della pergamena, conservata in condizioni ideali, è stimata intorno ai mille anni.
Alcuni papiri sono giunti a noi dall’antico Egitto e quindi sono durati anche loro per millenni, ma in condizione estremamente particolari (tombe sigillate nel deserto). Nei climi europei ed in condizioni di conservazione ideali hanno invece una durata stimata intorno ai 300 anni. Vale la pena di notare che la scomparsa della pergamena come supporto per le informazioni è dovuto proprio all’avvento del papiro, più economico, più facile da scrivere, più leggibile ma meno durevole.
L’avvento della carta ha ulteriormente peggiorato le cose; se alcuni volumi del passato hanno superato molti secoli, tutta la produzione moderna di carta ha una durata limitata a pochi decenni, con casi estremi come certi tascabili degli anni ’90 o la carta di giornale, che bastava lasciare al sole per vederla letteralmente sbriciolarsi. Colpa di addittivi chimici e sbiancanti, usati per migliorarne l’aspetto, e di processi di lavaggio inefficienti.
Possiamo riassumere che c’è stato un progresso continuo tra un supporto e l’altro che ha prodotto costi minori, prestazioni migliori e durate peggiori. D’altra parte sostituire supporti inorganici ed incombustibili con supporti organici e combustibili non poteva che peggiorare la durata delle informazioni ivi registrate.
In campo informatico non c’è una esperienza storica così lunga. Inizia solo dagli anni ’50 del secolo scorso, con le schede perforate (e per inciso ne ho un pacchetto in perfetto stato di conservazione in un cassetto, perforate per la tesi nel 1980).
I supporti informatici, magnetici od ottici, hanno avuto performance assai meno brillanti. A parte l’obsolescenza tecnologica intrinseca delle periferiche di lettura/scrittura, divenute introvabili o non funzionanti, che rende illeggibili anche supporti che sarebbero ben conservati, persino i nastri magnetici ed i cd-rom, che vantavano durate di 30 anni, si sono in realtà rivelati molto più cagionevoli del previsto. Una campagna di trasferimento dati eseguita di persona da CD-R di meno di venti anni conservati in condizioni ideali ha portato a quasi il 10% di supporti con problemi più o meno gravi di lettura.
La triste verità è che lo sviluppo dell’informatica moderna ha sempre privilegiato la riduzione del costo unitario dei supporti, la densità delle informazioni ivi registrate, la velocità di accesso alle informazioni stesse, senza porre una equivalente cura alla durata dei supporti stessi.
E questo può essere sufficiente per spiegare come mai la durata dei supporti, a partire dai 20–30 anni degli anni ’60, non sia migliorata ma anzi sia semmai peggiorata. Non stiamo infatti parlando di sistemi dotati di ridondanza ed algoritmi di correzione; questi sistemi devono essere dinamici, consumano energia e sono soggetti comunque a problemi di sicurezza informatica e di scarsa resilienza alle catastrofi.
Quello che serve sono supporti che conservino in maniera affidabile le informazioni per la loro stabilità e durata intrinseche, ed in maniera completamente passiva, senza consumare energia, né direttamente, come una stringa di dischi in RAID che deve essere alimentata e funzionante per essere stabile, né indirettamente, a causa di processi produttivi costosi e/o la necessità di impianti attivi di conservazione, come condizionamento/riscaldamento per la stabilizzazione della temperatura.
E servono anche supporti in cui la rappresentazione dei dati non sia così “lontana” dalla percezione degli utenti. La maggior parte delle unità di lettura/scrittura di dati digitali producono supporti sui quali i dati sono impercettibili con mezzi normali, e possono essere rivelati solo con un particolare tipo di unità hardware.
Ambedue queste caratteristiche sono presenti nella soluzione che, attualmente, garantisce i tempi di conservazione più lunghi tra i prodotti disponibili sul mercato. E, curiosamente, ma forse non per caso, si tratta di una tecnologia abbastanza vecchia, a cui sono state apportati alcuni miglioramenti. Parliamo delle pellicole fotografiche “normali”, cioè all’alogenuro di argento, ed in particolare di quella utilizzata dalla Piql, una azienda norvegese, insieme al macchinario per registrarvi informazioni digitali.
Il formato della pellicola, che è un prodotto commerciale, è il normale 35 millimetri, il supporto usato è un tipo di poliestere, e la gelatina e l’emulsione hanno ovviamente caratteristiche particolari. La durata di questa pellicola, opportunamente impressionata e sviluppata, è stimato poter arrivare a 500 anni, conservata a temperatura ambiente ed in condizioni ottimali.
La scrittura dei dati sulla pellicola, che alla fine è comunque una normale pellicola fotografica, può avvenire in vari modi, sia visuali che codificati.
Dati digitali “analogici” come immagini e microfilm possono essere inseriti normalmente. I dati digitali puri vengono invece codificati in fotogrammi simili a dei QR code che contengono ciascuno un blocco di dati.
Il fatto che la codifica sia “visiva” rende possibile eseguire la decodifica, noto il metodo di codifica, anche senza le apparecchiature originali, usando un oggetto che esegua scansioni ad alta risoluzione ed un computer, dotato di un opportuno software, che riassembli le scansioni nei file digitali originali.
Alla fine circa un chilometro di pellicola viene inserito in un contenitore appositamente progettato per una lunga conservazione,
Il periodo di conservazione viene ulteriormente esteso diminuendo la temperatura di conservazione …
… ma per oggi siamo già andati un po’ lunghi, e quindi qui ci aggiorniamo alla prossima puntata di Archivismi.
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Archivismi: Cassandra Crossing è per sempre!
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Archivismi: Cassandra Crossing è per sempre!
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(567) — Cassandra Crossing è per sempre! Alla fine di questo lungo percorso, la rubrica è al sicuro su Internet Archive e, fino a quando questa degnissima istituzione durerà, i 24 lettori ed i loro figli e nipoti, se riterranno ne valga la pena, avranno il tempo per decidere se leggerla, ed un luogo dove trovarla.
6 gennaio 2024 — Nelle precedenti puntate di Archivismi abbiamo descritto l’archiviazione della rubrica Cassandra Crossing, dal numero 0 al 566, su Internet Archive. Per non tediare ulteriormente i 24 irriducibili lettori che ci avessero seguito fino a questo punto, riassumiamo due ultimi importanti dettagli.
Uno: dopo l’archiviazione iniziale, gli oggetti sono stati “arricchiti” inserendo il file “originale” degli articoli. Decidere quale dovesse essere il file originale non è stato banale ma, dopo attenta riflessione, si è scelto il file html ottenuto da medium.com, opportunamente rinominato. Questo file, che quindi rappresenta il Verbo, non verrà mai aggiornato. Deciso questo, tutti gli altri file, in giro per laptop, server, cloud o dischi, da oggi divengono solo copie degli originali o file di lavoro. E non è un dettaglio da poco.
Due: Alcuni altri oggetti, una mezza dozzina in tutto, che recensivano libri o traducevano articoli, sono stati ulteriormente arricchiti, inserendovi una copia del libro o dei testi in lingua originale. Il browser di oggetti di Internet Archive permette di sfogliare anche tutti i pdf così aggiunti. Tutti gli altri file, originali od aggiunti, dovranno invece essere scaricati, come d’uso, dall’elenco file in basso a destra nella finestra dell’oggetto.
Ora è doveroso tirare le somme del lavoro concluso.
In primis, rispetto alle attese, la fase di apprendimento e quella di bulk upload sono durate meno del previsto, circa tre-quattro giornate piene in tutto. La fase di correzione errori e raffinamento dell’archiviazione è invece durata molto, molto più del previsto, circa tre giornate.
Tuttavia l’esperienza accumulata permette adesso di eseguire aggiornamenti, anche massivi, in poche decine di minuti; anche il caricamento di un nuovo set di 4 articoli ha richiesto meno di un quarto d’ora.
Messo duramente alla prova, Internet Archive si è rivelato uno strumento davvero utile ed efficiente. Per questo Cassandra torna per l’ennesima volta a ricordare che Archive.org è un’organizzazione senza fini di lucro, che vive di contribuzioni volontarie. Chi la usa regolarmente, o la trova utile, od è moralmente d’accordo, dovrebbe considerare doverosa una donazione. TANSTAAFL …
In secundis, tutto questo lavoro era veramente utile e necessario? Cassandra da parte sua non ha dubbi ma, per motivare la scelta, le è necessario distinguere il punto di vista di un autore da quello di un normale utente della Rete.
Per un autore sono certamente importanti la diffusione e la conservazione del proprio lavoro. Per quanto attiene la diffusione, Cassandra a suo tempo ha compiuto riguardo ai social una scelta molto radicale quanto ben nota; usa alcuni social solo per “pubblicare” i suoi articoli , ma non li usa per discuterli, diffonderli o spingerli in altro modo. Se mai vi fosse del valore nei fili di parole messi insieme da Cassandra, sarà questo ad alimentarne la diffusione. Per dare eventualmente il tempo a questo lento processo di poter avvenire, l’archiviazione duratura su Internet Archive è certamente una condizione necessaria.
Per un cittadino della Rete interagire con la Cultura (si, con la maiuscola) dovrebbe essere una occupazione a tempo pieno. Anche solo da semplice fruitore, contribuire correttamente a preservarla e diffonderla è non solo possibile ma doveroso.
Conoscete qualche opera digitale o digitalizzabile che meriti di essere conservata? Contribuite a farlo, ad esempio raccogliendola, arricchendola di dati ed archiviandola in maniera durevole.
Avete una competenza su qualche cosa specifica, sapete scrivere correttamente in una lingua (l’italiano, ad esempio) e, quando serve, avete un minimo di autodisciplina? Realizzate od ampliate una pagina di Wikipedia. Archiviate le cose migliori che avete scritto con la stessa cura che avete impiegato per realizzarle.
E non fermatevi qui. Esistono altre oasi di conservazione, altre biblioteche elettroniche, altri gruppi di persone che si dedicano alla conservazione della cultura ed alla salute dell’infosfera, proprio mentre le false IA le stanno inquinando con false informazioni. Supportatene una, c’è tanto bisogno anche di questo
E per questa campagna di archiviazione abbiamo finito.
Ma gli Archivismi, quelli no, quelli non finiscono mai. Date un’occhiata al sito; Cassandra ha già delle idee…
E d’altra parte, parafrasando Conan il Barbaro, si potrebbe aggiungere che “C’è sempre un’altra storia…”
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Cassandra Crossing/ Archivismi: archiviamo Cassandra, parte terza
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Cassandra Crossing/ Archivismi: archiviamo Cassandra, parte terza
(566) — E’ tempo di concludere; parte il mass uploading di Cassandra Crossing!
5 gennaio 2024 — Nelle precedenti puntate di Archivismi abbiamo raccontato come funziona, a grandi linee, una archiviazione “vera” su Internet Archive. “Vera” perché non si tratta di caricare una directory di file, ma di creare veri oggetti archivistici, corredati di tutti i file ed i metadati necessari per definire l’oggetto, e renderlo utile e fruibile. Ed i metadati, credeteci o no, sono di gran lunga la cosa più difficile e più utile.
Quindi, innanzitutto, per archiviare la nostra rubrica preferita, è stato necessario chiedersi cosa archiviare, oltre al classico PDF. La scelta è stata quella di aggiungere un file HTML entrocontenuto ed un file in formato MARKDOWN, quest’ultimo utile per ulteriori elaborazioni che fossero necessarie. Alcuni articoli parlavano inoltre di libri o pubblicazioni libere, ed in questi pochi casi anche il pdf della pubblicazione è stato inserito nell’oggetto.
Bene, detto questo, è stato necessario crearli, questi benedetti 1686 file. I file markdown, html e e pdf sono stati generati in completo automatismo a partire dai file html degli articoli esportati da Medium.com, grazie agli strumenti preparati nelle puntate precedenti che erano pronti all’uso, elaborando i dati di input esportati da Medium.com. Tutto semplice, quindi?
Ovviamente no. In questi appunti di viaggio, la vostra profetessa preferita vi racconterà le ulteriori peripezie incontrate nel suo viaggio.
Uno: i dati da Medium.com contenevano ancora degli errori. La tipologia più comune e più dolorosa era l’errata costruzione del nome del file, creato rilevando automaticamente il numero dell’articolo. Questo per due ragioni principali. La prima è che alcuni articoli erano semplicemente numerati in maniera errata. La seconda è che i file contenevano si il numero dell’articolo, ma non solo nel testo, anche nella intestazione creata automaticamente da Medium.com. Intestazione che una volta creata non veniva poi più aggiornata; indovinate da dove veniva preso il numero dell’articolo?
Due: la creazione del foglio elettronico, avendo i file ben creati e rinominati è stata semplice. Aver conservato ogni run di upload in un nuovo foglio è stato utilissimo per localizzare gli errori e ritornare sui propri passi. Anche conservare il log delle esecuzioni di ia è stato utilissimo per estrarre gli errori.
Tre: aggiustando la numerazione degli articoli in alcuni casi si è persa la corrispondenza tra nome dei file ed identificativo dell’oggetto. Infatti, mentre i file ed i metadati si possono modificare, aggiungere e cancellare, non è possibile modificare l’identificativo del l’oggetto, una volta creato. E quando si lancia nuovamente la procedura di generazione file, se cambia la numerazione cambiano anche alcuni nomi di file. Per generare i successivi fogli per il caricamento è stato necessario tenere conto di questo, e operare esaustive verifiche di allineamento tra identificatori e nomi dei file. Certo, la tentazione di correggere tutto e rilanciare daccapo le procedure era forte. Ma l’automazione totale non è il fine, ma solo un mezzo. Risparmiare tempo, facendo comunque le cose per bene, è il vero fine.
Quattro: il primo bulk upload del solo file PDF è stato fatto per 10 oggetti. Si è poi atteso che le varie alchimie automatiche di Internet Archive si compissero, e si è esaminato attentamente il risultato. A livello di metadati questo ha portato a modificare le scelte per renderli più utili.
Cinque: Si è poi fatto il bulk upload dei rimanenti 552 pdf, creando così tutti gli oggetti. Gli oggetti, ed in particolare gli identificatori, in tutte le successive operazioni che abbiamo fatto non sono mai variati. Durante questo primo vero bulk upload si sono generati messaggi di errore di mancata creazione, perché l’operazione in corso era stata identificata come spam, come questo
error uploading 186_Cassandra-Crossing — L-Internet-senza-Rete.pdf: Please reduce your request rate. — Your upload of 186_Cassandra-Crossing — L-Internet-senza-Rete from username [email protected] appears to be spam. If you believe this is a mistake, contact [email protected] and include this entire message in your email.
Detto fatto, ho contattato via email l’help desk che, forse perché sono un utente di vecchia data nonché donatore regolare, in poche ore mi ha tolto qualche evidente limitazione antispam. I successivi inserimenti non hanno più dato nessun problema.
Sei: Sono stati eseguiti due ulteriori bulk upload separati, uno per i file markdown ed uno per gli html. Sono state necessarie solo due colonne nei fogli elettronici; identificatore e file. I metadati sono stati assegnati al momento della creazione dell’oggetto, quindi del primo bulk upload. Se dovessero essere cambiati in massa, sarà necessario effettuare “bulk correction”.
Sette: si sono appunto editati i metadati in bulk, inserendo la descrizione (presa dal sottotitolo) e la data di pubblicazione. Ambedue queste colonne di dati sono state generate con una versione modificata della procedura già vista, partendo dai file markdown, estraendo il campo con una regular expression, aggiungendo, ripulendo e correggendo i campi mancanti od errati a mano, e poi copiando i range giusti nel foglio elettronico per il bulk upload. Malgrado le “standardizzazioni” delle precedenti fasi di redazione e manipolazione dei file degli articoli, per sistemare le discrepanze c’è voluta più di mezza giornata.
Otto: E qualche altra ora c’è voluta per esaminare sul sito di Internet Archive l’elenco degli articoli ordinati per data e vedere che dentro ci fosse quello che ci deve essere. Anche qui qualche piccolo errore è emerso, ma solo di data. Solo in un caso i titoli e le date erano ambedue invertiti, ma per fortuna anche questi sono metadati, quindi facilmente correggibili. Ma è stata anche una soddisfazione ripercorrere venti anni di lavoro in poche ore!
Ed anche per oggi è tutto, perché il lavoro di revisione è davvero stancante. Le conclusioni ed i commenti li riserviamo per la prossima e finale puntata di questa prima campagna di “Archivismi”.
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Cassandra Crossing/ Archivismi: archiviamo Cassandra, parte seconda
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Cassandra Crossing/ Archivismi: archiviamo Cassandra, parte seconda
(565) — Dopo aver preparato i pdf non ci sono più scuse, dobbiamo archiviare il nostro primo articolo di Cassandra Crossing.
1 gennaio 2024 — Nelle precedenti puntate di Archivismi abbiamo raccontato le caratteristiche principali di Internet Archive, e caricato un semplice documento di esempio. Successivamente ci siamo dati l’ambizioso obbiettivo di uploadare l’opera omnia di Cassandra, ed abbiamo faticosamente preparato il materiale necessario nei formati e struttura più opportuni.
Non ci sono più scuse; è il momento di iniziare a caricare il primo documento di Cassandra Crossing, con tutte le cosette ed i metadati al posto giusto!
Dobbiamo quindi cimentarci davvero con ia e, visto che dovremo caricare centinaia di documenti, non farlo direttamente con la linea comandi, caricando un file per volta e scrivendo tutti i parametri ed i metadati su una lunghissima linea comandi.
Molto meglio impratichirsi fin da subito con i bulk upload, che si realizzano fornendo ad ia un unico parametro, cioè il nome di un foglio elettronico in formato CSV, in cui inseriremo i dati necessari (e li modificheremo tantissime volte per rimediare ad inevitabili errori).
Il comando per fare ciò è semplicemente
ia upload — spreadsheet=metadata.csv
Il lavoro vero sarà riempire il foglio elettronico finale con migliaia di righe di dati, ma facciamo un passo alla volta e carichiamo un solo oggetto, per cui un file di tre righe basterà.
Il nostro primo documento conterrà due file tra quelli generati per l’archiviazione, il pdf come documento principale e l’html entrocontenuto come secondo file; aggiungeremo anche un minimo sindacale di metadati, e l’identificativo verrà scelto uguale al nome dei file, tolta l’estensione.
Insomma, dopo molti, molti tentativi ecco il foglio …
Sembra facile, ma c’è voluta mezza giornata di lavoro, per avere il primo inserimento soddisfacente. Minuzie apparentemente insignificanti ma in realtà diaboliche hanno richiesto un sacco di tempo per prove e controprove. Ve ne racconto qualcuna qui, sperando così di farvi risparmiare tempo prezioso.
uno — quando salvate un foglio elettronico in formato CSV, che vuol dire “valori separati da virgole” non fidatevi della vostra applicazione. In certi casi, qui in Italia, l’applicazione potrebbe decidere di usare non la virgola ma il punto e virgola, e voi non ve ne accorgerete subito. Giuro, è successo!
due — disabilitate, nell’applicazione con cui state gestendo il foglio elettronico, tutti gli strumenti di autocorrezione; altrimenti il programma deciderà certamente di sostituire qualcosa per il vostro bene. Nel mio caso ha deciso di sostituire due segni meno consecutivi, presenti nei nomi di file, con un “trattino lungo”, una modifica praticamente invisibile, anche da linea comandi. Questo ha portato all’inspiegabile messaggio di errore di file non trovato, ed ha rese necessarie alcune dozzine di prove, con relativi arrampicamenti sugli specchi. Non riferisco qui le parole che sono state pronunciate quando il problema è stato finalmente localizzato!
tre — state molto attenti quando inserite i valori nei campi. Un singolo spazio bianco prima o dopo il valore può non farlo interpretare, ed avere effetti imprevisti. Uno spazio all’inizio di “ test_collection” ha ad esempio impedito l’assegnazione corretta dell’oggetto alla collection di test, destinata, come già sapete, ad abilitare la cancellazione automatica dopo 30 giorni. In più considerate che non è possibile assegnare esplicitamente l’oggetto a collezioni pubbliche come “opendata”, ma bisogna accettare la selezione automatica che verrà operata dal sistema.
quattro — inserite nel foglio la colonna mediatype, quando i documenti sono testuali (txt, html, pdf, etc.), ed usate il valore, “texts” altrimenti il sistema assegnerà automaticamente il valore “data” e questo avrà effetti collaterali insidiosi. Ad esempio il browser di oggetti non vi farà sfogliare le pagine, malgrado tutti i file derivati necessari siano stati creati correttamente. Il mediatype, contrariamente alla grande maggioranza dei parametri, non può più essere modificato, ma è necessario cancellare e rigenerare l’oggetto.
cinque — cancellare un oggetto non è un’operazione istantanea, ma richiede minuti o decine di minuti prima che l’effetto si propaghi in tutte la parti dell’interfaccia del sito. Non merita cancellare da linea comandi con ia; è decisamente più pratico farlo dalla pagina My Upload. Ricaricate spesso la pagina, e se notate cose strane, provate anche a svuotare la cache del browser.
sei — la comparsa di un oggetto appena creato nella finestra My Upload è, stranamente, abbastanza veloce, ma scatena tutte le operazioni “derivative”, che a loro volta generano gli altri file in tempi variabili ma abbastanza lunghi. Questo vuol dire, ad esempio, che il browser di oggetti non sarà in grado di farvi sfogliare le pagine prima di una mezz’ora, e che la funzionalità di ricerca interna al browser di oggetti sarà attiva solo dopo parecchie ore.
Però, alla fine, che soddisfazione …
Ed anche per oggi è tutto. Stay tuned per la prossima puntata di “Archivismi”.
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Cassandra Crossing/ Archivismi: archiviamo Cassandra, parte prima
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Cassandra Crossing/ Archivismi: archiviamo Cassandra, parte prima
(564) — Oggi cambiamo lato della medaglia; niente tecnica, raccontiamo una storia vera.
31 dicembre 2023 Nelle ultime tre puntate abbiamo lavorato su Internet Archive, ma solo con esempi semplici.
Archiviare vuole però spesso dire archiviare una quantità di materiali diversi, con uno scopo finale. Ed in questi casi non ci sono esempi semplici che bastino; il diavolo sta sempre nei dettagli, e le informazioni più utili si apprendono ascoltando storie ed esperienze reali.
Ecco che oggi Cassandra vi racconterà una storia vera, tuttora non conclusa, e parlerà solo di dettagli che non hanno a che fare direttamente con Internet Archive, ma con le fasi preliminari una campagna di archiviazione generica, in cui il lavoro più lungo è ritrovare, raccogliere e soprattutto preparare il materiale per l’archiviazione vera e propria.
E cosa di meglio che raccontare la campagna di archiviazione di Cassandra Crossing? Si, era da tempo che Cassandra metteva da parte pezzi destinati ad essere archiviati. Ma andiamo con ordine.
Le origini di Cassandra Crossing risalgono al lontano 2003, la pubblicazione regolare (beh, quasi regolare….) inizia invece nel 2005 su Punto Informatico. Prosegue poi su altre testate come Zeusnews.it, talvolta in parallelo. Si estende anche su carta e in video.
I materiali disponibili erano dei tipi più svariati; file di testo con e senza accenti, file di word processor di tipi diversi, file pdf e chi più ne ha più ne metta. Tanti file sono ovviamente andati semplicemente persi.
Fu così che parecchi anni fa Cassandra cercò il modo di recuperare, omogeneizzare e centralizzare tutto il corpus di Cassandra.
Come in tutte le cose, conviene buttarsi a capofitto in un lavoro, ma pensare, programmare, fare e poi cercare una via ancora migliore. Dopo diversi tentativi, Cassandra ha provato Medium.com, un social specializzato per scrittori od aspiranti tali. Oltre a fornire un punto unico, in cui scrivere con un discreto editor online ed immagazzinare gli articoli, Medium.con è dotato di una ottima funzionalità di importazione di testo da qualunque sito, anche con pagine piene di pubblicità od effetti vari.
E’ dotato di una funzionalità di esportazione dei dati utente, che salvava i singoli articoli in formato in HTML.
Fu così che Cassandra centralizzò l’archivio su Medium.com, non senza aver dedicato molto tempo a ritrovare, con i motori di ricerca, i link ai vecchi articoli, mai archiviati in locale o comunque perduti.
Ma la soluzione non era soddisfacente per vari motivi, a cominciare dal fatto che gli articoli erano in un cloud, e peggio ancora in quello che sostanzialmente era un social, con tutti gli aspetti deleteri che Cassandra odia e vi racconta spesso.
E così Cassandra decise di iniziare ad archiviare Cassandra Crossing su Internet Archive. E visto che si partiva da un archivio completo in formato omogeneo, sembrava dovesse essere una passeggiata. “Madornale errore”, come usa dire Jack Slater.
Infatti l’omogeneità necessaria non è solo una questione di formato, ma soprattutto di struttura interna e di omogeneità delle informazioni memorizzate dei file degli articoli.
Partiamo dalla cosa più semplice: i nomi dei file. Ovviamente Medium.com utilizza una sua filosofia, e forma il nome dalla data di pubblicazione (non quella originaria, ma quella su Medium.com), aggiungendo un identificativo binario ed una derivazione del titolo.
Qualcosa tipo
2023–12–29_Cassandra-Crossing — Archivismi — l-organizzazione-dei-documenti-in-Internet-Archive-e83b9e3b9cca.html
Ora, è pur vero che i file si rinominano anche a mano, ma si tratta di un lavoro improbo quando i file sono centinaia o migliaia. Automatizzare diventa indispensabile. Per fortuna in Linux sono disponibili linguaggi di scripting potenti e librerie che hanno del miracoloso.
Si riesce quindi a rinominare abbastanza facilmente i file togliendo, aggiungendo e riordinando informazioni. Paradossalmente la cosa più difficile è stata inserire automaticamente il numero dell’articolo all’inizio del nome del file.
Per fortuna Cassandra, che talvolta è metodica, aveva l’abitudine di scrivere il numero dell’articolo all’inizio del sottotitolo, mettendolo tra parentesi tonde. Con qualche piccola alchimia di espressioni regolari è stato così possibile estrarlo automaticamente ed utilizzarlo per costruire un più “umano” nome di file come
562_Cassandra-Crossing — Archivismi — l-organizzazione-dei-documenti-in-Internet-Archive.html
Poi è stato necessario elaborare i file, ripulirli e convertirli in formati bene archiviabili.
Il primo passo necessario è stato ripulire i file html da una immane quantità di tag nascosti, totalmente inutili per definire il testo ma necessari per garantire le funzionalità del sito di Medium.com. Infatti, come tutti i social, Medium.com implementa le funzioni di esportazioni al minimo sindacale richiesto dal (sempre sia lodato) GDPR, e quindi produce dati completi si, ma non adatti per essere facilmente riutilizzati.
La soluzione migliore che Cassandra ha trovato è stata quella di convertire l’html in formato markdown, filtrare delle linee che non contenevano informazioni utili e riconvertirlo nuovamente in html. Questo piccolo miracolo è stato possibile grazie alle librerie di conversione documentale Pandoc, coadiuvate dalle normali utilità unix come grep.
Ora che i file sono ripuliti ed hanno un nome umano sussiste ancora il problema delle immagini incluse nei file. Infatti le immagini non vengono esportate con gli altri dati, e gli url delle immagini puntano tutti ai server di Medium.com, che quindi, malgrado tutto il lavoro fatto, ha ancora in pugno una parte importante degli articoli.
E’ necessario quindi convertire le immagini remote in immagini inline, dentro lo stesso codice html, codificandole in base64. Questo processo, concettualmente semplice, deve di solito essere svolto a mano per ogni singolo file ed url; per fortuna esiste il modo di farlo automaticamente, tramite il parametro — self-contained, aggiunto al comando Pandoc di riscrittura dell’html.
Per l’archiviazione, il formato principale scelto è comunque il pdf, che non ha questo problema perché convertendo l’html in pdf le immagini vengono inserite direttamente nel file.
Per non farsi mancare niente, sempre grazie ai miracoli di Pandoc, Cassandra ha potuto convertire in maniera semplicissima in pdf tutti i formati già prodotti, l’html di partenza, il markdown e l’html semplificato, scegliendo poi il migliore.
Il risultato, per ora, lo trovate qui.
Concludendo, un paio di giornate “piene” di lavoro hanno portato a questo script bash di 39 righe, certamente non ottimale né privo di errori, che qui comunque commenteremo, giusto per rendere l’idea. Capirlo a grandi linee è sufficiente. Ma se vi servisse, riutilizzarlo sarebbe per voi un bel risparmio di tempo.
# Procedura per la preparazione all’archiviazione degli articoli # di Cassandra Crossing # # inizializzazioni varie _base=”./tuttocassandra_elaborazione/” _base2=”./posts/” _base3=”./markdown/” _base4=”./temp/” _base5=”./html/” _base6=”./pdf/” _temp=”temp.txt” # # cambio directory di lavoro, creazione directory e pulizia file cd “$_base” mkdir markdown html temp pdf rm ./markdown/* ./html/* ./temp/* ./pdf/* cd “$_base2” rm “$_temp” _dfiles=”*” # # inizio loop principale for f in $_dfiles do rm “$_temp” # # estrazione del numero dell’articolo g=`grep -Eo -m 1 ‘\([0–9]+\)’ $f | tr -d ‘()’` g=”000″$g g=`echo $g | rev | cut -c 1–3 | rev` h=`echo $f | cut -d ‘_’ -f2- | rev | cut -d ‘-’ -f2-| rev` # # formazione del nuovo nome del file e copia col nuovo nome i=$g”_”$h echo “ — -> Identifier: $i” cp $f “../$_base4$i.html” # # conversione in formato markdown, ripulitura e riconversione in html pandoc -f html -t markdown “../”$_base4$i”.html” > “$_temp” grep -v “^:::” “$_temp” |sed -e ‘s|#.*||g’ > “../”$_base3$i”.md” pandoc — self-contained -f markdown -t html “../”$_base3$i”.md”> “../”$_base5$i”.html” pandoc — pdf-engine=xelatex -f markdown -t pdf “../”$_base3$i”.md” > “../”$_base6$i”.pdf” # # pulizia e fine ciclo done rm -rf “$_temp” “../$_base4”
(Se dovete copiare questa procedura, rimettete a posto i doppi apici curvi con quelli normali, gli apici semplici curvi con quelli normali, il segno meno lungo con due segni meno normali. Medium.com non permette di scrivere come si vuole …)
Ed anche per oggi è tutto. Stay tuned per la prossima puntata di “Archivismi”.
Scrivere a Cassandra — Twitter — Mastodon Videorubrica “Quattro chiacchiere con Cassandra” Lo Slog (Static Blog) di Cassandra L’archivio di Cassandra: scuola, formazione e pensiero
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Riflessioni di Piero Visani
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Qualche anno fa, un quotidiano di destra che stava conducendo un’inchiesta sui protagonisti della breve stagione della Nuova Destra italiana, filiazione nazionale ma non subalterna della Nouvelle Droite francese di Alain de Benoist, chiese ai membri del gruppo dirigente, tra cui si annoverava anche chi scrive, di tirare un bilancio della loro esperienza e di descrivere che cosa avevano fatto dopo. A me, l’intervistatore fece implicitamente notare che, rispetto ad altri protagonisti di quella breve ma intensa e felice esperienza, avevo fatto molto meno carriera, visto che c’era chi era diventato giornalista, chi politologo, chi scrittore, chi critico cinematografico, chi deputato. Io descrissi il mio personale itinerario, chiarii alcuni punti che mi riguardavano, precisai alcune distinzioni che mi erano proprie (ero sempre stato molto più vicino al marcato anticristianesimo della Nouvelle Droite francese che all’altrettanto marcato “baciapilismo” di quella italiana) e conclusi sottolineando che avevo fatto un percorso mio, molto attento – come sempre – a una rigida coerenza agli assunti ideologici originari. Ammisi che avrei potuto comportarmi diversamente e – senza in questo voler essere polemico con gli amici di allora, che tali sono e restano – che non avevo fatto carriera perché “preferisco tenermi stretta la mia vita ‘sbagliata'”. Ricevetti molti complimenti per quell’articolo. Molti amici di un tempo mi scrissero per solidarizzare. Ne fui orgoglioso, così come sono sempre orgoglioso, quando scopro di essere stato fedele a me stesso. Se potesse essere un’iscrizione tombale, “mi tengo stretta la mia vita ‘sbagliata'” non mi dispiacerebbe, anche perché è del tutto evidente che non la ritengo in alcun modo tale. So che c’è chi la ritiene tale per me, per conto mio, ma io la penso diversamente, io penso che la mia vita sia stata giustissima. Ho scritto “vita ‘sbagliata'” solo per mettermi nei panni altrui, per interpretare il loro giudizio. Non certo perché lo condividessi. Il mio onore si è sempre chiamato fedeltà, e continuerà a chiamarsi tale. Non ho mai tradito gli ideali dei miei 14 anni, quelli che mi portarono ad avere molti problemi fin dall’epoca del ginnasio e che fecero di me – secondo la splendida definizione di Marco Tarchi, che della Nuova Destra italiana fu l’indiscusso leader – uno dei tanti “esuli in patria”. Se un piccolo cambiamento c’è stato, esso consiste solo nel fatto che, mentre oggi sono sempre un esule, non ho più una Patria. La mia Patria si è squagliata. Come Robert Brasillach nei “Poemi di Fresnes”, posso ricalcare parola per parola quanto segue, da lui riferito alla Francia del periodo bellico: MON PAYS ME FAIT MAL Mon pays m’a fait mal par ses routes trop pleines, Par ses enfants jetés sous les aigles de sang, Par ses soldats tirant dans les déroutes vaines, Et par le ciel de juin sous le soleil brûlant. Mon pays m’a fait mal sous les sombres années, Par les serments jurés que l’on ne tenait pas, Par son harassement et par sa destinée, Et par les lourds fardeaux qui pesaient sur ses pas. Mon pays m’a fait mal par tous ses doubles jeux, Par l’océan ouvert aux noirs vaisseaux chargés, Par ses marins tombés pour apaiser les dieux, Par ses liens tranchés d’un ciseau trop léger. Mon pays m’a fait mal par tous ses exilés, Par ses cachots trop pleins, par ses enfants perdus, Ses prisonniers parqués entre les barbelés, Et tous ceux qui sont loin et qu’on ne connaît plus. Mon pays m’a fait mal par ses villes en flammes, Mal sous ses ennemis et mal sous ses alliés, Mon pays m’a fait mal dans son corps et son âme, Sous les carcans de fer dont il était lié. Mon pays m’a fait mal par toute sa jeunesse Sous des draps étrangers jetée aux quatre vents, Perdant son jeune sang pour tenir les promesses Dont ceux qui les faisaient restaient insouciants, Mon pays m’a fait mal par ses fosses creusées Par ses fusils levés à l’épaule des frères, Et par ceux qui comptaient dans leurs mains méprisées Le prix des reniements au plus juste salaire. Mon pays m’a fait mal par ses fables d’esclave, Par ses bourreaux d’hier et par ceux d’aujourd’hui, Mon pays m’a fait mal par le sang qui le lave, Mon pays me fait mal. Quand sera-t-il guéri ? A differenza di Robert Brasillach, che pure scriveva pochi giorni prima di essere fucilato per collaborazionismo (6 febbraio 1945), posso dire che io non spero più che il mio Paese possa guarire. E invece, esattamente come lui, posso dire che non solo il mio Paese mi ha fatto male, ma anche i suoi abitanti. Ma non mi sento, per la verità, politicamente ferito o disilluso. Mi sento umanamente trafitto. Nessuno mi metterà al muro, come lui, ma è come se lo fossi stato messo, giorno dopo giorno, innumerevoli volte. Tuttavia, riesco ancora a trovare rifugio nella letteratura, nella musica, nella poesia, nella solitudine più totale e in qualche amico vero. Pronto a vendere cara la pelle, a riconfermare la mia concezione aristocratica dell’esistenza. Pieno di sputi, di disprezzo, di odio. Ma cosa sono queste piccolezze, di fronte a una visione del mondo salda e coerente? Sì, mi tengo strettissima la mia vita “sbagliata”. Per me è stata l’unica giusta, l’unica possibile, l’unica vera.
    Piero Visani
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Qualche anno fa, un quotidiano di destra che stava conducendo un’inchiesta sui protagonisti della breve stagione della Nuova Destra italiana, filiazione nazionale ma non subalterna della Nouvelle Droite francese di Alain de Benoist, chiese ai membri del gruppo dirigente, tra cui si annoverava anche chi scrive, di tirare un bilancio della loro esperienza e di descrivere che cosa avevano fatto dopo. A me, l’intervistatore fece implicitamente notare che, rispetto ad altri protagonisti di quella breve ma intensa e felice esperienza, avevo fatto molto meno carriera, visto che c’era chi era diventato giornalista, chi politologo, chi scrittore, chi critico cinematografico, chi deputato. Io descrissi il mio personale itinerario, chiarii alcuni punti che mi riguardavano, precisai alcune distinzioni che mi erano proprie (ero sempre stato molto più vicino al marcato anticristianesimo della Nouvelle Droite francese che all’altrettanto marcato “baciapilismo” di quella italiana) e conclusi sottolineando che avevo fatto un percorso mio, molto attento – come sempre – a una rigida coerenza agli assunti ideologici originari. Ammisi che avrei potuto comportarmi diversamente e – senza in questo voler essere polemico con gli amici di allora, che tali sono e restano – che non avevo fatto carriera perché “preferisco tenermi stretta la mia vita ‘sbagliata'”. Ricevetti molti complimenti per quell’articolo. Molti amici di un tempo mi scrissero per solidarizzare. Ne fui orgoglioso, così come sono sempre orgoglioso, quando scopro di essere stato fedele a me stesso. Se potesse essere un’iscrizione tombale, “mi tengo stretta la mia vita ‘sbagliata'” non mi dispiacerebbe, anche perché è del tutto evidente che non la ritengo in alcun modo tale. So che c’è chi la ritiene tale per me, per conto mio, ma io la penso diversamente, io penso che la mia vita sia stata giustissima. Ho scritto “vita ‘sbagliata'” solo per mettermi nei panni altrui, per interpretare il loro giudizio. Non certo perché lo condividessi. Il mio onore si è sempre chiamato fedeltà, e continuerà a chiamarsi tale. Non ho mai tradito gli ideali dei miei 14 anni, quelli che mi portarono ad avere molti problemi fin dall’epoca del ginnasio e che fecero di me – secondo la splendida definizione di Marco Tarchi, che della Nuova Destra italiana fu l’indiscusso leader – uno dei tanti “esuli in patria”. Se un piccolo cambiamento c’è stato, esso consiste solo nel fatto che, mentre oggi sono sempre un esule, non ho più una Patria. La mia Patria si è squagliata. Come Robert Brasillach nei “Poemi di Fresnes”, posso ricalcare parola per parola quanto segue, da lui riferito alla Francia del periodo bellico: MON PAYS ME FAIT MAL Mon pays m’a fait mal par ses routes trop pleines, Par ses enfants jetés sous les aigles de sang, Par ses soldats tirant dans les déroutes vaines, Et par le ciel de juin sous le soleil brûlant. Mon pays m’a fait mal sous les sombres années, Par les serments jurés que l’on ne tenait pas, Par son harassement et par sa destinée, Et par les lourds fardeaux qui pesaient sur ses pas. Mon pays m’a fait mal par tous ses doubles jeux, Par l’océan ouvert aux noirs vaisseaux chargés, Par ses marins tombés pour apaiser les dieux, Par ses liens tranchés d’un ciseau trop léger. Mon pays m’a fait mal par tous ses exilés, Par ses cachots trop pleins, par ses enfants perdus, Ses prisonniers parqués entre les barbelés, Et tous ceux qui sont loin et qu’on ne connaît plus. Mon pays m’a fait mal par ses villes en flammes, Mal sous ses ennemis et mal sous ses alliés, Mon pays m’a fait mal dans son corps et son âme, Sous les carcans de fer dont il était lié. Mon pays m’a fait mal par toute sa jeunesse Sous des draps étrangers jetée aux quatre vents, Perdant son jeune sang pour tenir les promesses Dont ceux qui les faisaient restaient insouciants, Mon pays m’a fait mal par ses fosses creusées Par ses fusils levés à l’épaule des frères, Et par ceux qui comptaient dans leurs mains méprisées Le prix des reniements au plus juste salaire. Mon pays m’a fait mal par ses fables d’esclave, Par ses bourreaux d’hier et par ceux d’aujourd’hui, Mon pays m’a fait mal par le sang qui le lave, Mon pays me fait mal. Quand sera-t-il guéri ? A differenza di Robert Brasillach, che pure scriveva pochi giorni prima di essere fucilato per collaborazionismo (6 febbraio 1945), posso dire che io non spero più che il mio Paese possa guarire. E invece, esattamente come lui, posso dire che non solo il mio Paese mi ha fatto male, ma anche i suoi abitanti. Ma non mi sento, per la verità, politicamente ferito o disilluso. Mi sento umanamente trafitto. Nessuno mi metterà al muro, come lui, ma è come se lo fossi stato messo, giorno dopo giorno, innumerevoli volte. Tuttavia, riesco ancora a trovare rifugio nella letteratura, nella musica, nella poesia, nella solitudine più totale e in qualche amico vero. Pronto a vendere cara la pelle, a riconfermare la mia concezione aristocratica dell’esistenza. Pieno di sputi, di disprezzo, di odio. Ma cosa sono queste piccolezze, di fronte a una visione del mondo salda e coerente? Sì, mi tengo strettissima la mia vita “sbagliata”. Per me è stata l’unica giusta, l’unica possibile, l’unica vera.
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L’inquinamento delle grandi navi da crociera
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L’inquinamento delle grandi navi da crociera
È iniziato il viaggio inaugurale di quella che viene presentata come la nave da crociera più grande del mondo. Impressionanti i numeri: oltre 250mila tonnellate di stazza, 365 metri di lunghezza, più di tre campi da calcio uno dietro l’altro; circa 50 di larghezza, venti ponti di cui uno con il più grande parco acquatico in mare e una cascata coperta di 17 metri. Può ospitare oltre cinquemila passeggeri assistiti da un equipaggio di più di 2300 persone, praticamente una città, e neanche tanto piccola. Una nave da crociera che è stata presentata come la più avanzata anche dal punto di vista tecnologico: basti pensare che per ridurre i consumi è dotata di un impianto che invia milioni di bolle d’aria microscopiche lungo lo scafo della nave per ridurre l’attrito. Un gigante dei mari che non poteva non riservare sorprese anche sotto il profilo delle emissioni: i sei giganteschi motori principali sono “ecocompatibili”, almeno a detta dei proprietari. Possono utilizzare sia combustibile tradizionale che gas naturale (GNL), contenuto in un enorme serbatoio. Ma non basta: il GNL è intercambiabile con biogas liquefatto rinnovabile (bio-GNL o LBG) o altro. Soluzioni che sono state presentate dai progettisti rispettose dell’ambiente. Ma è davvero così? Da anni le grandi navi sono accusate di essere uno dei maggiori responsabili delle emissioni di CO2. Per questo motivo da un po’ di tempo i costruttori hanno concentrato l’attenzione su sistemi di alimentazione più “green”. Secondo alcune stime sarebbero oltre 500 le navi in costruzione che utilizzano combustibile verde. Di queste la maggior parte. il 40%, sono alimentate a GNL, il 24% a metanolo, il 23% con sistemi ibridi, l’8% a GPL e l’1% ad ammoniaca. Ma davvero il GNL è “green”? “Il GNL è l’energia a minore intensità di carbonio”, ha dichiarato Antoine Piéton, CEO di Technip Energies. A fargli eco Nelly Nicoli, responsabile di Elengy: “Il GNL è già un vettore per la decarbonizzazione”. Non tutti i ricercatori sono dello stesso parere: secondo Alexandre Joly, responsabile della divisione Energia di Carbone4, è vero che “il gas naturale emette la metà dei gas serra (GHG) del carbone, ma in compenso è 10 volte più ad alta intensità di carbonio rispetto alle alternative a basse emissioni di carbonio, come l’eolico, il solare o il nucleare”. A questo si aggiunge che “Il consumo di gas naturale non sostituisce quello del carbone, è in aggiunta”. In effetti, se si guarda ai consumi di energia a livello globale, si scopre che non sono diminuiti, anzi, sono aumentati. Recentemente diversi Paesi hanno iniziato ad acquistare quantità sempre più ingenti di gas naturale liquefatto (GNL). Ancora una volta, questa scelta non sembra essere legata all’ambiente, ma alla necessità di sopperire alla riduzione degli approvvigionamenti di gas naturale proveniente dalla Russia attraverso i gasdotti, oggi chiusi, limitati o addirittura distrutti come il Nord Stream. Il GNL non è altro che un gas simile a quello che transita nei normali gasdotti. Solo che per essere trasportato senza usare le condutture viene raffreddato fino a passare dallo stato gassoso a quello liquido. Quello che i produttori non dicono è che, per ottenere questa “trasformazione”, è necessario utilizzare giganteschi refrigeratori che abbassano la temperatura a oltre -160°C. Ma questo comporta un considerevole consumo di energia. Uno studio realizzato dalla società norvegese Rystad Energy ha dimostrato che, a conti fatti, il trasporto di GNL comporta emissioni di anidride carbonica diverse volte superiori rispetto ai gasdotti tradizionali. Cosa questa che potrebbe annullare i benefici del ricorso al gas naturale invece che ad altri combustibili fossili. La società armatrice del nuovo gigante dei mari ha insistito sul fatto che utilizza il “combustibile marino più pulito”. Bryan Comer, direttore del programma marittimo dell’International Council on Clean Transportation, non la pensa allo stesso modo: “Stanno definendo il GNL un carburante verde quando il motore emette dal 70 all’80% in più di emissioni di gas serra per viaggio rispetto a quando utilizza un normale carburante marino”, ha detto. La nuova nave da crociera “ha i più grandi serbatoi di GNL mai installati in una nave. Si tratta di greenwashing”. È vero che rispetto ad altri combustibili marini il GNL riduce le emissioni di anidride carbonica. Ma una nave da crociera che utilizzi il GNL emetterebbe complessivamente più gas serra a causa di quello che viene chiamato “slittamento del metano”, secondo Comer. In pratica parte del gas non verrebbe combusto e questo comporterebbe notevoli emissioni di metano, un gas che ha conseguenze tremende per l’ambiente: il metano infatti intrappola circa 80 volte più calore della CO2 dopo il rilascio nell’atmosfera. Il nuovo gigante per il turismo dei mari vanta anche con altri sistemi “verdi”. Ad esempio per alimentare gli ascensori sono celle a combustibile che producono energia elettrica senza combustione. Purtroppo anche in questo caso la realtà, almeno per ora, potrebbe essere diversa: pare che le batterie per alimentare questi sistemi non siano ancora state installate a causa di un problema con i fornitori. Secondo la società produttrice del nuovo gigante dei mari, “il GNL è una parte della nostra strategia per i combustibili alternativi, insieme ai biocarburanti, al metanolo e ad altre fonti di energia come l’energia da terra”. Questo richiama l’attenzione ad un altro dei problemi delle grandi navi da crociera: per funzionare devono tenere i motori accesi anche quando sono attraccate in porto. Ma così facendo inquinano in modo spaventoso. Non è un caso se da qualche tempo alcune città come Venezia, Barcellona e Amsterdam, hanno addirittura vietato o ridotto il numero di navi da crociera alle quali è concesso l’approdo, per minimizzare l’impatto sull’ambiente e sulla salute dei cittadini. Ma la nuova mega nave da crociera ha pensato anche a questo: in porto dovrebbe funzionare con l’elettricità fornita da terra, un’alternativa più pulita al funzionamento di generatori altamente inquinanti. Purtroppo l’impatto sull’ambiente non è solo quello legato alle emissioni di CO2. Secondo Marcie Keever di Friends of the Earth US, “Costruendo queste mega navi e utilizzando il GNL, l’industria crocieristica si sta muovendo nella direzione sbagliata. Le navi più grandi richiedono più infrastrutture nei porti, e contribuiscono a distruggere le barriere coralline e gli ecosistemi per accoglierle”. Tutti problemi per i quali le mega navi da crociera non hanno ancora trovato nessuna soluzione.
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