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#Arnaldo Colasanti
marcogiovenale · 8 days
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tra due ore, alle 17, cerimonia conclusiva del premio pagliarani 2024
nella Sala Cinema del Palaexpo di Roma (Ingresso dalla scalinata di Via Milano 9a) dalle ore 17 e fino alle 19 Cerimonia di premiazione della Nona edizione del Premio Nazionale Elio Pagliarani Conduce Arnaldo Colasanti ingresso libero * Il sito del Premio: https://premioeliopagliarani.it/ La cartella stampa completa relativa alla GIORNATA PAGLIARANI: https://tinyurl.com/pagliarani2024 Il…
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myborderland · 5 years
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“La poesia ci ha salvati: è stata la nostra rivoluzione, più degli elicotteri gabbiani negli schermi in bianco e nero del cielo di Saigon. Se c’è stato qualcosa, dopo gli anni Sessanta, che abbia permesso all’Italia di resistere al suo più grande nemico – se stessa, l’incubo di un’identità mancata e di una democrazia incompiuta e sempre rinviata – non è stato il pensiero o la politica, le grandi inchieste o il romanzo: no, è stata davvero la poesia, insieme alla poesia del cinema. Sono i versi che hanno stretto in un abbraccio l’Italia al termine del suo sogno post bellico di sviluppo. È la poesia che ha trovato una fedeltà contadina, una lingua comune e ha vietato la stupidità macabra della fine della letteratura, negando l’ipocrisia, l’invidia sociale, offrendo a poeti immensi di essere davvero i poeti di una nazione ferita”
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pangeanews · 6 years
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“Eppure io nel Paradiso non ho mai smesso di credere”: conversazione onnivora e ultramondana tra Gianluca Barbera e Andrea Caterini
Andrea Caterini è un amico. Ma se siamo amici è per affinità elettive, non perché ci conosciamo dai banchi di scuola. Nessuno che io conosca crede alle cose in cui crede con la sua forza. Posso parlare di letteratura con lui come con quasi nessun altro. Ma anche della vita. Non prende alla leggera nessuna delle confidenze che gli fai. Senti che è partecipe. E come scrittore ha elaborato una sua visione del mondo e forgiato una lingua per raccontarla. E quando dico “scrittore” intendo il narratore quanto il critico letterario. Basta leggere poche pagine delle sue opere per comprenderlo. Giordano ad esempio (romanzo del 2014). O Patna (2013), La preghiera della letteratura (2016). Entrambe raccolte di saggi di critica letteraria. O il suo nuovo libro, “Vita di un romanzo”, in uscita per Castelvecchi. Tra saggio e romanzo autobiografico. Meglio: un’autobiografia intellettuale. Il precipitato di una “mente al lavoro”… O anche solo leggere questa intervista, perché so che poi non si potrà non prendere in mano i suoi libri.
Andrea Caterini è una persona molto intelligente. Capisce tutto al volo, prima che tu finisca. Ma ti lascia finire, perché ha il dono dell’ascolto. In più è una persona giusta. Cosa intendo con questa parola? Lo scoprirete leggendo l’intervista e i suoi libri. Ha una sensibilità non comune e capisce la letteratura come pochi. Gli basta immergersi in un testo una volta sola per smontarlo e rimontarlo con facilità, per capirne la ragion d’essere. Ma usa i guanti, per non sporcarlo. Ecco perché parlare di letteratura con lui è un piacere con pochi eguali.
Andrea, in “Vita di un romanzo” tu scopri te stesso attraverso Proust e Proust attraverso le tue esperienze private. È così? E cosa scopri di te stesso e cosa di Proust?
Ho scoperto che per vivere sulla pagina qualcosa nella vita di tutti i giorni deve morire (morire per risorgere sulla pagina). Poi, che si scrive sempre per liberarsi da un senso di colpa. A me interessava – è sempre stato questo a interessarmi – capire in che modo (come) la vita cambia. In fondo non mi sono mai mosso dai primi versi della Commedia dantesca: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», che non ha nulla a che fare con l’età anagrafica di Dante. Si può vivere una vita intera senza che quel «mezzo» lo si viva mai. Il mezzo è il momento in cui la vita cambia, entrando in una «selva oscura», cioè in uno spazio a noi stessi sconosciuto; uno spazio che è già dentro di noi. Proust, a un certo punto, si chiuse in una stanza, fece diventare quella stanza una scatola cranica, la sua stessa mente, e ha scoperto ciò che di eterno viveva in lui. La domanda del mio libro allora è stata: come è accaduto?
Che cosa rappresenta per te Proust e perché lo ritieni così importante per la letteratura e non solo?
Il mondo di Proust (la borghesia, l’aristocrazia, i salotti dell’alta società ecc.) è lontanissimo dal mio immaginario, lontanissimo dalla mia vita. Il suo, dal mio punto di vista, quello di un ragazzo nato e cresciuto in una borgata romana e che lì, dopo che si è sposato, è rimasto a vivere, è un mondo addirittura detestabile. Eppure, nonostante questo, in Proust, nella sua opera dico, c’è tutta la vita – che è la sola cosa che conta –, affrontata con una profondità che nessuno scrittore aveva mai raggiunto prima. L’idea che la realtà è una stratificazione e che è attraverso lo stile che quei diversi piani possiamo mano a mano raggiungere. La sintassi di Proust, fatta di continue subordinate, come fosse una materia che si estende e si restringe rilanciando continuamente i significati, cerca di occuparli tutti, quei piani. Una proposizione vale un mondo. Per questo ciò che ho appreso da lui è anche un lavoro serratissimo sulla lingua. Ho provato a non lasciare neppure una frase al caso. Ma in questa affermazione c’è già troppa intenzione. La correggo: il mio lavoro sulla frase nasce prima da un abbandono. Senza abbandono non c’è conoscenza. Solo dopo c’è il lavoro di lima. Potrei dire che non riesco proprio ad andare avanti nella scrittura se le frasi che ho scritto non girano. Quando mi sento sicuro di quelle frasi, del modo in cui le ho scritte, posso lasciarmi di nuovo andare e continuare. Il lavoro di Proust sulle frasi, il suo continuo riscriverle (i redattori impazzivano quando gli consegnava le bozze – era capace di riscrivere pagine intere un attimo prima che il libro andasse in stampa) è esattamente cercare nell’abbandono un corrispettivo di verità stilistica.
Identità e memoria sono strettamente legate. Ed entrambe sembrano essere connesse al tempo. Ma cosa sono realmente identità, memoria e tempo? Proust ci insegna qualcosa al riguardo?
Walter Benjamin, a proposito di Proust, si è fatto una domanda fondamentale: «La “memoria involontaria” di Proust non è forse assai più vicina all’oblio che a ciò che si chiama comunemente ricordo?». È l’oblio, più che la memoria, quello che di fondamentale scopre Proust. Perciò, alla tua domanda, rispondo con una frase del libro, e scusami se la cito, ma non ho parole migliori di quelle che ho già usato: «L’oblio conserva invece per noi le colpe, le ferite morali, il male di cui ci siamo macchiati un giorno e che nessuna manovra di pulitura potrà restituirci alla nostra condizione precedente; o meglio: torniamo a vivere con la stessa partecipazione, quasi immutati di fronte al miracolo della realtà, e in qualche modo questo è anche vero, poiché l’oblio è tanto capace a nasconderci la colpa, da farcela per un tempo indefinito dimenticare veramente, finché poi, un giorno, questa torna davanti agli occhi, ma non come un fatto, come l’avvenimento che ce l’aveva fatta compiere, quella colpa, bensì come tremore della carne (ché è la carne il primo grado della percezione – irrigidendosi o raffreddandosi, arrossandosi per un improvviso calore o di colpo inaridendosi); quando la carne, formicolando, ci fa girare e rigirare sotto le coperte senza che si riesca a prendere più sonno, neanche pregando Dio finché la preghiera entri nel ritmo ipnotico della parola (quando la preghiera, pronunciata per abitudine o per esasperazione, diventa uno sterile sillabario che ci pone a una distanza irrecuperabile – una distanza prima di tutto fisica – tra noi e Dio, tanto da farci capire che è proprio in quel pronunciamento che la colpa si reitera), per un improvviso rimorso di coscienza di cui non conosciamo più il nome (cioè la causa) ma che in una misura a noi sconosciuta ci ha modificati».
Così, a bruciapelo, un libro che ha cambiato il nostro linguaggio e la nostra visione del mondo e della letteratura?
Le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Il lavoro che in quel libro Dostoevskij ha compiuto sull’io narrante spezza in due la letteratura.
Quando moriamo non moriamo solo noi ma con noi muore/se ne va un intero mondo, l’unico che percepivamo, l’unico che per noi esisteva, quello che solo noi facevamo esistere, e allora è come se scomparisse un intero sistema solare… Eppure?
Eppure io nel Paradiso non ho mai smesso di credere, quel luogo in cui ci rincontreremo tutti e ci riconosceremo nella misura in cui siamo stati capaci di immaginarci l’un l’altro. Ancora mi domando, del resto, come si possa scrivere senza possedere un briciolo di fede. Come quelli che leggono e scrivono di Dante e non hanno mai fatto un pensiero su Dio, e non capiscono una cosa fondamentale: che quel viaggio, Dante, l’ha fatto veramente.
Spesso i romanzi vengono giudicati ed elogiati per l’impegno civile che profondono, per le battaglie sociali che portano avanti. È un buon modo questo di giudicare un’opera letteraria? Se non sbaglio tu hai bollato questa letteratura come “socialmente utile”…
L’idea di “impegno” di questi romanzieri è involontariamente comica. Sì, li ho chiamati in un saggio e anche in qualche articolo «documentaristi socialmente utili». Ma non sono scrittori, mi pare evidente. Pensano, che so?, alla fame nel mondo, o all’immigrazione, dalla scrivania di una redazione o di casa. Ma, dico io, se ti preme tanto questo tema, perché non fai il missionario, che è un lavoro degno di tutta la mia più profonda stima. La verità è che non sopporto la partecipazione ipocrita, paracula, di questi romanzi. Ci noto sempre un’intenzione, un buonismo che si sa in partenza farà presa sul lettore, appagherà i suoi più semplici sentimenti, quelli che lo consolano e gli fanno credere d’essere buono e giusto.
Dopo la balia di Hitler, la cuoca di Mussolini, l’autista di Churchill, il maggiordomo e il gatto di chi sa chi, che altro aspettarci?… Non ti sembrano mode letterarie ridicole? Eppure gli editori ne vanno ghiotti…
Certo che sono mode ridicole. Però voglio dirti una cosa. Questi libri non resteranno. Almeno lo spero.
Discorso difficile e pieno di buche. Come vedi la situazione letteraria ed editoriale nel nostro paese? Quali autori contemporanei stimi? Hai qualche modello del passato cui in qualche misura ti ispiri?
Il punto è questo: esistono, oggi come ieri, grandi autori. Non esiste più un contesto che permetta alle opere di quegli autori di essere discusse. E pure se le si discute, con troppa facilità vengono dimenticate e sommerse da altre mille novità o pettegolezzi di cui occuparsi. In linea generale, mi sono accorto che la maggior parte degli autori di romanzi, scrive come se il Novecento, anzi la modernità, non fosse mai avvenuta. Come ingenuamente avessero fatto un balzo in avanti senza accorgersi di quello che è successo. E infatti di libri infantili l’editoria prolifera. Gli editori hanno una grande responsabilità a tal proposito. Pensano che questa semplificazione sia adatta al grande pubblico. Cazzate. Non è lo scrittore a doversi abbassare al lettore, ma il lettore desideroso di voler conoscere cose che (anche di se stesso) non sa attraverso quello che legge. Lo si è abituato alla superficialità e ora si ha paura di offrirgli qualcosa di più complesso della media. Ma di autori importanti ce ne sono eccome: Franco Cordelli, Arnaldo Colasanti, Emanuele Trevi, Paolo Del Colle, tu, Fabrizio Coscia, Davide Brullo, Giuseppe Munforte, Sergio Nelli. Mi dirai: ma sono tuoi amici. Certo, ed è una fortuna averli conosciuti. Ma si diventa amici (quando non lo si è dall’infanzia) per un’adesione all’opera. Amici lo sono diventati dopo che li ho letti. E volutamente non ho nominato tutti quegli autori che costituiscono la moda alternativa, cioè quella elitaria, tipo Walter Siti, Michele Mari, Giorgio Falco, che pure hanno scritto ottimi libri. Guai a parlarne male, non si può. Eppure hanno scritto romanzi sbagliati anche loro. Gli ultimi di Mari e Falco, per esempio, a me non hanno convinto per niente. Quello di Falco mi pare un romanzo inerte, mollato dopo 150 pagine – altro che stile rigoroso: in 150 pagine non c’è un pensiero, uno scarto, una visione, un’accelerazione stilistica che riveli una scoperta. Quello di Mari, invece, mi pare forzare in maniera esagerata uno stile manierista, che certo gli appartiene ed è la sua cifra, ma è arrivato a conoscerlo troppo bene. Sui modelli del passato è difficile rispondere. Non so se mi ispiro propriamente a un autore in particolare. So quanto mi hanno influenzato scrittori come Dostoevskij, Proust, Conrad.
Dopo un progetto “alto” come “Vita di un romanzo”, che cosa hai in cantiere?
Sto scrivendo un libro su Giorgio Morandi, un saggio breve, per l’editore Sillabe. Antonio Celano ha messo su una bella collana: scrittori che parlano di artisti contemporanei. Un’idea che ha radici anche nel nostro Novecento, del resto. L’arte, in maniera sempre laterale, nei miei libri è una costante. Ne sono davvero appassionato. Ho lavorato, prima dell’editoria, per cinque anni in una galleria storica di Roma, La Nuova Pesa. Per un anno, e fu per una casualità, diressi anche le pagine sull’arte del mensile «Stilos». Era il 2010, non avevo nessuna esperienza di direzione di pagine culturali di alcun tipo. Quando il direttore, Gianni Bonina, mi ha chiamato dopo che l’amico Andrea Di Consoli ha lasciato quel ruolo che avrei poi ricoperto io (lo stesso Di Consoli che su quelle pagine mi aveva chiesto di collaborare), ho pensato che fosse un po’ pazzo e che il suo era un azzardando. Ma fu una palestra meravigliosa. E credo di aver fatto anche un buon lavoro. Ricordo per esempio un numero bellissimo dedicato a Roberto Longhi – e poi gli articoli di Giuseppe Montesano, alcuni dei quali sono finiti in un suo libro recente, Lettori selvaggi, e poi le interviste a Piero Guccione, a Marilù Eustachio ecc. È stato un bel periodo. Se non avessi fatto il critico letterario, mi sarebbe piaciuto essere un critico d’arte, di questo sono abbastanza sicuro.
Di cosa dovrebbe parlare e con che linguaggio dovrebbe essere scritto un romanzo che aspirasse a cogliere lo spirito del nostro tempo imponendosi come futuro classico (sempre che questo debba essere l’obiettivo)?
Se conoscessimo la formula, tutti l’avrebbero già usata. La sola cosa che si può chiedere è studio, tanto studio, e pazienza e fedeltà a se stessi.
Da critico, come ti accosti alla scrittura altrui? Una volta mi hai confessato di cogliere la struttura di un romanzo in poche mosse, e più volte me ne hai dato prova. Puoi parlarcene?
Collaborando come critico anche alle pagine de «Il Giornale», mi vengono recapitati moltissimi libri contemporanei. Confesso che ne leggo una pagina o due e poi decido se vale la pena andare avanti. Una pagina basta e avanza, checché se ne dica. Ho abbastanza esperienza e consapevolezza da intuire subito se in una frase si nasconde un talento. Più che la struttura, capisco abbastanza intuitivamente, di un libro, la necessità che lo sottende. E questo perché ho allenato molto l’intelligenza su questo aspetto per me fondamentale di ogni opera. Comprendere, voglio dire, per quale ragione è stata scritta.
Concordo. Qual è il tuo libro migliore, il più riuscito? Quale quello che vorresti cancellare dai radar, se ce n’è uno?
Non so se è il più riuscito, ma certo Vita di un romanzo è il libro che sento come il più complesso e articolato – da tutti i punti di vista: stilistico, strutturale, filosofico. Quello che vorrei non aver mai scritto, o forse sarebbe meglio dire pubblicato, è il mio primo romanzo, del 2008, Il nuovo giorno, che mi fa schifo.
Perché credi così tanto nella letteratura? Che cosa è per te la letteratura? Che cosa ha di così importante da farne la tua prima ragione di vita? E non mi dire che non lo è.
La letteratura è l’esperienza assoluta della vita – lì dove la vita si svela, complicandosi. E la vita è complessa, per quanto facciamo di tutto per alleggerirla e non restarne soffocati. Per questo ci esprimiamo. Perché abbiamo bisogno di capire e di conoscere. Questo significa per me la letteratura.
Come hai scoperto la letteratura? Se non ricordo male è stato mentre facevi il militare, è così? Puoi raccontarcelo?
Sì, è così. Fino al servizio di leva non avevo aperto un libro. Sono stato un pessimo studente, ho preso con grande fatica un diploma in un Tecnico Industriale. Il militare è stata la mia tortura e la mia fortuna. L’ho fatto in Marina, ma non imbarcato su una nave, bensì in una caserma di raccomandati a Sabaudia. Tutti i commilitoni come me erano di Sabaudia, il che voleva dire che con la fine dei lavori, alle sei del pomeriggio, avevano il permesso di tornare a casa. Io, che da casa ero lontano e non ci potevo tornare con tanta semplicità, mi ritrovavo completamente solo, dove facevo servizi di guardia notturni a una caserma deserta. Il senso di solitudine è stato profondissimo. Ma è lì che ho imparato davvero a stare da solo. Dovevo trovare una forma di resistenza a quella follia che stavo vivendo. Leggere, a quel punto, è stata una forma prima di tutto di ribellione. Non che se ne accorgesse qualcuno, ma era la guerra con me stesso che stavo finalmente combattendo. Quello fu davvero il «mezzo» della mia vita. Certo non immaginavo neppure che avrei scritto dei libri, che li avrei fatti diventare addirittura un lavoro. Allora non sapevo nulla di letteratura: era un campo aperto, enorme, vastissimo, spaventoso.
Da che mondo e esperienze venivi prima?
Per quattro anni, anche mentre cercavo di prendermi il diploma, ho lavorato come operaio. Ero convinto che avrei lavorato assieme a mio padre, che faceva infissi in alluminio, che fosse quello il mio destino. Era un lavoro che non mi piaceva, mio padre mi ha rivelato anni dopo che lo aveva capito subito, perché apprendevo il mestiere troppo lentamente. Sentivo che dovevo trovare il modo di liberarmene. Così ho anche accelerato le pratiche per partire soldato, come potesse, quell’anno da militare, darmi il tempo di trovare la mia strada. La borgata in cui vivevo era in qualche misura il solo mondo che conoscessi: la comitiva, il sabato sera a ballare, il cazzeggio. Per il ragazzo che ero allora, la vita che faccio adesso sarebbe stata inimmaginabile.
So che tuo padre è una figura importante della tua vita (lo si capisce anche leggendo il tuo romanzo “Giordano”), e forse perfino al centro di alcune tue scelte. Perché è sempre stato così importante per te (per me per esempio non lo è altrettanto: o forse m’illudo che sia così)?
Potrei risponderti dicendoti, per esempio, che per tutta la vita ho cercato padri: nella vita come nella letteratura. Persone che avessero qualcosa da insegnarmi, che fossero migliori di me. Però non risponderei alla domanda specifica che riguarda il mio rapporto con lui. Insieme a mio padre ho lavorato qualche anno. E in quegli anni c’era una grande confidenza tra di noi. L’ho sinceramente ammirato, perché amava il suo lavoro, un lavoro che faceva da quando aveva 14 anni. Quando però ho deciso di lasciare il lavoro, sentivo che dovevo dargli una risposta, che lo avevo lasciato ma che lo onoravo facendo anch’io qualcosa che amavo profondamente. Poi nella vita arriva un momento, ed è un momento drammatico e profondo, in cui ti accorgi di essere diventato padre di tuo padre.
Spesso accade. Hai trentasette anni ma hai già fatto parecchia strada. Un romanzo e un saggio per Fazi, collaborazioni con diversi giornali. Dove intendi arrivare? Come vedi Andrea Caterini a sessanta anni? Che cosa avrà fatto e che cosa no?
È una bella domanda. Ma pubblicare due libri con un editore importante non è che garantisca chissà quale autorevolezza. Mi stanco di quello che ho scritto, la considero una questione chiusa. Ho continuamente bisogno, un bisogno fisico e spirituale, di conoscere cose che non conoscevo prima, di non ripetermi. È una questione di vitalità. Certi giorni in cui sono particolarmente pessimista prego di arrivare alla vecchiaia sufficientemente lucido e in forze per trovare sempre di che vivere. Per il momento, a sessant’anni ti dico che non mi vedo nell’editoria, che mi ha dato molto, mi ha fatto crescere, anche professionalmente, oltre che umanamente, ma che non mi diverte più come un tempo. Ma la vita riserva sempre qualche sorpresa, che pure è necessario fare in modo che accadano. Certi giorni mi sento un isolato, o uno che ha sbagliato tutto. Spero quindi di vivere dignitosamente la mia vita, di rispettare chi mi ama e chi amo. E di non perdere mai il desiderio di capire, di conoscere, di scoprire.
A proposito di padri. Enzo Siciliano è stato molto importante per te. Una figura di riferimento. Come è accaduto e perché?
Dovevo preparare la mia tesi di laurea, ma non sapevo ancora su chi avrei scritto. Colasanti mi ha consigliato di leggere Siciliano. Me ne sono appassionato subito e, sempre attraverso Colasanti, sono entrato con lui in contatto. Siciliano ha rappresentato per me il primo studio profondo. Conosco benissimo la sua opera, e mi rendo conto che mi tornano in mente di continuo frasi, pensieri che ha espresso nei suoi libri. Non posso dire di essergli stato amico, l’ho conosciuto per troppo poco tempo, ma sono felice che abbia letto la tesi che gli ho dedicato. Parlare di quello che avevo scritto con lui su di lui, è stato come discuterla, la tesi. Una discussione che infatti mi è bastata, perché sono stato tanto scemo da mollare l’università a tre esami dalla laurea e con la tesi pronta. Ma del mio rapporto con lui ho parlato in un saggio che costituirà la postfazione a Campo de’ Fiori, uno dei suoi libri più decisivi, che sono riuscito a riportare in libreria per Theoria.
Già: en passant ricordiamo che dirigi una collana di classici per Edizioni Theoria. E Arnaldo Colasanti? Anche lui è stato importante? In che misura?
Arnaldo è stato ed è per me molto più importante di Siciliano. L’ho incontrato all’università, era il mio professore di Poesia italiana contemporanea. I suoi discorsi erano sconvolgenti (per quattro lezioni restammo a discutere dei primi versi del Cimitero marino di Valery – fu un esercizio di intelligenza allucinante). Era un marziano in quell’ambiente funebre che è l’università. Lezioni come le sue mai le avrei incontrate in altri corsi. Fui il primo del gruppo di amici che avevo allora a parteciparvi. Dopo averlo ascoltato la prima volta, convinsi tutti a seguire il corso. Tornavo a casa da quelle lezioni con la sensazione di non sapere nulla, di essere il peggiore degli ignoranti, ma con un desiderio di conoscenza febbrile. Colasanti mi ha insegnato a pensare. Che poi sia diventato uno dei miei migliori amici è per me un motivo di gioia e anche una fortuna immensa. Se ho dei dubbi, anche di carattere concettuale, teorico, è a lui che mi rivolgo. È la persona più intelligente che abbia incontrato. E un uomo generosissimo.
Chi altri è stato importante per te, per quanto riguarda la tua formazione letteraria? Pasolini, se non erro. E poi?
Pasolini è stato il primo scrittore dal quale ho subito un impatto enorme. Non riuscivo a leggere le Ceneri di Gramsci senza piangere. Sentivo che quei versi mi parlavano, trovavano un corrispettivo di verità dentro di me. Ma non li leggevo con la lente dell’ideologia, che non ha mai avuto alcuna presa su di me, ma in una prospettiva tutta soggettiva. Però con gli anni di Pasolini ho sentito il bisogno di liberami. Mi condizionava troppo, mi vampirizzava. E infatti su di lui non sono mai riuscito neppure a scrivere niente di sensatamente critico. Un autore che invece si è davvero sedimentato è Dostoevskij. Le memorie dal sottosuolo le ho lette durante il servizio militare, non capendoci nulla. Poi, all’università, ho scelto la russa come letteratura straniera, perché facevano un corso monografico su Delitto e castigo. Dostoevskij non l’ho solo letto e riletto, ma studiato. Tra i miei libri, quello che preferisco è il commento che ho fatto al suo Sogno di un uomo ridicolo, praticamente uno studio monografico su Dostoevskij. Mi ha aperto un mondo, non solo intellettuale, ma esistenziale.
Posto che anche la critica è letteratura (o dovrebbe esserlo, altrimenti non è quello che dice di essere), oggi i tuoi autori di riferimento come narratore e come critico quali sono, se ne hai? E perché lo sono? Come critico letterario chi metteresti al centro del Novecento e chi della attuale stagione letteraria?
Come narratore contemporaneo sicuramente Franco Cordelli. La sua scrittura è uno stato mentale, ed entrare dentro quella mente è un’esperienza incredibile. Il suo modo di interrogare la realtà, metterla sotto assedio, è un modo per farla a pezzi. Tra i critici, italiani e stranieri, direi Colasanti (e leggete i suoi saggi sulla letteratura francese, o, in uscita ora, il suo commento alle poesie di Claudio Damiani – una profondità d’analisi insuperabile) e George Steiner – amo insomma i critici che sanno mettere in campo conoscenze non solo letterarie, ma anche filosofiche, teologiche ecc. Per questo amo un critico del Novecento come Maurice Blanchot. Uno che ha tradito la tradizione illuministica francese (che oggi è tornata molto di moda – quante stupidaggini sotto l’egida della ragione!), che si è fatto volutamente oscuro, oscenamente lirico, testardamente contraddittorio, o, peggio, ossimorico e concettualmente astratto. Il suo Lo spazio letterario (un’opera del 1955), è un libro che avrei voluto scrivere io. Lì Blanchot ha scritto un’opera d’arte leggendone altre, cosa che a un critico odierno difficilmente riesce, e questo perché ha smesso di credere che un’opera d’arte è un tutto in cui si mette in gioco la vita; che l’arte o la si vive come esperienza assoluta della vita – quindi accogliendone anche le contraddizioni – o è molto meglio, nel senso di più utile e più sensato, occuparsi d’altro.
D’accordo sul fatto che scrittore in senso alto è sia il narratore che il critico letterario, tu personalmente ti senti più narratore o più critico letterario?
Critico letterario. Lo capisco dal modo in cui mi pongo rispetto ai libri che leggo e scrivo; anche mentre racconto analizzo. Ho, per natura, un atteggiamento per così dire critico.
Hai più volte dichiarato che non credi più nelle storie. In te il patto di credulità tra lettore e scrittore si è rotto. Quando è accaduto e perché? Puoi spiegarci meglio questa cosa?
È vero, le storie mi hanno stancato. Ne capisco subito l’intenzione, la costruzione artificiosa. Tutto questo mi annoia. Mi annoiano le storie che non hanno più nulla da esprimere, che non veicolano più un pensiero sul mondo. Ce ne sono a centinaia, e sono tutte uguali, con la stessa lingua finta, che quasi sempre è di derivazione americana. Anzi mi correggo. Questi romanzetti non imitano gli americani, ma una traduzione degli americani. Ha fatto più danni Baricco alla letteratura contemporanea di quanti ne abbia fatti Fabio Volo, è bene dirlo una volta per tutte. La Scuola Holden è il modello del disastro. Pensi che ti prenda in giro, ma i romanzi che escono da quella scuola, da quella lezione, sono in grado di riconoscerli subito. Detto questo, arrivano poi romanzi che ribaltano anche questo senso di asfissia che provo. Per esempio, vai a leggerti Non è mezzanotte chi vuole del portoghese Lobo Antunes. Quattrocento pagine travolgenti, dove la scrittura e il racconto sono perfettamente bilanciati (e dentro ci ho ritrovato la Virginia Woolf delle Onde – la vastità di una mente che segue, nel racconto, la propria visione). Ecco, per me un romanzo è prima di tutto scrittura.
Tu sei un credente. Che peso ha in quello che fai e nella tua scrittura la dimensione religiosa e in particolare la tua fede cristiana?
Non so esattamente quale peso abbia. Intanto: ci si può dire “non cristiani”? Come non venisse, tutto quello che siamo e siamo diventati, da lì. Certo è che i valori cristiani restano i più alti e profondi che un uomo possa seguire.
Cosa o chi è per te Dio? E perché dobbiamo credere in lui? È dio il tema dei temi anche in letteratura e perché?
Dio è ricerca, e quindi conflitto. Non c’è niente di pacifico o risolto nel credere in Dio. Tanto che a messa non ci vado dalla prima comunione (salvo i funerali a cui negli anni, purtroppo, ho partecipato). È l’impossibile possibilità che continuamente cerchiamo. Non è un tema. Qualora lo divenisse, come pure accade, Dio scomparirebbe dalle nostre pagine e dai nostri pensieri. Dio è il nostro abbandono oltre la morale, oltre la coscienza, oltre l’idea di bene e di male.
Mi sono ritrovato a fare questa riflessione, da razionalista quale sono: se per dio si intende qualcosa da cui discenda una morale, su cui si fondi una civiltà, garante di una vita dopo la morte, questo dio non esiste. Se per dio si intende qualcosa da cui abbia avuto origine la materia, la vita, a questo posso credere. Ma so che in questo è come se tu e io guardassimo il mondo da prospettive inconciliabili…
Penso che tu stia cercando di darti una spiegazione logica, ed è la tua natura filosofica a farti parlare così. Perché invece semplicemente non ti domandi: pure se tutto questo fosse falso, c’è qualcosa di più grande, profondo, complesso, vertiginoso che l’uomo abbia immaginato? Non c’è vero intellettuale (filosofo, narratore, poeta, artista ecc.) che non si sia interrogato su Dio. E questo perché nelle Scritture ci sono già tutte le domande che per i secoli successivi la filosofia e la letteratura e le arti in generale (forse pure la fisica!) si sono posti. Pure Nietzsche, quando scrive Zarathustra, si è dovuto inventare un profeta alternativo a Cristo. Ma questo perché da lì, da quella tradizione, non possiamo certo liberarci con una manovra di comodo.
Molte delle domande che ci poniamo in realtà scaturiscono dal pensiero greco (col quale ho più affinità) o da quello orientale, non dalle Scritture. E interrogarsi va bene. Ma se le risposte risultano più nebulose delle domande… Non che io creda che la ragione possa spiegare tutto. Però la scienza si è sostituita gradualmente alla teologia e alla filosofia (così pensano molti; non io). E in effetti molte risposte le ha fornite. Chissà che un domani non sveli anche l’ultimo arcano. Torniamo alla letteratura. Cosa pensi delle giovani generazioni di scrittori? Dalle pagine del “Giornale” qualche tempo fa ti sei scagliato contro di loro. Puoi sintetizzarci i termini della questione?
La mia generazione non esiste. Questo scrivo anche in Vita di un romanzo. Quando è uscito quell’articolo ho assistito alle reazioni più assurde; reazioni che mi hanno dimostrato che non sbagliavo. Reagivano alla cosa meno rilevante: se fosse o meno necessario leggere i classici (e per me, per chi scrive, leggere chi ti ha preceduto non è un’opzione, è un dovere). Li rimproveravo invece su qualcosa di più profondo. Dicevo loro: non siete uomini, siete bambini e lo si capisce dai libri che scrivete. Generalizzavo, ovviamente. Figurati se non ci sono scrittori della mia generazione capaci e intelligenti (Brullo, per fare un nome solo, è un talento vero). Eppure parlavo di un dramma di fondo. Si diventa uomini rispondendo a necessità reali. Dai molti libri che ho letto, quella necessità non si avverte. C’è invece un infantilismo inconsapevole, quasi che, quello che è stato scritto finora, non fosse mai stato. La mia generazione non esiste perché domani non avrà nulla da rimpiangere perché oggi non ha fatto alcuna promessa. Scrivendo questa cosa, ho messo il mio cuore a nudo, solo che non l’hanno capito (quindi qualcosa avrò sbagliato anche io). Ma loro hanno fatto peggio rispondendomi col chiacchiericcio.
Tu hai bollato come “generazione di pongo” l’attuale generazione di giovani scrittori. Puoi dirci perché e spiegarci cosa intendi?
L’«età del pongo» voleva essere un’immagine, una metafora. Nel libro spiego così la questione: «i miei anni li avrei chiamati invece l’età del pongo – dove quello che si modella non è una materia prima, il marmo, il bronzo, il ferro, la lingua, ma qualcosa di derivato, ottenuto in laboratorio; qualcosa che, lavorato con cura, assume l’aspetto di – eppure non è; quello che ci sembra marmo, bronzo, ferro, quella che ci sembra una lingua e anche uno stile, non sono che oggetti plastificati». Questo genere di falsificazione è appunto l’assenza di necessità reali.
Torniamo sul personale. Cosa è per te l’amicizia e quanto vale? Quando ci si può definire veramente amici di qualcuno?
L’amicizia ha un valore importantissimo per me. Ho pochi amici, ma con loro, pur vedendoli poco, mi sento quasi quotidianamente – tu sai di cosa parlo perché uno di quegli amici sei tu. Dagli amici si impara tutto: a pensare, a stare al mondo, a rapportarsi con le altre persone, a modellare il proprio carattere, a scoprire i propri difetti. E si cresce nel confronto, anche duro e onesto. Per questo una cosa che ho sofferto davvero è non avere più amicizie profonde con la mia generazione. I miei migliori amici hanno l’età di mio padre. So che quando morirete, spero il più tardi possibile, resterò solo.
Vedrai di no. Che cosa è per te la libertà e ritieni che consista nel dire apertamente ciò che si pensa? Tu lo fai sempre? Anche quando non conviene?
Libertà non è scaricare la propria bile. Non è libertà dire in ogni occasione quello che si pensa. La sincerità è un falso mito. Quando si ama, si impara anche a tacere. A volte si tace qualcosa per non ferire. Ma questo non significa, se è quello a cui ti riferivi, disonestà intellettuale. Lì sì occorre essere spietati. Non faccio quel tipo di stroncature feroci e piene di insulti, non è nel mio carattere, ma credo che una stroncatura, fatta attraverso l’analisi, sia molto più efficace. È una libertà anche non esprimersi, decidere di tacere. Decisione che ho preso spesso. Una decisione che non fa notizia, ma che fortifica umanamente.
Nei tuoi libri non ho mai rintracciato una battuta, una frase ironica, qualcosa che susciti un sorriso, sbaglio? E perché? Eppure sei una persona scherzosa e conviviale.
È vero, hai ragione. Nella vita, gli amici lo sanno, rido molto. Nei libri semplicemente non mi viene. Sarà il modo stesso in cui vivo la letteratura, così come lo abbiamo raccontato finora. I libri che vogliono far ridere, poi, mi ha sempre messo in imbarazzo. Mi annoiano. E non mi fanno mai ridere.
Guardami negli occhi e dimmi seriamente: non pensi che alla base delle nostre azioni ci sia sempre e comunque l’amor proprio?
Sì.
Etica. Quanto la tua etica coincide con la morale comune? E in cosa differisce?
Da giovani, quando viviamo i nostri primi drammi, ci sentiamo incompresi, come se il mondo non fosse capace di capire il nostro disagio, la nostra sensibilità tanto profonda. Poi ti accorgi che quello era solo un atteggiamento infantile, un modo per farsi voler bene dal mondo, per farsi riconoscere. E noi tutti desideriamo che il mondo ci riconosca, e ci accolga. Detto questo, trovare le differenze tra un’etica soggettiva e una morale comune è un atto di presunzione che preferisco evitare. Poi, se qualcuno trova delle differenze o delle comunanze, lo può fare, sempre se ne ha voglia, leggendo quello che scrivo.
Hai mai violato le leggi sentendoti nel giusto? Quando?
Sì, a parte rubare qualche libro e videocassetta alle feste dell’Unità a vent’anni, libri e videocassette che mi hanno formato, ho fatto anche qualche editing in nero, come si dice. E ho fatto bene, perché i soldi che ne ho ricavato in quel momento mi hanno dato un po’ di respiro senza il pensiero delle tasse da pagare.
La solita ultima domanda che faccio a tutti o quasi. Come vorresti essere ricordato, come uomo e come letterato? Per esempio con quale epitaffio?
Ha fatto quello che desiderava fare. Ha vissuto come desiderava vivere. O quanto meno ce l’ha messa tutta. Ma, me ne rendo conto, tutto questo non dipende dagli altri, ma da me.
Siamo giunti alla fine. Non so voi, ma per me è stato come rifare il viaggio con Dante per i tre mondi. Un’esperienza indelebile. Come lo sarà per tutti quelli che sceglieranno di leggere “Vita di un romanzo”. Buona lettura.
Gianluca Barbera
L'articolo “Eppure io nel Paradiso non ho mai smesso di credere”: conversazione onnivora e ultramondana tra Gianluca Barbera e Andrea Caterini proviene da Pangea.
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queerographies · 5 years
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[Dario il grande][Arnaldo Colasanti]
Un libro attorno a Dario Bellezza e a un’intera generazione di poeti e scrittori [Dario il grande][Arnaldo Colasanti]
Un saggio sul poeta maledetto di fine Novecento. Il racconto della nuova poesia che nasceva negli anni di piombo e della liberazione sessuale. Colasanti, nel rigore dello studio monografico, non cade nella noia del saggio critico e tocca le leve etiche e politiche che hanno reso Roma una città fondamentale tra gli anni Settanta e fine secolo. Un libro attorno a Dario Bellezza e a un’intera…
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redazionecultura · 5 years
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"L’Infinito Presente": 29 poeti e 29 artisti per il bicentenario de L’Infinito di Leopardi
“L’Infinito Presente”: 29 poeti e 29 artisti per il bicentenario de L’Infinito di Leopardi
In occasione del bicentenario della composizione de “L’infinito“, scritto nel 1819 dall’ancora ventenne Giacomo Leopardi, 29 poeti e 29 artisti sono stati invitati a pronunciarsi, ciascuno attraverso la propria poetica, sul tema dell’infinito.
È stato così realizzato, per la cura di Claudio Damiani, Simona Marchini, Roberto Pietrosanti e Giuseppe Salvatori, “L’Infinito Presente” (Capire…
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celiudei · 5 years
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“Di notte nei sogni, gli urli restano obbedienze silenziose”
Arnaldo Colasanti
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fashionluxuryinfo · 2 years
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Una storia nell’arte I Marchini tra impegno e passione a cura di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Flavia Matitti, Italo Tomassoni coordinamento di Gianni Dessì Apertura al pubblico: 18 gennaio – 22 aprile 2022 Ingresso gratuito su prenotazione Accademia Nazionale di San Luca Palazzo Carpegna Roma, piazza dell’Accademia di San Luca 77 L’Accademia Nazionale di San Luca presenta dal 18 gennaio al 22 aprile 2022 la mostra Una storia nell’arte. I Marchini tra impegno e passione, a cura di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Flavia Matitti e Italo Tomassoni, con il coordinamento di Gianni Dessì e l’allestimento di Francesco Cellini e Gianni Dessì. https://www.fashionluxury.info/it/
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puglialink · 5 years
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ultimenotiziepuglia · 5 years
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wow-magazine · 5 years
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Teatro Porto Seguro - programação de 2019
Após estreia no Rio de Janeiro, o espetáculo Dogville, obra-prima do cineasta dinamarquês Lars Von Trier chega a São Paulo para uma temporada no Teatro Porto Seguro, de 25 de janeiro a 31 de março. Com direção de Zé Henrique de Paula, a peça traz no elenco Mel Lisboa, Eric Lenate, Fábio Assunção, Bianca Byington, Marcelo Villas Boas, Anna Toledo, Rodrigo Caetano, Gustavo Trestini, Fernanda Thurann, Thalles Cabral, Chris Couto, Blota Filho, Munir Pedrosa, Selma Egrei, Dudu Ejchel e Fernanda Couto.
O grande vencedor do programa Popstar, André Frateschi abre a programação de shows cantando sucessos do rock nacional em Brock is Back, no dia 29/01.
O mês de fevereiro começa com Leo Maia fazendo o Baile do Síndico, dia 12/02. A programação musical segue com Arnaldo Antunes no show do novo álbum rstuvxz, dia 19/02. E a cantora e atriz Thalita Pertuzatti no tributo Whitney Houston Forever, dia 26/02.
O espetáculo infantil A Minicostureira com direção de Cynthia e Débora Falabella estreia dia 2 de fevereiro para temporada aos sábados e domingos, às 15h.
A atriz e humorista Mariana Santos (integrante do programa Amor & Sexo) estreia a comédia Só de Amor..., no dia 6/02, com temporada às quartas e quintas, 21h.
No período das festas de fim de ano o Teatro Porto Seguro estará em recesso. Entre os dias 22 de dezembro e 6 de janeiro a bilheteria estará fechada. Nos demais dias, a bilheteria funcionará de segunda a sexta, das 12h às 18h, até 18 de janeiro.
A partir de 19 de janeiro a bilheteria do teatro voltará a funcionar de terça a sábado, das 13h às 21h e domingos, das 12h às 19h.
Os ingressos também podem ser adquiridos pelo site da Tudus – www.tudus.com.br
Abaixo a programação com mais informações:
Teatro  janeiro
DOGVILLE
De 25 de janeiro a 31 de março – Sextas e sábados às 21h e domingos às 19h.
Ingressos: Sextas-feiras R$ 80,00 plateia / R$ 50,00 balcão/frisas. Sábados e domingos R$ 90,00 plateia / R$ 60,00 balcão/frisas.
Classificação: 16 anos.
Duração: 100 minutos.
O diretor paulistano Zé Henrique de Paula (vencedor dos prêmios Shell, APCA, Reverência, Aplauso Brasil e Arte Qualidade Brasil) dirige a primeira adaptação teatral brasileira para Dogville, obra-prima do cineasta dinamarquês Lars Von Trier.
O elenco é formado por Mel Lisboa, Eric Lenate, Fábio Assunção, Bianca Byington, Marcelo Villas Boas, Anna Toledo, Rodrigo Caetano, Gustavo Trestini, Fernanda Thurann, Thalles Cabral, Chris Couto, Blota Filho, Munir Pedrosa, Selma Egrei, Dudu Ejchel e  Fernanda Couto.
A trama se passa na fictícia cidade de Dogville, uma pequena e obscura cidade situada no topo de uma cadeia montanhosa, ao fim de uma estrada sem saída, onde residem poucas famílias formadas por pessoas aparentemente bondosas e acolhedoras, embora vivam em precárias condições de vida. A pacata rotina dos moradores daquele vilarejo é abalada pela chegada inesperada de Grace (Mel Lisboa), uma forasteira misteriosa que procura abrigo para se esconder de um bando de gangsteres.
Recebida por Tom Edison Jr. (Rodrigo Caetano), que, comovido pela sua situação, convence os outros moradores a acolhe-la na cidade, Grace, apesar de afirmar nunca ter trabalhado na vida, decide oferecer seus serviços para as famílias da Dogville em agradecimento pela sua generosidade. Porém, no decorrer da trama, um jogo perverso se instaura entre os moradores da cidade e a bela forasteira: quanto mais ela se doa e expõe a sua fragilidade e a sua bondade, mais os cidadãos de bem exigem e abusam dela, levando a situação a extremos inimagináveis.
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Teatro fevereiro
SÓ DE AMOR... Com Mariana Santos
De 6 de fevereiro a 28 de março – Quartas e quintas, às 21h.
Ingressos: R$ 80,00 plateia / R$ 70,00 balcão/frisas.
Classificação: 14 anos.
Duração: 60 minutos.
Gênero: Comédia musical.
A atriz Mariana Santos volta aos palcos com um divertido monólogo. Com texto de sua autoria, a atriz interpreta uma cantora que, durante a apresentação de seu show, embala o público em meio a uma crise de pânico. O espetáculo pretende lançar um olhar crítico sobre situações brotadas do cotidiano e relações humanas, utilizando-se de números de plateia, cenas cômicas, impro­visos e muita música.
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Shows janeiro
ANDRÉ FRATESCHI no show Brock is Back
Dia 29 de janeiro – Terça-feira, às 21h
Ingressos: R$ 80,00 – plateia / balcão e frisas - R$ 70,00.
Classificação: Livre.
Duração: 80 minutos.
Gênero: Rock.
O grande vencedor do programa Popstar, André Frateschi faz tributo aos ídolos do rock nacional. Há anos tocando com sua banda Heroes, de tributo a Bowie, André decidiu, após a passagem pelo programa, fazer um show voltado para o rock nacional que o formou. O repertório passeia pelas décadas de 1980 e 1990 trazendo o essencial do rock vigoroso e contestador da época, que revelou artistas e bandas como Cássia Eller, Cazuza, Nação Zumbi, Barão Vermelho, Plebe Rude, Titãs, Paralamas e, claro, Legião Urbana.
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Shows fevereiro
LEO MAIA no show Baile do Síndico
Dia 12 de fevereiro – Terça-feira, às 21h
Ingressos: R$ 80,00 – plateia / balcão e frisas - R$ 60,00.
Classificação: 12 anos.
Duração: 70 minutos.
Gênero: MPB.
O cantor Leo Maia faz uma releitura dos grandes hits do inesquecível síndico do Brasil, Tim Maia. Canções imortais como Primavera, Azul da Cor do Mar, Chocolate, Não Quero Dinheiro Só Quero Amar, Gostava Tanto de Você e outras que emocionaram gerações.
Além de cantar, Leo relembra histórias inéditas do pai, Sebastião Rodrigues Maia, o rei do soul music, e revela também o cotidiano da família Maia, que há mais de 50 anos, anima bailes em todo o Brasil.
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ARNALDO ANTUNES no show rstuvxz
Dia 19 de fevereiro – Terça-feira, às 21h
Ingressos: Plateia: R$ 160,00 / frisas: R$ 120,00 / balcão: R$ 100,00
Classificação: Livre.
Duração: 80 minutos.
Gênero: MPB/Rock.
Arnaldo Antunes expande o conceito do diálogo entre o rock e o samba, nesse novo show, acompanhado por Betão Aguiar (baixo, violão de nylon, guitarra e vocais) e Curumin (bateria, programações, percussão, vocais e violão), Além das canções do álbum homônimo lançado em junho, o compositor faz um resgate de canções marcantes de sua carreira como os rocks Fora de Si, Televisão e Essa Mulher e de sambas como Alegria, Talismã e Só Solidão.  O show conta ainda com canções de outros autores, como A Razão Dá-se a Quem Tem, Vou Festejar e Exagerado, em novas releituras.
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Thalita Pertuzatti no show Whitney Houston Forever
Dia 26 de fevereiro – Terça-feira, às 21h
Ingressos: Plateia: R$ 70,00 / Balcão e frisas: 60,00.
Classificação: Livre.
Duração: 60 minutos.
Gênero: POP.
Cantora e atriz, Thalita Pertuzatti faz um tributo a Whitney Houston com canções que prometem uma viagem no tempo para os fãs da inesquecível diva da música norte-americana. No repertório, One Moment In Time, Greatest Love Of All, Run To You, Wanna Dance, I Will Allways Love You, I'm Every Woman, entre outras. Thalita Pertuzatti foi finalista da primeira edição do programa The Voice Brasil, em 2012, e campeã do programa Raul Gil, em 2009.
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Espetáculo Infantil fevereiro
A MINICOSTUREIRA
direção de Cynthia e Débora Falabella
De 2 de fevereiro a 17 de março – Sábados e domingos, às 15h.
Ingressos: Plateia: R$ 50,00 / Balcão e frisas: 40,00.
Classificação: Livre.
Duração: 60 minutos.
Gênero: Comédia infantil
As irmãs Débora Falabella e Cynthia Falabella dirigem espetáculo inspirado livremente no conto A Moça Tecelã de Marina Colasanti e na carta A Tecelã do tarô Egípcio.  No elenco estão Frann Ferraretto, Bruno Ribeiro, Antoniela Canto e Mateus Monteiro. Entre retalhos e costuras, o público é convidado a ponderar sobre o seu potencial no mundo, por meio da imaginação e da concepção das próprias vontades, poderes e planos. O espetáculo estimula a expedição por este mundo tão especial, onde é possível criar grandes navios com a sobra de uma calça, ou fazer a cortina de um teatro com um pano de chão.
Na trama, a garotinha Clara cria seu próprio mundo, em meio a linhas, agulhas e tesouras. Lá vivem criaturas retalhadas por ela, como um peixe dourado que se chama Fidalgo, e assume o papel de seu melhor amigo, e uma Santa protetora das minicostureiras. Juntos, eles decidem realizar o maior sonho da menina, que logo vira um terrível pesadelo e faz com que a garota precise tomar a decisão mais difícil de seus vividos nove anos de idade – e para o resto de sua vida.
TEATRO PORTO SEGURO. Al. Barão de Piracicaba, 740 – Campos Elíseos – São Paulo. Telefone (11) 3226.7300. Capacidade: 496 lugares. Formas de pagamento: Cartão de crédito e débito (Visa, Mastercard, Elo e Diners). Acessibilidade: 10 lugares para cadeirantes e 5 cadeiras para obesos. Estacionamento no local: Estapar R$ 20,00 (self parking) - Clientes Porto Seguro têm 50% de desconto. Serviço de Vans: TRANSPORTE GRATUITO ESTAÇÃO LUZ – TEATRO PORTO SEGURO – ESTAÇÃO LUZ. O Teatro Porto Seguro oferece vans gratuitas da Estação Luz até as dependências do Teatro. COMO PEGAR: Na Estação Luz, na saída Rua José Paulino/Praça da Luz/Pinacoteca, vans personalizadas passam em frente ao local indicado para pegar os espectadores. Para mais informações, contate a equipe do Teatro Porto Seguro. Bicicletário – grátis.
WOW!MAGAZINE, DEZ/18. COM Assessoria de imprensa Porto Seguro Imagem Corporativa -- [email protected]
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marcogiovenale · 8 days
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oggi, sabato 25 maggio 2024, giornata pagliarani: il premio (h.17) e gli incontri (dalla mattina)
La Presidente Cetta Petrollo e Lia Pagliarani invitano alla GIORNATA PAGLIARANI che si svolge OGGI, sabato 25 maggio 2024, nella Sala Cinema del Palaexpo di Roma (Ingresso dalla scalinata di Via Milano 9a) Ore 10:30 – 13:30 Elio Pagliarani oggi: Presentazione dei libri Il Fondo archivistico Elio Pagliarani e Funzione Pagliarani (Collana Rossocorpolingua, Zona editrice) Intervengono Dorotea…
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tmnotizie · 6 years
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SAN BENEDETTO – Sabato 17 novembre 2018, alle ore 10, presso l’Auditorium “G. Tebaldini” si terrà il XIX Festival Internazionale della Poesia, promosso dal Circolo Riviera delle Palme di San Benedetto del Tronto. E’ il primo appuntamento della nuova edizione del Festival che culminerà nell’estate 2019 e avrà per tema “L’infinito”.
Saranno presenti importanti autori nazionali e internazionali, che interverranno sul tema con testi editi, inediti e appositamente composti per l’occasione: Davide Rondoni (poeta), Moira Egan (poetessa), Damiano Abeni (traduttore), Rossella Frollà (critica e poetessa), Nicola Bultrini (poeta e saggista).
Interverranno il Presidente del Circolo Riviera delle Palme, il poeta Leo Bollettini, il sindaco Pasqualino Piunti, l’assessore alla Cultura Annalisa Ruggieri ed il presidente del FAI Regione Marche Alessandra Stipa. Saranno presenti autorità locali e rappresentanti di istituzioni, associazioni, scuole e imprese del territorio.
Coordinerà e presenterà l’evento il nuovo direttore artistico del Festival, il poeta Claudio Damiani, accompagnato dall’attrice Marina Benedetto.
Il tema scelto fa riferimento alla famosa poesia di Leopardi l’infinito, di cui ricorre tra poco il bicentenario della composizione ma anche al concetto di “infinito” in generale e nelle sue varie declinazioni scientifiche, filosofiche ecc.
Con l’occasione verrà presentato il Certamen, gara di poesia (anch’essa sul tema dell’infinito) rivolta agli studenti e ai cittadini del territorio nazionale ma anche di autori stranieri, che culminerà a dine estate 2019 con la lettura pubblica dei testi selezionati e la premiazione del vincitore.
Tra la prima tappa (17 novembre 2018) e l’ultima (settembre 2019) si prevedono tappe intermedie, eventi di poesia, riflessioni e approfondimenti sul tema, a cura del Circolo Riviera delle Palme e di altre associazioni e istituzioni. Nelle scuole del territorio saranno avviati progetti specifici di laboratorio poetico che guideranno gli studenti nella produzione dei testi destinati al Certamen. Oltre ai giovani, l’iniziativa è destinata anche a adulti e anziani, e a questo riguardo verrà coinvolta anche l’Università della Terza Età di Ascoli Piceno.
Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Rignano Flaminio nei pressi di Roma. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Lettori), Sognando Li Po (Marietti, 2008, Premio Lerici Pea, Premio Volterra Ultima Frontiera, Premio Borgo di Alberona, Premio Alpi Apuane), Il fico sulla fortezza (Fazi,  2012, Premio Arenzano, Premio Camaiore, Premio Brancati, finalista vincitore Premio Dessì, Premio Elena Violani Landi), Cieli celesti (Fazi, 2016, Premio Tirinnanzi).
Nel 2010 è uscita un’antologia di poesie curata da Marco Lodoli e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010  (Poesie, Fazi, Premio Prata La Poesia in Italia, Premio Laurentum). Ha pubblicato di teatro: Il Rapimento di Proserpina (Prato Pagano, nn. 4-5, Il Melograno, 1987) e Ninfale (Lepisma, 2013). Tra i volumi curati: Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000).  E’ stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84) e, nel 2013, di  Viva, una rivista in carne e ossa. Suoi testi sono stati letti in pubblico da attori come Nanni Moretti e Piera Degli Esposti, e tradotti in varie lingue. Ha pubblicato i saggi La difficile facilità.
Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, 2016, L’era nuova. Pascoli e i poeti di oggi, Liber Aria Edizioni, 2017 (con Andrea Gareffi) e recentemente, con Arnaldo Colasanti, La vita comune. Poesie e commenti, Melville Edizioni, 2018.
Davide Rondoni è nato a Forlì nel 1964. Tra i suoi libri di poesia: La frontiera delle ginestre (1985), O les invalides (1988), A rialzare i capi pioventi (1991), Nel tempo delle cose cieche (1995), Il bar del tempo(1999), Avrebbe amato chiunque (2003), Compianto, vita (2004), oltre a numerose altre opere in versi per la scena o dedicate ad opere d’arte, come Il veleno, l’arte (2005), Vorticosa, dipinta (2006) e Dalle linee della mano (2007). Ha tradotto I fiori del male di Baudelaire (1995) e Una stagione all’inferno di Rimbaud (1997). Per la saggistica letteraria e di intervento: Non una vita soltanto (2001), La parola accesa (2006), Il fuoco della poesia (2008). Ha curato diverse antologie ed è autore di testi teatrali e di programmi televisivi.
Editorialista di alcuni quotidiani, opinionista di Avvenire, è stato critico letterario nel supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore. Saltuariamente pubblica sul Corriere della Sera. Dirige le collane di poesia di Marietti e Il Saggiatore, la rivista «clanDestino» e il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna.
Moira Egan è nata a Baltimora (USA). Suoi lavori sono apparsi in molte riviste statunitensi e internazionali, e in diverse antologie, tra cui Best American Poetry 2008, e in traduzione su Nuovi Argomenti, Poesia, e Lo Straniero. I suoi libri sono HotFlash Sonnets (Passager Books, 2013); Spin (Entasis, 2010); Bar Napkin Sonnets (The Ledge, 2009); La Seta della cravatta/TheSilk of the Tie (Edizioni l’Obliquo, 2009); e Cleave (WWPH,  2004).Con Italic peQuod ha pubblicato Strange Botany / Botanica arcana (2014) e Olfactorium (2018). Con Damiano Abeni ha pubblicato numerosi libri di traduzioni in Italia (tra gli autori ricordiamo John Ashbery, Aimee Bender, Lawrence Ferlinghetti, John Barth, Anthony Hecht, Mark Strand). Sue traduzioni da poeti italiani, realizzate a quattro mani con Abeni, sono pubblicate su numerose riviste negli USA e alcune sono raccolte nello FSG Book of 20th Century Italian Poetry (2012) e nel volume di Patrizia Cavalli My Poems Will Not Change the World (FSG, 2013).
Moira Egan ha ricevuto fellowship da prestigiose istituzioni quali la Mid Atlantic Arts Foundation; il Virginia Center for the Creative Arts; il St. James Cavalier Centre for Creativity a Malta; il Civitella Ranieri Center; la Rockefeller Foundation, Bellagio Center; la James Merrill House.
Damiano Abeni è nato a Brescia nel 1956. Ha pubblicato un centinaio di libri tradotti dall’inglese, la maggior parte dei quali dedicati a poeti nord-americani quali Mark Strand, John Ashbery, Charles Simic, Elizabeth Bishop e, tra i più recenti, a Charles Wright, Ben Lerner, Moira Egan, Frank Bidart e Anthony Hecht. Collabora con diverse case editrici e riviste letterarie. È tra i redattori di “Nuovi Argomenti” e della rivista online “Le Parole e Le Cose”. Ha ricevuto una fellowship del Liguria Study Center for the Arts nd Humanities (Bogliasco Foundation, 2008) e una delle Rockfeller Foundation Fellowship (Bellagio, 2010).
Nel 2009 è stato Director’s Guest presso il Civitella Ranieri Center. È cittadino onorario per meriti culturali di Tucson, Arizona, e di Baltimore, Maryland. Recentemente, parte di sé ha pubblicato “from the dairy of jonas & job, inc., pigfarmers” [ikonaLiber, Roma, 2017], tradotto a fronte in italiano da un’altra parte di sé.
Rossella Frollà è nata nelle Marche a San Benedetto del Tronto, dove vive. Si è laureata presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Animata da grande curiosità intellettuale vive molteplici esperienze lavorative giovanili nel settore della ricerca sociale e della comunicazione prima di approdare alla critica letteraria e alla poesia. Nel 2012 pubblica con Interlinea Il Segno della parola, Poeti italiani contemporanei e si afferma come nome nuovo nel panorama della critica letteraria.
Sempre nello stesso anno riceve il premio Alpi Apuane per la poesia inedita. Nel 2015 pubblica con Interlinea  la sua prima opera poetica Violaine  e nel 2017 Eleanor. Non fummo mai innocenti. Dalla Bosnia alla Siria. Oggi fa della poesia la sua nuova frontiera di impegno umano e culturale. Scrive per Pelagos e altre riviste letterarie on-line.
Nicola Bultrini è nato nel 1965 a Civitanova Marche, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi La specie dominante (Aragno 2014), La coda dell’occhio (Marietti 2011),  I fatti salienti (Nordpress 2017), Occidente della sera (nell’VIII Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea – Marcos y Marcos 2004). Scrive per il quotidiano Il Tempo e collabora con altre testate (tra cui la rivista Poesia).
È presente nell’antologia Sulla scia dei piovaschi poeti italiani tra due millenni (Archinto 2015). Come studioso della Prima Guerra Mondiale ha pubblicato vari saggi, tra cui La grande guerra nel cinema (Nordpress 2008), Pianto di pietra – la grande guerra di Giuseppe Ungaretti (Nordpress 2007), Gli ultimi – i sopravvissuti ancora in vita raccontano la grande guerra (Nordpress 2005). Da anni è ideatore e animatore di eventi culturali.
Marina Benedetto è nata a Roma, si è diplomata a Parigi presso la scuola d’arte drammatica Théâtre Ecole du Passage e ha conseguito la License in Etudes Théâtrales presso l’Università Sorbonne Nouvelle – Paris III. Come attrice ha recitato a teatro in Francia e in Italia con numerosi registi tra i quali Gil Galliot, Eloi Recoing, Grégoire Ingold, Jean-Claude Fall, Lisa Wurmser, Alessandro Marinuzzi; al cinema ha interpretato piccoli ruoli con Francesca Comencini,Giancarlo Bocchi, Mario Martone, Paolo Franchi; in televisione con Betta Lodoli, Claudio Casale. Lavora come acting coach e dialogue coach al cinema, occupandosi di attori italiani e stranieri tra i quali Valerio Mastandrea, Elio Germano, Juliette Binoche, Fanny Ardant, Barbora Bobulova, Anne Parillaud, Ksenja Rappoport, Emmanuelle Devos.
Insegnante di dizione e recitazione, ha tenuto numerosi laboratori di formazione dell’attore. Ha doppiato e/o diretto il doppiaggio d’innumerevoli programmi televisivi per Canal Plus, di cui ha preparato l’adattamento dal  francese all’italiano. Ha curato il sottotitolaggio di documentari, film, e di pièces teatrali per la regia di Peter Brook e Irina Brook. Appassionata di poesia ha tradotto dal francese e dallo spagnolo vari autori (tra questi Claribel Alegría e Aurélia Lassaque) e ha recitato in numerose letture pubbliche.
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pangeanews · 5 years
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“Dario Bellezza ha salvato una generazione di poeti e la sua poesia è la più grande riflessione politica sull’Italia postdemocratica”: dialogo con Arnaldo Colasanti
Siamo nell’agire dell’emergenza – e va custodito, il suo urlo, cucciolo di tigre. C’è perfino una docenza nel precipizio. Lo vedo così, il gesto critico di Arnaldo Colasanti: visto che la poesia non ha più credito né carisma – avvilita, piuttosto, segno apocalittico madornale per cui l’autentico è confuso per fasullo e viceversa, da orde di lirici presunti, patentati, spazientiti, che si leggono tra loro, senza leggere, in favore di faro della celebrità – tanto vale non credere in altro, e gettarsi. Il suo “Progetto di critica della poesia contemporanea” – di cui questo foglio digitale ha già dato spazio – che s’intitola “Cantieri del Nord” è così assurdo da apparire come un monastero. Colasanti, in pellegrinaggio editoriale – nel senso che pubblica qua e là, per lo più con piccoli editori di genio – compila studi miliari sui grandi poeti di oggi. Dopo Claudio Damiani (Castelvecchi, 2018) e Valerio Magrelli (Quodlibet, 2018), ora è la volta di Dario il grande. La poesia di Dario Bellezza (CartaCanta, 2019), poi toccherà a Giancarlo Pontiggia e ad Amelia Rosselli, sono già previsti volumi dedicati a Pietro Tripodo e a Milo De Angelis, e via, in questa sorta di lavoro enciclopedico e mistico insieme, non cattedratico, piuttosto, catturare la cattedrale. Ma chi glielo fa fare?, verrebbe da dire. Non c’è altro da fare, in effetti, dovremmo rispondere, all’acme della ragionevolezza, per non vivere quella che Jakobson diceva Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Qui, ora, non c’è neanche la dissipazione (la dispersione), ma il rebus dell’oblio, lo stato vegetativo, lo status del poeta che decora una sala della Feltrinelli, la contraffazione dei segni (cioè: il regno del signore delle mosche), la poesia che sbeffeggia la poesia, la non-poesia ostentata come poesia, brandita come un incensiere. Eppure, “Vale tutta la vita vivere nella dolcezza folle della poesia”: con questa frase Colasanti chiude il libro su Bellezza. Non c’è ingenuità, ma limpidezza: la poesia di Bellezza – come quella dei poeti interpellati e letti da Colasanti con la stessa energia con cui si leggono i ‘classici’, eccola la rivoluzionaria dedizione – è attraversata in un esercizio di perdizione e di ricerca, dove c’è Dio e Minotauro, Hegel e García Lorca, “la cronaca dei giorni” e la scala del Paradiso, Elsa Morante, Sandro Penna e il tuono di ricordi di sanguinosa vivezza, in questo “poeta di segreti inconfessabili”. D’altronde, la poesia esige tutto – foss’anche la morte del poeta – per dare ai propri denti natura di rivelazione. “La letteratura di quegli anni è stata clamorosamente una grande tragedia irrisolta… Ci voleva dunque un urlo liberatorio e quell’urlo fu straziante, atroce, scandaloso, elegiaco, quasi oltre la barriera della sonorità di una generazione”, scrive Colasanti. Prima, ne aveva scritta un’altra, di eclatante innocenza – perché è crudele l’innocenza. “La poesia ci ha salvati”. (d.b.)
Dario Bellezza: perché, ora, lui? Come si insedia nel tuo lavoro Cantieri del Nord?
Bellezza e i poeti e scrittori, specie romani, a lui contemporanei non ha potuto evitare il tema storico della “morte della letteratura”. Ma qui è la differenza della sua poesia. Bellezza, attraversando a pieno questo tema delirante, ha gridato le ragioni della poesia, ci ha dato l’“urlo” di una poesia che poteva essere ancora poesia, ovvero la sua unità con la vita. Bellezza è per me chi ha salvato un’intera generazione di poeti giovani (per esempio, la mia generazione: la rivista “Braci”), offrendo la radicalità di una poesia che voleva fortemente riproporre il senso delle cose. In tale prospettiva, Bellezza ha stretto a sé la radicalità di Attilio Bertolucci con quella di Elsa Morante: lo stesso Pasolini o Penna sono stati collocati in una genealogia mitica finalmente non più gerarchica, che appunto presuppone ma non condiziona, né origina, tanto meno imprigiona la forza lirica ed etica della centralità del verso. La migliore poesia romana degli anni Ottanta nasce da questo, sebbene sia fondamentale anche il lavoro delle riviste “Niebo” e di “Scarto minimo. Non ne potevo più di vedere Dario Bellezza incastrato nel mito del maledettismo: Bellezza era ed è il poeta della pura classicità della lingua. In definitiva, ho letto Dario Bellezza fuori dallo stereotipo che ancora una volta il modernismo sperimentale ha voluto imporre. E non è un caso se ho letto, con il Polittico del sangue amaro, la poesia di Valerio Magrelli non quale la testimonianza di un ritorno all’ordine della razionalità. Ho visto il contrario: un Magrelli che è poeta dell’errore linguistico e del tic e che, in questo, sa “costruire” l’urgenza di una profonda metafisica della condizione umana, senza cadere nell’astrazione.
Dario Bellezza è centrale nella poesia contemporanea così come Amelia Rosselli, la quale sarà il tema di una tua monografia che uscirà nel 2020.
Amelia Rosselli è per me la negazione di una generica sperimentazione. Il mio studio sarà la verifica di come la norma del linguaggio, condotta sui margini dell’estremo, sia ancora una volta l’unità del significato delle cose. Come dire: la Rosselli non è il segno della faglia o peggio della pazzia; Amelia era ed è la poetessa della certezza conoscitiva.
Ti chiedo di spiegare alcune tue affermazioni. “Ho letto Dario come il grande funerale o come la terribile, inesausta, messa in scena di una resa collettiva”. Cosa significa?
Il contesto storico sono gli anni Settanta: il crollo politico del centrosinistra socialdemocratico e il passaggio, fatto abortire, ad una governabilità repubblicana. Bellezza si è fatto carico del grande funerale collettivo, ma, al tempo stesso, ha offerto alla nostra identità moderna di italiani una grammatica di dignità e una narrazione di valori pubblici condivisibili. In altri termini, la poesia di Dario Bellezza è stata la più grande riflessione politica sull’Italia postdemocratica, quella che si svela con furia dagli anni Novanta.
“La poesia ci ha salvati: è stata la nostra rivoluzione, più degli elicotteri gabbiani negli schermi in bianco e nero del cielo di Saigon. Se c’è stato qualcosa, dopo gli anni Sessanta, che abbia permesso all’Italia di resistere al suo più grande nemico – sé stessa, l’incubo di un’identità mancata e di una democrazia incompiuta e sempre rinviata – non è stato il pensiero o la politica, le grandi inchieste o il romanzo: no, è stata davvero la poesia, insieme alla poesia del cinema”. Più oltre dici: “Solo la poesia avrebbe potuto ritrovare il senso di un dolore collettivo, di un’Italia che non riesce mai, non più – che non riusciva ancora a nascere”. Che rapporto deve esserci, c’è stato, c’è tra poesia e Storia? Che legame può avere il poeta con la ‘società’?
Nel condizionale “solo la poesia avrebbe potuto” si coglie la traccia di ciò che la poesia di quegli anni ha realmente prodotto. Lei, l’Esclusa, è stato l’unico prodotto inalienabile, la vera e unica parola che ha sostenuto una democrazia senza speranze. La poesia ha ritrovato l’unità della vita dentro una storia in cui si parlava solo di terrore e di volontà di morte. La poesia di Dario è stata l’“Heu!” di cui parla Dante nel De Vulgari Eloquentia a proposito della lingua degli uomini. Come ci ha ricordato anche Daniel Ellen-Roazen, in Ecolalia: la lingua è “nell’imitazione umana di ciò che è disumano”, il ricordo di un’assenza (appunto la consonante aspirata muta “H”) in quanto l’“urlo” estremo dell’uomo-poeta. Il rapporto tra la poesia e la storia sta in questo: essere selvaggiamente contemporanei contro gli schemi ideologici che istituiscono il contemporaneo e la sua violenza storica. Dunque, essere contro il contemporaneo. Il legame reale del poeta con la società è solo la fedeltà al senso, al suo “annuncio” di lingua – quello che chiamo l’unità segreta e inenarrabile della vita con la storia.
“Ma la poesia, se è, significa resistere a questa corruzione dell’animale: vale come un canto che piange e che ride, nonostante tutto il mondo e il tempo”.
La poesia è espressione e l’espressione è il tempo, cioè è la massima sospensione di un’esperienza in cui si riconosce sé stessi in ciò che risulta completamente estraneo. La grande estraneità, tuttavia, non è il mondo, giacché il mondo, per divorarci, ci offre tutti gli strumenti e le trappole per offrirsi ossessivamente come familiare, ovvero in quanto finzione. La radicale estraneità è ciò che amiamo con tutto noi stessi: la tradizione, la voce dei poeti, Democrito che ride ed Eraclito che piange. Se potessi sintetizzare il progetto dei “Cantieri del Nord” direi che non è altro che una tensione pura al comprendere, prima che al classificare.
“Il mistero della poesia è prendere tutto della vita per stringerlo forte. Certo, non per rapinarlo. Perché soltanto l’appropriarsi, il ricondurre Dio in sé stessi, significa tenere chi si ama nella propria rimbaudiana eternità: vuol dire renderlo uno nel due, l’eterno nell’eterno altro”. Questo quindi è il definitivo compito della poesia?
Sì, è questo. Solo la sovranità dell’anima è la sovranità del tempo vissuto: il carpe diem, la spada di Dio, l’“anokhi” ebraico (“inclino la mia anima alla scrittura”) a cui mai sottrarsi.
Il tuo libro mi sembra un inno contro la consueta, ripetuta ‘morte della poesia’’ Se la poesia non è morta (non morirà mai) dove vive, ora?
Il prossimo libro del progetto non è quello su Amelia Rosselli, bensì è Notte Purpurea, un omaggio a Giancarlo Pontiggia (in uscita per Amos a fine 2019). Tale studio è una risposta attorno alla reale conoscenza della poesia. Insomma, la poesia vive dove non muore, dove non sopravvive. Vive incredibilmente solo nello studio e nell’ascolto ostinato della coscienza di un significato. Laddove, come in un miracolo che si ripete sempre nuovo, esperienza dopo esperienza, sa imporre l’umiltà della comprensione: il Tu e l’Io del poeta e del suo lettore. Vorrei dirti che il presente della poesia non è il successo ma la costruzione di un’immagine interiore che deve farsi spazio pubblico: la pura realtà poetica e spirituale del pensare. Ma lo so, sarò frainteso: il mondo spesso teme il vero desiderio – l’altezza delle cose.
*In copertina: Dario Bellezza (1944-1996) nel 1971, fotografato da Massimo Consoli
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tvnumeriuno · 6 years
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ansaemiliaromagna · 7 years
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