Tumgik
insuperficie · 6 months
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Mi arriva questa submission un po' sconclusionata, in cui si prende per un attacco un post che era tutto il contrario. Io non dico molto, ma almeno saper leggere. Boh.
Il tuo vecchio post su Jordan Peterson mi ha fatto molto ridere perché dimostra la disonestà intellettuale delle persone come te, costrette ad attaccare sul personale in mancanza di valide argomentazioni. Puoi essere d'accordo o meno con quello che dice Peterson, Walsh, ecc. (tra l'altro persone con opinioni molto diverse tra loro) ma nel momento in cui l'unica cosa che sai fare è attaccare il suo presunto ‘stile’ passi automaticamente dalla parte del torto. Mi sembra quasi di leggere gli atti dei processi alle streghe in cui si cercavano determinati comportamenti per dimostrare la  presuntamalvagità delle stesse. Questo tuo rantolo pseudointellettuale dimostra anche un'altra cosa: che le persone come te, che sento il bisogno di ricorrere a questi mezzucci, sono spaventate a morte. Spaventate non dalla violenza (tutto si può dire su Peterson tranne che sia una persona violenta, intollerante ed ostile al dibattito) ma da un nemico molto più insidioso: il dubbio. Il dubbio che, tra le sue parole (e tra quelle di molti altri che difficilmente si possono definire 'neoconservatori’), ci possa essere un briciolo di verità; che forse il relativismo assoluto del post-modernismo (del “io sono quello che penso di essere e nessuno mi può contestare”) sia solo una cagata pazzesca. E dopo averlo letto vado a farmi un bagno nel Lago Duria
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insuperficie · 1 year
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La conferma definitiva che siamo condannati, come specie e come individui, è la nostra capacità di invidiare chi sta peggio di noi. 
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insuperficie · 1 year
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Quella volta che ho avuto un breakdown al concerto di Max Pezzali
Arrivi, e capisci immediatamente che hai sottovalutato in modo drammatico la notorietà di Max Pezzali. Il Pala Alpitour è tutto un formicolare di mammiferi bipedi dalle fattezze variegate, di tutte le età ma con un netto picco nella demografica 30-40. Si aggirano in branchi con sulla fronte bandane giallonere, “MAX” a caratteri cubitali mentre sorseggiano da beveroni di birra calda. Intorno è una paninoteca a perdita d’occhio, chioschi innumerevoli che grigliano salsicce, piastrano panini, distribuiscono con generosità bottiglie di vetro vietate. Contemplo la scena e mi sento un etnografo in una cultura sconosciuta, misuro il mio desiderio di osservazione partecipante.
Sono qui con uno dei miei migliori amici, una di quelle amicizie che sono diventate natura, hanno qualcosa di arboreo e sottocutaneo. Entriamo nel palasport e lui è deluso, sembra ci sia poca gente ma manca un’ora. Dieci minuti prima dell’inizio la sala è gremita, quindicimila persone tutte lì a gridare il nome di Max. Il concerto comincia ed è fantastico, le visuals rimandano - come i testi delle canzoni - alla nostalgia della provincia, scandiscono un’epica semplice fatta di divinità minori, donne irraggiungibili, fallimenti mai definitivi, successi inattesi dei senza successo. È uno dei concerti più wholesome a cui abbia mai partecipato, Max Pezzali è gentile e rilassato, la folla è indelirio, il mio amico non è in sé e si gode la serata cantando a squarciagola. 
Io intanto penso. Ho sempre considerato il mio amico come una sorta di mia versione alternativa, noi due rappresentiamo le due opzioni fondamentali della vita: lui è rimasto, io sono partito. Lo guardo così puramente felice, una goccia in questo mare di folla in cui tutti cantano, tutti sembrano conoscersi. È un bel momento, indubbiamente, mentre io non riesco a smettere di pensare al lavoro, all’ennesima sciocchezza che dovrò scrivere o inviare. Mi si schianta in testa l’idea che forse ho sbagliato, che forse tornare non è abbastanza, e che avrei fatto meglio a restare dov’ero, a scegliere una vita facile e linerare, fatta di affetti duraturi, di giornate lunghe e vuote. Invece, come Gandalf, ho scelto la via del dolore.
Piango a dirotto mentre Max Pezzali canta Sei un mito. Il mio amico è lontano, tutti sono lontani. Vivo la mia catarsi privata ascoltando un pezzo degli 883 e penso ai ritorni. 
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insuperficie · 2 years
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La solitudine è quasi sempre un effetto dell’aver affidato il nostro bisogno di cura alle persone sbagliate.  
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insuperficie · 2 years
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Questo video di Jordan Peterson è prodotto da DailyWire, la piattaforma conservatrice fondata da Ben Shapiro e attualmente esplosa grazie a un documentario di Matt Walsh intitolato “What is a woman?”. Da tempo Peterson è stato ufficialmente irregimentato tra le file dei neoconservatori americani, una banda di polemisti sotto steroidi che hanno trascorso la loro adolescenza tra catechismi e gare di dibattito. 
Rispetto a essi, tuttavia, Peterson ha qualcosa di diverso, qualcosa di più: il background da uomo sofferente, la postura impeccabile ma espressiva, la capacità di trasformare ogni discorso in uno sguardo sulla condizione umana. Si può odiare Peterson, ma non si può non ammettere la sua capacità di trasformare ogni sua apparizione in un film fantasy: egli è senza dubbio il polemista più epico del XXI Secolo, colui che meglio di tutti ha saputo padroneggiare l’espressività dell’eroe tragico. 
Ventiquattro ore, più di un milione di visualizzazioni. Questo video, che commenta il recente ban di Twitter nei suoi confronti, ha tutto il sapore di un contrattacco. Chissà se questo contrattacco verrà ricordato come un episodio in una gustosa guerra di comunicazione tra le piattaforme liberal americane e la “maggioranza silenziosa” dei redneck, o se non passerà più tristemente alla storia come una delle avvisaglie di una guerra civile di là da venire. 
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insuperficie · 2 years
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Ieri ho letto cinquanta pagine di un libro poco interessante. Ho riguardato un film che avevo già visto tre volte. Ho giocato distrattamente a un gioco indie. Ho risposto alle mail e messo in ordine i miei documenti fiscali. 
Quello che ho fatto veramente, però, è stato passare l’intera nottata ad aspettare che una persona mi scrivesse. 
Mai più.
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insuperficie · 2 years
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Emily Ratajkowski è la più grande platonica del XXI secolo. Ogni suo pensiero muove da un sospetto fondamentale nei confronti della sfera del visibile, che abita come un'estranea curiosa e un po' annoiata, come un'anima disincarnata finita improvvisamente in un corpo di cui non sa che farsi. Ratajkowski è nel mondo ma non del mondo, il dualismo è il suo habitat naturale, a partire dal titolo del libro e poi in ogni descrizione, ogni scelta. "Sul mio corpo", così, è una drammatizzazione in prima persona di un'idea radicale: il mio corpo è come il mio gatto, il mio tavolo, il mio quartiere, ovvero qualcosa con cui riconosco una qualche forma di familiarità e di interazione, ma in cui non potrò mai identificarmi. 
La citazione iniziale, tratta da John Berger, lo dice molto bene: l'esperienza di Ratajkowski rimanda a una particolare educazione alla passività, la modalità estrema di quel «trattare sé stessi da veduti» in cui l'autrice riconosce l'essenza della forma di vita femminile nella società moderna. 
Siamo sempre più inclini a riconoscere il carattere sovraesteso della nostra identità: accettiamo in modo sempre più naturale che le nostre cose parlano di noi, che la nostra soggettività è fatta non solo del nostro corpo e della nostra mente, ma anche delle nostre azioni, dei nostri vestiti, dei frutti del nostro lavoro, dei luoghi che abitiamo, dei dispositivi che usiamo. Rispetto a questa tendenza, Ratajkowski si muove nella direzione opposta: "Io" è una dimensione privata e indefinibile, sovrasensibile, che attraversa l'esperienza dell'abitare un corpo, un vestito, un luogo, ma non può mai ridursi a essa.  
Una pagina micidiale del libro lo esprime molto bene: «Se guardo il mio corpo, non mi sembra mio. È qualcosa, ma non è me. E loro possono guardarlo quanto vogliono, perché hanno ragione: il corpo è davvero soltanto uno strumento».
Quella di Ratajkowski è una posizione reattiva: in un mondo dominato dal desiderio maschile, l'unica opzione è retrocedere, lasciare il regno del visibile al nemico e rifugiarsi nella metafisica. La prima conseguenza di questo atteggiamento è che il desiderio è sempre e solo maschile. Il desiderio della donna non si dà se non in termini negativi: non dover lavorare, non avere paura, non essere riconosciuta. 
Questo desiderio tutto negativo è alla base di un disprezzo tutto platonico per la bellezza fisica. Il mondo descritto da Ratajkowski è un mondo androgino, in cui il sesso irrompe sempre come una violenza. Come in The Neon Demon, il capolavoro di Nicholas Winding Refn, la bellezza della modella deve essere un puro tramite per una dimensione ultraterrena. I seni troppo grossi, le forme troppo accentuate provocano l'esclusione, segnano la condanna al mondo sensibile (i "cataloghi di lingerie"). In questo mondo l'autrice si muove come un'etnografa, descrivendo con estrema precisione i tratti più bizarri dell'esperienza di vivere come oggetto e non come soggetto. 
Si tratta di un'esperienza piena di contraddizioni. Molte le riconosce l'autrice stessa, sempre sospesa tra lo sguardo maschile e il bisogno di sfuggirvi, avviluppata nella ricerca di un desiderio al tempo stesso necessario e impossibile. La contraddizione più grande, alla fine, si trova nell'operazione stessa del libro: Ratajkowski vuole criticare l'oggettificazione della donna, mette in ridicolo la sorpresa dei maschi che scoprono che «è anche intelligente». Eppure l'intero libro non è altro che questo, il resoconto sensazionalistico di una vita completamente dissociata, presentata e pubblicizzata come un fenomeno straordinario: un burattino che parla, un manichino che pensa.
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insuperficie · 2 years
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Il Bacio, 2015, by Roberto Ferri (1978-)
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insuperficie · 2 years
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Del momento femminile
Stasera ho visto un film di Paolo Virzì intitolato Tutta la vita davanti, tratto da un libro di Michela Murgia che avevo già sentito e che a questo punto leggerò. La protagonista è una giovane laureata in filosofia che si barcamena nel surreale mondo dei call center, ma anche nella più generale desolazione dei rapporti umani adulti. 
Guardando il film ho provato tanta risonanza con la protagonista - la magnifica Isabella Ragonese, ma anche un crescente senso di angoscia. All’inizio pensavo che l’angoscia fosse dovuta al fatto di riconoscermi in quelle scene, in quei momenti. Poi ho capito che il mio sentimento era dovuto alla ragione opposta. 
Un aspetto inesplorato del film è quanto la particolare posizione della protagonista sia identificata a partire dalla questione di genere, a partire da quella che - in mancanza di un termine migliore - chiamerei “la condizione femminile”. Non faccio riferimento alle dinamiche specifiche del lavoro femminile o del rapporto tra donne, e nemmeno alla questione del rapporto con gli uomini. Mi riferisco piuttosto a delle sfumature di significato, a una certa “aura” che dà a ogni scena la sua tonalità emotiva specifica. Identificherei questa tonalità in una tensione tra passività e ostilità, fragilità e forza: il fascino del personaggio di Marta è dovuto precisamente a questa condizione mediana, sempre sospesa tra vittima e carnefice, salvatrice e salvata, predatrice e preda. 
Ho capito che parte del mio disagio di questi mesi è dovuto alla difficoltà di esprimere precisamente questa condizione. Non credo che abbia a che fare molto col genere, credo che si tratti di un modo d’essere che riguarda indifferentemente tutti, ma che nella nostra cultura siamo abituati ad associare alla femminilità. Eppure io mi sento esattamente così: esposto e agguerrito, passivo e risoluto. In fondo, se dovessi spiegare qual è la fonte del mio disagio di questo periodo potrei riassumerla così: provo qualcosa che non dovrei provare, perché viene solitamente associato all’esperienza dell’essere donna. 
In effetti questa è una fase piuttosto femminile della mia vita. E tutta questa delicatezza, tutto questo bisogno di vedere riconosciuta la mia fragilità, sta sospeso in ogni mio gesto come un che di perturbante, che non so come esprimere. 
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insuperficie · 2 years
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Ogni uomo racchiude qualcosa di terribilmente fosco, di prodigiosamente amaro, qualcosa che maledice, che detesta la vita, la sensazione di essere caduto in una trappola, di aver creduto e di essere stato beffato, di essere votato alla furia impotente, all'abdicazione totale, in balia di una potenza barbara e inflessibile che dona e che trattiene, che coinvolge e che abbandona, che promette e tradisce, e che ci infligge per soprammercato l'onta di lamentarci, di trattarla come un'intelligenza, un essere sensibile, e che si può toccare.
P. Valéry
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insuperficie · 2 years
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Ho cominciato a guardare la serie animata di Zerocalcare convinto che avrei adorato ogni momento. Me l'ero addirittura conservata qualche giorno, aspettando di avere bisogno di un momento di risonanza. In fondo ho sentito tutto ciò che mi aspettavo di sentire: ho colto le citazioni, ho sorriso, mi sono commosso. Eppure. 
Per una cirostanza fortuita ho guardato la serie mentre rileggevo le Lettere sull'educazione estetica di Schiller. Sarà che è tardi e sono stanco, ma le due esperienze - la lettura, la visione - mi si sono intrecciate dentro, e alla fine si sono contrapposte. Quando scrive le Lettere, Schiller è praticamente un coetaneo di Zerocalcare. Il suo punto di partenza è riassumibile in un punto: la crisi della modernità non è cognitiva, ma estetica. Affinché torni a essere grande, occorre che l'essere umano riapprenda a sentire.Rispetto al progetto di un'educazione estetica, la proposta di Zerocalcare è quella di una pacificazione estetica. La sua grandezza sta nell'aver dato un immaginario alla sensibilità morale di un'intera generazione, e questo è anche il suo limite: in questa Rebibbia dello spirito, il nostro sentire trova solo conferme. 
Non c'è propriamente una "educazione", perché nulla deve cambiare: ogni passione è sottoposta a un'operazione cosmetica che la rende dolce, buffa, arguta. Così ogni tratto di questa "vita minima" diventa parte di un gioco del riconoscimento senza attrito, di una narrazione in cui non c'è bisogno di negare nulla, perché raccontare - anziché vivere - diventa il vero punto.  Paradossalmente, nel mondo di Zerocalcare non c'è davvero spazio nemmeno per il fallimento. Nessuno può davvero perdere, perché nessuno prova davvero a fare alcunché. E in fondo va bene così, "la vita è una brioche", si diceva da piccoli nel mio paese. 
Ho sempre apprezzato la gentilezza con cui alcuni autori sanno cogliere la sconfitta. La dolcezza per i vinti, l'onore delle armi. Unos guardo clemente sul fatto che siamo tutti solo umani, che siamo destinati a perdere. Ma in questa serie la sconfitta è una tonalità emotiva, costantemente evocata e mai analizzata. La vita descritta da Zerocalcare è una vita animale, post-storica, in cui l'idea che qualcuno debba fare qualcosa è semplicemente ridicola. Un'idea antiquata, da sedare con una battuta in romanesco. 
E allora non so, rispetto a questa immagine dell'essere giovani - dell'essere umani - capisco il bisogno di esigere qualcosa di più. Pensare che l'umano debba ambire a qualcosa di grande, che in questa ambizione possa e debba fallire, ma fallire davvero, cercando un riconoscimento che non ha niente a che vedere con il successo, ma che è distante anni luce anche da questa narrazione consolatoria. Non lo so, ecco. Ma non riesco a togliermi di dosso l'impressione di aver visto - e apprezzato - il prodotto culturale più reazionario di quest'anno.
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insuperficie · 2 years
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Certe sere la stanchezza non sembra nemmeno una proprietà del corpo, ma dell’ambiente. Stanca è l’aria che si muove nella stanza, stanca l’acqua che bolle per fare del caffè. Stanco il pc, che sembra guardarmi quasi con pietà e mi chiede “Ancora?”. Tutto stanco, tutto un po’ più grigio, i dolori muscolari una piccola sinfonia d’accompagnamento. 
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insuperficie · 2 years
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Nella numerosa enumerazione dei diritti dell'uomo che la saggezza del secolo XIX rinnova così spesso e con tanta soddisfazione, due piuttosto importanti sono stati dimenticati, che sono il diritto di contraddirsi e il diritto di andarsene.
Charles Baudelaire
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insuperficie · 2 years
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Gran parte della mia vita psichica accade fuori di me. “Io” non è propriamente il soggetto della mia vita, ma un osservatore che accompagna questo soggetto. Io, propriamente, sono quello spettatore. 
Quando le cose vanno male, questo spettatore è un rifugio. È dove “Io” mi ritiro per evitare di rimanere crocifisso entro i confini del mio corpo, nella rete dolorosa delle mie relazioni, o nella mortificante solitudine dovuta alla loro mancanza. 
Quando le cose vanno bene, questo spettatore è un compagno di bevute. Dà una pacca sulla spalla del soggetto, vive insieme a lui. Distinguere soggetto e spettatore diventa difficile, e la vita diventa uno spettacolo commentato da due amici che si conoscono da tanto tempo. 
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insuperficie · 2 years
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Quando cominci a parlare con i libri, è forse arrivato il momento di organizzarsi per incontrare altri mortali.
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insuperficie · 2 years
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Mare mare mare, voglio annegare portami lontano a naufragare via via via da queste sponde portami lontano sulle onde
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insuperficie · 2 years
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Della stanchezza.
Un manuale di sopravvivenza per la vita metropolitana, in particolare per chi fa mestieri intellettuali, dovrebbe insegnare già dalle prime pagine a distinguere i principali tipi di stanchezza. 
L’esaurimento psichico dovuto all’eccessivo uso delle risorse mentali. Come essere rincorsi per strada da un rumoroso stuolo di demoni, e non avere fiato. 
Il cedimento fisiologico di alcune minute parti del corpo: gli occhi, il collo, i polsi. Perché è raro riconoscere la strana forma di atletismo in cui consiste l’imparare a stare fermi.
Il torpore disgraziato dovuto allo squilibrio glicemico, quando non è la meccanica del corpo a tradirti, ma la sua chimica. 
La spossatezza dovuta allo stressato far nulla, la tensione che si maschera da rilassamento. 
Il cedimento strutturale che segue allo scarico della tensione, dopo una giornata importante o un seminario che si organizzava da tempo. Imparare a memoria il ritmo del lavoro. 
E poi, quasi un miraggio, la stanchezza fisica, l’equilibrato esaurimento delle risorse fisiche e mentali. Così raro, così delizioso. 
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