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barcellonataxi · 3 years
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andreas29-runandfun · 7 years
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La mia mistica Maratòn Valencia Trinidad Alfonso 2017
Che maratona quella di Valencia! Sono già passati diversi giorni, eppure il senso di gratificazione, gli “animo, animo” e i “campeones” del pubblico, i riflessi del sole sugli edifici storici, riecheggiano ancora intensamente nella testa e nel cuore.  
Fino all’estate non avevo un grande stimolo a correre questa maratona, non sentivo una particolare attrazione per la città e per la Spagna in generale. Ciò mi risultava strano perché uno dei viaggi che ricordo con maggior piacere è stato quello post laurea, in Andalusia insieme al compagno di studi e amico Marzio. Anche i week end a Madrid, i viaggi di lavoro a Barcellona, le vacanze alle Baleari mi erano tutti molto piaciuti, eppure, per la Maratona di Valencia non sentivo una grande attrazione. Hanno deciso la mia partecipazione Stefania e i suoi amici, io con grande resistenza ho… ceduto. A metà agosto ho organizzato la trasferta e mi sono concentrato sulla preparazione formulata dal grande coach e amico Marco Boffo.
Quest’ultima è stata molto diversa dalle precedenti e anticipata da un buon numero di chilometri a bassa intensità intervallati da una gara al mese sui 30 km in montagna, non proprio dei trail, ma quasi. Questa fase credo sia stata molto utile sotto diversi aspetti tra cui l’aumento di forza specifica, sempre un’area critica per gli amatori vecchietti come me. Durante le ultime 12 settimane ho continuato a gareggiare molto più del solito, con mezze maratone e ancora gare di 30 km, non ho invece corso lunghi lenti né ripetute brevi e veloci. Vado però ora al dunque, il week end della maratona: partenza il 17 novembre, venerdì, giorno nero per molti, positivo e ricco di significato per me, per le mie origini, per i valori che mi sono stati trasmessi. Oggi mio padre avrebbe compiuto 85 anni e ci penso con intensità. Cosa direbbe sapendo che parto per la Spagna per correre la mia decima maratona? Lui, fiero di essere (più che esser stato) Alpino, sa qual è il valore della fatica ma, questa della maratona, senza un apparente scopo specifico e tangibile, come lo considererebbe?
Prima di partire corro l’ultima corsa lenta di 6 km, faccio colazione con un bel piatto di pasta e delle proteine e via con tutto il gruppo verso il Marco Polo di Venezia. Un paio di panini, uno scalo a Madrid, mezz’oretta di taxi e lasciamo le valigie in hotel a 500 metri dalla Ciutat de les Arts i les Ciències. Una breve camminata, il tempo per rimanere con il fiato corto per la bellezza architettonica dell’area, qualche foto e siamo dentro all’Expo per il ritiro del pettorale. Incrociamo i pacer, rubo una foto a uno di loro che sta provando lo zaino e l’asta con cui correrà domenica con il vessillo che indica 3:00. Dentro di me mi chiedo se “sarà la volta buona”, perché in effetti è dall’autunno del 2015 che credo di essere pronto per andare sotto le 3 ore e non ci riesco per mille motivi diversi.
il giorno dopo facciamo un po’ i turisti, mangiamo paella e pasta e, presto, la sera presto andiamo tutti a dormire. La mattina della gara facciamo colazione e con sommo piacere ci diciamo tutti: non male poter stare in camera fino alle 8:00 e poi uscire dall’albergo per entrare nel blocco di partenza percorrendo soli 20 metri, proprio come a NY 2 anni prima, quando abbiamo fatto la maratona ancor prima di iniziare a correrla!
Saluto gli amici, un bacio a Stefania con l’augurio reciproco di divertirci e via per un breve riscaldamento in griglia, poco ma sufficiente per avere caldo e indurmi a togliere il pile che avevo indossato; lo lascio a terra a beneficio di qualcuno che ne avrà più bisogno di me con l’arrivo della stagione fredda. Pochi minuti di attesa e ci siamo: partenza. Il clima è buono in termini di temperatura (circa 10°) e umidità, c’è però anche il sole, che io temo particolarmente.  Dallo sparo alla mia partenza vera e propria mi sembra passi qualcosa più di un minuto. Dopo poche decine di metri siamo sul ponte d’avvio gara e componiamo un bel serpentone. Trovo abbastanza spazio mantenendomi sulla sinistra, scelgo anche di fare qualche metro in più pur di mettermi comodo. Il primo km va via in 4’13”, sono contento perché mi sento sciolto e l’andamento della frequenza cardiaca non fa scherzi. Mi sono dato, come spesso accade, qualche blocco di frazionamento della gara, pensando solo a quello e non ai 42 km complessivi: frazioni di 5 km da correre in 21’15” e frazioni di 14 km da chiudere in un po’ meno di 1 ora. All’inizio del secondo km c’è una curva che gira dalla parte in cui mi trovo io, a sx e inizio a sentirmi “stretto”… dopo un po’ la situazione migliora, ma verso il 5° km la situazione si ripete a una rotonda che nuovamente va a sx, sulla dx c’è il mare, ma io non me ne accorgo perché sto attento a trovare il mio spazio per correre. Sento che sto bene e mi sento comodo con il ritmo impostato: i primi 5 km si chiudono in 21’12” (official time) e la FC è sotto controllo a 155. Io mi sono dato l’obiettivo di stare qualche punto sotto i 160, possibilmente fino a un po’ dopo la mezza; essere così sotto pur mantenendo il ritmo medio di 4’15”, mi fa stare tranquillo. In questa prima frazione la strada sale un po’ ma non me ne accorgo. Il pubblico è presente ai lati ma io non ci faccio troppo caso anche perché, pur numeroso, non è né come a Londra, né come a New York o a Berlino. Non ho l’aspettativa di trovare un clima particolarmente caloroso. Percorro un viale alla fine del quale c’è un tornante, il percorso va a ritroso, siamo in Avinguda dels Tarongers. Prima di fare l’inversione sull’altra corsia, vedo David, non riesco a capire bene quanto più avanti di me si trovi, ma non mi sfiora minimamente l’idea di fare riferimento a lui, sono solo ammirato del fatto che stia andando a un ottimo ritmo. Verso la fine del viale, quando ancora vedo le persone nel flusso opposto, cerco di vedere Stefania e Irene, ma so che è abbastanza improbabile che ciò accada perché sono partite un bel po’ dopo di me. Al nono km circa, altre 2 curve a 90° a sinistra, la strada qui si mantiene un po’ più larga e non ho particolari difficoltà a mantenere il passo. Prendo il primo gel, bevo un po’ d’acqua, così come avevo fatto al ristoro del 5° km e vedo Titti con Alex il suo bimbo di pochi anni. È un’immagine di pochi istanti ma per me preziosa, gioiosa e solare, mi fa sentire bene. Riusciamo a salutarci e via… ancora un colpo d’occhio alla frequenza cardiaca e ancora 155: bene, sono contento, si chiudono i secondi 5 km, 42’12”, ottimo, sono un po’ in vantaggio rispetto alle 3 ore! Avanti ancora verso nord fino al 13° km e ritorno verso sud girando all’interno di una rotonda. Siamo prossimi a verificare di essere sotto l’ora del 14° km: 58 e 50 secondi circa. Il Garmin segna una settantina di metri in più rispetto alla distanza indicata dai cartelli, ragion per cui guardo il cronometro in prossimità di questi ultimi e non il dato dell’autolap. Intorno a me in questa zona c’è un bel po’ di gente, mi da l’idea che ci sia vero interesse per ciò che sta succedendo a questi 19.000 intenti a correre per 42 km di fila, sensazione simile a quella che ho provato lungo la riviera del Brenta in occasione della Maratona di Venezia di un mese prima. Sono contento! 1 ora 3’10” al 15° e ancora grande facilità di corsa. Il sole da me temuto è attenuato abbondantemente dai palazzi e dagli alberi e mitigato da un po’ di vento che aiuta a mantenermi fresco. Poco più avanti incontro nuovamente Titti che saluto a pollice alzato e braccio della mano opposta rivolto verso l’alto come per dire che va bene e sono lucidamente presente! Non me ne accorgo ma in questo momento lei mi scatta una foto che esprime veramente questo mio “steady state”(http://bit.ly/2iQ7VQC) …penso che tutto sta andando bene e che oggi “deve” andare bene fino alla fine, ho corso almeno 7.500 km nel tentativo di andare sotto le 3 ore, obiettivo che sento mio senza un perché specifico, senza la possibilità di vincere qualcosa, senza essere il primo in una qualche classifica. Ma lo voglio. Per me è una sfida interiore che esprime un senso di scopo, un po’ come nelle culture antiche il sacrificio per gli Dei: la mia fatica e l’impegno per raggiungere questo traguardo è un modo per mettermi in pacing con le ormai tante persone a me care che non ci sono più e che mi mancano. Spesso mentre corro le maratone mi trovo a dialogare con loro, in particolare con mio padre e con Corrado, collega e amico che ha lasciato un anno e mezzo fa una moglie e due bambini dell’età dei miei. Con la piccola Hyba. Con Massimo. Con Tatiana. Con tanti, purtroppo, altri. In questi chilometri, dopo che ho visto per la seconda volta Titti, anche lei toccata fortemente quest’anno, sono affiorati puntuali, forti, vivi, questi pensieri. Oggi però è diverso dalle altre volte, oggi sento che andrà bene e potrò condividere anche con loro l’impresa!
Al 18° km, torno in contatto con la realtà che mi circonda e, con sorpresa prima vedo e poi raggiungo i pacer delle 3 ore, sono in 2. Ho un momento di sbandamento: io sono in vantaggio sulle 3 ore, perché ora raggiungo ora i pacer? Stanno andando troppo forte? Pochi istanti e realizzo che sono partiti davanti, allo sparo, io un po’ più indietro e il mio recupero equivale alla differenza tra gun time e real time. Il pensiero immediatamente successivo è stato prudenziale: se sto con loro certamente faccio il mio tanto atteso sub 3 ore. Decido quindi di rallentare il mio passo di quei 3 o 4 secondi al km per rimanere con loro e con il gruppo nutritissimo di runner che vanno allo stesso ritmo. Nei 2 km successivi ci sono diversi cambi di direzione, curve a novanta gradi con strade non particolarmente larghe. L’affollamento intorno a me m’infastidisce ma rimango concentrato sulle sensazioni che mi rimanda il corpo. Sono ancora molto buone, FC 157, caldo poco, cadenza di passo prossima a 190: tutto molto bene! Ormai siamo alla mezza, altro check importante: 1:28:50, oh yeah, c’è margine. L’entusiasmo per il cronometro è un po’ smorzato dal fatto che il traguardo è indicato solo dalle strisce a terra della misurazione cronometrica e da nessuno striscione o gonfiabile, peccato, mi sarebbe piaciuta maggiore evidenza, è pur sempre il giro di boa, il secondo inizio. Io comunque mi sento pronto a correre un’altra mezza maratona a un ritmo che mi risulta facile, mio, quello che sto tenendo in questa fase.  Al 22° lambiamo la marina di Valencia, sede di qualche America’s cup, uno degli eventi che hanno ridato vita alla città, neanche il tempo di accorgersene e siamo nuovamente in zona Ciutat de les Arts, il pubblico è ancor più numeroso rispetto alla partenza, sono circa le 10:10, il sole è alto e proprio alle nostre spalle. In questa fase si va verso nord ovest, in un leggerissimo dislivello positivo (questo lo vedo solo a posteriori dalla traccia GPS, non lo percepisco), con poca ombra e le strade non molto larghe. Mi trovo, quindi, tra il 24° e il 27° km a fronteggiare le prime preoccupazioni. Io soffro il sole, già due volte in pochi chilometri nelle maratone di Milano 2016 e Venezia 2017, mi ha messo in crisi. Sto, quindi, particolarmente attento a cercare la poca ombra ai lati della strada e a non alzare troppo la FC: 158 – 159, gestisco e mi curo di non rallentare troppo. Ci riesco perché rimango con i pacer senza difficoltà. Entriamo in centro storico e percorro i miei 2 km più lenti a 4’21” e 4’25”, qui non sono certo che il GPS “veda bene” e non mi preoccupo, le strade sono strette e io non ho lo spazio che vorrei per correre, mi trovo spesso a dover accorciare il passo per non far cadere altri runner e sto attento di non cadere pure io. Al 28° sono sull’ora e 58, penso che potrò amministrare con un buon margine, ora la fatica è un po’ più intensa ma ampiamente sopportabile. Al trentesimo 2 ore 07 scarsi. Prendo il terzo gel e viste le condizioni buone ipotizzo di non prenderlo al 40°. Al 33° cambiamo direzione puntando verso l’arrivo, proprio mentre giriamo a sinistra, uno dei due pacer si porta a bordo strada, è a un metro da me, lo riconosco bene, è quello che ho fotografato il giorno prima e al quale avevo fatto riferimento: io devo arrivare prima di te domani! Non avevo però ipotizzato che potesse ritirarsi così come stava facendo a due passi da me. Il suo compagno 50 metri dopo si gira per cercarlo, non lo vede, rallenta, gli dico che si è fermato, non mi capisce, lo aspetta ancora un po’ perdendo 20 metri rispetto a me, poi riprende il ritmo, mi raggiunge e mi sopravanza di una ventina di metri: ho “rotto il ritmo” e sta strappando. Io rimango tranquillo, so correre tenendo il mio ritmo. Ora non pongo più attenzione forte all’andamento della FC, so che quanto mi manca all’arrivo in termini di tempo è per me gestibile anche sopra la fatidica soglia: ora la mia prossima meta sono i 39 km e Plaza de Toros, so che da lì sarò anche aiutato da una leggera discesa. Passano i 35 km, sempre in gruppo e con il pacer, gestisco bene i chilometri successivi, arriva l’arena dei toreri: ora non ci sono più dubbi, il sub 3 ore sarà mio! Il pubblico aumenta, gli incitamenti pure, energici, vivi, rumorosissimi, allegri: animo, animo… campeoooness, campeeoooness…. Vamos, vamos…. Bambini, adulti, anziani, famiglie, c’è tanta Valencia sulle strade, tanta Spagna. Io sono contento, non sento la fatica, già assaporo l’arrivo. Ma il godimento è lungo tutti gli ultimi chilometri che ancora mi separano dal traguardo. Le persone per incitare invadono le strade, ma contrariamente a prima, il fatto che si assottiglino non è un problema, ora lo spazio per correre rimane abbondante perché molte persone hanno perso il contatto con il pacer e perché, comunque, prevale la forza del calore che le persone mi stanno generosamente e genuinamente offrendo. Sono contento, molto contento. Voglio chiudere in up, prendo anche il 4° gel al 40°, lambiamo il parco, ex letto del fiume, ora paradiso per i runner locali dove possono correre in totale sicurezza ad ogni ora del giorno e della notte. La strada scende ancora un po’, la abbandoniamo, entriamo nel parco che si fa stadio, tanta è la gente che assiste al passaggio dei maratoneti, il palazzo delle arti Reina Sofia, mastodontico, si apre come una conchiglia davanti a me, ne rimango affascinato come era già successo i giorni prima, ma questa volta la prospettiva è diversa e mi sembra ancor più bello e imponente. Siamo alla fine. L’ultimo chilometro è segnato ogni 100 metri, mi ricorda i cartelli delle yards del Birdcage Walk e del Mall di Londra, prima di quel memorabile traguardo. Quando mancano 400 metri, mollo i freni e vado, sento che sono abbondantemente sotto i 3’50” al km ma non guardo l’orologio, lo spettacolo è fuori, le sensazioni non sono hi tech da GPS, sono tutte mie, dentro, hi touch, umane, è così che voglio chiudere questa maratona. Ecco il tappeto blue, ecco che vedo le tribune, sento la musica, vedo il real time nello schermo davanti a me: anche quello segna il 2 come prima cifra. Anche il pacer sopravvissuto è dietro di me! Real Time 2:58:48, ho ottenuto l’obiettivo che mi sono posto nel 2015, due anni abbondanti fa. Ho perseverato, ho faticato, ho sbagliato, ho perso anche la fiducia, ma oggi l’ho fatto. Anche questo, per dimostrare che volere è potere, che gli ostacoli vanno superati, che senza sofferenza non si ottiene ciò che si desidera, che ci si deve porre i giusti ambiziosi ma non impossibili traguardi, che impossibile però non deve essere una scusa, anche per questo corro la maratona. Per questo volevo il sub 3 ore. Per questo e per altre cose, come uno sguardo verso l’alto dopo il traguardo, dopo aver ottenuto il mio obiettivo, che corro la maratona. Verso l’alto, verso persone care, verso il futuro che voglio vivere con la mia famiglia, i miei cari, gli amici, le persone che continuano a riempire la mia vita anche se non ci sono più, che danno senso di scopo al fluire dei giorni. Alla vita.
…mi rifocillo velocemente dopo il traguardo, incrocio David che ha fatto un eccellente 2:52, vado a farmi la doccia e torno in prossimità del traguardo per aspettare Stefania. Quando la vedo, la chiamo, si accorge con un po’ di ritardo di me, decide di tornare indietro per salutarmi con un sorriso di sollievo che spazza via una tensione sul viso che mi lascia intendere che ha molto faticato. Sono contento di vederla tagliare il traguardo della sua quarta maratona, anche per lei il miglior tempo di sempre anche per lei un’impresa che ha un significato più profondo rispetto al solo gesto sportivo. Viva la corsa, viva la maratona, viva la vita! (http://bit.ly/2jopEOu) 
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pangeanews · 5 years
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Arthur Cravan, il poeta-pugile che ha influenzato David Bowie, Cassius Clay e i Sex Pistols
Nel nome è tutto. Tra il 1912 e il 1915 pubblica la rivista “Maintenant”, costruita a Parigi, al 67 di Rue Saint-Jacques (poi al 29 di Avenue de l’Observatoire). “Maintenant”, Revue littéraire, significa ora, adesso, reclama l’attimo come gesto, l’istante come letteratura. Dunque, l’idea che il giorno sia biologia, la letteratura un corpo, il poeta, anzitutto, vita, carne, morso. In effetti, il direttore di quella rivista d’avanguardia che durò lo sprazzo di qualche audacia (cinque numeri, l’ultimo nel “marzo-aprile” 1915), “meteora e stella fissa nel cielo surrealista”, si chiamava Arthur Cravan, alto due metri quasi, vagabondo, cento chili di peso all’incirca. La rivista, con spirito furibondo, la scriveva tutta lui, povero in canna e abile col destro: il primo numero prometteva Documents inédits sur Oscar Wilde. Del mitico Wilde il tipo – nome d’origine, Fabian Avenarius Lloyd, cittadinanza svizzera, anno di nascita 1887, 22 maggio – si diceva parente acquisito: la zia del padre, Constance Mary Lloyd fu la moglie di Oscar. Più che altro, Cravan, grande & grosso & solo, cercava un padre. Il primo fu Wilde. “Wilde aveva una risata piena, che sembrava scaturire da una sorgente profonda e copiosa… Se aveste visto Wilde entrare in un salotto, soggiogati dalla maestosità e disinvoltura dei suoi modi… con lui facevano il loro ingresso la padronanza e il prestigio”.
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Arthur Cravan appartiene a quel tempo in cui si pensava che la letteratura fosse il cardine e il cordame della vita, che vivere poeticamente significasse sfracellarsi. André Breton lo ammirava, “gli intenditori ne capiranno il genio allo stato grezzo, per molto tempo i poeti berranno alla sua fonte”. Il fraintendimento, in questo caso, stava nel riconoscere nella pura corporeità di Cravan – poeta sostanziosamente ignorante, tutto istinto – una specie di innocenza. I baroni baroneggiavano, baloccandosi con le avanguardie, mandando all’avanguardia Cravan, poète et boxeur, come si diceva. La vita va fatta a pezzi con i versi, va presa a pugni, d’altronde. Breton installò Cravan nella sua Anthologie de l’humor noir, per Gallimard, tra Poe, il Marchese de Sade, Baudelaire, Kafka e Alberto Savinio. La prima edizione del libro è del 1940, ma Cravan non potè goderne, era morto, misteriosamente, da un pezzo.
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Il secondo maestro di Arthur Cravan – per inaudita provocazione – è André Gide. “Scrivevo due righe a Gide, facendomi forte della mia parentela con Oscar Wilde; Gide mi riceveva. Lo sbalordivo con la mia statura, le mie spalle, la mia bellezza, le mie eccentricità, le mie parole. Gide impazziva per me, io lo trovavo simpatico. Ed eccoci in viaggio verso l’Algeria…”. Arthur Cravan dà l’idea del poeta primordiale, che preda la realtà: di fatto, è bisnipote di quell’altro Arthur, Rimbaud. A lui dedica una poesia, Arthur:
Gasteropode amaro… e sorridevo all’erba, grande trampoliere smarrito triste di essere un pugile ho bisogno di soldi, Dio santo, che razza di tempo e di primavera! le mie musiche gaglioffe, eccoti qua, vecchio faraone! Della luna poco m’importava; i prati stravaganti; mordevo i passanti; un record! Pastorale, Egloga, Georgica, Pazzo a essere un pugile pur sorridendo all’erba; …venti volte ho rinnegato il mio cuore. Non posso più restare…
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Poesia tutta fisico & moto quella di Cravan, martire alla poesia, “preferisco Arthur Cravan che ha fatto il giro del mondo durante la guerra, perennemente obbligato a cambiare nazione per sfuggire dalla stupidità umana”, scriveva Francis Picabia. Più che leggere Cravan, vien meglio scrivere di Cravan: l’antologia dei suoi scritti, Grande trampoliere smarrito, edita da Adelphi, in effetti, pare un pretesto per l’esercizio biografico (alla Marcel Schwob) di Edgardo Franzosini, L’importanza di non chiamarsi Fabian Avenarius Lloyd. “Arthur Cravan fu poeta, scrittore, pittore, critico d’arte, conferenziere e pugile (ma, secondo Blaise Cendrars, anche scassinatore, raccoglitore di arance nelle piantagioni della California, pescatore di merluzzi al largo di Terranova, conducente di taxi e ricattatore: tutte occupazioni che Cravan intraprese e quindi abbandonò perché attratto, come scrisse lui stesso, dalla ‘meravigliosa vita del fallito’)”. La bulimia di vita sembra colmare l’assenza dell’opera: è Cravan stesso l’opera, verbo vivente, parola destinata a frantumarsi in non-senso.
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In chiusa a un ottimo servizio pubblicato sulla “Paris Review”, Arthur Cravan, the Original Troll, Edward White: “La vita e la morte di Cravan hanno prefigurato un nuovo tipo, l’artista giovane, bello, brillante, il cui lavoro si sviluppa intorno al fluire della propria identità; c’è un po’ di Cravan in Andy Warhol, David Bowie, Andy Kaufman. Si può perfino dire che qualcosa di Cravan si sia installato nei pugili venuti dopo di lui. Già nel 1929 John R. Tunis scriveva che “per un pugile moderno l’ultima cosa è il combattimento”, dato che al principio deve occuparsi “dell’arte di ottenere pubblico e fare pubblicità”. Cravan ne fu consapevole prima di tutti. Anche la sua identità di poeta-pugile pare prevedere – benché sia stata nettamente superata negli esiti – da Muhammad Ali, l’oratore che si è inventato e reinventato. In verità, Cravan resta una meteora oscura e curiosa che ha forgiato lo spirito Dada. Rese vane le distinzioni tra un pugno in faccia, un pennello sulla tela, un ghigno dietro la mano”.
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In un numero speciale di “Excentriques” si suppone la potenza di Cravan prophete come fonte dei Sex Pistols. “I concerti dei Sex Pistols finivano come le conferenze tenute da Arthur Cravan. Cravan spara colpi di pistola e insulta il pubblico; Johnny Rotten gli sputa addosso e Sid Vicious gli taglia le braccia… Cravan e il punk condividono la stessa energia vitale, lo stesso vigore anarchico”.
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Pugilava come poetava, Cravan: energumeno, tutto corpo, bello come un Apollo, mancava d’eleganza, non era bello a vedersi. Nei tornei per dilettanti – dove c’era poco da guadagnare – riusciva implacabile. Da professionista realizza tre incontri e va sempre a terra. Il primo è epico, il 23 aprile 1916, a Barcellona, contro Jack Johnson, “il Gigante di Galveston”, straordinario campione mondiale dei pesi massimi, con 71 incontri vinti, 40 per KO. Non ci fu gara: Jack gioca un po’ con Cravan – alquanto terrorizzato –, fino a metterlo al tappeto alla sesta ripresa. Il secondo incontro, sempre a Barcellona, il 26 giugno del 1916, contro l’onesto e rude pugile francese Frank Hoche. Cravan perde con facilità impressionante, ai punti, è detto ubriaco. Con i soldi degli incontri, però, si paga il battello per una vita nuova, a New York. Sulla nave, incontra Lev Trockij, affascinato dalla politica e dal pugilato, dal sangue, insomma. Pare che Trockij abbia fornito a Cravan un aforisma: “Si ricordi, amico mio, che se la cultura non è animata e ispirata dal pensiero scientifico, si riduce a semplice comodità”.
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Negli Usa Arthur Cravan osa sfidare a scacchi Marcel Duchamp – esito scontato: “Era un tipo strano. Non mi piaceva molto, ma del resto neanch’io gli piacevo”, dirà di lui Marcel – e si unisce a Mina Loy (la sua storia la leggete qui). Lei lo chiama “Colossus” – non è un caso che la raccolta di poesie di Sylvia Plath s’intitolerà, dedicata al suo ‘colosso’, The Colossus – e lo pretende. “Vuoi diventare mio marito?”. I due si sposano, lei lo porta via dagli stuoli di amiche e amanti del pugile-poeta. Si trasferiscono a Città del Messico, dove Cravan apre una palestra, torna in forma. Il 15 settembre 1918 ha l’ultimo incontro. Contro l’americano Jim Smith. Il poeta va giù dopo due round. L’amore con Mina Loy, però, va a gonfie vele. Lei resta incinta. I due decidono di tentare la sorte a Buenos Aires. Parte prima lei. Lui la segue, su un battello. Scompare. La morte, va da sé, inaugura la leggenda. Multipla. “La prima, che non è escluso si regga solamente su una semplice assonanza, vorrebbe che dietro lo pseudonimo B. Traven, lo scrittore di cui non si è mai potuto conoscere né il nome, né la nazionalità, né la data di nascita o di morte, si nascondesse in realtà A. Craven. L’altra vuole che Arthur sia riapparso in Francia attorno al 1921 e che, cercando di vendere a facoltosi collezionisti parigini lettere autografe e manoscritti appartenuti a Oscar Wilde, abbia tentato ancora una volta, sotto il nome di Dorian Hope, di ricavare un qualche vantaggio da quella sua parentela” (Franzosini).
*
“Le persone che stimavo più di tutte al mondo erano Arthur Cravan e Lautréamont”, ha scritto Guy Debord. “Morire nell’anima è mille volte peggio del cancro. E io sono più che spacciato. Se sapessi come mi sento puro”, scriveva, lui, nel 1917, un po’ patetico, un po’ infantile, certamente inafferrabile, all’amata Mina Loy. (d.b.)
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tarditardi · 7 years
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7/12 NoEgo, festival elettronico a Napoli c/o Duel Beat con Boo Williams, Chez Damier, Radio Slave, Baldelli etc
Tra gli ospiti più attesi al NoEgo, a Napoli, il 7 dicembre, le leggende della house Boo Williams e Chez Damier, il britannico Radio Slave inserito da DJ Mag tra i “migliori remixer di tutti i tempi”, il fenomeno techno olandese Ritzi Lee e l’italiano Daniele BaldelliDurante la due giorni campana Pioneer presenterà in anteprima il nuovo sistema integrato per musicisti
Napoli, 13 novembre 2017 - Due intensi giorni di programmazione, con un party lungo dodici ore al Duel Club (via Antiniana, 2A – Pozzuoli) e un afterparty con market alla Galleria 19 (via S.Sebastiano, 19); tre palchi su cui si alterneranno dodici ospiti provenienti da tutto il mondo, otto djset e quattro performance dal vivo: questi i numeri della prima edizione di NoEgo, il festival internazionale di musica elettronica in programma a Napoli dal 7 all’8 dicembre 2017. Ecco la lineup definitiva: Ansome (UK – live), Boo Williams (USA), Chez Damier (USA), Daniele Baldelli (IT), Isolée (DE – live), Michael Mayer (DE), Radio Slave (UK), Ritzi Lee (NE), The Mystic Jungle Tribe (IT – live), The Rivet (IT - Pioneer showcase), Virginia (DE – live), Volcov (IT). I biglietti sono disponibili al link https://goo.gl/rpcaFG (prezzo 18 euro in formula early bird fino al 24 novembre; prezzo intero 25 euro + diritti di prevendita). Partner d’eccezione della rassegna saranno Resident Advisor e Pioneer. Lanciata nel 2001 come magazine musicale online, Resident Advisor è diventata una delle più estese e attive piattaforme internazionali dedicate alla musica elettronica e alla club culture. RA combina contenuti testuali di qualità con contenuti audiovisivi, liste, directory e strumenti specifici per gli addetti ai lavori, creando un ecosistema di contenuti e servizi per due milioni di lettori al mese. Con un’audience composta da music fan, DJ, produttori, organizzatori, promoter ed etichette discografiche, RA gioca un ruolo fondamentale nel supporto dell’industria musicale elettronica a livello globale. Pioneer, in occasione di NoEgo, presenterà in anteprima nazionale il DJS-1000, un hardware progettato per DJ, producer e musicisti con un’innovativa interfaccia per creare e mixare musica dal vivo. La novità sta proprio nell’ottimizzazione della modalità “live sampling” che permette di creare suoni, melodie, loop e frasi ritmiche in modo intuitivo e immediato. A completare il setup, l’altissima qualità delle prestazioni, un touchscreen a colori a 7 pollici, performance pad e 16 tasti di input a passo multicolore. NoEgo nasce da una visione collettiva e da una necessità comune: promuovere un progetto unitario che coinvolga, per la prima volta, le più importanti realtà campane attive nella promozione della scena musicale e che consolidi il posizionamento di Napoli nel panorama elettronico europeo.  In questo senso la si può considerare una piattaforma, aperta anche a future collaborazioni, dedicata alla valorizzazione delle energie creative e degli ambiti professionali legati ad un vasto ambito musicale. Il concept del festival è già espresso dal nome, l’unione dei termini “no” ed “ego”: decostruire il singolo per valorizzare l’insieme. Non solo un contenitore musicale, quindi, ma un momento di incontro e cooperazione: l’hashtag tematico di questa prima edizione è, appunto, #destroyyourego – distruggi il tuo ego – in nome dell’incredibile forza che si può generare dalla collaborazione di tante individualità. E proprio per questo, la lineup del festival compare rigorosamente in ordine alfabetico e i performer si esibiranno contemporaneamente in due sale, significativamente denominate “public space” e “social space”, riportando tra le mura del Duel Club quell’atmosfera di incontro caratteristica delle piazze napoletane e dei grandi festival open air. Coerentemente, anche l’afterparty dell’8 dicembre alla Galleria 19, sarà incentrato attorno alla dimensione sociale e collettiva del clubbing, con la presenza di stand di etichette discografiche, dj set, workshop ed esposizioni. Protagonisti del festival saranno dodici artisti, tra nomi internazionali e talenti di casa nostra: NoEgo propone una programmazione contemporanea che spazia tra techno e house, fino a sonorità più nu disco, con una lineup decisamente stellare. Si parte con due vere icone della musica elettronica mondiale: direttamente dagli USA, le leggende della Chicago House Boo Williams e Chez Damier. Provenienti entrambi da Chicago, sono capifila del genere da oltre trent’anni, il primo come DJ e come cofondatore con Glenn Underground del progetto/label Strictly Jaz Unit (djset per Boiler Room Chicago visibile a questo link: http://bit.ly/BooWilliams_BoilerRoomChicago),  il secondo come fondatore della storica label Prescription, del club The Music Institute a Detroit e come A&R per la KMS di Kevin Saunderson. Sul palco del Duel Club, anche Michael Mayer, producer di spicco della dance tedesca e cofondatore della storica etichetta di Colonia Kompakt Records. Cresciuto nella scena elettronica dei primi anni ’90, è stato tra i resident dei party “Total confusion”, del Nitsa di Barcellona, del Weetamix di Ginevra e in consolle al Fabric di Londra e al Berghain di Berlino. Supermayer, la fortunata collabo con Superpitcher, lo ha portato sui palchi dei festival più prestigiosi del mondo, come Coachella e Primavera Sound. Ha firmato numerosi remix per Depeche Mode, Pet Shop Boys e Foals, ma non riesce a rinunciare alla kick drum in 4/4. E ancora, tanta house dalla Germania con i live di Isolée e Virginia. Originario di Francoforte sul Meno ma basato ad Amburgo, Rajko Müller compone con lo pseudonimo di Isolée. “We Are Monster”, il suo secondo LP, è un’ottima produzione di “microhouse” che ha riscosso un massiccio consenso dalla critica, dal New York Times a Pitchfork. Dal 2011 pubblica su Pampa, la label di DJ Koze. La Boiler Room di Berlino dello scorso luglio mostra un’anteprima del suo live ed è visibile a questo link: http://blrrm.tv/isolee. DJ, cantante, cantautrice e produttrice, Virginia è uno tra i gioiellini di casa Ostgut Ton. Resident dal 2012 al Panorama Bar berlinese, i suoi set miscelano house analogica ed elettronica anni ’90 con un groove fuori dagli schemi, stratificato su vocals dal vivo. E sono targate Ostgut Ton anche alcune delle produzioni di uno tra i protagonisti di NoEgo più attesi, Radio Slave, al secolo Matt Edwards. Cofondatore della Rekids, è uno tra i DJ britannici più stimati: DJ Mag lo ha dichiarato uno tra i migliori remixer di tutti i tempi e lo ha premiato come “Miglior produttore britannico” ai “Best Of British” awards. Ha remixato artisti come Armand Van Helden, UNKLE e DJ Hell, per citarne alcuni, ed è stato resident e ospite fisso nei club più prestigiosi di tutto il globo: dal Berghain di Berlino al Rex Club di Parigi, dallo Space di Ibiza al Womb di Tokyo. Arriva dal Regno Unito anche il progetto Ansome, che ha dichiarato al magazine District: “ci sono ego smisurati in questo business, ma io non amo prendermi sul serio. Il mio mestiere – aggiunge – è quello di far divertire le persone attraverso la musica”. Una visione in linea con la mission del festival, quella del producer britannico, tra i performer più richiesti nei club europei. Ansome sarà a Napoli con il suo nuovo live, colpi ben assestati di techno ruvida e potente, proponendo alcuni estratti da “British Steel”, il nuovo EP in arrivo su Perc Trax il 13 novembre. Ma anche techno diretta e seminale: dall’Olanda arriva il fenomeno Ritzi Lee. Cresciuto artisticamente ad Amsterdam ha affinato la sua tecnica prodigiosa nei club locali, guadagnando un numero sempre maggiore di fan. Mente della Underground Liberation, label di riferimento della scena elettronica olandese, ha condiviso la consolle con mostri sacri come Jeff Mills, Ben Sims e Dave Clarke. Le sue produzioni figurano abitualmente nelle setlist di Marcel Dettmann e Ben Klock. Spazio anche a quattro progetti italiani, tra tradizione e innovazione: si parte con Daniele Baldelli, un vero veterano del dancefloor made in Italy che ha mosso i primi passi sulla riviera adriatica di fine anni ’60. Precursore indiscusso del deejaying e dell’”africanismo”, ha suonato in tutta Italia e in tutto il mondo, tra mix pazzeschi di Kraftwerk e batucada, miscele delle melodie di Hofra Haza o Sheila Chandra con le sonorità elettroniche della Sky Records tedesca fino ad esibirsi al MoMA di New York e a calcare i palchi di festival come il Flow di Helsinki, il Dimensions di Pola o il Wired Next Fest di Milano in apertura alla leggenda Giorgio Moroder. Si prosegue con il trio The Mystic Jungle Tribe, proposta attuale e innovativa: un ensemble eclettico ed esplosivo, che miscela funk, fusion e derivati in un live pirotecnico. E ancora, l’esclusivo showcase targato Pioneer di The Rivet, il progetto di Gianmario Prevete, già in consolle con artisti come Kenny Gonzales, Todd Terry e David Morales e poducer tra i più interessanti della scena partenopea, con all’attivo numerose collaborazioni tra cui quella con Marcello Coleman, cantante degli Almamegretta. Chiude il quartetto il veronese Enrico Crivellaro con lo pseudonimo Volcov, fondatore delle etichette Archive, Neroli e SJNRL e alter ego di Isoul8, fuori su Sonar Kollektiv, Still Music e Rush Hour. Tra le release di Archive Records, memorabile lo split 12” del classico “Stop Bajon” con Theo Parrish e Merk De Clive Lowe. NoEgo Festival 2017 | 7, 8 dicembre 2017 Napoli | #destroyyourego Sito internet – www.noegofestival.it Pagina FB – http://bit.ly/NOEGO_FB Profilo instagram – http://bit.ly/NOEGO_Instagram Evento FB – http://bit.ly/NOEGO_event Location Duel Club – via Antiniana, 2A – Pozzuoli (NA) Raggiungibile con bus linee urbane: C6, 502, 503 Galleria 19 – via S. Sebastiano, 19 – Napoli Raggiungibile in auto, metropolitana, taxi Tel. 081 1981 0100 Biglietti e sconti Biglietti disponibili sul sito di Resident Advisor: https://goo.gl/rpcaFG Biglietto intero 25 euro + ddp. Biglietto in formula “Early bird – third release” disponibile fino al 24 novembre 18 euro + ddp.
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emanuelepinelli · 7 years
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Pamplona oltre il telegiornale
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In questi giorni vi sarà capitato di vedere al telegiornale i filmati della festa di San Fermin, con la famosa corsa dei tori per le strade di Pamplona.
Complice una recente canzone di Fabri Fibra che li ha adottati come similitudine, complice un meno recente libro di Hemingway intitolato “Fiesta”, i tori di Pamplona e gli audaci che gli corrono davanti sono entrati a far parte del nostro immaginario collettivo.
Ma qual è la realtà dietro il mito?
Come appare la festa di San Fermin a chi la vive dall'interno, in compagnia di amici che sono nati e cresciuti in Navarra?
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Un primo mito che va sfatato è quello che l'uniforme bianca col fazzoletto rosso venga indossata solo dai corridori, e che di conseguenza il rosso serva ad eccitare le bestie. In realtà, per l'intera settimana dal 6 al 13 luglio, chiunque esca per strada a Pamplona si veste di bianco con cintura e fazzoletto rossi.
Come mi spiega Alba, architetta ed esperta di storia navarra, il fazzoletto rosso rappresenta il collo sanguinante del Santo, che fu decapitato, mentre l'abito bianco rimanda alla purezza del martirio.
Comunque sia, fa impressione vedere migliaia di persone parate a festa, tutte uguali. Già scendendo dal treno, e uscendo sulla piazza della stazione, scopro che i ragazzi che aspettano l'autobus e persino i tassisti indossano l'uniforme di San Fermin.
Questo mi riempie di allegria. Anche se non conosco quegli estranei, so che hanno voglia di divertimento, di pace e di amicizia per tutto il periodo della festa, proprio come me, e che si impegneranno ad essere solidali e tolleranti per non rovinarsela a vicenda, proprio come me.
La prima famiglia che mi accoglie è quella di Guillen. La storia dei suoi genitori sembra tratta da un romanzo: 42 anni fa, lui venne dalla Francia a Pamplona incuriosito dalla famosa corsa dei tori, incontrò lei nel vortice della festa, lei lo guardò, lui la guardò, e nacque l'amore. Un amore che rimase separato dai Pirenei per molti anni, ma che adesso finalmente li unisce nella stessa casa, a pochi passi dall'antica Cittadella.
Oltre ad essere romantica, però, la famiglia di Guillen è anche gentilissima. Mi fa dormire nel letto del primogenito, che se ne è appena andato per sposarsi, mi prepara colazioni principesche, e soprattutto mi permette di parlare in francese, il che mi rilassa immensamente, visto che col castigliano arranco molto di più.
Anche in francese, comunque, continuano a saltare fuori alcune espressioni locali, ad esempio "patatìn patatàn", che vuol dire "eccetera eccetera".
Il che è una vera risorsa, perché impedisce ai pamplonesi di usare "eccetera eccetera" in qualsiasi discorso serio. E sappiamo dai manuali di eloquenza che è malcostume usare "eccetera eccetera" nei discorsi seri.
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Come tanti ragazzi di Pamplona, Guillen e la sua “cadrilla” (= giro di amici) fanno parte di una “peña”. Le “peñas” sono qualcosa di simile alle contrade del Palio di Siena, se non fosse che non hanno rivalità tra loro e non hanno un'origine territoriale. Sono piuttosto associazioni ricreative, che di solito dispongono di potenti infrastrutture come un club con mensa, piscina e campi sportivi, o un locale nel centro città dove organizzano feste, balli, bevute, “patatìn patatàn”.
Una volta fatta la corsa coi tori, ho l'onore di partecipare a un pranzone nella mensa della “peña Anaitasuna”, i cui membri, in evidente stato di ebbrezza, si divertono a sfottere “el valiente italiano” con brindisi, battute e pacche sulle spalle. "Ieri mattina", mi alita addosso Fermin, "quando Guillen ti ha imbucato a vedere la processione dal balcone di mia madre, hai fatto colpo su tutte le cinquantenni divorziate più ricche di Pamplona. Fossi in te ne approfitterei..."
L'ironia, come sempre, aveva un fondo di verità. La mattina precedente, mentre la processione del Santo sfilava per la Calle Major, mi trovavo in un appartamento con un balconcino, di proprietà della mamma di Fermin, dal quale si poteva ammirare l'evento dall'alto. Appena si era sparsa la voce che la mattina seguente avrei corso con i tori, tre o quattro capannelli di signore avevano iniziato a disputarsi la mia compagnia, proferendomi il loro aiuto nei modi più svariati. "Mio cugino fa il telecronista della corsa da anni, se gli giro il tuo numero può darti qualche consiglio", diceva una. "Mio fratello è un allevatore e conosce benissimo le ganaderias (=le razze), ti saprà dire se quella di domani è troppo feroce" diceva un'altra. E l'ultima, presomi in parte, mi aveva sussurrato: "Se domani sopravvivi ritorna a trovarci, così potrai diventare il fidanzato di mia figlia. È la ragazza più bella della città. Guarda, ti faccio vedere una foto..."
Ah, le mamme premurose!
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La processione, in ogni caso, è più interessante di qualunque fidanzamento. I giganti di cartapesta, "indossati" da un robusto attore tramite una specie di scheletro ligneo, si stagliano fino al secondo piano dei palazzi. Il più stupefacente è la Regina Mora, capace di volteggiare leggiadra in mezzo alla strada, mentre i suoi sgherri flagellano i bambini con mazzafrusti di gommapiuma, cosa che i bambini trovano entusiasmante.
Poi arriva la banda, poi tutti i preti, anche loro con i paramenti rossi, e alla fine passa la statua del Santo, fra gli applausi e l'esultanza della folla. Più di uno scoppia a piangere.
E scoppia a piangere anche Elisa, che nel preciso istante in cui passa la statua del Santo sente squillare il suo cellulare. È un datore di lavoro, che le offre il posto che sognava fin da quando si era laureata.
Sono circa le 11.30 del 7 luglio 2017. Ma le grazie di San Fermin arrivano oggi come arrivavano ieri.
Elisa (che è amica di Guillen) mi invita nel ridente sobborgo di Mutilva, alle porte della città, dove sarò ospite speciale al gran pranzone della sua famiglia. 24 tra nonni, zii, cugini e fidanzate dei fratelli, con il “gazpacho casero” più saporito che si possa immaginare, vino rosato, e un miscuglio spassosissimo tra il ramo catalano e il ramo andaluso della famiglia (la Catalogna è l'equivalente iberico della Lombardia, mentre l'Andalusia è l'equivalente iberico della Calabria).
È a quella tavolata, in cui dolce e caffè vengono serviti intorno alle 18.45, che incontro l'uomo di cui ho bisogno. José è un vero professionista di San Fermin, che corre coi tori ogni anno dal 2002, tutte e sette le mattine. In totale quindi l'ha già fatto 106 volte.
Insistendo un po' riesco a convincerlo a portarmi con lui nel recinto, e a spiegarmi secondo per secondo che cosa dovrò fare quando gli animali saranno liberati.
Ma Elisa, che è una donna dal fine intuito, ha colto anche la mia anima fricchettona. Così, verso le undici di sera, mi porta sul pratone della Cittadella con abbondanti riserve di alcol.
Oltre ad essere comodo, il pratone è il punto migliore da cui osservare la gara di fuochi artificiali.
Ognuna delle sette sere, infatti, una diversa azienda internazionale di pirotecnica si esibisce in uno spettacolo di venti minuti, e alla fine della festa si premia la migliore. Ora, nella vita ho visto spettacoli di fuochi ben più lunghi ed esuberanti (il Capodanno a Bari, la Luminara a Pisa, “patatìn patatàn”), ma solo quella sera mi sono reso conto che i fuochi artificiali sono in prospettiva, che osservati da un determinato punto acquistano la dimensione della profondità. Scoprirlo mi ha lasciato a bocca aperta.
Il prezzo da pagare, per Elisa, sono state tre o quattro ore di discorsi filosofici nel mio barcollante castigliano. Ma chi ha appena ottenuto il lavoro dei suoi sogni può sopportare anche questo...
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“El encierro”, ovvero la corsa dei tori, inizia alle otto di mattina. Il percorso recintato di circa 800 metri, che sfocia nella “Plaza de Toros”, viene chiuso alle sette. Poi la polizia supervisiona lo sparpagliarsi dei corridori lungo tutto il tragitto. Ai lati della strada, José saluta dei pastori vestiti di verde e armati di canna, che si occupano di ridirigere i tori se qualcosa dovesse andare storto.
La gente è tutta affacciata ai balconi e alle finestre, ci manca solo che ci lancino i fiori. La mia testa è interamente occupata dal quarto atto della “Carmen”.
Alle otto meno cinque, i turisti che volevano solo farsi i selfie nel recinto se la svignano.
Da quando la pistola spara a quando tutto è finito, passano meno di due minuti.
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Al bar “El Burladero” ritrovo José, che sorseggia il caffellatte insieme ai suoi due bambini. Sulla coscia sinistra ha uno sbrego insanguinato. "È normale" mi assicura. "Tu stai bene?"
"Sì", rispondo, "si è rotto solo il vetro del telefono".
Solo più tardi mi sono reso conto che avevo un alluce gonfio e color cancrena. Qualcuno doveva esserci montato sopra quando mi ero fermato all'ingresso della Plaza, dove si formava un imbuto umano, e un mucchio di persone cadute una sull'altra mi obbligava a rallentare il passo. La fasciatura ce l'ho ancora adesso mentre scrivo.
Alle sette della mattina dopo, Alba, ultima a procurarmi ospitalità presso la sua famiglia, mi butta giù dal letto. Dormivo da appena due ore. Chiama un taxi e mi porta alla stazione dei pullman.
Se Dante avesse inserito nell'Inferno un girone degli ubriachi, sarebbe stato quella stazione.
Il pullman mi scarica a Barcellona. Prima di prendere l'aereo per Roma, mi prendo una birra con la mia amica Bea, in una piazzetta studenteggiante che ricorda quelle di Pisa.
"Ma tu", le chiedo, "dieci anni fa, quando eravamo in classe insieme al liceo, avresti mai pensato che dieci anni dopo ci saremmo ritrovati a prendere una birra a Barcellona, tu perché stai costruendo un gorilla in dimensioni naturali per un museo della scienza, io perché sono andato a correre coi tori?
Al liceo non capiamo proprio niente di quello che faremo nella vita. È strutturalmente impossibile".
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