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iosonochiarapagnini · 8 months
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La grande epoca di Internet ha un difetto genetico di base: la piccolezza delle opinioni esposte sul più grande palcoscenico, spesso espresse con un'aggressività e un totalitarismo tali che ormai sembra far parte del pacchetto espressivo delle persone.
L'opinione è libera? Insomma, direi. Non oggi.
Ma di sicuro, anche quando è in contrasto col proprio credo, un'opinione andrebbe almeno formulata solo dopo un'attività intellettuale preventiva, averci pensato un po'. Andrebbe almeno ben argomentata e non sputata senza nemmeno saper motivarla o ancora più comunemente riprodotta seguendo l'opinione della massa.
L'argomento del giorno è lo spot Esselunga e i filosofi da tastiera si sono già lanciati in spinose, crudeli, efferate e spesso sgrammaticate critiche (avevate dubbi?).
Passiamo a un esame veloce ma ben dettagliato del perchè, secondo me, non solo queste critiche sono sterili, ma lo spot Esselunga è un tipo di pubblicità assolutamente riuscito.
La realtà è online. Esselunga ha avuto un coraggio da leoni, che è innegabile. Personalmente, adoro chi osa.
La società è cambiata e la famiglia è stravolta, chiunque si lamenta che "si stava meglio quando si stava peggio" ma quando siamo messi di fronte alla realtà delle cose, la rifiutiamo.
La famiglia della Mulino Bianco è morta da un pezzo e se la vogliamo dire tutta non è mai esistita. Semmai fa parte di quelle utopie impossibili che rendono la realtà delle famiglie ancora più frustrante e insopportabile perché propongono canoni talmente estremizzati da essere irrealizzabili.
Esselunga ha avuto coraggio. Ha proposto una famiglia attuale, imperfetta, disordinata, incasinata, vera. Che prova a fare il meglio che può anche quando le cose non vanno. Ha proposto un modello diverso dagli spot di massa ma molto, molto comune e possibile. Perchè in questo paese abbiamo ancora così tanta paura della realtà?
2. Il peccato della separazione. Il brand ha provato a sdemonizzare la separazione di una coppia come colpa mortale di cui vergognarsi. Le coppie scoppiano e si sa. Ma noi siamo sempre così pronti a battere il martelletto sulla vita degli altri. Abbiamo sempre la presunzione di sapere perchè le coppie scoppiano. Ma per esperienza diretta avendo genitori separati, io vi dico: la separazione spesso è una vera e propria benedizione. Non ci credete? Provate a stare insieme per forza quando le cose non vanno e vedere i risultati sui figli.
3. Attenzione ai bambini. Lo spot non è affatto incentrato sugli adulti, ma sulla bambina. Se siete onesti, saprete che nelle famiglie con problemi i bambini sono spesso dimenticati. Troppo presi a giudicare le scelte degli adulti, a farsi guerre legali, a portare dalla propria parte alleati con il racconto di come sono andate le cose, i bambini di coppie in crisi o separate sono le prime vittime innocenti la cui sofferenza è ignorata.
4. Il cuore è in prima linea. Esselunga propone un marketing di tipo emozionale molto efficace, che ha l'obiettivo di colpire dentro un pubblico molto vasto attraverso una storia semplice, comune e facilmente assimilabile emotivamente. Che sia per esperienza diretta o per umana immedesimazione, lo spot è in grado di suscitare emozioni, sia di tenerezza, che di tristezza, che di dolcezza o di altro, creando un legame con lo spettatore.
5. Enorme reazione mediatica. Se si chiama pubblicità, un motivo ci sarà. L'obiettivo finale è arrivare: al cuore del consumatore, nella memoria della maggior parte, nelle bocche e nelle tastiere. Quello che non si può pretendere è che il maledetto politicamente corretto non venga ferito. Siamo un paese di code di paglia. Ma la verità è che lo spot non ha offeso nessuno. Chi si sente offeso ha una carenza di sensibilità per il valore del progetto e dei messaggi che manda e poca aderenza alla realtà sociale.
Ma come sempre più è piccolo il cervello e più sono lunghe le lingue.
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iosonochiarapagnini · 10 months
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Ieri pomeriggio volevo solo prendermi un gelato.
Ma ci sono andata con la mia migliore amica, che non sta mai zitta.
Siamo andate nella nostra gelateria artigianale preferita, che fa del gelato da urlo.
In quel momento c'eravamo solo noi e io ero troppo presa inutilmente a scegliere quali gusti prendere (tanto scelgo sempre gli stessi) quando la mia amica si accorge che le due commesse nel retro erano intente a fare qualcosa con il cellulare su una coppa di gelato.
Mi tira una leggera gomitata e me le indica.
Finchè una di loro grida ''Possiamo pubblicare questa sulla pagina Instagram del negozio!'' e l'altra non si esprime, molto indecisa.
Come succede quando nominano qualcosa che ti coinvolge, la cosa attira la mia attenzione e mi viene da sorridere assistendo a un acceso battibecco sulla questione, ma lascio cadere lì la cosa: la scelta dei gusti sta diventando complicata (ce ne sono di nuovi, dannazione!).
Se non fosse che la mia amica che non sta mai zitta se ne esce con ''Per fare bene quello che state facendo c'è lei - indicando me - che è una Social Media Manager!''
Io non dico niente, loro alzano finalmente la testa e sui loro volti c'è il segno inequivocabile di un'interferenza non giustificata, mista a confusione.
Una se ne esce con naturalezza con la frase che non mi fa dormire di notte: ''E che cosa sarebbe??'' e io penso che non voglio deprimermi, non ora, non prima di un gelato.
Ma non ho tempo di farlo, perchè l'altra più o meno ha capito e con un sorrisetto carico di nonchalance e ignoranza dice: ''No no guarda, non ci serve. Per quello possiamo fare anche da sole.''
Eh, no. No perchè sono stanca di questi stereotipi. No perchè è l'ora di finirla.
Faccio passare qualche secondo e mi viene un'idea.
Mi rivolgo alla mia amica: ''Senti, non serve che prendiamo il gelato qui, andiamo a comprare i coni bigusto sottomarca al supermercato che costano meno, tanto è uguale!'' e faccio per andarmene.
Entrambe rimangono interdette, si guardano con incredulità.
Cosa ho appena detto?
La mia amica non capisce cosa sto facendo e cerca di fermarmi, c'è del tentennamento atroce dappertutto, finchè la stessa commessa di prima, con voce stridula, bassa e colpevole, mi dice: ''Scusi, ma non è uguale''.
E io: ''E perchè scusa? Sempre gelato è.''
E l'altra: ''Ma il nostro è artigianale, fatto con latte fresco, usiamo solo frutta a km zero e materie prime di alta qualità. Non è la stessa cosa!''
''Appunto'', faccio io, ''Vale lo stesso discorso se pensi di poter fare il mio lavoro scattando quattro foto. Non è la stessa cosa.''
Questo perchè penso che ognuno di noi, nel proprio piccolo, debba fare il suo per cercare di portare questa professione a una dignità che gli spetta.
P.S. Ah, il gelato alla fine l'ho preso, era buonissimo. Sarà perchè al posto della panna montata ci ho fatto mettere un po' di vittoria e consapevolezza.
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iosonochiarapagnini · 10 months
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Tu perderesti un cliente fidelizzato per 8,50 €?
La risposta credo sarà ovvia ma prima ragiona con me mettendo insieme questi tasselli:
Una pizzeria apre da poco in un posto turistico ( = altamente competitivo, che offre molte possibilità e con onde di lavoro esagerate), offre un tipo di prodotto diverso, puntando su una qualità maggiore e farine diverse, più salutari. Ha pochissimo personale e non riesce a garantire la velocità che si richiede. E' in una posizione per niente strategica, non investe in pubblicità, non sfrutta il social media marketing, quindi è al buio. Competitors ne ha a sacchi e molto più conosciuti di lei. Però è in un luogo preso d'assalto d'estate e ha una Value Proposition niente male. Ora aggiungi:
Chiara è una potenziale cliente in cerca di una pizza che non galleggi ore nello stomaco, che sia di alta qualità e per questo è disposta a pagare di più e, bonus XP, apprezza tipi di farine diversi dai soliti.
Sulla base delle informazioni ricevute informandosi sulla pizzeria, Chiara fa un tentativo che va bene. Chiara è entusiasta per almeno due motivi: il primo è che finalmente ha risolto un problema che non le faceva mangiare la pizza in modo sereno e il secondo è che quella pizza è veramente ottima. Chiara è quel tipo di cliente che quando trova qualcosa che la entusiasma non lo lascia più: non cambia e non cerca altro. Chiara incarna la fidelizzazione assoluta, quella che non tradisce. Ora aggiungi che:
Chiara in quel momento lavora come receptionist quindi per il suo lavoro è in contatto con centinaia di persone. Prenota in quella pizzeria tutte le settimane ed esprime sempre feedback positivi ad ogni acquisto. Entra in confidenza coi titolari che però, nonostante la stagione estiva propizia, non decollano come vorrebbero ed è vero: la pizzeria non parte e la vedo sempre vuota. Chiara, da cliente fidelizzato e ormai diventato promotore stesso dell'attività, comincia a mandare loro i suoi clienti, di fatto sponsorizzando la loro attività.
La pizzeria così prende un bello slancio: i clienti di Chiara che vogliono andare a mangiare la pizza vengono indirizzati in quella pizzeria e tornando esprimono soddisfazione: questo genera nuovi clienti per la pizzeria, che si dichiarano mandati da Chiara, aumenta la credibilità di Chiara come operatore turistico e il legame fra lei e i titolari si consolida. Chiara manda loro clienti per due anni e continua lei stessa a servirsi da loro. Finchè, l'inizio della fine: la pizzeria fa stampare dei classici cartellini dove applicherà un timbro ad ogni pizza acquistata: la decima è gratis.
Peccato che al raggiungimento del decimo timbro di Chiara, la pizza gratis le viene negata. Questo perchè, secondo loro, la pizza era omaggio esclusivamente se di tipo Margherita e prodotta col tipo di farina più economico fra quelli utilizzati, ben sapendo dopo due anni che a me quel tipo di farina non piaceva.
Fra quel tipo di pizza e il mio correvano 2.50 €. La regola non era specificato da nessuna parte. Loro sapevano che a me non piaceva, perchè in due anni ho sempre scelto altro. E anche se fosse stato inciso nella Bibbia, a un cliente come Chiara solo uno che non ha capito niente di come si vende negherebbe una pizza gratis. Incredula, ho pagato la pizza che doveva essere gratis e non ho mai più messo piede in quella pizzeria.
Ora, passiamo al lato marketing.
Ho preso quel rifiuto come un'offesa mortale: più alta è la fidelizzazione del cliente, più parliamo di sentimenti generati che vanno molto oltre l'acquisto. Si tratta di fiducia, di stima, di soddisfazione, di tranquillità, di comfort zone che solo un marchio conosciuto può offrire. Si tratta di non avere più occhi per nessuna alternativa sul mercato.
Mi hanno perso definitivamente come cliente. Se ti sembra esagerato, non lo è e ti spiego perchè: il mio impegno per farli crescere, pur non guadagnandoci niente, derivava da una sincera ammirazione e da una profonda amicizia. Non potevo credere alle mie orecchie.
A livello di correttezza, il gesto è stato gravissimo: non solo offri un servizio (''Al decimo timbro, una pizza è omaggio!'') che poi neghi, ma generi anche un'aspettativa che viene delusa.
Non riconoscere i clienti top, anche senza studiare marketing, è un errore veramente da principianti. E pensare di essere l'unica alternativa possibile, di questi tempi, è un'illusione da folli.
5. Con certe figure di me*da non ci si risolleva mai più e il mio caso è uno di quelli
6. Perdendo un cliente fidelizzato e promotore, hanno perso decine di persone e migliaia di euro di incassi. Va da sè che non ho più mandato clienti, pur non parlandone male perchè un conto è la giustizia, un conto sono le carognate. Semplicemente non l'ho più nominata.
Questo per arrivare a dire una cosa che credo da anni: imprenditori non si diventa perchè si apre un'attività, è una mentalità con cui forse si deve nascere perchè riguarda molto qualità che si devono possedere. Intuito, organizzazione, leadership senz'altro ma anche e soprattutto un'onestà di fondo e, perchè no, una bella dose di riconoscenza nei confronti di chi ti sceglie, nonostante tutto, nonostante tutti gli altri.
Io di imprenditori veri non ne ho trovati molti, ma una cosa l'ho capita da tempo: la fiducia non si può tradire. Mai.
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iosonochiarapagnini · 10 months
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Che il marketing sia qualcosa di cattivo è un pregiudizio duro a morire quando lo si associa al concetto di ''vendere, no matter what''. A dar credito al preconcetto secondo cui per vendere bisogna mentire, ingannare o ancora peggio truffare, bisognerebbe prenderne subito le distanze.
Ma oggi il marketing si sta lentamente riscattando grazie a una posizione diversa presa dagli stessi operatori: il marketing non vuole essere un'arma, ma uno strumento utile che ci fa bene conoscere.
Prima di formarmi come Social Media Manager ho lavorato molto tempo nel commercio a stretto contatto con persone di ogni genere e devo dare merito alla mia curiosità se ho osservato tanto da capire che alla base della vendita ci sono sempre più spesso fattori più semplici di quanto si potrebbe pensare.
La mia esperienza in una boutique è stata altamente formativa per comprendere una regola fondamentale.
Vi racconto una storia.
Ero commessa in questo negozio circondata da abbigliamento, scarpe, gioielli ed accessori. La clientela, naturalmente, era all'80% femminile sebbene fossimo negozio uomo/donna.
Salgo pure al 90%, se considero che i pochi uomini che ho visto erano solo d'accompagnamento (forzato, ovviamente!) a mogli e fidanzate.
Era una mattina d'estate e il negozio era pieno. Vedo entrare una signora che attira la mia attenzione per la sua altezza, una bella donna che di certo non passa inosservata.
Nel trambusto e in un grande via vai, non faccio a meno di notare che la signora gira molto nel negozio osservando qua e là, ma passa e ripassa più volte davanti a un paio di scarpe in particolare.
Finisco di servire altri clienti, mi libero e la signora è ormai al quinto o sesto giro davanti le stesse scarpe.
Le guarda con la testa di traverso, quasi a studiarle. Il corpo è girato verso destra. Sembra prenderne le distanze. Poi distoglie lo sguardo, finge di guardare altro, tocca i vestiti esposti quasi sfogliandoli distrattamente e poi si gira di nuovo a guardarle.
Il mio intuito si attiva e voglio capire.
Le dico che quel paio di scarpe piace tantissimo anche a me (era vero).
Lei per un attimo sobbalza, come svegliata da un sonno di cui non era consapevole. Mi sorride e si avvicina. Ammette il suo interesse palese e mi chiede se ci sono altri colori. Glieli faccio vedere ma negli occhi della signora vedo passare due stati d'animo: l'interesse per i colori che guarda estasiata prima e subito dopo una forte disillusione, il suo sguardo si spegne.
Noto quel cambio di bagliore, ma capisco anche che c'è qualcosa sotto che io non so, anche se posso intuirlo.
Ci vado con delicatezza quando le chiedo: ''Vuole provarle?''
La signora rifiuta, poco convinta e con un'aria di colpevolezza (che era verso se stessa). Ma subito dopo si arrende e mi confida, con voce bassissima quasi a svelare un tremendo crimine, qual è il problema.
''Io non ho mai potuto indossare un sandalo coi lacci alla caviglia, perchè ho una caviglia bruttissima. Non posso.''
''Non posso''. Ecco, è questo il momento esatto in cui quella donna si è fidata di me.
E' il momento esatto in cui ha svelato la sua debolezza e ora sta a me esserne degna e non tradirla.
E' il momento esatto in cui ho l'opportunità non solo di capire, ma di fare qualcosa di buono.
La mia empatia ha uno scossone tale che la prendo in disparte, le offro uno spazio di dialogo lontana da orecchi indiscreti e lei si apre, erutta come un vulcano le sue insicurezze. Queste caviglie le vede grosse, brutte, orribili, inguardabili, per niente femminili e le mettono un disagio tale al punto che mi confida di averle sempre nascoste il più possibile. Che sono il suo disagio più forte da quando era ragazza e non l'ha mai superato.
Sarà che conosco il peso di un'insicurezza, sarà che fra donne ci si capisce, ma prendo a cuore la situazione al punto che mi dimentico di essere una commessa per un paio di minuti.
Le chiedo con la massima delicatezza possibile se posso darle la mia opinione e lei mi permette di guardargliele. Questo succede perchè si fida di me. Lei si alza di poco i pantaloni lunghi, indossati in Agosto con temperature folli (pur di coprirle) e mi continua un elenco dispregiativo e... ingiusto, mentre mi sono abbassata di poco per osservarle.
Quelle caviglie non avevano assolutamente niente.
Mi rialzo e la guardo, sentendomi in dovere di provare a scioglierle qualcosa che la tormenta da tutta la vita e per farlo non devo cercare le parole perchè quando si dice la verità non c'è bisogno di copione.
Quello che le dico è pressappoco questo: ''Io lavoro qui da mesi, di donne ne ho viste e di caviglie pure perchè vendo scarpe tutti i giorni. Le posso garantire che le sue caviglie non solo non hanno niente, ma sono perfettamente proporzionate alla sua altezza e alla sua corporatura.''
Già, dimenticavo: la signora aveva circa 45 anni ed era alta almeno un metro e ottanta. La sua corporatura era imponente per natura, ma non per questo tozza come si vedeva. Forse plagiata dagli standard comuni, dalle sue taglie non in linea con lo standard imposto dal mondo della moda e forse, chissà, da qualche cretino che gliel'aveva fatto credere, quel ''Non posso'' mi ha disturbata e intristita.
Oppure per qualcosa di più semplice: non aveva mai accettato la sua altezza e le sue forme.
Non so se quella signora non avesse mai chiesto a nessuno un'opinione o se avesse avuto bisogno da chissà quanto di sentirsi dire certe parole, ma sono certa che l'empatia ha vinto.
Le ho chiesto di credermi e che provasse quelle scarpe per me, ma non l'avrei mai obbligata all'acquisto se non se le sentiva. Non c'entrava più niente la vendita, volevo che spezzasse quel circolo. Non sopportavo che vivesse in quel modo. Io sapevo che le sarebbero state bene.
Si è fidata di me, le ha provate e io le ho consigliato con cosa potessero stare bene. Mentre parlavo aveva il sorriso stampato in faccia, come di chi si è appena liberato dalle catene.
Lei ha cominciato a fare una lista entusiasta di cosa aveva già nell'armadio che poteva starci bene, non smettendo mai di sorridere. Eravamo davanti a un grande specchio e lei non smetteva mai di fissarsi i piedi con le sue belle scarpe e io mi godevo lo spettacolo di una donna liberata da una paranoia inutile.
''Le prendo!'' e si illumina in volto ancora di più.
Non mi scorderò mai l'espressione che aveva alla cassa: era di libertà, di felicità infantile, di soddisfazione, di chi si è liberata di un peso che l'ha oppressa per anni. Era talmente libera che era diventata goffa dall'emozione.
Quando se n'è andata mi ha sussurrato un ''Grazie'' che parlava da solo.
Questa esperienza è stata una delle più forti mai provate.
E avevo già capito cosa significa per me vendere: attivare l'intuito e l'empatia, andare a fondo, osservare chi ho davanti. A volte la persona non vuole vuotare il sacco, ma in quel caso serve una bella dose di inutito condita da empatia: individuato il potenziale blocco, esprimerlo con delicatezza e vedere se quella persona si lascia aiutare. Nel 90% dei casi funziona, perchè le persone vogliono qualcuno che le aiuti a scegliere.
Vogliono essere ascoltate, comprese, supportate.
Tutto il marketing è empatia. Siamo così presi nel produrre, produrre e produrre oggetti sempre più funzionali, sempre più completi, sempre più costosi che ci dimentichiamo spesso delle persone.
Da cliente, raramente trovo commessi e addetti che mi trattano come una persona. Mi trattano solo come un cliente che deve comprare qualcosa e questo mi fa uscire dal negozio. Non mi interessa essere trattata così. Sono sicura che non piace a nessuno.
Le vendite più difficili, coi clienti più impossibili, le ho sempre chiuse con pazienza, professionalità e una grande dose di empatia.
Il segreto è puntare al cuore e non al portafogli.
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iosonochiarapagnini · 10 months
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Il vero ruolo dell'assistenza clienti nel commercio moderno.
Parto da un'esperienza personale di qualche giorno fa che mi ha fatto riflettere per uno spunto di discussione comune.
Cercavo un libro e lo volevo usato.
Se mi devo osservare come cliente dall'esterno, ti direi che lo voglio usato perchè voglio risparmiare. Oppure perchè voglio fare la mia parte per diminuire l'abbattimento degli alberi e il consumo di carta. Nel mio caso entrambi.
Ma oggi io che scrivo non sono la Social Media Manager, sono un consumatore come te. Una persona che fa acquisti e sceglie dove farli.
Il libro usato lo cerco su eBay, che al momento per me è la piattaforma online migliore per la compravendita fra privati per questa categoria.
Trovo il libro che cerco da due venditori diversi, sono due librerie. Suppongo due realtà locali: me le immagino piccole o di medie dimensioni, i cui titolari portano avanti la baracca con passione, tanto sacrificio e qualche difficoltà, ma in qualche modo ce la fanno.
L'idea di comprare da una piccola realtà locale mi fa piacere perchè con il mio acquisto aiuterei un'azienda in cui il mio acquisto fa la differenza, al contrario di un colosso nell'e-commerce in cui (immagino) il mio acquisto sia come una goccia d'acqua nell'oceano.
Ad ogni modo, le foto del libro sono scarse in entrambe le inserzioni e non mi aiutano a capire le condizioni effettive del libro.
Il prezzo è piccolo, ma non conta: io consumatore voglio sapere cosa sto per comprare e le condizioni fanno parte delle informazioni utili pre-acquisto.
Uno dei due venditori mi invia una Proposta d'Acquisto privata in cui mi offre il 10% di sconto. La cosa aumenta il mio desiderio d'acquisto e naturalmente mi spinge verso quel venditore piuttosto che l'altro.
Scrivo un messaggio privato ad entrambe le librerie in cui chiedo la possibilità di avere delle foto aggiuntive per togliermi il mio dubbio. Fra l'altro, in entrambe le inserzioni, ogni venditore sollecita a fare domande e richieste di qualsiasi tipo, garantendo la loro disponibilità.
Scrivo un sabato pomeriggio, in orario feriale.
Arriva Lunedì e non ho ancora una risposta da entrambi. Concedo loro il bonus-weekend (con estrema bontà, perchè se in questo momento passassi da consumatore a SMM, non avrei questa opinione!).
Scrivo il secondo messaggio ad entrambe le librerie Lunedì pomeriggio in cui rettifico che avevo già scritto sabato, ripeto la richiesta di foto con cortesia sottolineando la mia volontà d'acquisto e chiedo se è possibile averle.
Oggi in cui scrivo l'articolo è Mercoledì e io dopo 5 giorni non ho mai avuto una risposta da entrambi i venditori.
Conclusione: non procederò all'acquisto da nessuno dei due.
Non perchè non voglia più il libro, ma perchè non voglio dare i miei soldi a un'azienda che tratta così un cliente, oltretutto palesemente interessato al punto da scrivere due volte.
Cosa possiamo trarre a caldo da questa esperienza:
La coerenza fra fatti e parole è obbligatoria. Ciò che annunci pubblicamente (in questo caso in un'inserzione eBay) deve corrispondere a ciò che offrirai nel privato. Vale sugli e-commerce, vale sui social, quando imposti la tua comunicazione.
La velocità di risposta oggi è tutto: non sei più solo! Pensare che sei l'unico da cui posso acquistare solo per un prezzo accattivante non è più sufficiente.
''Battere il ferro finchè è caldo'' è ancora (e sempre) un proverbio sacro. Il cliente può averci ripensato già dopo un paio d'ore: il tempismo è fondamentale.
Un cliente ignorato è un cliente perso per sempre, senza se e senza ma. Peggio ancora se sarebbe stato cliente per la prima volta.
Una vendita persa è sempre un danno, anche se le cose vanno bene.
Le buone intenzioni del cliente non bastano per completare l'acquisto se il customer care è zero. Infatti, non si considerano diversi fattori importanti per l'esperienza d'acquisto.
La maleducazione si paga sul fatturato: è un'ovvietà non ovvia.
Un customer care carente o nullo non produce fiducia nell'acquisto e le persone non comprano da te se non sentono di potersi fidare. Perchè devo darti i miei soldi?
Inviare una proposta d'acquisto è come offrire uno sconto in negozio. L'averla ricevuta aggrava il comportamento: averla ricevuta all'inizio mi ha fatto sentire speciale, sensazione poi stroncata coi miei messaggi ignorati. La sensazione che mi ha lasciato è che volesse esclusivamente vendere e che quindi il compratore potevo essere io come un altro. Pessimo.
Tirare su la saracinesca è inutile se non coccoli i clienti. Dov'è il servizio clienti?
Nel mondo moderno, il commercio è diventato assai più complicato.
Le alternative di acquisto sono migliaia, i prodotti pullulano ovunque, le persone sono svogliate e immerse in decine di possibilità che le confondono. Trovare te è difficilissimo già in partenza.
Un servizio clienti che funziona è sempre stato altamente raccomandabile molto prima dell'avvento di internet, ma oggi è praticamente l'aria che ogni commerciante deve respirare. Non è così. Sempre più, anche nei negozi fisici, mi domando com'è che certi addetti alla vendita siano stati inseriti, tanto sono assolutamente incapaci di trattare il cliente come si deve.
E parlo da ex addetta vendita di boutique.
Conclusione della mia storia: acquisterò il mio libro nuovo su Amazon.
E lo faccio non per volontà, ma per mancanza di alternative.
Morale della storia? Prima di maledire i colossi che vi ''rubano i clienti'', guardatevi in casa e controllate se non li fate scappare voi.
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iosonochiarapagnini · 10 months
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”Il Marketing è l’atto di far accadere il cambiamento. Fare è insufficiente. Non avrete esercitato un impatto finché non avrete cambiato qualcuno.”
Terminato il primo (ma sicuramente non l'ultimo) testo di Seth Godin, si prende un posto fra le menti più geniali e accattivanti del mio panorama letterario. Mi piace perchè Godin ti incanta con le sue visioni alternative, ben strutturate, sensate e pienamente condivisibili sul concetto reale di #marketing
Spoiler gentile: tradisce il titolo. Perchè non è un manuale palloso e soporifero, pieno di concetti accademici, tutt'altro. E questa è stata una sorpresa. La sensazione, leggendolo, è di stare a un convegno con Seth sul palco che parla a quattr'occhi con ognuno di noi e lo fa con un'arte oratoria tale che non perdi l'attenzione nemmeno per un secondo. Pendi letteralmente dalle sue labbra. Se ce l'ha fatta in un libro, sono sicura che a un congresso potrebbe farti dimenticare che devi andare in bagno.
E' un testo per chi si concede prospettive ''personalizzate'' del marketing, sì, ma anche del mondo. Lo consiglio solo a chi ha vedute molto più larghe dello spazio visivo comune, per chi vuole imparare qualcosa fuori da tutti i manuali e i concetti visti e rivisti. E' un libro per i visionari, per chi vuole di più da tutto, per chi non si accontenta. E' un libro per i sognatori e i coraggiosi. L'ho adorato perchè è un libro per chi non si siede e aspetta il cambiamento, ma si alza e lo crea.
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iosonochiarapagnini · 11 months
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E' con enorme soddisfazione che ho appena concluso il corso di Copywriting Avanzato su Learnn, un percorso veramente ricco e complesso.
Perchè Copywriting?
Perchè l'amore per la scrittura ha radici profonde e ho voluto svilupparlo in un contesto di marketing e comunicazione dove, al contrario di quanto si pensa, l'elemento umano è sempre più centrale.
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Ce la faremo?
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Fra pianti e esaurimenti 🫠
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Che cos’è il fenomeno ‘’Quittok’’
Un ashtag, insieme a #quitmyjob, da 400 milioni di visualizzazioni e altrettante approvazioni e critiche feroci quello che spopola sul social cinese TikTok, che vede video di ragazzi della cosiddetta generazione Millennial dire addio al loro lavoro da incubo riprendendosi col telefonino e condividendo la propria liberazione col mondo.
Già nel 2021, molti lavoratori di una nota catena di fast food decisero di licenziarsi in massa con lo slogan ‘’Everyone quit’’.
Me le paladine della corrente Quittok sono state l’australiana Christina Zumbo, 31 anni, che riprende i lunghi minuti prima e dopo le proprio dimissioni dal lavoro che la stava consumando, ben retribuito sì, ma che la rendeva infelice e Marisa Jo Mayes, che di anni ne ha 29 e ha sofferto di burnout sul posto di lavoro.
Nel video Christina si mostra ansiosa e insicura fino all’ultimo, non mancano evidenti segni di paura e incertezza, il cuore le scoppia in gola, mille domande le affollano la mente ma poi manda quell’e-mail ripetendo ‘’Lo sto facendo per me’’. Conferma le proprie dimissioni via telefono e dopo piange, con un timido sorriso liberatorio e l’incredulità di essere riuscita a farlo.
Mentre nel video di Marisa, c’è un vero e proprio countdown ansiogeno alla telefonata di dimissioni e sotto la didascalia recita ‘’E’ come se un elefante mi avesse tolto il piede dal petto, ma sono anche triste’’, che esprime quanto le decisioni giuste siano anche le più difficili da prendere.
Queste decisioni coraggiose di amore verso sé stessi condivise con il pubblico social hanno scatenato un seguito incredibile di altri ragazzi che hanno deciso di prendere in mano la propria vita e dire basta a lavori da incubo, che rendono infelici o che minano la propria salute psicologica.
Naturalmente non sono mancate critiche e polemiche, ma prima di gridare all’esibizionismo incontrollato, proporrei un’altra prospettiva.
Le dimissioni sono date con la voce che trema, evidenti segni sul fisico di ansia e la paura del futuro rimane accanto tutto il tempo, anche dopo la scelta. Non sembrano date per fare spettacolo, tutt’altro. Dopo averlo fatto, un crollo emotivo liberatorio si impossessa dei neo-disoccupati, che sanno di aver fatto la scelta giusta per loro ma non per questo hanno sottovalutato le incertezze sul loro futuro da quel momento, che però valgono la pena.
‘’Quittok’’ è l’incipit di quella che sembra una prossima rivoluzione sociale.
Ogni cambiamento parte da qualche coraggioso che si lancia avanti per primo, che rompe il silenzio su qualcosa, che semplicemente dice basta. Vedremo se anche il mondo del lavoro sarà costretto ad adeguarsi.
Cosa c'è dietro #Quittok
La nostra è un’epoca storica in cui abbiamo sdoganato tantissimi concetti tabù, molto importanti.
Uno è quello che avvisa di quanto la salute psicologica sia altrettanto importante di quella fisica, che segni di disagio e malessere non vadano assolutamente sottovalutati in nessun contesto e che la cultura della vergogna vada abolita.
Un altro è quello che pone l’attenzione sulle situazioni e le relazioni definite ‘’tossiche’’, cioè che presentano vari campanelli d’allarme, quindi di vero e proprio pericolo, da cui bisogna allontanarsi in tempo prima di danneggiare sé stessi e la propria vita.
In questo senso la mentalità e la concezione della vita, delle relazioni e degli eventi stanno cambiando e anche il lavoro viene guardato con occhi diversi.
Sta perdendo la sua posizione di predominio assoluto e il suo venire prima di qualsiasi cosa: oggi il lavoro sbatte la testa (e se la rompe) contro il limite del proprio benessere psicologico, sempre più predominante, a cui le nuove generazioni stanno facendo (giustamente) gli occhi dolci.
La strada percorsa dai Millennials è sempre più definita: fra le maggiori priorità ci sono il benessere psicofisico al primo posto, la famiglia, le proprie passioni e un giusto equilibrio fra vita privata e lavoro. Non si è più disposti ad essere corrosi da sentimenti negativi ed emozioni invalidanti in nome dello stipendio, nemmeno se alto nè a subire l'infelicità.
Il timbro fancazzista è dietro l’angolo? Può darsi, ma di fatto i ragazzi non hanno mai dichiarato di non voler lavorare, affatto, ma di volerlo fare in ambienti sani che li lasci crescere.
Il fenomeno ‘’Quittok’’ rende questa nuova corrente di pensiero ancora più spudorata, ancora più dichiarata e ribelle, con un grido social di libertà fortissimo che sfida la paura del proprio futuro.
L’intendo educativo del fenomeno Quittok.
Il fenomeno Quittok ha un unico intento: promuovere la difesa della propria salute mentale a tutti i costi, no matter what. Ascoltare il proprio corpo, prendersi cura della propria mente e controllare costantemente l’andamento della propria vita. Non aver paura di farsi domande e avere il coraggio di darsi delle risposte a cui devono seguire delle scelte, per garantirsi una qualità di vita (almeno) soddisfacente.
Chi si accontenta gode è sempre stato un proverbio discutibile e le nuove generazioni non ci stanno.
Per salvaguardare la qualità delle proprie giornate, anche abbandonare i luoghi di lavoro considerati tossici vuole diventare una scelta giusta e consapevole così come tutte le situazioni che devastano la propria mente per mettere al primo posto la propria serenità. Tutto ciò che ha questo obiettivo non è considerato solo legittimo, ma dovuto.
Il futuro spaventa ancora tutti noi, non solo i ragazzi.
Ma le nuove generazioni stanno imparando a dare il giusto peso a tutte le cose e a pretendere di essere protagonisti della propria vita.
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Scomodiamo l’articolo 1 della Costituzione? ''L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro''.
La realtà invece è che nella stragrande maggioranza dei casi, tutto il disperato cercare di chi offre lavoro si basa sull'esperienza lavorativa nello stesso settore. Esperienza a cui non solo, a mio parere, diamo un peso infinitamente superiore a quello reale ma conta pure molto, ma molto meno di quello che le aziende pensano in fase di valutazione e assunzione di un candidato.
Le domande che mi pongo da sempre.
Da quando sono entrata nel mondo del lavoro ormai da diversi anni, non ho mai smesso di chiedermelo: perché in Italia c’è questa fissazione incrollabile per l’esperienza lavorativa, al punto da diventare fattore prioritario e talvolta esclusivo per la scelta del candidato? A mio avviso, è una scelta a dir poco sbagliata, dichiaratamente discriminante e che di intelligente ha veramente poco. Riconosco che risponde bene al lato pratico ( = ‘’Sai già farlo, meno male! Quindi corri e vai a produrre'') e alla poca voglia di sbattersi a istruire e far crescere, senza dubbio. Ma tutto il resto?
Negli altri paesi non è così, ma in Italia forse ci piacciono troppo le abitudini e il ‘’E' così da sempre’’ regna incontrastato. Anche quando sarebbe l’ora di metterlo in discussione.
Ma vediamo un po’ se riusciamo a far tremare questo muro, che sembra davvero incrollabile.
Perchè l'esperienza lavorativa è sopravvalutata: 6 comode pillole masticabili, al sapore di verità.
1) Perchè esperienza lavorativa troppo spesso equivale soltanto a ‘’tanto tempo trascorso in un ambiente e nulla più’’. Tradotto: - ‘’Sono qui perché mio padre mi ci ha messo quando avevo 18 anni e non ho mai avuto voglia di cambiare’’ - ‘’Doveva essere solo per tre anni, poi sai mi sono sposato ed è arrivato il bambino’’ - ‘’Ho un mutuo da pagare e questo è tutto’’. Questo vuol dire tempo che scorre nello stesso ambiente lavorativo, ma non equivale necessariamente a ‘’Sono diventato bravo nel mio lavoro’’. Vuoi per inerzia, vuoi per comodità, vuoi per paura del cambiamento, vuoi perché non è stato stimolato, vuoi perchè non ha mai fatto quel salto di qualità: per quella persona è tempo trascorso e nulla più, letteralmente! Quindi perché fraintendere con altro?
2) Perchè esperienza lavorativa non è necessariamente sinonimo di bravura e tanto meno di competenza: andiamo, quanti incompetenti, maleducati, pressappochisti, mancanti delle più basilari regole di educazione con la clientela avete trovato nella vostra vita? Negli uffici, nelle agenzie, negozi, locali, alberghi: a tutti è capitato di trovarsi davanti quel tipo che ti fa chiedere perché è lì. Eppure c’è... Appunto.
3) Perchè l'esperienza lavorativa è una microscopica e irrilevante parte della persona che stai valutando come candidato. Già, bisogna ricordare che è una persona prima di un lavoratore. Il fattore esperienze lavorative non arriva forse nemmeno all’1% del mondo interiore di una persona, che include esperienze di vita che hanno un valore ben più alto, capacità nascoste, talento ancora acerbo, potenzialità infinite, voglia di farcela, motivazioni che la spingono. Già già, ce l’ho con voi che pensate che una persona equivale al suo curriculum. Che sapete di lei? Che sogni ha? Qual è il suo potenziale? Cosa le piace fare da sempre? Qual è la sua storia? Per cosa è portata? E se non ce l’ha fatta mai a sbocciare per davvero e adesso vuole solo un’opportunità? Davvero vogliamo pensare che sia tutto lì, in quei due fogli stampanti in A4? La domanda che vi faccio è: non è il momento di aprire gli occhi?
4) Perchè 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗮 𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗲𝘀𝗽𝗲𝗿𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗻𝗼𝗻 𝗲̀ 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗮 𝗶𝗻𝗰𝗮𝗽𝗮𝗰𝗲, 𝗲̀ 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗱𝗼𝘃𝗿𝗮̀ 𝗶𝗺𝗽𝗮𝗿𝗮𝗿𝗲. E potrebbe pure diventare una molto, ma molto brava e magari più di altri. Ma questo non entra in testa a tanti.
5) Perchè 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗮 𝗰𝗼𝗻 𝗽𝗿𝗲𝗱𝗶𝘀𝗽𝗼𝘀𝗶𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗲 𝗶𝗻𝗰𝗹𝗶𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗻𝗮𝘁𝘂𝗿𝗮𝗹𝗶 𝘃𝗲𝗿𝘀𝗼 𝘂𝗻 𝘁𝗶𝗽𝗼 𝗱𝗶 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗼 𝘃𝗮𝗹𝗲 𝗱𝘂𝗲𝗰𝗲𝗻𝘁𝗼 𝘃𝗼𝗹𝘁𝗲 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗿𝗲𝗱𝗶𝘀𝗽𝗼𝘀𝗶𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗻𝗲 𝗵𝗮 𝗺𝗮𝗶 𝗮𝘃𝘂𝘁𝗮, ma ha fatto per vent’anni quel mestiere, 𝑜𝑛𝑙𝑦 𝐺𝑜𝑑 𝑘𝑛𝑜𝑤𝑠 ℎ𝑜𝑤. Sui risultati questa differenza aprirà un abisso e anche sul rendimento: una persona con passione lavora meglio. E anche questo non sembrano coglierlo. Va bene, se a questo punto vi sto sulle palle vi dico due parole: soft skills vi dice nulla? Cercate su Google.
6) Perchè siamo tutti partiti da zero, tutti. Anche il manager, anche il mega direttore galattico di Fantozzi…. Anche tu che leggi. La differenza è solo una: dare l’opportunità ai talenti di fiorire, ma prima di farlo bisogna saperli riconoscere. E liberarsi di stupidi pregiudizi come questo può essere un primo passo verso scelte più giuste, anche nel mondo del lavoro.
Alla prossima protesta...
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Nell’ambito della mia formazione personale ho adorato questo testo di Robert Cialdini, psicologo e professore di Marketing all’Arizona State University, autorità a livello mondiale della psicologia della persuasione. Con questo libro, Cialdini introduce un concetto nuovo e rivoluzionario nell’ambito della comunicazione: 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐞-𝐬𝐮𝐚𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞, che si descrive in modo semplificato così: ‘’Non basta sapere perfettamente cosa dire e nemmeno sapere come farlo, se non impari quando è il momento giusto di dirlo’’. Mettiamola così: ‘’Vi insegno come mettere il vostro pubblico in un mood mentale preventivo di apertura e accoglimento del vostro messaggio, ancora prima di dire cosa avete da dire, perchè questo aumenterà parecchio le probabilità di successo di ottenere una risposta positiva, un accoglimento e in generale un’apertura all’ascolto di una proposta, ancora prima di aver posto la domanda’’. Magia nera? Assolutamente no. Si tratta di conoscere tecniche che consentono un’apertura reale degli altri verso di noi attraverso lo sviluppo di un mindset che li predispone alla ricezione e all’accoglimento della nostra comunicazione. Per fare questo, quando si comunica con qualcuno bisogna prima di ogni altra cosa riuscire a riconoscere il c.d. 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑖𝑣𝑖𝑙𝑒𝑔𝑖𝑎𝑡𝑜 e individuare il 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑓𝑜𝑐𝑎𝑙𝑒.
Cos’è il momento privilegiato?
Con questo termine si intende un periodo di tempo limitato che è una ‘’finestra di opportunità’’, durante la quale la proposta ha massima efficacia, sfruttando il punto qualitativamente migliore della comunicazione.
In questo momento le persone sono particolarmente ricettive al nostro messaggio.
Il momento privilegiato si raggiunge essenzialmente abbattendo i muri che separano dal nostro interlocutore, ad esempio: il fatto che non ci conosciamo, la diffidenza, il timore etc.
Cos’è il punto focale e come crearlo.
Le persone tendono ad attribuire un’importanza indebita a un’idea quando questa diventa il punto focale della loro attenzione. Lo scoglio della pubblicità moderna è questo: catturare l’attenzione. I libri sono pieni di come e perchè e i mentori gridano a gran voce le loro metodologie. Sì, esistono regole frutto di studi, ma c’è sempre da considerare la componente creatività.
Quel fattore preciso, quindi, diventa una causa determinante che ci fa agire di conseguenza. E’ proprio l’attenzione che si riversa su qualcosa che finisce per influenzare le scelte successive: al contrario di ciò che si pensa, tendenzialmente non c’è un processo decisionale infinito fatto di domande e valutazioni di tutte le alternative. Questo perché non c’è né il tempo per farlo né la voglia, in quanto una scelta ponderata richiede un sacco di energie e un bell’accumulo di stress. La soluzione ideale è la cosiddetta ‘’Satisfacing’’ (“satisfy”= soddisfazione + “suffice” =sufficienza) ovvero la prima alternativa praticabile considerata sufficientemente buona, di cui si sono considerati il numero degli aspetti positivi (o solo quelli).
Quando il punto focale diventa causa apparente succede che un elemento su cui stavo già ponendo tutta la mia attenzione si unisce con un nesso di causalità che si auto-crea, dandogli significati diversi o addirittura inesistenti che portano alla scelta finale, diventando di fatto il suo perché.
Ma ci sono anche altre tecniche estremamente efficaci elaborate da Cialdini. Vediamone qualcuna!
L’egoismo implicito
L’attrazione naturale verso il riferimento personale calamìta ancora di più l’attenzione e di conseguenza i livelli di importanza verso il messaggio aumentano. Se è qualcosa che può riguardarmi le concedo volentieri la mia attenzione, procuro dell’importanza a quell’argomento che mi tocca in alcuni punti, la carico di associazioni positive e sarò predisposto all’ascolto.
L’essere umano tende a considerare ed apprezzare tutto ciò che è collegabile al proprio sé, ha punti in comune o dettagli che lo riguardano, anche apparentemente insignificanti. E’ il caso di una persona appena conosciuta che compie gli anni nel nostro stesso mese e giorno: l’impatto sarà inconsapevolmente molto positivo, provando una inspiegabile simpatia iniziale.
Il facile che funziona.
Nella comunicazione l’idea che può essere colta senza sforzo ha più successo: la comprendiamo più velocemente quindi ci piace di più e tendiamo a considerarla degna di nota. Rispondono alla nostra esigenza di semplicità le rime, ad esempio. ‘’Per farla volare, falla rimare!’’ suggerisce Cialdini. La rima è semplice, divertente e si fa ricordare bene.
Elementi che disturbano la facoltà di scelta.
Fretta, preoccupazione, tristezza, stato umorale alterato, sovraccarico mentale, distrazioni, pregiudizi, stanchezza.
Noi non ce ne accorgiamo, ma siamo quotidianamente minacciati da situazioni esterne e interne che mettono in serio 𝐩𝐞𝐫𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨 la nostra capacità di scegliere: questi sono solo alcuni degli stati che alterano la percezione delle cose e di conseguenza minano la nostra facoltà consapevole di scelta, che viene compromessa. Siamo facili prede del consumismo e della manipolazione dei media, della pubblicità e di venditori senza scrupoli.
Vuoi qualche esempio? Quante volte ti è capitato di mangiare un dolce anche se eri a dieta perché in quel momento eri triste? Quante volte hai fatto un acquisto inutile spinto dalla noia? E’ per questo che a volte torni a casa con il paio di jeans che era tanto carino in negozio, invece a casa dopo dieci giorni dall'acquisto diventa orrendo: ‘’Mi sta malissimo, perché l’ho comprato?’’ Oppure hai detto di sì a qualcuno per uscire e dopo un paio d’ore ti chiedi perché, visto che non ne hai assolutamente voglia: che mi passava per la testa? Cialdini prosegue studiando le tecniche di focalizzazione dell’attenzione, gli automatismi che ci aiutano a catturarla e gli errori con cui si perde, grandi regole psicologiche studiate con esperimenti sociali fino a semplici regole applicabili nella vita di tutti i giorni. Da qui partono infinite tecniche mentali con cui arrivare dritti a ciò che si vuole ottenere.
L’effetto Zeigarnik: l’irrisolto che ci assila.
Vi è mai capitato di non aver finito qualcosa e di pensare costantemente a questo? Oppure di averla dovuta interrompere temendo una perdita di focus. Siete stati preda dell’effetto Zeigarnik: l’incompiuto ci infastidisce tantissimo. Non solo: quando c’è da eseguire un compito, l’attenzione è tutta concentrata e se ne ricordano tutti i particolari. Quando il compito è finito, insieme al focus col tempo se ne vanno anche i dettagli. Se siamo distratti o interrotti, ci assale il forte desiderio di riprendere per finire.
Questo è anche definito bisogno di chiusura cognitiva: chiudere, appunto, le questioni che ci rubano la concentrazione se non concluse o risolte. E’ uno dei motivi per cui quando litigate con qualcuno di importante, qualsiasi altra cosa facciate, una parte della vostra mente non riesce a pensare ad altro.
La strategia della verifica positiva.
Noi siamo fatti di idee e sicurezze, talvolta incrollabili. Perciò, si tende ad accettare e a considerare giusto ciò che conferma la nostra idea iniziale e a non considerare minimamente ciò che le va contro. Le confutazioni non ci piacciono perchè ci obbligherebbero a rivalutare le cose in cui già crediamo. Rivalutare è faticoso.
La necessità della coerenza
L’essere umano si fida di ciò che trova coerente e boccia senza pietà le incongruenze. Allo stesso modo, ci tiene tantissimo e in modo del tutto inconscio ad essere considerato coerente dagli altri.
In uno studio eseguito da gli scienziati della comunicazione San Bolkan e Peter Andersen , alla richiesta semplice di partecipazione ad un sondaggio solo il 29% degli intervistati decideva di partecipare. Ma quando si è chiesto prima: ‘’Lei si ritiene una persona disponibile e collaborativa?’’ e si otteneva un sì, alla stessa proposta di partecipazione il 77.3% delle persone rispondeva in modo affermativo. Questo solo perché infastidisce a morte l’idea di andare contro a una affermazione ormai espressa che ci marchierebbe come incoerenti, senza possibilità di difesa.. 𝐂’𝐞̀ 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐟𝐫𝐚 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐢𝐠𝐥𝐢𝐨 𝐨 𝐮𝐧’𝐨𝐩𝐢𝐧𝐢𝐨𝐧𝐞? Sì, ed è talmente grande che chi si occupa di marketing, come me, deve assolutamente saperlo.
Ve lo svelo: se io chiedo un’opinione ai miei clienti, li sto inducendo a riflettere, stimolando la concentrazione su sé stessi e distogliendola dal brand.
Allo stesso modo, anche un’aspettativa è rischiosa, perché chiedendo loro ‘’Cosa ti aspetti da noi?’’ sto stimolando un ragionamento che potrebbe individuare qualcosa di scomodo su cui non voglio che l’attenzione venga concentrata e anche questa opzione ci distoglie dal marchio.
Se invece chiedo un consiglio su un prodotto o un servizio per migliorarlo per esempio, sto aiutando il mio pubblico ad entrare in uno stato d’animo di fusione con l’azienda, creando un legame di identificazione.
Se poi scomodiamo anche 𝐥𝐨 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐢 𝐝𝐮𝐞 𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐦𝐢 𝐝𝐢 𝐊𝐚𝐡𝐧𝐞𝐦𝐚𝐧 (magari ne parliamo in un altro articolo), sapremo anche individuare il modo di pensiero del nostro interlocutore capendo come riflette e dove occorre porre l’attenzione, semplicemente osservandolo valutare un prodotto o un servizio. Così potremo adeguare il nostro linguaggio al suo stile e girare i riflettori dove è meglio puntarli, ottenendo una maggiore probabilità di portarlo all’acquisto.
Per concludere: sull'etica della pre-suasione
Si è a lungo discusso sulla moralità di questi strumenti, ma è lo stesso Cialdini a prevenire il dubbio: conoscere questi strumenti è indubbiamente molto potente, ma renderli conosciuti anche a chi sta dall’altra parte (i consumatori) per potersi difendere, pareggia il conto con la coscienza.
Forse.
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“La comunicazione perfetta esiste. Ed è un litigio ” sono le parole dello scrittore Stefano Benni.
Non ha poi tutti i torti: tutti i giorni ci imbattiamo nei limiti del comunicare.
Le parole hanno un peso e (addirittura) un vero e proprio significato diverso per ogni persona e questa è già un’ottima premessa per il disastro.
Se poi ci mettiamo anche componenti uguali ma diverse per tutti gli interlocutori (umore personale, il proprio vissuto, esperienze, sensibilità, carattere…) ecco che sbuca un gap comunicativo coi controfiocchi.
E così ci sentiamo costretti a non condividere un pensiero contrario su un argomento spinoso.
Ci sentiamo legati dalle cinghie strette del giudizio degli altri, che ci soffoca.
Ci sentiamo minacciati dalle conseguenze che potrebbe avere qualsiasi opinione diversa su un argomento delicato, che sia di morale o di politica.
Quindi preferiamo tacere o dissentire nel segreto della propria mente,
Dal vivo, quando va bene, non succede nulla: esprimi la tua visione non comune e te la cavi con un giudizio silenzioso dall’altra parte che cambia almeno un po’ l’opinione su di te.
Quando va male si discute (a volte si degenera) e magari ci si perde.
Nel virtuale è un po’ diverso. Nel virtuale si degenera come regola.
Tutti si prendono il diritto al microfono e ai riflettori e guai a chi glielo leva. Le persone fanno a gara per esprimere la loro opinione mai richiesta in risposta alla tua e con una rabbia tale che è giustificata solo con un ritardo mentale.
Nel virtuale con una parola storta, ma anche dritta e vista storta, si può dare il via a un conflitto infinito perché si espande a macchia d’olio.
Insomma, internet ha i denti e i denti mordono.
Il politicamente corretto sul web.
Nel mondo virtuale la comunicazione è come giocare a calcio con una bomba a mano: è un attimo e salti per aria.
C’è un mostro che ci minaccia costantemente, online più che mai, ‘’dove tutto resta’’: E’ il mostro del politicamente corretto.
Qualcuno ne nega l’esistenza, appellandosi solo a un presunto ‘’giusto così’’ assoluto per giustificare cose che, magari, negherebbero per primi se potessero. O ancora più frequente: non sostengono idee perché ci credono ma perché lo fanno anche gli altri e si presume sia quello che vogliono sentirsi dire per essere applauditi. Un presunto giusto senza possibilità di replica, che per altri è assolutamente discutibile. Altri, più intelligenti a mio parere, lo accettano senza però farsi divorare.
Il politically correct pretende una cosa tipo ‘’Pensa cose e sostieni battaglie secondo l’opinione prevalente, non pensare se potrebbe esserci altro, senza pestare i piedi a niente e nessuno.’’
E’ impossibile, per definizione. Siamo troppi e con troppi giudizi per non urtare nessuno, tanto vale rilassarsi.
Ma fra chi accetta il politically correct come fenomeno sociale esistente ci sono almeno quattro correnti.
1 – Gli arresi: chi si fa seppellire, rinunciando per sempre al proprio pensiero in nome di una tranquillità eterna, mandando in pensione il cervello e il giudizio critico perché non vuole problemi.
2 – I meno fortunati (quanto sono politically correct a definirli in modo garbato così!): chi uno spirito critico non ce l’ha mai avuto e non ce la farebbe comunque a produrre un pensiero personale
3- I ribelli per forza: chi lo sfida a prescindere, a occhi chiusi, come mantra di vita senza capire che libertà di opinione + pensiero contrario sempre e comunque su ogni cosa, arrivando anche a insultare, non è uguale a libertà ma a demenza (ecco, ho già perso il politically correct, maledizione….)
4 – E infine chi lo accetta come limite sociale esistente solo per tenerlo a bada, ma quando vuole non ha paura di andargli contro, magari per battaglie importanti.
Io penso di rientrare nella quarta di queste categorie: so che esiste e devo considerarlo, ma se decido di affrontarlo lo faccio in modo consapevole (= rischi del caso) e comunque per portare avanti questioni che mi stanno a cuore o in cui credo davvero.
Ma se viviamo in una società che sembra dover dire la sua per forza e te ne accorgi leggendo i commenti sui social, se la rissa virtuale sembra essere un qualcosa di irresistibile e chi non la pensa come te deve essere gettato in pasto agli squali…. Dove è finita la libertà di opinione?
Il politicamente (s)corretto: c’è chi dice no.
Qualche coraggioso prende un bel respiro e alza la voce. Rompe le catene e dice basta.
Da alcuni influencer a persone comuni, dal politico all’imprenditore, dalle associazioni fino alle grandi aziende.
Non senza linciaggi, s’intende.
Prendere una posizione netta e cosiddetta ‘’moralmente discutibile’’ secondo alcuni e ‘’finalmente libera’’ da altri, il politicamente scorretto sta prendendo sempre più piede ma non con poche difficoltà.
Vi basta ricordare l’impresa funebre Taffo, tanto per fare un esempio di politicamente scorretto che funziona.
C’è chi approva e chi no, c’è qualcosa che si guadagna e qualcosa che si perde, in un delicato gioco di equilibri.
La shitstorm è dietro l’angolo che ci aspetta.
Nel mio lavoro, è importante considerare e prevedere reazioni e contraccolpi, perché prevenire il danno è sempre meglio che curarlo.
Ma gli italiani sono pronti per questo tipo di comunicazione?
La situazione in Italia, secondo me. E sotto gli occhi di tutti.
La risposta è no: non siamo affatto pronti.
Il politicamente scorretto, come ogni nuova onda, prova a ingrossarsi e infrangersi ad ogni occasione possibile, ma nella stragrande maggioranza dei tentativi fa un flop assordante.
Un flop che riempie gli studi dei talk televisivi per giorni, un flop che ricopre di odio le pagine social dei messi a morte di turno, un flop che rimbomba per settimane per poi, quasi sempre, spegnersi dopo un fuoco iniziale e una gigantesca corsa ai ripari degli addetti aziendali alla comunicazione.
In generale siamo un popolo di moralisti coi peccati nell’armadio, molto attenti a giudicare e soprattutto a condannare.
Ci piace tantssimo mettere alla gogna.
E’ una cosa tipicamente umana quella di giudicare, ma c’è modo e modo. E soprattutto, non occorre azzannare alla gola per farlo.
Mentre umana non dovrebbe essere l’abitudine, ormai inclusa nel pacchetto, di augurare la morte e malattie, minacciare, insultare per tutto ciò che non trova spazio nella propria scatola cranica.
I social sono una piazza pubblica importante per confermare la nostra impreparazione e il nostro moralismo.
Gli stessi che sostengono idee contrarie lo fanno in modo violento, chi li contrasta raddoppia la violenza in un gioco infinito di odio.
Tutto questo per delle idee diverse che hanno diritto di esistere (tranne naturalmente cose davvero gravi).
Il moralismo condisce ogni cosa. Le code di paglia sventolano e prendono fuoco con niente, anche e soprattutto quando l’attacco non è diretto con nome e cognome. Le opinioni non sono più opinioni ma verità assolute. L’ironia viene sistematicamente fraintesa. Il black humour è affare per pochi.
L’esame è bocciato.
Sostenere un tema politicamente scorretto: vantaggi e rischi.
Parliamo di comunicazione aziendale e consideriamo il termine ''scorretto'' come semplicemente ''impopolare'' senza un reale giudizio di valore.
In generale, un’azienda che decide di sposare alcuni valori e sostenere alcune cause cammina sull’orlo del precipizio.
Diciamo che per cadere basta un passo falso o un alito di vento imprevisto.
I rabbiosi utenti di internet sono attentissimi e pronti a sollevare una shitstorm (vi prego non fatemi tradurre il termine e cercatelo su Google!) anche su quelle tematiche che tendenzialmente dovrebbero vedere d’accordo tutti, e non c’è da meravigliarsi.
Vediamo quali sono i punti a favore di questa scelta.
1 – Senz’altro, il coraggio di mettere entrambe le scarpe da una parte o dall’altra del confine
2 – Creare una community molto più legata al brand, perché condivide con loro gli stessi valori, lo stesso credo e la stessa visione delle cose
3 – Gli stessi utenti a supporto del brand, sono persone simili fra loro che legano più facilmente e più piacevolmente perché si sentono appartenenti a una seconda famiglia
4 - La scelta d’acquisto è influenzata pesantemente dalle politiche e dai valori di cui l’azienda si fa bandiera: ‘’Se mi piaci, compro di più’’.
5 – I consumatori, fruitori o sostenitori che siano, diventano uno scudo umano contro la rabbia dei contrari, dei boicottatori e dei moralisti offesi, aumentando di fatto la loro fidelizzazione al marchio.
Ma invece i rischi? Ne abbiamo a sacchi da un quintale l’uno, fra cui:
1 – Nella stragrande maggioranza dei casi, il coraggio di aver preso una posizione viene cancellato dalla portata delle scelte aziendali considerate , unpopular, non necessariamente indegne: il giudizio a riguardo seppellisce completamente la forza del gesto. In altri termini: ‘’se non sono d’accordo con ciò che sostieni, non mi importa niente che tu sia coraggioso e libero, perché sono troppo impegnato a dirti che ti devi solo vergognare per non pensarla come me.’’
2 – Si deve mettere in conto la perdita della clientela contraria o comunque non sostenitrice, che potrebbe anche essere molto consistente e abbandonare per sempre il marchio. Questo può generare perdite di profitti.
3 – Si deve considerare un probabilissimo tornado mediatico, che fa pubblicità in ogni caso sì, ma con risultati incerti
4 – Si rischiano flussi violenti di proteste e boicottamenti nati e alimentati dai ‘’molto arrabbiati’’: shitshorm is here! E non si sa quanto durerà.
5 – L’azienda, in questo caso, vive una crisi comunicativa non indifferente: quello che doveva venirci a favore, ci si è rigirata contro.
6 – Una presa di posizione netta e definita non permette errori di sorta: scivoloni, incongruenze, incoerenze sono le sette piaghe d’Egitto che pesa più di essere rimasti nel mezzo.
7 – Di conseguenza, anche laddove si sopravviva o si prosegua più forti di prima, si deve rimodulare tutte, ma proprio tutte le azioni sulla base delle scelte prese e dei valori dichiarati. Pena la perdita della faccia.
Quindi qual è la cosa giusta da fare?
Ora, comunque la si pensi, ogni azienda sceglie che passi fare.
Tendenzialmente, si sta nel mezzo il più possibile o non ci si pronuncia e non è una scelta da biasimare.
Il politicamente corretto c’è e le aziende lo sanno eccome.
Trovo che sia estremamente prudente e comprensibile nel mondo d’oggi accettare la sua esistenza e modulare il più possibile la comunicazione.
Ma una cosa è certa: dal mio punto di vista, il politicamente corretto a tutti i costi è sbagliato.
Ma se nel campo personale chiunque ha tutta la libertà del mondo, quando si parla di lavoro è bene stare coi piedi per terra: non si tratta di incoerenza ma di prudenza e furbizia.
Un Social Media Manager come me quando collabora con un’azienda deve ricordarsi che non è lui a parlare, ma l’azienda e deve rispettare i suoi valori (e possibilmente, condividerli, sennò diventa complicato!).
Libertà d’opinione sì, finchè la pensi come me: la mia esperienza
Io scrivo da oltre quindici anni e non poche volte mi sono ritrovata dentro una shitstorm.
Ho pronunciato verità scomodissime e pensieri contrari all’opinione comune, sollevando le polemiche di completi sconosciuti che si sono rivoltati con la cattiveria di uno a cui tocchi la madre.
Forse si sarebbero offesi di meno!
Quello che ho compreso è che la libertà d’opinione, oggi, non è più libera, nel senso che si è completamente perso il senso stesso di libertà.
Tu sei libero di parlare finché la pensi come me, sennò sei un testa di....Asso!
Ma anche un’altra cosa, l’ho capita: quando uno ha il coraggio di urlare qualcosa per primo, per quanto rischioso sia, presto scopre che lo stesso pensiero era forte e vivo in altre persone che aspettavano soltanto un folle che rompesse il muro del silenzio.
In ogni caso, la strada del coraggio è quella che consiglio sempre nella vita.
Sul lavoro, la prudenza è obbligatoria.
In bocca al lupo a tutti in questo moralista, bel paese.
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Perchè questo articolo.
Chi mi segue da un po’ di tempo sa quanto mi piace calcare la mano senza pietà su questo argomento, ma ho delle ottime ragioni.
Non potete immaginare la disinformazione che c’è in giro sul mio settore (e questo potrei anche giustificarlo, dato che è un lavoro nato negli ultimi anni con la rivoluzione digitale) ma non mi piace affatto la spocchia con cui spesso mi imbatto quando trovo le persone della categoria che, senza sapere assolutamente niente del mio lavoro, lo sottovalutano al punto da dirmi: ‘’Posso farlo anche da solo’’ .
Oppure ''Ai social dell'attività ci pensa già mia figlia quindicenne''. Capisco. Quindi mi verrebbe da chiederti perchè esiste la mia figura professionale se, secondo te, le stesse cose può fartele chiunque. E magari, aggratis.
Senz’altro. Sono d'accordo con te. Per sbattere quattro cose sui social, intese come foto, cose senza senso, senza strategia e soprattutto a tuo rischio e pericolo, puoi fare anche da solo, sono la prima a dirtelo. Ma per fare il Social Media Marketing…. Ti serve un Social Media Manager.
Le allettanti figure nemiche dei SMM: i cuggggini.
Definizione
Ebbene, nel campo di chi lavora nel digital si definisce ''cugggino'' (con almeno 3 G!) chi, senza nessuna competenza si mette a fare come viene il lavoro che un professionista farebbe come si deve oppure si autoproclama qualcosa (Social Media Manager, in questo caso) senza avere nessun titolo arrivando, nemmeno di rado, a soffiare il lavoro a un professionista vero. Come è semplice intuirlo: chiedendo cifre ridicole, indegne di un lavoratore qualsiasi o addirittura gratis. Oltretutto senza un background professionale.
I cuggggini sono tutti intorno a te! La sciagura dei cugggini è sempre dietro l’angolo: sono gli amici, i nipoti, i fratelli, il conoscente di tuo cognato o chiunque altro che, senza basi di digital e social media marketing, pretendono di prendere il posto del Social Media Manager pensando di poterlo sostituire. Si fanno pagare pochissimo o lo fanno gratis nel tempo libero, ''quando hanno tempo'' ti dicono.
I cuggggini servono a una cosa sola: a fare disastri, facendo un danno inimmaginabile a tutta la mia categoria. E anche a te!
Vediamo, per l’ennesima volta, le differenze. Perchè repetita iuvant (speriamo).
Social Media Manager: definizione
E’ il professionista del digital e del social media marketing
per definirsi tale ha studiato duemila materie
possiede uno o più attestati che certificano la sua preparazione
sa sfruttare i social per il business, portando vantaggi concreti all’azienda per cui lavora, in termini di immagine, notorietà e visibilità
Conoscenze e competenze:
personalizza ogni servizio adattandolo al cliente
analizza la Brand Identity, i Core Values e la Value Proposition della tua azienda
sa fare un'analisi SWOT e un Business Model Canvas
studia i tuoi competitors, il target di riferimento e le Buyers Personas
stabilisce degli obiettivi e prepara piani di marketing
sa immergersi completamente nella tua azienda, vivendola a 360° per saperla promuovere nel migliore dei modi
realizza un piano editoriale strategico diverso ogni mese
si occupa del marketing online, della comunicazione e dell'engagement
cura e coltiva i rapporti con la community
si occupa di attività di pubbliche relazioni
monitora costantemente l'andamento delle sue attività
è in grado di fare grafiche professionali e mirate (soprattutto se Content Creator come me o comunque ha skills in più)
è un esperto di comunicazione efficace e persuasiva
è abile nella scrittura
conosce le regole del copywriting per la scrittura
è in grado di fare video e montaggio video (facoltativo, ma sa farlo se è anche Content Creator come me)
è in grado di fare fotografie (facoltativo. E comunque fare foto, se il servizio è incluso è aggiuntivo e non è più del 10% del suo lavoro!)
Cuggggino: definizione
è il mitico qualunque che tira letteralmente a indovinare
pubblica solo foto e per lui è un ottimo lavoro
mescola cose personali a cose professionali creando danni alla tua immagine
non sa niente di comunicazione
non sa niente di digital marketing
fa finta di ''lavorare'' per cifre ridicole o ancora peggio gratis, perchè è amico o parente del titolare
fa danni allucinanti alla tua azienda e non lo sapete entrambi
usa i social nel tempo libero e non ne conosce altro utilizzo
Cosa fa il cuggggino: posta roba a caso. Fine.
Non penso che occorra dilungarsi oltre... Quando è il momento di scegliere, usate la testa.
Alla prossima!
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Immagina di svegliarti un giorno e poter dire:
‘’Posso non fare mai più la cosa o una delle cose per cui sono pagato per lavoro, perché da oggi c’è qualcosa che la fa per me, senza che compia il minimo sforzo’’.
Oppure: immagina di non saper scrivere e ogni volta che hai una tastiera davanti sono ore di sudore freddo. Immagina di avere un amico che ti passa sotto banco il lavoro che avresti dovuto fare tu. O come la vedo io: immagina di poterti prendere meriti che non hai.
Questo miracolo (per gli altri) si chiama Chat GPT, il programma di AI made in USA con cui con un semplice comando vengono generati testi di qualsiasi natura e lunghezza, su argomenti qualunque.
Quindi non importa (più) che tu sappia scrivere, non importa (più) che tu abbia studiato o letto molto per formarti, non importa più, detta nel modo più crudo possibile: che tu sia capace. Questo vuol dire che chi si occupa (anche o soltanto) di scrittura per lavoro ha oggi questa possibilità. O ancora, i peggiori di tutti a mio modesto parere, quelli che non saprebbero mettere due parole in croce e all’improvviso sembrano riuscire: dal ragazzino che deve fare il compito di storia per casa al tipo che deve lasciare la fidanzata e non sa cosa dirle, da zero argomenti al pronipote di Oscar Wilde con l'AI.
Con uno schiocco di dita ottengono un testo generato automaticamente con degli input di partenza.
Il gioco è (s)fatto.
Premetto già che la mia posizione è fermamente contraria. Ma andiamo per ordine.
Dopo una grande festa di tanti per questa grandiosa novità, in cui per un periodo si vedeva limpido un orizzonte talmente semplificato da essere disonesto, come per qualsiasi favola che sembra troppo bella (per loro) per essere vera, è scoccata la mezzanotte anche per Chat GPT, come fu per Cenerentola.
Cosa è successo in Italia?
Se Cenerentola è dovuta scappare via dal castello pena far trasformare il suo bel vestito in stracci, Chat GPT invece non ha saputo rendere conto al nostro Garante per la Protezione dei Dati Personali (GPDP) che ha chiesto senza mezzi termini di mettersi in regola con le leggi italiane ed europee sulla privacy.
ChatGPT risponde buttando giù la saracinesca in Italia, pensando al da farsi e trascinando nello sconforto più totale chi aveva già pregustato il dolce sapore del copia&incolla senza dolori e pene. Tanto che non ha ritardato il triste, tristissimo appuntamento virtuale con gli insulti dei delusi sulle pagine social dell’ente italiano.
Il nostro Garante contesta alla società OpenAI principalmente 3 cose:
la mancanza di una informativa agli utenti e a tutti gli interessati i cui dati vengono raccolti
l'assenza di una base giuridica che giustifichi la raccolta e la conservazione massiccia di dati personali degli utilizzatori, allo scopo di “addestrare” gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma.
l’assenza di un filtro qualunque per la verifica dell’età degli utenti, nonostante sia specificato negli stessi termini pubblicati da OpenAI che il servizio sia rivolto ai maggiori di 13 anni, esponendo i minori a informazioni potenzialmente inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e consapevolezza.
Il GPDP aggiorna gli utenti italiani sul loro sito facendo noto che l’intento non è quello di censurare ChatGPT e che OpenAI intende collaborare. L’ultimo comunicato del 13 Aprile scorso parla del 30 Aprile 2023 come scadenza per mettersi in regola.
Copywriters, bloggers, scrittori: pende su di noi la spada di Damocle?
Personalmente ho assorbito la notizia di questa nuova funzionalità con un tristezza e disgusto. A lungo mi sono chiesta se questo nuovo tool potrà mettere a rischio il mondo lavorativo di alcuni settori e le notizie hanno dato triste conferma: molte persone hanno già perso il lavoro per questo. Potrebbe esserci un’evoluzione in negativo pesantissima con cui, come sempre, ci si ritrova a fare i conti a pasto concluso.
Quindi è la fine della creatività, dell’impegno, del talento? è la prima domanda che mi è balenata in testa la prima volta. Per un po’ mi ha preoccupato, ma oggi rispondo: assolutamente no.
Perchè è vero che ChatGPT è un nemico virtuale piuttosto forte, veloce e senza scrupoli ma non potente e illimitato come un cervello umano. Uno strumento che ci infastidisce ma non ci minaccia realmente anche perché ha degli enormi, giganteschi difetti...
I grossi limiti (e i flop) a cui devi essere preparato se usi ChatGPT.
E’ stato ampiamente dimostrato che il tool:
non sia affidabile: le informazioni che propina sono sbagliate e altre addirittura inesistenti. Ottima cosa per generare fake news, di cui siamo già abbastanza travolti e per fare delle figure barbine!
generi testi freddi e tutti uguali: se nello scorso articolo facevo riferimento all’importanza assoluta, anche nel mio lavoro, di generare testi emozionali che coinvolgano il lettore, questa mancanza ha il sapore di un fallimento di risultato preannunciato… Non credete?
manchi, ovviamente, di doti tutte naturali ed umane come l’empatia, la creatività e il carattere (e si vede): il vero timbro che ha un testo può essere solo generato dal suo autore, in carne ed ossa, con il suo stile narrativo che è la sua impronta intellettuale.
In altre parole, tutto il suo essere gelidamente automa viene fuori miseramente.
Cervello 1 – ChatGPT 0!
La mia posizione su ChatGPT: perché rifiutarmi di usarlo è la mia scelta etica e consapevole.
Io non ho avuto il minimo dubbio a riguardo e questa velocità di scelta la devo a tre ragioni:
1 - Io amo scrivere. Fra le mie poche ma buone sicurezze, so di saper scrivere. Scrivo sin da quando ero piccolissima e ho la fortuna di non essere mai a corto di parole né argomenti, quindi per me non è una tentazione. E poi credo che quando c’è una predisposizione naturale sarebbe un insulto al proprio ingegno e alla propria creatività. Ho dedicato molte ore della mia formazione allo studio del Copywriting e della scrittura per il web, affinando il mio stile, quindi... What else?
2 - Non mi sembra affatto onesto. Quando si parla di etica oggi le persone tendono a far prevalere la loro teoria su un comune senso di giustizia. Ma comunque la si pensi, il mio pensiero è che sia un utilizzo totalmente sleale e disonesto, soprattutto se usato da chi scrive per lavoro, senza se e senza ma. Che sia per fare il compito a scuola o per lavoro, trovo che sia una scorciatoia ridicola, penosa e triste che sputa addosso all’impegno di chi ce la mette tutta per creare qualcosa di bello e coinvolgente, spremendo le meningi. Senza contare che ChatGPT fa un bel dito medio alzato al talento naturale, permettendo a certe persone di prendersi meriti inesistenti. Come quando il compagno di scuola che non aveva aperto libro copiava dal secchione e prendeva 10, camminando pure tutto soddisfatto in mezzo ai banchi. Sono contro perché non sarei mai a posto con la mia coscienza.
3 - Detesto i mezzucci, i trucchetti e i compromessi, per carattere. Odio le vie traverse con cui si raggiungono le vette senza sforzo, non imparando niente lungo il cammino e rifiutandosi di spaccarsi le gambe scalando, per assaporare davvero un traguardo raggiunto con le proprie forze, ancora ansimanti ma felici. E su questo c’è poco da aggiungere.
Come difendersi da ChatGPT?
Saltiamo indietro di qualche anno e torniamo ai ricordi fra i banchi di scuola.
Come faceva la professoressa a verificare se lo studente con un voto alto sospetto avesse copiato o avesse studiato veramente? Con un’interrogazione a sorpresa, hic et nunc. Presto fatto.
Io potrò in qualsiasi momento dimostrare che non uso nessuna AI per i miei testi, per i miei copy e per il mio lavoro. Come? Datemi foglio, penna, un argomento e 30 minuti di tempo. Sopravviverò all’interrogazione!
E voi, utilizzatori di ChatGPT? Che voto prendereste al compito a sorpresa senza il compagno da cui copiare?
Alla prossima protesta!
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Pianeta Terra, 2023.
Oggi il mondo è diverso. Tremendamente diverso, ed è in continua evoluzione.
La società va veloce, il consumismo dilaga, ma la noia pure…
Certe cose sembrano essersi perse per sempre, altre dimenticate senza possibilità di recupero mentre per altre c’è un disperato bisogno di ritorno dal passato….
E’ proprio sulle ultime che ci sono grandi possibilità nel marketing di oggi.
Ma una cosa è certa: il prodotto ha stancato di brutto.
Che noia, che barba, che barba, che noia! citando la mitica Sandra Mondaini: che noia voi col vostro migliore frullatore dell'anno in corso, voi con l’auto più comoda del mondo, voi che usate le migliori materie prime per il vostro ristorante, voi con la carne più buona che c’è in giro e le farine migliori per le vostre pizze…
Il prodotto ha rotto!
Vediamo perché.
La storia di un declino: i giorni migliori (e peggiori) dei prodotti nel commercio, dal ‘900 a oggi.
Siamo nella metà del Novecento col nel primo marketing 1.0 del boom commerciale. Per capirsi le prime pubblicità, in cui si incentrava tutto sul prodotto: in altre parole raccontiamo perché è bellissimo, cosa ha di speciale e quanto è straordinario quello che vendiamo.
La necessità era massimizzare i profitti e arrivare primi, sgomitando il più possibile fino a consumare la pazienza.
Si capisce agilmente quanto questo tipo di approccio abbia ben presto stancato e abbia reso saturo il mercato di ''scegli me! scegli me!''.
Nel marketing 2.0, impostosi con forza negli ultimi anni del Novecento, avviene un cambio di rotta drastico: dal focus tutto sul prodotto si passa al focus sul consumatore, il vero e unico utente finale di tutto lo sforzo di pubblicitari e addetti ai lavori (anche il mio).
‘’Tu consumatore adorato sei al centro, tu con la tua vita, i tuoi sogni, le tue speranze, le tue paure, dimmi di cosa hai bisogno e io ti accontenterò! Ma, naturalmente, sappi che il mio prodotto può migliorarti le cose in modo consistente’’.
Attenzione: il prodotto ora entro solo dalla porta di servizio e non da quella principale.
Per fare questo, nasce un’arma potente: lo storytelling, la pistola che ogni copywriter, ovvero l’esperto di scrittura sul web, ha nella cintura (anche io).
E come se non bastasse, la visione commerciale fortemente antropocentrica fa sviluppare anche una scienza, il neuromarketing, che studia il cervello per colpirne i punti deboli, proprio con la pubblicità e i contenuti audio/video.
Sta diventando angosciante, vero? Io che l’ho studiato confermo: è tanto potente quanto angosciante, ma esiste.
Ma è con l’avvento di internet e l’inaugurazione del marketing 3.0 alle soglie del Duemila che si spalancano le porte di infinite possibilità, ma anche di pericolosi strumenti a doppio taglio.
Infatti, la nascita del world wide web (www) e la sempre maggiore condivisione di esperienze, feedback e recensioni sono ora in grado di far volare o precipitare qualunque azienda con un click.
Dal 2010 ad oggi, il marketing 4.0 diventa emozionale. Ed è quello che cavalchiamo oggi.
Il prodotto quasi non esiste più.
Oggi puntiamo alla suggestione del pubblico, alle emozioni, attraverso tecniche testate e studiate, aggiornate continuamente, di cui l’utente è inconsapevolmente vittima più volte al giorno.
Rispondere creando forti connessioni con il branding.
Oggi, le aziende che vogliono sopravvivere non possono più fare da sole ma si devono affidare a un esperto della materia che sappia dove mettere le mani.
‘’Ma io ho il prodotto migliore del mondo, maledizione!’’ puoi replicare.
Cattive notizie. Hai almeno un altro competitor che ti darà sempre filo da torcere, che arriverà ad avere il tuo stesso prodotto nel giro di pochi anni o addirittura migliore.
Sei un ristoratore e hai il pesce più fresco del territorio?
Cattive notizie anche per te: non basta più per essere il primo locale dove la gente verrà a mangiare, non basta più per essere veramente competitivi.
Sei un libero professionista e offri un servizio a un prezzo che reputi giusto?
Bad news anche per te: altri mille competitors ti stanno già copiando, aggiungendo anche qualcosa in più che ti soffierà sotto il naso i clienti, anche quelli più affezionati.
Quindi come fare se il prodotto non basta più?
Con una forte attività di branding, tanto per cominciare, di cui mi posso occupare in quanto Social Media Manager. E con altre tecniche di marketing più moderno, molto sottili, dall'aspetto innocuo, che però colpiscono profondamente la mente del consumatore.
I consumatori sono cambiati. E noi dobbiamo stare al passo.
Quando ho cominciato a studiare per fare il SMM, sono rimasta affascinata dagli studi che ci sono dietro le persone per fare il mio lavoro. E le mie esperienze nel turismo e nel commercio mi avevano già messo sotto gli occhi importanti indizi.
Oggi l’utente è:
decisamente impaziente
molto attento
molto più esigente di prima.
Oggi, il consumatore:
non ha più tempo da perdere
ha mille possibilità di scelta per lo stesso identico prodotto e servizio
decine di prezzi allettanti e offerte ovunque
una confusione maledetta in testa.
Già, perché oggi l’enorme disponibilità di scelta che ognuno di noi ha dalla semplice scelta di un biscotto per la colazione a quella di un albergo per le vacanze, ci ha confuso tantissimo, mandandoci in qualche caso alla disperazione.
E soprattutto, il consumatore non dà seconde chances: bisogna sapersi giocare bene la prima e poi coltivare la sua fidelizzazione, con la pazienza e la dedizione dell’agricoltore con le piantine dell’orto.
Oggi, non importa quanto sia nato con cura e dedizione, il tuo prodotto non interessa più....
...perchè ora ai consumatori interessano dei perché, e tutti molto validi, per scegliere la tua attività da ristoratore, il tuo marchio da produttore, la tua consulenza da libero professionista.
E qui entro in gioco io, che do loro quello che vogliono: dei motivi e tutti molto validi, utilizzando le mie conoscenze unite a degli strumenti potenti di cui si ignorano ancora le potenzialità nel business: i social media.
Il mio lavoro è quello di sgombrare le nuvole della confusione e indicare la via, che è quella dell’azienda con cui lavoro. Quella è la scelta.
Il mio lavoro è dare loro tutti quegli ottimi motivi per scegliere te, la tua attività, i tuoi servizi.
E di non andare più da nessun altro.
La fidelizzazione passa anche dai social, le qualità del tuo prodotto non bastano più e bisogna correre ai ripari.
Vuoi capire come potremmo fare per la tua attività?
Contattami per parlarne.
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Ebbene, se sei qua sopra ci possono essere due ragioni. Anzi tre.
Sei curioso. E va benissimo così.
Stai valutando la collaborazione con un Social Media Manager per la tua attività e vuoi una guida semplice, per capirci (finalmente) qualcosa.
Vuoi convertirti dalla categoria de ''Il Social Media Manager posta solo foto!'' e stupidi pregiudizi affini alla categoria ''Mi informo prima di parlare'' (e io ti perdono, perchè lo sento che sei sinceramente pentito!)
Bando alle chiacchiere, qualsiasi sia il motivo: entriamo nel vivo.
Chi è il Social Media Manager?
Il SMM è il professionista del marketing digitale che, attraverso uno studio molto approfondito della tua attività può elaborare, presentare e sviluppare nel tempo una strategia di social media marketing personalizzata da applicare sui tuoi canali social aziendali, monitorandone l’andamento.
Con chi lavora?
Piccole, medie e grandi aziende
Attività locali
Liberi professionisti
La strategia non sarà mai la stessa, nemmeno per attività simili fra loro e verrà studiata e definita caso per caso. Come un buon sarto ti prende le misure per farti l’abito, così il Social Media Manager ha bisogno di misurare la tua attività per il piano strategico che ti calza a pennello.
Quali sono i suoi compiti principali?
Il SMM si occupa, per esempio, di:
conoscere a fondo la tua attività, capire davvero chi sei, cosa fate e i perché che vi fanno alzare ogni giorno; conoscere i tuoi collaboratori se ne hai, ascoltare la vostra storia, capire i valori che ti accompagnano, in cosa credi, la tua idea di business ma anche e soprattutto raccogliere più informazioni possibile sulla tua azienda per un’analisi di marketing a 360°
occupandosi anche di comunicazione, definisce con te aspetti fondamentali per la tua presenza digital, come il modello comunicativo più adatto che ti rispecchia come professionista e che ti distinguerà, il messaggio che vuoi trasmettere, l’impatto che vorresti dare etc…
Individua e studia a fondo i tuoi competitors. Sennò non parleremmo di marketing!
Studia e approfondisce a fondo il tuo settore, per entrarci dentro completamente
Realizza una strategia di marketing digitale da applicare sui tuoi social, sulla base dell’analisi completa
Realizza il PED (Piano Editoriale) che è il documento mensile o settimanale dei contenuti da postare sui tuoi canali social. Ogni contenuto ha il suo perché di acciaio (ti vedo che pensavi a un contenuto qualsiasi…) e risponde a delle regole precise di marketing e comunicazione.
Ultimo ma non ultimo per grado di importanza: monitora costantemente la tua community favorendo l’interazione con l’azienda, stimolando gli utenti a compiere azioni e a passare da ‘’utente di passaggio’’ a ‘’utente attivo e fidelizzato’’. Una bella differenza, credimi!
…. E ora senza andare avanti, dimmi: sei ancora sicuro che ‘’il Social Media Manager posta solo foto?’’
Fra l’altro, non le abbiamo nemmeno nominate!
Perchè è fondamentale se hai un’attività o sei un libero professionista?
Ti faccio subito una domanda: che peso pensi che abbiano i social sui comportamenti d’acquisto delle persone?
Te lo dico io: tantissimo!
Da un recente sondaggio è emerso che:
il 50% degli utenti dichiara di usare Facebook per informarsi in anticipo (sì, qualcuno lo farà anche sulla tua attività!)
il 90% degli italiani segue su Instagram almeno un profilo business (ovvero un’azienda, un professionista o un’attività locale) per rimanere aggiornato
l’81% degli utenti intervistati ha dichiarato di completare una scelta o finalizzare l’acquisto grazie a ciò che ha potuto vedere sui social a proposito di un’attività
il 98,5% degli utenti si collega da mobile, questo vuol dire rimanere in contatto in qualsiasi momento e ovunque siano le persone
Quindi, potrei darti decine di risposte valide, ma te ne do 3:
La prima: in un mondo fortemente digitalizzato è follia pura non essere presenti nel digital. Il mondo è cambiato e va velocissimo, non puoi permetterti di camminare perché bisogna correre: i tuoi competitors hanno già un bel fiato, e tu? Vuoi ancora camminare?
La seconda: oggi l’utente difficilmente ‘’prova’’ qualcosa se non ha informazioni necessarie in anticipo, e indovina dove le prende? Sul web! Recensioni e pagine Social sono le prime due fonti utilizzate per farsi un’idea e non ci sono seconde chances!
Una bella pagina curata è il tuo biglietto da visita per il mondo.
La terza: avere pagine social aziendali curate significa non solo affermare la tua presenza, far sapere che esisti e che lavori in un certo modo anche a chi non ti conosce o ti trova per la prima volta, esporre un’immagine curata ma anche e soprattutto coltivare e far crescere la fidelizzazione del cliente, creando una community che ti supporta e che a sua volta diventa promotrice diretta col passaparola.
Come scelgo il giusto professionista?
La mia opinione è controcorrente: io non credo affatto all’esperienza.
Senz’altro ha il suo peso, ma per le mie esperienze ha un peso molto, ma molto inferiore a quello che gli diamo in Italia.
Ogni professionista in generale, per essere veramente valido, ha bisogno di una componente umana di un certo valore, raggruppate nel termine soft skills, non indifferente e soprattutto coerente con l’impiego lavorativo. Senza queste, la preparazione e gli anni di esperienza non bastano.
Faccio un esempio: un medico competente è un medico che sa curarti, un medico eccellente è un medico che sa curarti in modo empatico, che sa trattare le cose con delicatezza e non ti fa sentire mai a disagio.
C’è una bella differenza!
Ciò premesso, ecco una lista di competenze e caratteristiche che un bravo Social Media Manager deve avere.
A livello tecnico, è assolutamente indispensabile una formazione in marketing e/o digital marketing. Gradita, ma non indispensabile, conoscenze in grafica, copywriting e videomaking per i contenuti, che ne fanno un professionista più preparato e quindi più competitivo, in quanto a seconda del tipo di formazione può essere anche un Content Creator.
Non occorre avere una laurea per fare questo lavoro, ma occorre aver studiato.
Ci sono ottimi corsi per raggiungere un’adeguata preparazione, anche senza l’università ( in cui fra l’altro non esiste una facoltà per fare il SMM).
Ma veniamo alle caratteristiche personali, per me non meno importanti di quelle tecniche, quindi cosa dovrebbe essere in più per essere un ottimo professionista a tutto tondo:
(Almeno un po’) psicologo. Il SMM deve essere empatico, in grado di ascoltare, comprendere, osservare il comportamento delle persone, così come quello dei tuoi clienti. E' fondamentale che sappia anche percepire e individuare volontà e necessità inconsce, i veri trampolini di lancio di una strategia di successo.
Un abile venditore. Che siano prodotti, servizi, esperienze o attività, ogni azienda lavora per vendere qualcosa. Ecco che diventa importante che il SMM sia disinvolto ed esperto nel vendere. Sembra scontato? Non lo è. E il ''come'' si vende è l'unica cosa che può fare davvero la differenza.
Un bravo scrittore. Non solo Tone of Voice. Occupandosi anche delle parti testuali, il SMM dovrà essere fluente nella scrittura. Un'abilità che, soprattutto se innata, è un enorme bonus: averla riduce i tempi di elaborazione del testo, neutralizza il rischio del vuoto di idee e soprattutto crea contenuti testuali che si distinguono.
Un creativo di natura. Il vero cuore di questo lavoro è essere creativi, fantasiosi, originali, imprevedibili, nonchè avere inventiva, proposte e idee sempre nuove e diverse, sfruttare occasioni ed eventi, creare novità, saper osservare le cose da diversi punti di vista, ricevendo ispirazioni continue dall'esterno.
Uno strano chef… Un bravo SMM deve saper creare le ricette giuste, provarle, assaggiarle ed essere autocritico, aggiustarle di sapore e provarne sempre di nuove. Deve voler sporcarsi le mani, impastare gli ingredienti per una buona idea e sfornare…. contenuti, uno dietro l'altro.
Un esteta Il SMM con una marcia in più possiede un forte gusto estetico, un senso del bello naturale. Ha dei bei gusti, percezioni sottili, ama i dettagli e cura le piccole cose, soprattutto se ha competenze in grafica. Studia accuratamente i giusti abbinamenti. analizza proporzioni e linee, abbina al meglio i colori, sceglie le tonalità, lavora in modo preciso per un risultato piacevole anche all'occhio.
Un amante dell’organizzazione Post dell’ultimo minuto? No, grazie! Una strategia di social media marketing deve essere studiata e organizzata con largo anticipo rispetto alle date di pubblicazione dei contenuti. Per questo, il SMM perfetto è una persona organizzata, precisa, puntuale e meticolosa.
Un instancabile curioso. La curiosità è il motore principale dell'essere umano e la spinta di ogni professionista per crescere.Il Social Media Manager non fa eccezione. Mantenere un atteggiamento propositivo e curioso, continuare a studiare e a formarsi, rimanendo aggiornati con novità e tendenze crea un professionista sempre sul pezzo.
BONUS PUNTI XP (ovvero quelle caratteristiche da ciliegina sulla torta):
quelli del SMM sono prevedere, il più possibile (dai movimenti da fare alle reazioni del pubblico); essere un perfezionista (grande garanzia per il cliente, perchè non vi invierà mai un progetto di cui non è completamente soddisfatto) ed essere una persona ambiziosa, che non si accontenta mai e punta sempre in alto, per natura.
Sei ancora sicuro che chiunque possa fare il Social Media Manager?
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