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ecee2nfha6 · 1 year
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bergoglionate · 3 years
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Per Papa Francesco tutto è negoziabile, fuorché lo "spirito" del Concilio. Però i Media giocano sporco!
Per Papa Francesco tutto è negoziabile, fuorché lo “spirito” del Concilio. Però i Media giocano sporco!
“Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive...” (Benedetto XVI – Lettera ai Vescovi 10.3.2009) Sta facendo discutere – e dividere – il Discorso che il santo Padre Francesco ha fatto alla CEI, all’Ufficio Catechistico internazionale del 30.1.2021 – vedi qui il testo integrale. Premettiamo subito…
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gregor-samsung · 2 years
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Anassagora
“ Anassagora nacque ricco, ma abbandonò i beni di cui fortuna lo aveva provveduto, per più liberamente dedicarsi alla scienza. (E anche questo rivela quanto la ricerca della felicità per mezzo della scienza, è più solitaria, più gelosa, più viziosa degli altri modi di ricerca). Voltaire stimava per parte sua che la condizione di filosofo vuol essere confortata da un reddito annuo di centomila franchi. Chi dei due avrà ragione? A testimonianza di Aristotele, sappiamo che già nel IV secolo Anassagora era considerato uno che pratica la « vita teoretica ». Anassagora fu il primo filosofo, o come dire il primo « uomo di scienza » che si venne a stabilire in Atene. Benché fosse per diventare il centro politico del mondo greco, Atene quanto a sé non aveva ancora dato i natali a « uomini di scienza ». Non solo, l’ateniese era ostilissimo a qualunque forma di ricerca. Nel tempo del suo massimo splendore, Atene era ben lungi dal costituire un centro in cui la libera ricerca si potesse praticare senza impedimenti né pericolo. Anassagora, Socrate, Aristotele, benché imputati di delitti più politici che eresiaci, e condannati meno come eretici che come novatori in materia di religione, furono vittime, ciascuno in grado diverso, della bigotteria democratica di Atene. Capitato in un ambiente di tal genere, non deve maravigliare se il ‘ signor Nous ’ cadde indi a poco nelle grinfie di quei magistrati facinorosi, cui incombeva l’igienico ufficio di far rispettare le deità ufficiali. Oscuri i particolari del processo di Anassagora, contradditorie le versioni di Satiro e di Sozione. Dice questo: accusatore, Cleone; accusa: aver chiamato il Sole una massa incandescente; sentenza: multa di cinque talenti. E quello: accusatore, Tucidide figlio di Melesia; accusa: empietà e medismo; sentenza: condannato a morte in contumacia. Da Platone sappiamo che si rimproverava ad Anassagora di insegnare che il Sole è una pietra incandescente e la Luna fatta di terra. Tuttavia, in mezzo a questo folto ‘medievale ’, che così sintomaticamente macchia la tersità del più fulgido secolo della Grecia, una felice radura si apre, brilla d’un tratto un particolare leggendariamente greco: l’amicizia, e non sentimentale soltanto, ma efficace e operosa, di Pericle per il filosofo perseguitato. Anassagora, dice Ermippo, era in prigione e condannato a morte, allorché Pericle lo liberò e aiutò a fuggire, e rimproverò assieme agli ateniesi il loro vergognoso comportamento. Esiliato, Anassagora ritornò nella Jonia originaria e si ridusse a Lampsaco. Ivi fondò una scuola e morì carico di anni. In memoria di lui, i lampsachesi edificarono un tempio « allo Spirito e alla Verità ». (In quale data precisa nasce la massoneria?). L'anniversario della sua morte era giorno di festa per gli scolari di Lampsaco. Così aveva voluto lo stesso ‘ signor Nous ’, perché costui, che tutta la vita aveva pensato che la scienza è una grande felicità, prima di morire capì che il sonno della scienza è per noi una felicità anche più grande. “
Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, Adelphi (collana Biblioteca, n° 70), 1ª edizione 1977. [Libro elettronico]
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Le mie ansie mi facevano prendere il nostro amore per un amore eccezionale. Credevamo d'esser i primi a sentir certi turbamenti, non sapendo che l'amore è come la poesia, e che tutti gli amanti, anche i più mediocri, credono d'essere dei novatori. Raymond Radiguet
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gianninoruzza · 3 years
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Tra novatori e conservatori…l’opinione di Rita Faletti
Tra novatori e conservatori…l’opinione di Rita Faletti
Rita Faletti – Giugno 22, 2021 – 13:38 commenti: 3visualizzazioni: 363 © Riproduzione riservata Il Vaticano tra due fuochi: innovare o conservare? A questo si è arrivati, dal momento che una risposta chiara da parte di chi dovrebbe darla non è ancora giunta. Se la domanda fosse rivolta ai vescovi tedeschi non ci sarebbero dubbi. Assolutamente innovare. E’ quello che sostiene il cardinale…
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Per Sacerdoti e Laici dal Dialogo e dalle Lettere di Santa Caterina da Siena
Per Sacerdoti e Laici dal Dialogo e dalle Lettere di Santa Caterina da Siena
La Santa che combatté per Roma…. a differenza degli “novatori e rivoluzionari” che hanno remato sempre “contro Roma”, contro il papato…Una donna umile e analfabeta riuscì là, dove molto uomini di cultura avevano fallito e, ben duecento anni prima del protestantesimo di Lutero, Ella seppe – osiamo dire profeticamente – porre le basi teologiche sulla vera obbedienza al Papa ed alla Chiesa.Le…
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giancarlonicoli · 4 years
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17 ago 2020 15:31
MATTI DA SLEGARE – COSA È RIMASTO DI FRANCO BASAGLIA, A QUARANT’ANNI DALLA MORTE DELLO PSICHIATRA CHE LOTTÒ PER LA CHIUSURA DEI MANICOMI, QUEI GIRONI INFERNALI DOVE BIMBI E ADULTI ASPETTAVANO DI MORIRE TRA PUZZA DI FECI, PISCIO E SPORCIZIA? - NEL MOMENTO CHIAVE IN CUI LA RIFORMA AVREBBE DOVUTO ESSER MESSA IN PRATICA, IL DOTTORE MORÌ. COSA AVREBBE FATTO? LA PROSPETTIVA PER CHI USCIVA DA UN OSPEDALE PSICHIATRICO ERA IL NULLA O IL MANICOMIO CRIMINALE E DI LÌ A POCO...
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Antonio Stella per il Corriere della Sera"
Che cos' è rimasto, del «Dottore dei matti»? Sono passati quarant' anni dal calvario dell'agosto 1980 in cui Franco Basaglia si spense fiato dopo fiato, incurabile, nella sua casa nel sestiere di San Marco il giorno 29. «Tantissimi lo hanno letto, tanti lo hanno conosciuto, tanti lo hanno amato e tanti lo hanno anche odiato, perché in maniera semplice, bonaria, ironica questo veneziano aveva ribaltato un mondo», scrisse «Lotta Continua». Ribaltato come? Nel modo giusto o sbagliato? Polemiche roventi. Nel mondo intero. Per decenni. Con diffusi rimpianti per come era «prima».
Uno solo, però, può essere il punto di partenza per cercare di capire: che cos' erano i manicomi. «Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla nuda terra. Molti eran del tutto ignudi, varj coperti di cenci, altri in ischifosi stracci avvolti; e tutti a modo di bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano», scriveva nel 1824 (come ricorderà Leonardo Sciascia sul «Corriere») l'illuminato palermitano Pietro Pisani.
Solo residui medievali? No. Un secolo e mezzo dopo, nel 1971, il verbale dell'ispezione della Commissione d'inchiesta al Santa Maria della Pietà di Roma spiega: «Ci sono bambini legati con i piedi ai termosifoni o ai tubi dell'acqua, scalzi, seminudi, sdraiati per terra come bestioline incapaci di difendersi, sporchi di feci, dovunque un lezzo insopportabile». «Non esistevano limiti d'età per il ricovero in manicomio: era sufficiente un certificato medico in cui si dichiarava che il bambino era pericoloso per sé o per gli altri», si legge nel web-doc Matti per sempre di Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala.
«Dal 1913 al 1974 nel manicomio di Roma sono stati internati 293 bambini con meno di 4 anni e 2.468 minori tra i 5 e i 14 anni. In tutto 2.761 piccoli». Tre lustri ancora e il «Corriere» pubblica un reportage di Felice Cavallaro sull'Ospedale psichiatrico di Reggio Calabria: «Dormono con la schiena che sfiora il pavimento. Sprofondano giù perché le reti sono bucate al centro, corrose dalla pipì che con gli anni ha sciolto la maglia metallica. I materassi sono ormai sfoglie di gommapiuma sudicia. Di lenzuola nemmeno a parlarne. Puzzano anche le coperte. Tutto emana il fetore della morte in queste camerate dove quattrocento persone aspettano la fine come fossero animali».
È il 1987. La chiusura di quei gironi d'inferno è già stata decisa, sulla carta, da una decina di anni. Eppure troppe infamie, insopportabilmente troppe, sono rimaste come prima. Nel plumbeo mutismo sociale denunciato quasi un secolo prima da Anton Cechov ne L'uva spina : «Evidentemente l'uomo felice si sente bene solo perché i disgraziati portano il loro fardello in silenzio, e senza questo silenzio la felicità sarebbe impossibile. È un'ipnosi generale». Occhio non vede, cuore non duole, scandalo non urla.
È questo silenzio assordante a venire fracassato da Franco Basaglia. Nato a Venezia nel 1924, laureato nel 1949, specializzato in malattie mentali nel '52, l'anno dopo sposa Franca Ongaro, che gli darà due figli e sarà la compagna di mille battaglie. Frustrato dall'accademia («Direi che tutto l'apprendimento reale avviene fuori dall'università. (...). Io sono entrato nell'università tre volte e per tre volte sono stato cacciato», racconterà in una delle Conferenze brasiliane ), si immerge nel primo manicomio a Gorizia nel 1962: «C'erano cinquecento internati, ma nessuna persona». Ovunque «vi era un odore simbolico di merda».
Uno spazio nero dal quale trasse l'«intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l'istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese». Guerra totale: «L'università, da quando io mi sono laureato, ha protetto in maniera reazionaria e fascista gli ospedali psichiatrici.
Non si è mai levata una voce, se non nei congressi, a dire che bisogna cambiare questa legge, ma nessun professore universitario si è sporcato una mano all'interno dei manicomi. Il professore universitario ha sempre avuto le mani pulite, amministrando l'insegnamento davanti ai letti d'ospedale, dicendo: questo è schizofrenico, questo è maniaco, questo è isterico».
Era insopportabile, agli occhi di chi veniva ferito da quei giudizi. Ribelle. Martellante. Cocciuto. Eppure, lavorando ventre a terra a Gorizia, Colorno, Trieste e Roma, scrivendo uno dopo l'altro, da solo o con Franca, libri ovunque amatissimi o contestatissimi, tenendo conferenze da Berlino a São Paulo, sfondando in tv con una celebre intervista di Sergio Zavoli («Le interessa più il malato o la malattia?», «Decisamente il malato»), riuscì in pochi anni febbrili a mettere in crisi l'idea del manicomio in mezzo mondo e a spingere il Parlamento italiano a cancellare le norme stravecchie del 1903 e votare il 13 maggio 1978 (cinque giorni dopo l'uccisione di Aldo Moro...) la «sua» legge 180.
Stesa materialmente dallo psichiatra e deputato democristiano, Bruno Orsini, e incardinata sulla chiusura (progressiva) dei manicomi e la cura dei pazienti non più «detenuti» in realtà il più possibile piccole e aperte.
Il tutto nel nome di un'idea: «Io non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia». Un'utopia. Generosa ma irrealizzabile, quindi pericolosa, saltarono su gli avversari. Su tutti lo psichiatra e scrittore Mario Tobino: «Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamano i novatori, per inserirsi sono già in galera, in prigione, arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggeva, li consigliava, gli impediva. Nessuno li manteneva con amorevolezza e fermezza, li conduceva per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c'è, non esiste, deriva dalla società. Evviva!».
E il dubbio su quella legge inquietò via via perfino molti che l'avevano definita «sacrosanta». Come il deputato e poeta comunista Antonello Trombadori. Che in una sofferta intervista a Giampiero Mughini raccontò la sua tragedia personale: «Non sono in grado di soccorrere la persona che più amo al mondo». La figlia disabile: «La 180 prevede due soluzioni per chi soffre di mente: o il nulla o il manicomio criminale, riservato a quelli che ammazzano».
Era disperato, Trombadori. E furente coi «fanatici khomeinisti» che secondo lui difendevano l'«intangibilità» della legge: «Io dubito che Franco Basaglia, se fosse ancora vivo, approverebbe il loro operato. Forse direbbe, come già aveva fatto Marx, " Je ne suis pas basaglien "». Questo è il nodo. Nel momento chiave in cui la riforma avrebbe dovuto esser messa in pratica, il «Dottore dei matti» (titolo della biografia di Oreste Pivetta), non c'era più.
Cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? «Certo non avrebbe accettato che quella svolta fosse tradita», mastica amaro Peppe Dell'Acqua, discepolo e amico: «Lui aveva fatto proposte precise, suggerito soluzioni, indicato percorsi pratici. La stessa chiusura dei manicomi non fu affatto immediata. Di rinvio in rinvio arrivò vent' anni dopo. C'era tutto il tempo per fare le cose per bene. E qua e là sono state anche fatte. Ma dov' era lo Stato? Dov' erano le Regioni?
Dov' erano le aziende sanitarie?» La risposta è nel dossier della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del 2010. Spiegava il presidente, Ignazio Marino: «Se chi è internato in un ospedale psichiatrico giudiziario è lì per essere curato, abbiamo trovato un fallimento totale. In media possiamo calcolare che ciascun paziente abbia contatti con uno psichiatra per meno di un'ora al mese...». Dalla svolta erano già passati trent' anni.
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FILOSOFIA: FILOSOFUL Autor: Prof. Delia Steinberg Guzman, Preşedinte Onorific Organizaţia Internatională N-avem vreo pretenţie să fim originali pe marginea unui astfel de subiect, ci ne propunem doar sa fim novatori; în vreme ce originalul încearcă să se îndepărteze cât mai mult posibil de ceea ce este îndeobşte cunoscut, novatorul recheamă la viaţă o dată şi încă o dată aceleaşi valori fundamentale. Căci Noua Acropolă dă FILOSOFIEI aceeaşi definiţie care dintotdeauna i s-a dat: „Iubire de Înţelepciune”, nevoie ce nu suferă amânare de a dobândi ceea ce ne lipseşte, căutare a unei cunoaşteri profunde, în stare să răspundă cu adevărat celor mai neliniştitoare întrebări umane. Consecvenţi în distanţarea faţă de orice veleităţi de originalitate, mergem pe urmele învăţăturii platonice ca să punem în lumină trăsăturile caracteristice ale acelei Înţelepciuni ce constituie însăşi esenţa filosofiei. Asemenea Înţelepciune integrală este o culme care se atinge printr-un proces cognitiv dirijat în chip inteligent şi ducând de la crasa ignoranţă până la ştiinţa deplină. Cunoaşterea avansează încetul cu încetul şi nu trebuie nicidecum să eşueze în suficienţa mediocră ce, pretinzându-se ştiutoare, proclamă arbitrar drept adevăruri opinii – în cel mai fericit caz – parţial valabile. FILOSOFUL nu este un înţelept, încă nu posedă comoara înţelepciunii, o caută doar, se îndreaptă neobosit spre ea. Nu se mulţumeşte cu bogata paletă a opiniilor dominate de intelect: pe măsură ce înaintează pe făgaşul cunoaşterii, se transformă, iar cunoaşterea sa, odată ajunsă la profunzimea lucrurilor, îi devine stil de viaţă. Trăieşte o „Filosofie Activă”, cu alte.. [continuarea articolului > https://noua-acropola.md/filosofia-filosoful/] #filosofiaefrumoasa #filosofiechisinau #filosofiepractica #nouaacropolarepublicamoldova #newacropolis #phylosophy #philosopher #filosofia #filosoful #filosofi (la Chisinau, Moldova) https://www.instagram.com/p/CCXtAbMB49_/?igshid=1gpisme8ba1d8
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megavladimirblr · 4 years
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bergoglionate · 7 years
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Non il Santo Curato d'Ars ma il "prete scomodo" è il modello della nuova "Chiesa" del Papa-generale
Non il Santo Curato d’Ars ma il “prete scomodo” è il modello della nuova “Chiesa” del Papa-generale
È più che mai evidente che a papa Francesco — il cui governo della Chiesa assomiglia più ad un generalato che ad un pontificato — piace come modello di sacerdote quello che viene chiamato il “prete scomodo”, ovvero quel prete politicamente corretto che non ama la Chiesa cattolica così com’è, ma vuole cambiarla. Eppure i pontefici degli ultimi 150 anni, immediati predecessori di Francesco, hanno…
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pixanews-blog · 6 years
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Оружейные новаторы: самодельные огнестрелы, которые использовались бандитами
История помнит не мало времен, когда бедному обществу приходилось выживать как только можно. Особенно это касалось граждан, совершающие уголовные и противоправные деяния. «Узи» домашней сборки Подробнее: http://pixanews.com/prestupleniya-i-nakazaniya/oruzhejnye-novatory-samodelnye-ognestrely-kotorye-ispolzovalis-banditami.html
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dontresal · 6 years
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Presentazione di Mons. Vincenzo Restivo
Mio chiarissimo Preside,
grazie per l’invito e per lo spazio, e consentimi di ridurre al minimo le nostre formali distanze professionali e darci le dimensioni del cuore, della stima e della gratitudine. Tu, illuminato docente e preside di lungo corso in prestigiosi istituti scolastici, continui ad impegnarti nella nobile missione di estrarre l’uomo d’oggi dalla caligine invadente e dalla dispersione dei valori, osando tuttavia tempo e fatica per dare sfogo alle tue tante attitudini culturali. Ho letto con grande interesse le tue rivisitazioni della storia di gloriosi istituti scolastici di Canicattì, come la Scuola ”Salvatore Gangitano” e il Tecnico “Galileo Galilei”, nel quadro dell’evoluzione culturale ed economica della nostra città. Ho apprezzato lo stile brillante e la sottile ironia con la quale hai affrontato vicende e personaggi locali come l’Accademia del Parnaso ed il poeta dialettale Peppi Paci. Particolarmente corposa e saporosa mi è apparsa la biografia del barone Agostino La Lomia, da te definito “un gattopardo nella terra del Parnaso”, che ha avuto numerose gratificazioni da parte di autorevoli critici. Dire poi della tua “La Canicattì di mons. Restivo”, mi suona un’autoreferenza che, onorandomi, mi mortifica. Cicero prò domo sua!
E, tornando alle distanze, in tutto questo io, modesto lavoratore nella vigna del Signore, vorrei “mettere vino nuovo in otri vecchi” che sanno di spregiudicati secolarismi e di aridi laicismi. E, a 94 anni suonati, mi sento ancora di essere, di fare, di dare… e di incontrare te, mio carissimo figlioccio, in questa tua nobile fatica. E sai perché questa prolissa e più opportuna captatio benevolentiae? Per dirti un sentitissimo “grazie”: mi hai tolto dalla coscienza un grosso peso penitenziale che mi mordeva da anni, quello di non essere riuscito io a dare ordine al tanto materiale documentario che gelosamente ho raccolto e prodotto sulla vita, il pensiero, l’apostolato del nostro concittadino mons. Angelo Ficarra. “dotto e santo” che onora l’episcopato del ventesimo secolo e Canicattì sua diletta patria natale.
A me il tempo e il lavoro l’hanno vietato. Tu, invece, con sapienza di maestro e certosina pazienza nella ricerca, nel coordinamento, nella vasta consultazione dì carte e di testi, hai dato a Canicattì, alla chiesa di Sicilia e passi, un documento di alto valore sociale e religioso che forse farà scalpore. Compiacimenti e… ad meliora; mi ci sento coinvolto e ne godo.
Sono stato alunno, uditore delle “nenie domenicali” sapienti e incisive del Ficarra. Fatto prete e arciprete-parroco e quindi suo successore in Canicattì, me ne sono fatto un modello di pastore e di maestro sulla scia dei suoi “Grandi Amori”: Liturgia, Catechismo, Carità. Ho portato avanti il suo impegno nella direzione dell’Istituto S. Angela Merici e nelle tante attività formative dalla San Vincenzo all’Azione Cattolica e al Movimento dei Laureati Cattolici.
Nella stima e nel devoto affetto mi sono ritenuto in filiale obbligo di onorarne e la vita e la morte nel modo più solenne. Le partecipazioni sono state plebiscitarie sia di vescovi sia di autorità civili e di un popolo esultante e commosso, così da far dire: neppure per padre Gioacchino… Ne sono scaturiti numeri unici, la pubblicazione delle lettere pastorali e, nel 1986, un’artistica “memoria” per il centenario della nascita, il cinquantenario della consacrazione episcopale, il venticinquesimo della morte. La salma imbalsamata dal prof. Del Carpio si conserva in Matrice in un bel sarcofago con relativo mezzo busto del prof. Lo Giudice.
Mi sono dilungato non perché ne voglia lode ma come anticipata excusatio per quanto segue sul tuo “Ficarra – La giustizia negata”. Tu, caro Preside, ti sei avventurato e districato nella “selva selvaggia e forte” della spinosa vicenda sofferta santamente dal Ficarra, che ha avuto ampia risonanza soprattutto per il pamphlet di Leonardo Sciascia Dalle parti degli infedeli e sei riuscito a “rivedere le stelle” tra gli “osanna” delle Palme e i “crucifige” del Venerdì Santo. Ebbene, in qualche modo, proprio io che auspico sugli altari, ampiamente meritati, il “dotto e santo”, mi sento il povero “Pilato”, perplesso e profano nella cabala degli scribi e farisei lontani mille miglia dalla concezione religiosa degli Augusti della Roma pagana. Piiate tutore e garante dei poteri delle 12 tavole o in cerca di detergenti per la purificazione delle mani… ad un certo punto al suo Ecce homo domanda: “Cos’è la Verità, ov’è la Verità?”. La risposta è stata negata. Jesus autem tacebat, scrive San Giovanni. Gli anatomisti del Vangelo l’han trovata. E Lui in persona, il Cristo, la Verità: Io sono la Via, la Verità e la Vita. Cristo è la risposta alla domanda dell’uomo: dinanzi al cieco Giudice romano e dinanzi agli analisti del pensiero e della psiche, di ieri e ancor più di oggi. Una risposta univoca ed esaustiva non è stata trovata e data, da Protagora a Platone ed Aristotele e giù giù fino a Cartesio, Kant, Russell. Ognuno vuole la sua porzione e la tunica inconsutile del Cristo – sìmbolo di verità – è “divisa in quattro parti”. Ecco il mio sofferto problema, e chiedo venia nello spirito di un non sospetto maestro. “Non condivido la tua opinione, ma son disposto a dare la vita per difenderla” (Voltaire).
E mi chiedo. Possiamo noi dare serenamente un giudizio definitivo, senza offendere la maestà della verità, nella sostenuta presunzione di “giustizia negata”? Non mi sento uno sprovveduto, tanto meno di parte, e so anche quanti nella Chiesa e proprio “dalla Chiesa” hanno sofferto ingiustamente. E penso al cardinal Ferrari e a mons. Cognata, a P. Pio da Pietrelcina, a don Milani… e su su fino al Savonarola, al Galilei, a Giovanna d’Arco, senza scomodare le Guerre di Religione e di Re e Papi. E Dio spesso è costretto a scrivere dritto in righe storte… e cavare il bene dal male nel corso della storia.
Mons. Ficarra, per temperamento nativo, per la sua profonda formazione culturale umanistica, per la sua sconfinata paterna comprensione delle miserie umane e, mi permetto di aggiungere, forse anche per una inconscia suggestione dello Spirito, rifletteva la tolleranza misericordiosa del Padre che “fa i conti col figlio più giovane” e gli permette le avventure di cuori sognanti. L’attende, l’accoglie, fa festa…, col mugugno del fedelissimo fratello maggiore che rimane alla porta. Il Sillabo nella correttezza dell’essenziale tentò l’esuberante fanatismo dei “novatori” ma fece le vittime oggi riabilitate. Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, una graduale maturazione delle idee e degli indirizzi hanno spazzato le nebbie e ci hanno ricondotto allo spirito del Vangelo. “Non sono venuto per i giusti ma per i peccatori… e si fa giù tanta festa per il peccatore pentito piuttosto che per il servo fedele: “Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa”. Ha ragione il poeta pagano. “Ci sono confini al di qua e al di là dei quali si corre l’errore”.
Il Ficarra, sempre attento, zelante, intraprendente e talvolta dirompente – penso alla sua vivace polemica in favore degli operai nel quindicinale Il Lavoratore di Ribera, penso alle sue Meditazioni vagabonde – fermamente critico contro usanze festaiole paganeggianti – penso all’amicizia con Buonaiuti e Murri, Collaboratore fedelissimo del battagliero vescovo Peruzzo e successivamente come vescovo a Patti, il Ficarra -va tenuto in conto – lentamente, e per gli anni e per taluni disturbi fisici non bene avvertiti e tempestivamente curati, dava segni di stanchezza e di disattenzione alle insorgenze socio-politiche, nonché a talune sbavature di preti esuberanti e diversamente chiacchierati. Recepiva e trasmetteva fedelmente le direttive che da Roma provenivano su clero e laicato nella complessa e scomposta bagarre politica, ma non sembrava tenersi alla pari con tanti confratelli dell’episcopato siciliano mobilitato in difesa dei valori cristiani e della democrazia. Col senno di poi si può eccepire sul collaborazionismo chiesa-partito, sui Comitati Civici di Gedda, sull’atteggiamento e la scomunica di Pio XII e si può eccepire sui preti politicanti sulle bigonce e nelle piazze; si può contestare su Madonne piangenti e pellegrinanti, ma l’Italia restava la sola barriera contro ideologie e carri armati che avevano invaso la Mitteleuropa. Di certo a Patti e diocesi “preti ribelli” e dissenzienti legati al carro di forze sotterranee, rocciatori di partito, sfruttanti il riserbo prudenziale del vescovo che si sentiva padre di tutti al di sopra delle fazioni, giocarono il ruolo dirompente del tessuto ecclesiale.
Si voleva forse fare del Ficarra un nuovo Pietro l’Eremita nella crociata contro il Saladino. Scrisse il buon pastore: “Non mi sono piegato alle pretese insane e losche di tre o quattro preti megalomani”. Ma erano solo quattro, ovvero con loro l’orchestra investiva una platea più vasta? Annota qualcuno bene informato: “II presule si trovò a svolgere il suo ministero episcopale in una zona dominata da quel tristo intreccio tra massoneria, affari e mafia che vide tra i suoi principali esponenti il faccendiere Michele Sindona nativo di Patti”. La scomposta bagarre non si accese e si spense tra le mura delle sacrestie o delle segreterie politiche ma, bene orchestrata, pervenne intenzionalmente alle rive del Tevere. Qualcuno, tonacato. scrisse: “E’ vergognoso, se non delitto imperdonabile, che ciò sia avvenuto a Patti, sede del Vescovo. Dappertutto si lavora per Dìo. a Patti si lavora per Satana”. Destinatario il card. Piazza, nella qualità di presidente della Congregazione Concistoriale e pertanto il tutore e il garante della ortodossia dottrinale e disciplinare della Chiesa universale. Saremmo curiosi e divertiti a conoscere l’intricato carteggio di andata e ritorno tra Patti e Roma; ma siamo sub secreto Sancti Officii e la gran parte dorme i sonni eterni delle catacombe vaticane. Conosciamo appena quanto il Ficarra “ha gelosamente conservato” e che i nipoti hanno poi affidato a Leonardo Sciascia. Domanda: tutte le carte sono state conservate e consegnate e tutte lo Sciascia ha pubblicato? Non ne dubitiamo ma corre la tentazione. La storia, la grande e la piccina, non ne corre il rischio se è vero, come è vero, che la storia la scrive chi non la fa da Erodoto al Muratori a Renzo De Felice per il fascismo?
Un giorno mi chiama mons. Peruzzo e mi dice: “Sono stato a conferire col card. Piazza, l’ho trovato duro come una roccia… Vada Lei che, come concittadino e successore nell’arcipretura, conosce bene quel sant’uomo del Ficarra. Lui non sa nemmeno come si facciano certi peccati”. Pivellino, ultimo della classe, mi sono risparmiato il biglietto ferroviario. Il card. Piazza ha due orecchie e due occhi: ascolta le due campane e legge gli spartiti che vengono da mille e più chilometri dalla chiacchierata Sicilia. Legge, riflette, si consulta e prega. Anche lui come Filato: “Cos’è, dove sta la Verità?”. La diocesi soffre, i preti sono Orazi e Curiazi, le correnti di sud e tramontana soffiano e scombinano teste e busti; i labirinti di mafia e massoneria fibrillano: il Regno di Dio è diviso e il buon popolo è “strumento cieco di occhiuta rapina”. Tutto per colpa del Ficarra! Ma mons. Angelo è il capro espiatorio per un popolo giocato dalle mene oscure di forze opposte: siamo al Cristo dinanzi al pretorio di Pilato. Scrive il buon Padre: “Noi abbiamo superato tante tempeste con la forza tenace del silenzio e la fiducia in Dio”. Ma Roma non può, non deve tacere.
E allora? Da Roma mandano l’ausiliare; non è tutto, ma non è niente; in qualche modo, con un po’ di intelligenza e un po’ di diplomazia, dividendo i compiti, si può salvare il salvabile. E’ prosaico? Viene scelto ed eletto don Giuseppe Pullano nativo di Pentone: ha ben operato, ha le carte in regola con la curia e da’ sufficiente garanzia di convivenza e di efficienza per sanare la situazione e dare maggiore impulso alle esigenze pastorali. Il rimedio non da i buoni frutti sperati: una formale diarchia che purtroppo chiarisce meglio le differenze tra conservatori ed innovatori, arroccati alle porte dei due vescovi come i bravi davanti alla stanza di don Rodrigo. Le diarchie e peggio i triunvirati nella Roma dei cesari e dei papi non hanno avuto né lieti mattini né tramonti sereni. Historia docet!
Altre lettere, altri mugugni: ormai sono in due a soffrirne. L’ausiliare la vince ed è promosso amministratore apostolico sede piena: cioè mons. Pullano è tutto, il Ficarra l’ombra di se stesso… che purtroppo fa ombra al suo superiore. E’ brutto quel che scrivo ma è vero e, così stando le cose pastorali in diocesi, la salus reipubblicae prevale. Mi sovviene e considero. Da tribunale a tribunale Gesù è dinanzi a Caifa. sommo sacerdote; qualcuno alza la voce dicendo: “Ma, in sostanza, che male ha fatto quest’uomo?”. Caifa ha sentenziato, profeta inconscio: “Non avete capito nulla e non capite che è meglio che muoia quest’uomo per il popolo, piuttosto che perisca tutta la nazione?”. L’amore ha già pagato: ma “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli senza prepararne una più grande in cielo”.
Siamo nell’estate 1957. Da anni il Ficarra preferisce trascorrere le ferie nella sua amata Canicattì: tra casa e chiesa e qualche fuga fuori porta; legge, studia, soprattutto si raccoglie in profonda preghiera; riceve e scambia visite di convenienza, umilmente. Il mattino del 2 agosto strano: è la festa di S. Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo di S. Agata dei Goti, messo a riposo dai suoi stessi figli redentoristi compra e legge nel Giornale di Sicilia delle sue volontarie dimissioni da vescovo di Patti e della promozione ad arcivescovo di Leontopoli inpartibus infidelium; con ironia forse involontaria è destinato ad una diocesi dei tempi oscuri che si perde nella nebbia dell’essere o del non essere. Cosa è avvenuto? La curia ha affidato all’arcivescovo di Catania Bentivoglio il delicato compito di comunicare e consegnare la lettera dimissoriale. Caso dei casi la lettera arriva e giace sulla polverosa scrivania. Il Bentivoglio è assente, in pellegrinaggio. “Il caso è lo pseudonimo di Dio quando nasconde la mano”.
Abitualmente celebra nella chiesa di Maria SS. degli Agonizzanti, la rettoria delle sue figlie spirituali, le orsoline, consuma la sua colazione di caffellatte e ciambelle. Di solito io l’accompagno a casa. Una mattina di un giorno che non ricordo lo trovo a passeggiare concitatamente, contro il consueto. Caccia la mano in tasca e mi porge a pugno chiuso una carta: è un telegramma. Leggo e agghiaccio: “II giorno x – anche qui la memoria mi tradisce – il card. Ruffini mi darà il possesso della diocesi. Firmato Pullano”. Mesto glielo riconsegno e col soffio della voce mi sussurra: “Così si fa?”. E nulla più né ora né in futuro. Da indagini da me condotte risulterebbe che il telegramma non venne dalla curia di Patti; sta di fatto che nel giorno dell’insediamento del Pullano il Ficarra non ricevette nessun altro invito. L’ombra di Banco facea ombra, certo qualcosa sarebbe suonato fuori diapason. Ma lo schiaffo colpì le due guance con l’atroce compiacimento delle opposte parti. Qualcuno, sprovveduto o con malizia, osò un giorno domandargli: “Eccellenza, non torna più a Patti?”. “Anche da Canicattì si può andare in paradiso”. “Il mio nome è scritto in cielo” diceva la piccola sua santa Teresa del Bambino Gesù. E veniamo finalmente a Leonardo Sciascia e al suo pamphlet Dalle parti degli infedeli. Anche a lui il mio grazie perché, proprio in grazia di questo giallo, il caso Ficarra e la sua figura hanno ricevuto l’aureola della vittima, il suggello del martirio bianco, proprio a merito e grazia di uno scrittore che coi preti ce l’aveva: vedi Todo modo, Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia. Certo la Sicilia deve anch’essa molto al suo figlio di Racalmuto, ma forse non sempre meritoriamente se con i suoi libri ha esportato la ingloriosa fama di mafia, intrallazzi, stragi e consorterie di malaffare, al punto che la gloria di Federico II, di Ruggero, di Rosalia e del Meli quasi si è maculata con Giuliano o Ciaculli e i tanti morti ammazzati.
Ma torniamo al tema. Claris verbis io non condivido la sua impostazione e la conclusione perentoria: e pertanto mi pongo tra gli infedeli al suo assunto. Ficarra non è solo la vittima ma anche il “dotto e santo”; lo Sciascia nessun rilievo laicisticamente dà del Ficarra che prima di essere l’episcopus è l’’homo Dei e l’homo hominis che vuole costruire la città di Dio tra gli uomini sparsi in un secolarismo chiuso all’eterno e ancora prigioniero della triplice tentazione di Gesù nel deserto. Homo homini lupus. E oso domandargli, ripeto: i documenti usati sono tutti quelli intercorsi ovvero il vento o il venticello qualcuno se l’è involato?
E se tutti fossero riportati integralmente e non a spizzichi, non potremmo più a nostro agio riscontrare la correttezza della interpretazione conclusiva? Ma dal “citato” emerge chiara una tesi non dimostrata né dimostrabile se non nella luce della fede e della provvidenza che d’altronde oggi trascende la possibilità della piena risposta alla domanda di Filato: “Cos’è, o dov’è la Verità? I vellutati pizzicorini e le chiare stoccate toccano un po’ quasi tutti gli interlocutori di chiesa e ciò mi persuade dello spirito laicistico di vedere una certa chiesa santa e peccatrice nella quale proprio il Ficarra vive, opera e soffre nello stile del Maestro che ha un cruento Venerdì Santo ma poi l’apoteosi del “Terzo giorno”. II card. Piazza non mi parrebbe lo Javert dei Miserabili che a qualsiasi costo vuole accoppare il riabilitato Jean Valjean né lo metterei nelle fauci del conte Ugolino come il collega arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Il modo talora può offendere, ma la prassi curiale e il dizionario d’uso possono indurre a coinvolgere la sostanza nell’accidente della diplomazia: ma c’era scottante una situazione gravissima da risolvere.
Questo a un dipresso ebbi a dire allo stesso Sciascia quando è venuto a Canicattì, nel salone del Municipio, a presentare il suo libro. L’avv. Diego Guadagnino, caro amico ed egregio professionista forense, fu l’efficace ed argomentato relatore. Sposava la tesi sciasciana e se ne faceva arguto difensore, forse anche tocco da un certo affettuoso campanilismo. Quando, alla fine del dibattito, tra molti espressi la mia modesta opinione, lo Sciascia, asciutto asciutto, mi liquidò così: “Per me Ficarra è questo, se vuole se lo prende”. Anche questo nello stile del tutto già detto.
Chiudo in bellezza. In occasione del cinquantesimo di sacerdozio del Ficarra compilai una deliziosa Antologia di attestati unanimi motivati e commoventi provenienti da vescovi, autorità, personalità di grosso calibro riportati in un elegante volume commemorativo.
Consentimi di farti omaggio conclusivo con un talloncino del card. Ruffini che recita testualmente: “La Sua modestia e riservatezza hanno impedito ad alcuni in passato di apprezzarla come merita; i pregi di Vostra Eccellenza appaiono oggi più smaglianti che mai. Ella, studiosa com’è, sa che la storia è piena di esaltazioni immeritate e di grandi valori trascurati”. Davvero anche da Canicattì si va in paradiso… ma gli altari attendono il “dotto e il santo”. Che sia!
Vincenzo Restivo
Saggio introduttivo di Diego Guadagnino La santità reietta
Volentieri ho accettato l’invito del professor Gaetano Augello a scrivere questa nota introduttiva alla biografia di monsignor Angelo Ficarra, che, per le qualità e lo spessore della sua personalità, il passare degli anni rende sempre più vicino alla sensibilità e alle problematiche dei suoi posteri. Se il volumetto sciasciano, sulla nota vicenda della sua rimozione da vescovo della diocesi di Patti, lo ha fatto conoscere al grande pubblico, la biografia scritta adesso da Augello, pregevole per la ricchezza di documenti consultati e di notizie raccolte, rivela gli aspetti intimi dell’uomo, il prestigioso retaggio culturale, le scelte che ne hanno segnato la vita, dandoci così un’opera destinata a diventare punto di riferimento imprescindibile per quanti in futuro si vorranno cimentare con la figura e l’opera di Angelo Ficarra.
Già nel dicembre del 1980, ebbi ad interessarmi di monsignor Ficarra, allorquando fui incaricato di introdurre e moderare il dibattito con Leonardo Sciscia, venuto a Canicattì per presentare la sua opera Dalle parti degli infedeli (titolo che inaugurò la collana selleriana “La Memoria”), uscita nell’anno precedente. Ricordo che in quella circostanza avviai il discorso rilevando come nelle locandine che pubblicizzavano l’evento, per un refuso tipografico che cambiava Dalle con Dalla, era stato erroneamente scritto Dalla parte degli infedeli; citando Savinio, autore amato e apprezzato da Sciascia, dissi che quel refuso definiva più correttamente e forse più profondamente la vicenda del vescovo Ficarra, che, relegato in mezzo agli infedeli, proprio da questi ora gli veniva rivendicata quella giustizia che gli era stata negata dai suoi. Commentando tale notazione, più tardi, Sciascia osservò che spesso ” gli innocenti errori di stampa denudano le verità costruite dagli uomini”.
Annoverai la figura di monsignor Ficarra tra i personaggi creati dallo scrittore, dal professor Laurana a Candido Munafò, tutti accomunati da quel particolare e scomodo “candore” che Bontempelli aveva visto in Pirandello affermando che “l’anima candida è divinamente incauta”. Per tale divino attributo, presente nell’uomo in maniera macroscopica, e per la sua emblematica vicissitudine col potere (che fosse ecclesiastico è di secondaria importanza), Angelo Ficarra rientrava di diritto nel pantheon dei personaggi sciasciani.
  Tra gli altri, erano presenti al dibattito, tenutosi nella sala consiliare del Comune, l’avv. Calogero Corsello, l’onorevole Giuseppe Signorino (a cui Sciascia rivolse un caloroso “Ma noi ci conosciamo”, accolto con perplessità dall’onorevole che non ricordava in quale occasione si fossero incontrati), l’arciprete don Vincenzo Restivo, il prof. Angelo La Vecchia, il prof. Gaetano Ferreri. A ogni intervento, Sciascia puntualmente mi chiedeva sottovoce “Cu è chistu?”, tanto che finii per prevenire la domanda assecondando la sua legittima curiosità ogni volta che qualcuno si alzasse per parlare.
L’ultimo e il più memorabile intervento fu quello dell’arciprete, il quale, premettendo la sua stima per lo scrittore la cui grandezza era ormai “riconosciuta dentro e fuori le mura”, passò ad accusarlo di avere utilizzato mons. Ficarra per scrivere un libro che nello spirito risultava volterriano ed anticlericale. Rispose Sciascia che lui da laico non si poneva problemi di tal genere. Al che monsignor Restivo propose una domanda nuova: “Visto che lei nelle sue opere dimostra di avercela tanto con la Chiesa, non sarà che per caso da bambino abbia subito qualche trauma nel rapporto con i suoi rappresentanti?” Sciascia, lievemente sorridendo a quel tipo di domanda, precisò: ” Monsignore, io non ho subito nessun trauma nell’infanzia. Le mie posizioni scaturiscono dal ruolo che la Chiesa ha avuto nella storia nel corso dei secoli.” “Per esempio?” “Ma non pretenderà che io le faccia qui tutta la storia della Chiesa.” L’arciprete riprese dilungandosi in altre valutazioni critiche sull’aver pubblicato delle lettere che avrebbero dovuto far parte del patrimonio esclusivo della Chiesa. Lo scrittore lo interruppe, ora ponendo lui una domanda precisa. “Secondo lei, monsignore, questo libro si doveva scrivere o non si doveva scrivere?” L’arciprete ci pensò sopra qualche istante e quindi rispose: “Secondo me, no.” “Appunto per questo l’ho scritto” concluse l’autore, alzandosi e ponendo fine al dibattito, mentre dalla sala si levava l’applauso finale.
Non c’è dubbio che il giudizio di mons. Restivo, sulla opportunità del libro, riflettesse, nella sua estrema sintesi, il disagio di una Chiesa venutasi a trovare nella necessità di dover fronteggiare un dibattito, provocato da parte laica, su un suo ministro, che, morto vent’anni prima, avrebbe preferito dimenticare in coerenza con l’emarginazione a cui l’aveva condannato da vivo. Quel disagio, probabilmente, nasceva dalla consapevolezza che mons. Ficarra fosse stato vittima di un’ingiustizia, ma che, nel contempo, non si sapesse ancora come affrontare e riconoscere pubblicamente tale fatto: tipico dilemma che il potere come entità storica istituzionalizzata crea nelle coscienze dei suoi subordinati, quando fatti che ripugnano al comune senso di umana dignità si siano resi necessari alle sue ragioni. E tale consapevolezza negli ambienti ecclesiastici doveva essere presente e viva già all’indomani della scomparsa del presule, se nella sua casa d’affitto in via Magenta a Canicattì, allora abitata dal fratello Calogero, si presentarono a reclamarne l’archivio privato, e con interesse particolare la corrispondenza, in un primo momento esponenti del clero locale, in un secondo momento il segretario della curia vescovile di Agrigento e ancora successivamente, considerato l’inamovibile diniego dei familiari, un prelato venuto da Roma, che reiterò la richiesta minacciando scomunica. Minaccia che non sortì l’effetto voluto e l’archivio dopo qualche tempo, per volontà dei nipoti Angelo e Luigi Ficarra, approdò, escluse le lettere ed inclusa la biblioteca, all’Istituto Gramsci Siciliano: in partibus infidelium, appunto.
Il quadro del caso Ficarra nell’ambito della cultura cattolica, oggi, a ventotto anni dall’uscita del libretto sciasciano, appare mutato, ma non univoco. Negli anni si sono succedute diverse prese di posizione con letture differenti dei fatti, evidenziando come a tutt’oggi non sia possibile parlare di una sua definitiva chiusura. Valgano in tal senso due pubblicazioni, che Augello ha diligentemente compulsate per la stesura della suo saggio biografico e che in questa sede vengono evocate e citate a titolo esemplificativo. Parlo dei due volumi Mons. Angelo Ficarra Vescovo di Patti (1936-1957) a cura di Alfonso Sidoti, Patti 1999, e Mons. Giuseppe Pullano Vescovo di Patti (1957-1977) a cura di Basilio Scalisi, Patti 2005, che contiene un capitolo a firma di Pio Sirna, docente dell’Istituto Teologico Diocesano “Mons. Angelo Ficarra” di Patti, sul “problema Ficarra”.
Il Sirna, pur riconoscendo “le modalità repellenti” con cui l’intervento della Santa Sede è stato attuato, ne avalla in toto le ragioni sintetizzandole nelle inadeguate condizioni fisiche di Ficarra e nella conseguente “mancanza di slancio missionario”, in un momento in cui Roma auspicava e si aspettava dai vescovi una pastorale in forma di crociata anticomunista, improntata allo spirito della guerra fredda iniziata con la fine del secondo conflitto mondiale.
“Il contendere, dunque,” scrive Sirna “ci pare che abbia per oggetto non tanto un semplice scontro tra due personalità forti, Ficarra e Piazza, durato ben sette anni, quanto piuttosto e soprattutto il bisogno romano di tenere una diocesi, anche se marginale nello scacchiere italiano, al centro dell’aspra lotta di difesa della civiltà cristiana”. Ma tale tesi non convince e soprattutto non regge al vaglio dei fatti. E che sia così viene fuori dall’analisi condotta, sempre in casa cattolica, da mons. Alfonso Sidoti, il quale, nel suindicato testo, con specifico riferimento al presunto pericolo dello spettro comunista che si sarebbe aggirato in quel di Patti e alla impellente necessità di combatterlo, scrive: “A Patti e nell’intera diocesi, le elezioni del 1946 (quelle per la Costituente) e soprattutto le politiche generali del 1948 avevano decisamente sbarrato il passo al Fronte Comunista. Era quello, in quei tempi, l’impegno principale della Chiesa, sul piano politico. Il 18 aprile 1948, nella diocesi di Patti, “la Democrazia C. ha avuto 46.000 voti; tutti gli altri partiti insieme 50.000 dei quali il blocco popolare (i socialcomunisti) solo 13.500, come leggiamo nella Relazione sull’attività dell’A.C.I. per l’anno 1948, inviata alla Sede centrale dal Presidente Diocesano dell’A.C.I.. Da tale impegno mons. Ficarra non si era affatto estraniato.”
Altrettanto puntuale e motivata appare l’analisi delle reali contingenze in cui la D.C. si trovò ad affrontare la campagna elettorale delle amministrative del 1946 dalla quale uscì sconfitta. “E’ noto a tutti” riferisce Sidoti “che, a Patti, la Democrazia Cristiana stentò a nascere. Non c’erano personaggi di spicco, che avessero militato nelle file del Partito Popolare di don Sturzo. L’Azione Cattolica qui si era formata solo dopo il 1932 e non aveva avuto il tempo di offrire alla politica persone preparate per i nuovi compiti.”
Un particolare curioso che risalta dal confronto dei testi di Sirna e Sidoti e che merita di essere qui additato all’attenzione del lettore è che entrambi si soffermano su due biglietti autografi del vescovo per ricavarne valutazioni di segno opposto. Osservando i due autografi, Sirna ritiene di intravedervi “uno scrivere faticoso, tendente a caricarsi di singolarità, tremolante”, che “sembra mostrare i segni di una progressiva difficoltà ad autodeterminarsi” e quindi, una prova delle precarie condizioni fisiche che resero necessaria la discussa promozione. Al contrario, mons. Sidoti, di uno dei due autografi afferma “Questo biglietto nella sua sconcertante semplicità, ci svela il vero animo del vescovo e basta da solo a smentire le accuse accumulate contro di lui”; mentre trova l’altro autografo “scritto con la grafia inimitabile e inconfondibile di mons. Ficarra. E’ la bozza di una lettera, immune da ripensamenti o correzioni.”
Tralasciando ogni altra valutazione di merito, le discordanti letture del caso Ficarra, provenienti dalla stessa matrice cattolica, denotano che la rimozione o defenestrazione, come la chiama Augello, non ha avuto una base oggettiva e concreta a suo fondamento e men che meno il pericolo comunista nell’ambito della diocesi pattese. Fu piuttosto un evento maturato in quel torbido clima di fanatismo integralista indotto dalla politica di Pio XII e propugnato dai comitati civici di Gedda. In particolare si trattò di un atto di isteria repressiva che in quel contesto specifico faceva di Angelo Ficarra una vittima quasi predestinata. E tale sacrificale qualità discendeva dalla sua biografia, dalla sua identità culturale, dalle scelte che avevano caratterizzato il suo apostolato, e in ultimo, ma non in misura meno determinante, dalla sua indole infinitamente lontana da ogni forma di intolleranza e di fanatismo, due modalità di fare apostolato che in quel momento il Vaticano, invece, anteponeva a ogni altra. La sua indiscussa santità, il suo tanto lodato spirito di carità, in teoria gli attributi primari e più preziosi di una pastorale cristiana, in quel contesto non servivano e non lo salvarono dall’emarginazione punitiva, anzi in parte ne furono la causa. Alla santità furono preferiti il fanatismo e l’intolleranza. E vinse l’intolleranza accecata dal fanatismo.
Il rapporto tra l’inquisito Angelo Ficarra e l’inquisitore Adeodato Giovanni Piazza, a questo punto, si erge in tutta la sua umana imponenza e senza la copertura istituzionale che artificialmente attutisce la muta sofferenza di un uomo giusto ingiustamente condannato e l’accanimento persecutorio di un altro uomo che mette al servizio dell’Istituzione la parte peggiore di se stesso, e siamo propensi a credere con le migliori intenzioni, che in tali frangenti si fanno discendere dai fini. I due uomini, che s’incontravano e si scontravano all’interno di quella vicenda, provenivano da percorsi diversi: una diversità che certamente pesò su quel rapporto e pesò a tutto discapito del soccombente. Angelo Ficarra era entrato in Seminario ubbidendo a una vocazione autentica e totale. Memorabili le parole che scrive nel suo diario: “In Seminario, o mio Dio, la mia mente è più unita a Voi, il mio cuore gusta maggiormente le caste gioie del Vostro amore, il mio corpo ubbidisce completamente all’anima.” Quest’ultima frase gli risuona dentro come un programma di vita che svolgerà con dedizione assoluta e con impeccabile rigore. Il corpo è il territorio del rapporto possessivo con il mondo, in esso convengono gli appetiti, le ambizioni e le vanità che distolgono dall’anima e Angelo ha optato per quest’ultima. Ma vivere nell’anima non vuoi dire chiudere le porte alla terra, ma cristianamente abitarla nel disinteresse per sé e nella dedizione per gli altri e soprattutto per i più bisognosi, giacché solo l’uomo liberato dalla miseria materiale può intravedere, capire e gustare i tesori di una religiosità vissuta. Aiutare gli altri a riscattarsi dalla povertà, dalla superstizione, dall’analfabetismo è il modo più concreto ed efficace di avvicinarli a Dio.
E il giovane prete, confortato da tali intuizioni, profonde le sue risorse intellettuali sulle colonne de Il Lavoratore, il periodico fondato da don Nicolo Licata, arciprete di Ribera, dove Angelo Ficarra viene assegnato non appena ordinato. Su quel foglio viene pubblicando, tra l’altro, le Meditazioni vagabonde, che costituiranno il nucleo originario di quell’eccezionale saggio sulla religiosità popolare che, col titolo Le devozioni materiali, uscirà postumo perché censurato dai suoi superiori. Istituisce una scuola serale per i contadini. Indirizza le sue simpatie verso il modernismo. E in virtù del suo indefesso impegno sociale riscuote un pubblico attestato di stima da parte del deputato repubblicano Napoleone Colajanni. La dedizione verso il prossimo, tuttavia, non gli impedisce di attendere agli studi umanistici, dedicandosi alla compilazione della sua mirabile monografia su san Girolamo. Se si volesse dare un nome allo spazio psicologico o alle direttrici entro cui si svolge la vita di Angelo Ficarra non ci sarebbe definizione migliore del bel titolo di un libro di Jean Leclercq, L’amour des lettres e le dèstre de Dieu. In tali contesti viene a contatto con uomini come Ernesto Buonaiuti, uno dei maggiori teorici del modernismo, punito per le sue convinzioni sia dalla Chiesa con la scomunica che dal fascismo con l’allontanamento dalla cattedra universitaria. Intrattiene rapporti di amicizia e di collaborazione culturale col suo concittadino Calogero Angelo Sacheli, filosofo, docente universitario, laico e socialista. Nominato arciprete a Canicattì, vi fonda l’Azione Cattolica, i cui locali una notte del luglio 1923 vengono incendiati dai fascisti. E’ il periodo in cui imperversa lo squadrismo che porterà alla soppressione della democrazia. I fascisti di Canicattì, nel gennaio 1925, fecero una sfilata in corso Umberto, inneggiando alla instaurazione formale della dittatura; in quell’occasione, scrive Luigi Ficarra in una e-mail inviatami nel giugno 2007, “il fratello di Angelo Ficarra, Vincenzo, aderente al Partito Socialista, che era seduto al Circolo degli Operai, coerentemente non si alzò e non si tolse il berretto. La sera tardi, tornando verso casa, venne, al buio, aggredito lungo la strada da una squadra di fascisti, che lo colpirono ferocemente a manganellate sulle spalle. Riuscì a trascinarsi a casa, ma ne uscì a febbraio con i piedi davanti, chiuso in una bara. Il 15 febbraio 1925 Angelo Ficarra, che sapeva dell’aggressione fascista al fratello, ma non aveva la prova, così scriveva su la <i, riferendosi all’incendio del Circolo: quale meta hanno raggiunto i nostri nemici…con l’insultarci, il danneggiarci ed incendiare il nostro circolo? Chi poteva mai sognarlo che Canicattì…doveva avere oggi un gruppo di giovani forti e votati a qualunque cimento… ?”
Tale retaggio culturale, sociale e familiare poneva lontano mons. Ficarra dall’ideologia del fascismo, e l’ormai famoso “incidente diplomatico” di Librizzi non può essere letto come un fatto episodico senza alcun nesso causale con la sua storia personale e con la sua concezione dell’impegno religioso nella società civile. Lo stesso dicasi della la sua adesione, nell’estate del 1950, all’Appello per la Pace di Stoccolma, promosso dal movimento dei “Partigiani per la Pace”. Pur essendo in pieno clima di anticomunismo viscerale, di caccia alle streghe e di scomunica papale infetta ai comunisti, egli non esitò ad apporre la sua autorevole firma su quel documento, accanto a quella di tanti rappresentanti del movimento operaio internazionale. Non si può fare a meno di rilevare come la politica vaticana negli anni fosse cambiata, irrigidendosi, chiudendosi al dialogo con le forze laiche progressiste e facendosi, così, sempre più lontana ed estranea ai modelli a cui si era ispirata la formazione e l’opera del Ficarra. Il tragitto involutivo del Vaticano, ovviamente, non poteva che risolverei in una strisciante delegittimazione della sua figura.
Nel momento in cui il suo caso arriva alla Congregazione Concistoriale in persona del suo prefetto cardinale Adeodato Giovanni Piazza, mons. Ficarra (e qui ci sia consentita a titolo esplicativo la metafora giudiziaria) si trova nella situazione del soggetto, ritenuto socialmente pericoloso, che gli organi di polizia propongono per la misura di prevenzione: non si è reso colpevole di nessun preciso fatto di reato, ma i suoi trascorsi e le sue frequentazioni lo rendono passibile della misura dell’obbligo o del divieto di soggiorno. E in quel particolare momento di integralismo asfittico il curriculum del presule canicattinese non deponeva a suo favore per sfuggire al “divieto di soggiorno nel Comune di Patti”.
Tanto meno l’incaricato rappresentante della Congregazione Concistoriale era la persona idonea a valutare, a giudicare con il distacco e l’obbiettività necessari le calunnie imbastite nei suoi confronti. Mons. Piazza, a cui nessuno finora, a quanto ci risulta, nel trattare la vicenda che ci occupa ha cercato di dare una circostanziata identità biografica, era un uomo non solo con un carattere a cui il Sidoti attribuisce durezza e limitatezza, ma con un passato che lo poneva agli antipodi dei percorsi compiuti dal Ficarra. Scrivendo del suo patriarcato veneziano nel periodo bellico, Umberto Dinelli, uno degli storici più accreditati della Resistenza in Veneto, afferma: ” Ma la condotta più sorda e reazionaria fu quella di Adeodato Piazza a Venezia. Nel ’44 per I discorsi del giorno, una raccolta edita dal Ministero della cultura fascista e che già aveva ospitato scritti di Hitler e di Mussolini, esce un discorso del più impopolare tra i cardinali che ebbe Venezia, Piazza, pronunciato nella basilica di san Marco il 16 agosto ’44. Vi si legge: “Dinnanzi al primo micidiale attacco portato dal nemico nel cuore di Venezia dopo stragi e rovine compiute alla periferia, non possiamo oggi non elevare alta ed energica la nostra deplorazione per siffatti metodi…” E più avanti: “Noi ci sforziamo di comprendere le inevitabili leggi della guerra moderna…” La posizione del Piazza rispecchiava certi postulati teologici in materia di rapporti con l’autorità costituita garante di un ordine e di una stabilità sociale, dalla Chiesa ritenuti indispensabili. Pertanto anche un regime di occupazione, in quanto governo, doveva essere rispettato. Nel cardinale di Venezia legalitarismo e conservatorismo cattolico raggiungevano manifestazioni estreme assumendo un preciso significato: quello di favorire e fiancheggiare la politica nazifascista. Assumendo come rappresentanti dell’autorità i fascisti e i tedeschi, i nemici diventavano gli stati in lotta contro Hitler e i suoi caudatari”. Giustamente è stato rilevato che “nel momento in cui i provvedimenti razziali incrinavano indubbiamente le relazioni tra la Chiesa e il fascismo”, il cardinale Piazza “non solo accetta quei provvedimenti ma esalta l’amicizia con la Germania nazista”.
Questo squarcio della biografia politica del Piazza, ancorché limitato nel tempo, è tuttavia sufficiente a rimarcare l’enorme distanza di agire e di sentire che divideva i due protagonisti, lasciando nel contempo intuire quanta equilibrata disponibilità potesse egli accordare all’esame delle ragioni di mons. Ficarra. Né, alla luce di tanto, può stupire che fosse arrivato al punto di rifiutarsi di riceverlo personalmente, allorché il vescovo di Patti ebbe a chiedere udienza espressamente.
Inutile dire che in quel preciso periodo storico, più che le idee e le virtù del vescovo di Patti, riuscivano più utili e funzionali al potere del Vaticano i connotati politici e culturali di un cardinale Piazza. Ma sono anche quegli stessi connotati che oggi lo rendono estraneo a noi, estraneo e lontano simulacro del tempo, chiuso nella sua opaca e sterile solitudine.
Il libro di Gaetano Augello, tra i tanti meriti, ha quello di porre l’accento sulla “giustizia negata” al vescovo di Patti che viene promosso arcivescovo di Leontopoli di Augustamnica, un’ironia, questa, che ne riecheggia un’altra: quella di Togliatti che soleva dire di Elio Vittorini “Vittorini si nne gghiuto e suli ci ha lassatu”, facendoci percepire l’ordinaria somiglianzà tra due “casi” che contemporaneamente si verificavano nella famiglia cattolica e in quella comunista.
Il candore scomodo di mons. Ficarra fece di lui un limpido testimone della spietatezza del potere e, in virtù di tale destino, un contemporaneo dei suoi posteri, come tutti coloro che essendo giusti hanno subito l’ingiustizia e che in quanto tali non appartengono a nessuna chiesa ma all’umanità tutta, finché sopravviverà il senso della dignità e della pietà.
Diego Guadagnino
Gaetano Augello si è laureato in Lettere Classiche nell’Università degli Studi di palermo discutendo, col Professore Piero Landolini, una tesi sulle “Condizioni demografiche ed economiche del Comune di Canicattì” Ha insegnato latino e greco nel Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, italiano e latino nel Liceo Classico “Ugo Foscolo” di Canicattì, italiano e storia nell’Istituto magistrale “Saetta e Livatino” di Ravanusa e nell’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri “Galileo Galilei” di Canicattì. Dall’anno scolastico 1983-1984 ha diretto successivamente la Scuola Media “Pietro Asaro” di Racalmuto, la Scuola Media “Senatore Salvatore Gangitano” di Canicattì e l’Istituto di Istruzione Superiore “Gino Zappa” di Campobello di Licata. Dal 2002-2003 è dirigente scolastico dell’ITCG “Galileo Galilei” di Canicattì. Ha curato l’introduzione “Cenni storici sulla Scuola Gangitano di Canicattì” e “Cronologia dei Capi di Istituto” per la “Carta dei servizi scolastici e Piano dell’offerta formativa” della Scuola Media “Gangitano” anno scolastico 1999-2000.
Ha pubblicato: L’Accademia del Parnaso e la poesia di Peppi Paci, Campobello di Licata, Tipolitografia Casuccio, 2001; La Canicattì di Mons. Vincenzo Restivo, Canicattì, Grafiche Avanzato, 2005; Agostino La Lomia, un Gattopardo nella terra del Parnaso, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2006; I primi cinquant’anni del Galilei di Canicattì, Canicattì, Edizioni I.T.C.G. “Galilei”, 2006; Franco Balistreri: momenti ed immagini di un percorso interiore, in F. Balistreri, Appunti, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2007.
Il volume è in vendita presso: Libreria Pirandello – Viale Regina Margherita – Canicattì Edicola Caramazza – Villa Comunale – Canicattì Libreria Mosca – Via Nicolò Gatto Ceraolo,110 – Patti Libreria Deleo – Via XXV Aprile, 210 – Agrigento Libreria Danile – Via Gioeni -Agrigento Edicola Veneziano – Piazza V. Emanuele – Agrigento Libreria Kalos – Via XX Settembre, 56/B – Palermo Libreria Modusvivendi – Via Quintino Sella, 79 – Palermo
Foto della presentazione del libro – 21 febbraio 2008 – Palazzo Stella
Sorgente: “Angelo Ficarra – La giustizia negata” – di Gaetano Augello
“Angelo Ficarra – La giustizia negata” – di Gaetano Augello Presentazione di Mons. Vincenzo Restivo Mio chiarissimo Preside, grazie per l'invito e per lo spazio, e consentimi di ridurre al minimo le nostre formali distanze professionali e darci le dimensioni del cuore, della stima e della gratitudine.
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ourvaticancity-blog · 6 years
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Kasper contro Ratzinger, la disputa che non finisce mai
Francesco l’ha rinfocolata e il sinodo non l’ha risolta. Nei paragrafi sui divorziati risposati la parola “comunione” non c’è. Ma il papa potrebbe introdurla lui, d’autorità. di Sandro Magister (30-10-2015) Era palpabile l’insoddisfazione di papa Francesco per come il sinodo è andato a finire. Nel discorso e nell’omelia di chiusura se l’è presa ancora una volta con l'”ermeneutica cospirativa”, con l’arida “fede da tabella”, con chi vuole “sedersi sulla cattedra di Mosè per giudicare con superiorità i casi difficili e le famiglie ferite”: > Discorso del 24 ottobre > Omelia del 25 ottobre Eppure il documento finale, approvato sabato 24 ottobre, è tutto un’inno alla misericordia, dalla prima all’ultima riga: > Relazione finale del sinodo dei vescovi Solo che non c’è nemmeno una parola, in questo documento, che schiodi la dottrina e la disciplina della Chiesa cattolica da quel “no” alla comunione per i divorziati risposati che era il vero muro da abbattere nel disegno dei novatori, il varco che avrebbe portato dritto all’ammissione del divorzio e delle seconde nozze. Due anni è durata l’impresa, dall’annuncio del doppio sinodo alla sua conclusione. E la partenza, nel febbraio 2014, era stata folgorante, col teologo e cardinale tedesco Walter Kasper, riformatore da una vita, incaricato da Francesco di dettare la linea ai cardinali riuniti in concistoro. La scelta di Kasper come primattore, infatti, era essa stessa un programma. Erano trent’anni che questi battagliava col suo antagonista storico, il connazionale Joseph Ratzinger, anche lui teologo e poi cardinale e infine papa, e proprio sulle due questioni capitali del sinodo ora concluso: comunione ai divorziati risposati e bilanciamento dei poteri tra Chiesa universale e Chiese locali. Su entrambi i fronti, Ratzinger era uscito vittorioso già da cardinale, forte dell’autorità di Giovanni Paolo II. Ma divenuto anche lui papa, non mise al bando né umiliò il suo antagonista. Anzi, se lo tenne vicino con l’incarico prestigioso di presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani. Finché a rimettere tutto in gioco è arrivato Francesco. E con lui Kasper è risorto come attivissimo capofila dei novatori, con Ratzinger in silenzio e in preghiera nel suo romitorio di papa emerito. L’errore dei novatori fu di strafare. Nel sinodo dell’ottobre 2014 infilarono nella Relatio di metà discussione una serie di formule ad effetto che fecero immediatamente gridare a una rivoluzione della dottrina cattolica non solo sul matrimonio ma anche sull’omosessualità. Ma quelle formule non riflettevano affatto quanto s’era detto in aula. Il contraccolpo fu micidiale. Due cardinali autorevolissimi, l’ungherese Péter Erdö e il sudafricano Wilfrid Fox Napier, denunciarono pubblicamente la manovra e indicarono nel segretario speciale del sinodo Bruno Forte il principale autore della forzatura. La Relatio finale cancellò le frasi abusive e l’omosessualità uscì dall’agenda dei lavori. Ma restò apertissima la questione della comunione ai divorziati-risposati. E in vista della seconda e ultima sessione del sinodo papa Francesco riconfermò Forte segretario speciale e rafforzò con sue nomine mirate la squadra dei novatori. E siamo a questo ottobre. La lettera che tredici cardinali di fama, tra cui Napier, consegnano il primo giorno al papa irrita il destinatario ma ottiene il risultato voluto: che non si ripetano le manovre di un anno prima. In aula e nei circoli linguistici appare subito largamente prevalente la linea contraria alla comunione ai divorziati risposati, con in prima fila i vescovi del Nordamerica, dell’Europa orientale e soprattutto dell’Africa. Le elezioni del consiglio che fa da ponte tra un sinodo e l’altro premiano con dosi massicce di voti tre dei tredici firmatari della lettera, i cardinali George Pell, Robert Sarah e Napier, più altri tre cardinali e vescovi sulla medesima linea. È a questo punto che nel circolo “germanicus”, dominato da Kasper, matura la decisione di ripiegare su una soluzione minima, ma che è ormai l’unica ritenuta ancora presentabile in aula con probabilità di successo: quella di affidare al “foro interno”, cioè al confessore assieme al penitente, il “discernimento” dei casi in cui consentire “l’accesso ai sacramenti”. È una soluzione che lo stesso Benedetto XVI non aveva escluso, sia pure come ipotesi ancora bisognosa di “ulteriori studi e chiarificazioni”. E infatti la sottoscrive nel circolo “germanicus” anche il cardinale Gerhard L. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede e ratzingeriano di ferro. Nella bozza del documento finale del sinodo, nei tre paragrafi sui divorziati risposati, la soluzione “tedesca” è trascritta in blocco. Ma con alcuni tagli chiave, gli unici capaci di farle superare la prova del voto. E così nel testo definitivo, approvato da più di due terzi dei padri sinodali, le parole “accesso ai sacramenti” non ci sono più, sono solo lasciate all’immaginazione. E non c’è nemmeno la parola “comunione”, né alcun termine equivalente. Insomma, nessun cambio esplicito sul punto chiave. La decisione finale spetta a Francesco e a lui solo. Ma il sinodo che ha così fortemente voluto si è pronunciato lontano delle sue attese. Fonte: chiesa.espresso.repubblica.it
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aspektiinfo · 6 years
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Благотворителната инициатива "Бъдители", която има за цел да вдъхнови и мотивира младите хора чрез личен пример, се класира на второ място в категория "Благотворителност" в националната класация "Новатори в образованието" 2017, в която участваха над 50 проекта. Амбицията на организаторите е да бъдат представени личностите, проектите и инициативите с най-голям принос към въвеждането на нови обучителни методи, технологични решения, както и добрият пример на истинска отдаденост към учебния процес, които променят представата ни за образование,...
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111novosti-blog · 7 years
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Китайские новаторы и американские ретрограды
«С избранием Дональда Трампа окончательно завершился прежний мир XX века», — сказал министр иностранных дел ФРГ Франк-Вальтер Штайнмайер. По всему миру прошли акции протеста, знаменитые актеры, певцы и певицы, феминистки и либералы, а также некоторые настоящие философы и мыслители заговорили о натуральном конце света, наступающем после инаугурации нового президента США.
Да, долгий ХХ век отправился в прошлое. Что дальше?
Контуры нового века, новых идей и противостояний только предстоит очертить. И мировая элита с энтузиазмом берется за дело. За последнее время мы услышали сразу две речи, программирующие (хотя бы на уровне амбиций их авторов) будущее человечества.
Давосский форум открывал генеральный секретарь компартии Китая Си Цзиньпин, и эхом по Швейцарским Альпам разносилось: «рыночная экономика», «отмена межстрановых торговых барьеров», «снижение пошлин», «открытие новых рынков», «нет протекционизму»…
Спустя всего неделю по другую сторону Атлантики из уст Дональда Трампа летели в толпу слушателей совсем другие слова: «защитим наши границы», «не дадим уничтожать наше благосостояние», «для американцев и руками американцев», «Америка прежде всего», «да здравствует протекционизм»…
Новый, XXI век будет похож на век ХХ — здесь точно так же схлестнутся свободный, открытый мир и мир экономического протекционизма и изоляции, мир границ и национализма. Только вот стороны поменялись местами. Кто бы мог 20 лет назад в самой смелой своей фантазии представить, что символом всего «разумного, доброго, вечного», символом будущего наднационального единства окажется Китай, а в роли ретроградов и изоляционистов выступят Соединенные Штаты Америки?
Свободный мир сегодня — это Китай, компартия, тысячи трудолюбивых и улыбчивых китайцев, а «трампизм» — это изоляция, меркантилизм, возвращение в XIX век и экономически, и политически.
Представление о благосостоянии, о правильно устроенном государстве, об экономическом достатке и национальном достоинстве действительно может быть описано в двух системах координат. Первая — это самообеспечение, ограничение связи с окружающим миром в поиске ресурсов для собственного «большого рывка». Второй подход — максимальная «связность», открытость, стремление к мировому разделению труда и первенству в наиболее выигрышных, перспективных для себя областях.
До недавних пор американцам было намного ближе второе понятие. В любой, самой удаленной и дикой стране можно было встретить бодрого парня в солнцезащитных очках и джинсах, делающего некоторый бизнес и продвигающего — за счет и во имя прибыли своего бизнеса — национальные интересы США. Американцы прокладывали железные дороги, пускали пароходы, груженные долларами, во все края земли, привечали на своей земле тех же китайцев, ирландцев, мексиканцев и любых прочих приезжих — все ради роста общего национального благосостояния. И эта схема неплохо работала. Человек со стодолларовой купюры — Бенджамин Франклин — говорил: «Веди свою маленькую торговлишку, и твоя маленькая торговлишка сделает тебя большим человеком».
Трамп возражает: «Мы защищали границы других государств и отказывались защищать свои границы. Мы тратили триллионы долларов за рубежом, мы делали богатыми другие страны, а сами теряли свое благосостояние». Лавочка закрывается, ребята! Теперь «Америка — первая! Америка — впереди! Этим принципом мы будем руководствоваться всегда, все будет служить во имя американской нации. Мы защитим наши границы, мы не дадим уничтожать наше благосостояние. Мы будем придерживаться формулы: для американцев и руками американцев».
А что же Китай, где Интернет «по карточкам», танки на Тяньаньмэнь и пуля в затылок коррупционерам? А там творятся знак��мые вещи: строятся железные дороги, ��о все концы земли отплывают пароходы, груженные юанями…
Китай при Си Цзиньпине превратился в уникальную страну, где иностранный туризм и экспорт капитала поощряются государственными программами, где государственные банки инвестируют во все, до чего могут дотянуться их руки, как бы далеко от Китая эти объекты ни располагались; китайские бизнесмены работают со всеми, кто в состоянии нанять себе переводчика, а для тех, кто не в состоянии, — готовят переводчиков в открытой и ориентированной прежде всего на международное сотрудничество системе высшего образования.
Китайцы стараются делать многое для снижения административных барьеров для иностранных инвесторов, для обеспечения сотрудничества в высокотехнологичных сферах; они даже наступили сами себе на горло и начали активную борьбу с «абибасами» и «панаксониками», признавая главенство мирового интеллектуального права. А в конце этого пути они видят настоящее взаимовыгодное проникновение культур Запада и Востока, единые правила для иностранного и доморощенного бизнеса в стране, рост инвестиций в обе стороны, увеличение туристического потока и многое-многое другое. И все это — на фоне искренних уверений в мирных намерениях китайцев и отказа от прямой экспансии (которым, конечно же, легче верить, если закрыть глаза на растущую и перевооружающуюся армию).
Из уст именно китайцев мы слышим, что протекционизм сегодня не работает, — в том же Давосе Си Цзиньпин выразился на этот счет максимально ясно: «Мы должны сохранять приверженность свободной торговле и инвестициям. Мы должны продвигать либерализацию торговли и инвестиций, оказывать помощь и быть открытыми. Необходимо сказать «нет» протекционизму в экономике. Потому что это все равно, что запереться в темной комнате: вы защитите себя от дождя и ветра снаружи, но воздух и свет внутрь также попасть не смогут. В торговых войнах не бывает победителей».
Да, у глобальной экономики есть проблемы, но это, по мнению председателя Си, — проблемы роста, проблемы того, что государственное регулирование не поспевает за успехами глобального рынка. Трамп же видит в глобализме угрозу «идентичности», угрозу национальной э��ономике его страны, которая, к слову сказать, и создала свою национальную экономику на идее глобального мира и свободного движения финансов, товаров, услуг, технологий.
Китайцы хотят нарастить свой средний класс, чтобы сограждане больше зарабатывали и покупали больше китайского; им нужны постоянное движение, сотрудничество, взаимообогащение. Экономический рост замедляется — и меняется его модель: Китай больше не хочет быть «отверточным цехом» для всего мира, он хочет превратиться из поставщика дешевой рабочей силы в полноценного участника разделения труда в инновационных сферах экономики. А для этого нужно включаться в процессы мировой экономики плотнее, всем вместе искать новые способы регулирования глобальной экономики, устранять перекосы, заниматься профилактикой «мыльных пузырей» в финансовой сфере…
Трамп, потакая своим избирателям, говорит, что вся эта глобальная экономика — один сплошной вред и несправедливость и пора уже затвориться от «дождя и ветра». Одно из первых реальных решений Трампа на посту президента — это выход из Транстихоокеанского партнерства, которое было так выгодно американским глобальным корпорациям (прежде всего фарминдустрии и IT), рассчитывавшим на распространение единых стандартов и патентную защиту на новых рынках по общим правилам. Избирателям Трампа, копающим уголь в Аппалачах, совершенно неинтересно, как компании из Силиконовой долины будут продавать свои технологии и продукты в Китае и Индии, — они хотят услышать простое и емкое «мы покажем этим япошкам их место в мире!»
И Трамп обещает им то, чего они хотят: стену на границе с Мексикой, выход из Транстихоокеанского партнерства (а в перспективе — и всех прочих партнерств и организаций), «Америку — американцам!».
Трамп видит мир как совокупность двусторонних договоренностей-сделок (о которых он так любит говорить), а Си Цзиньпин предлагает ему быть глобальной системой общих, универсальных и открытых всем правил. Китай стремительно превращается в символ нового свободного и открытого (хотя бы экономически) мира — и в то же время США стремительно утрачивают эту роль.
Нельзя сказать, что путь Трампа — это путь в никуда, а путь председателя Си — панацея от мировых проблем. Китай, понятно, заботится прежде всего о своих интересах, ну а Трамп больше говорит, чем совершает реальных действий. В конце концов, выход из Транстихоокеанского партнерства — это выход из договора о будущем, а не из реально работающей организации.
Но тенденции — налицо.
В сухом остатке именно это противостояние двух крупнейших мировых экономик — противостояние США и Китая, изоляции и открытости, глобализма и стремления к хардкорному суверенитету в духе XIX века — и сформирует картину XXI века.
Несмотря на нашу очевидную эстетическую приязнь к Китеж-граду, законсервированному в водах озера, несмотря на страх нашего консервативного избирателя перед будущим (в США он ровно такой же), несмотря на радужное представление о «правом консервативном интернационале» самообеспечивающихся экономик, мы должны смотреть правде в глаза и выбирать то, что нам действительно выгоднее.
Мы можем сколько угодно симпатизировать Трампу в его красивом послании про новую картину мира, где все запрутся в своих уютных границах и будут работать на самих себя — почти в полном соответствии с идеей чучхе или американских общин меннонитов; с другой стороны, мы можем сколько угодно бояться Китая и ощущать темную и таинственную угрозу на наших дальневосточных рубежах — но прежде всего этого мы должны подумать о своем кармане.
России нужны свободный мир и открытая экономика, чтобы продавать этому миру наши товары. Так было раньше — когда предметом экспорта России были пенька и масло; так есть сейчас — когда мы торгуем металлами, нефтью и газом; так будет и потом — что бы ни стало предметом нашего экспорта. В этом отношении наши цели полностью совпадают с устремлениями Китая: больше открытых рынков и проще доступ к инвестициям. Поэтому, несмотря на весь наш консерватизм, патриотизм как национальную идею, скрепы и особый путь, именно это и станет рецептом нашего благополучия.
…У свободного мира появился новый лидер — Си Цзиньпин, а изоляционисты выбрали своим предводителем не Ким Чен Ына и не последователей аятоллы Хомейни, а Дональда Трампа.
Мир действительно встал с ног на голову. XXI век будет интересным.
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