Tumgik
olafoel · 4 months
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olafoel · 4 months
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Maurizio Costanzo:
Professor Basaglia che cos'è la follia?
Franco Basaglia:
Il problema della normalità e della follia è un problema cheha agitato sempre l'uomo e il mondo. Bisogna vedere quale normalità e quale follia. Questo è il problema.
Costanzo:
Qual è la normalità per lei?
Basaglia:
E' la situazione nella quale noi ci troviamo, chiusi nella società nella quale viviamo, nel sistema sociale nel quale viviamo
Costanzo:
E la follia?
Basaglia:
La follia è l'altra parte, è un bisogno non soddisfatto che porta l'uomo a esprimersi in maniera diversa. È una domanda la follia, una domanda di essere con gli altri.
Trasmissione Acquario 1979
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olafoel · 4 months
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News
15/02/2020 00:14
POLITICA
Il matematico e futurologo Roberto Vacca, con il suo Il Medioevo prossimo venturo, aveva previsto le pandemie di oggi fin dal 1972
di Riccardo Ruggeri Zafferano.news
A caso prendo un giornale di metà gennaio 2020 e leggo, così alla rinfusa: 1. Monica Bellucci annulla la sua partecipazione a Sanremo. 2. Il misterioso virus cinese potrebbe trasmettersi da uomo a uomo (già 15 morti). Oms convoca una riunione di emergenza. 3. Assolto il vigile urbano di Sanremo che timbrava il cartellino in mutande.
Venti giorni dopo, sullo stesso quotidiano leggo: 1. Il Festival di Sanremo è finito con l'exploit di Achille Lauro (non è parente del celebre comandante napoletano: scambiava voti con scarpe, la sinistra prima del voto, la destra dopo i risultati).
2. L'Oscar è andato a sorpresa a un film sudcoreano (Parasite) che ha un Morandi nella colonna sonora.
3. I morti in Cina per coronavirus sono diventati circa 100 volte tanto.
Secondo gli scienziati abbiamo una sola certezza: tutto è nato nei mercati degli animali vivi (non sappiamo quali animali). Si dice perché non chiuderli? Impossibile, la struttura agricola-alimentare della Cina si basa da sempre su questo modello, e gli agricoltori sono 500 milioni (sic!), gli abitanti dell'Europa. Le strategie in Cina sono sempre state condizionate dai numeri.
Prendo il Corriere del Ticino di 100 anni fa (31 gennaio 1920) e leggo «Uscito il decreto governativo che vieta, con effetto immediato, tutte le feste danzanti come misura preventiva alla diffusione dell'influenza epidemica in essere (era appena finita la Spagnola, 25 mila morti nella piccola Svizzera)». Leggendo tutte queste notizie, per non so quale associazione di idee, mi è tornato alla mente un vecchio saggio (1971) del matematico Roberto Vacca dal titolo Il Medioevo prossimo venturo. In estrema sintesi, il professore ipotizzava una prossima regressione della civiltà, proiettata verso un mondo dominato dalla povertà e dalle malattie, quindi percorso da lotte selvagge per la sopravvivenza. Gran parte degli accademici lo liquidò come parascientifico, collocandolo nel filone post catastrofistico, una specie di saga Mad Max de noantri. A me invece piacque.
In realtà il ragionamento di Vacca si basava su rigorose analisi matematiche che confermavano come la civiltà umana si articolasse e si sviluppasse secondo fasi cicliche, che contengono pensieri, situazioni, atteggiamenti, secondo l'immortale principio «La storia ci insegna che la storia non ci insegna nulla». Quello che Vacca non aveva previsto era l'altissima velocità alla quale il processo di sviluppo, in realtà degrado secondo i suoi calcoli, stava marciando. In effetti, negli ultimi trent'anni (il periodo del Ceo capitalism) abbiamo concentrato la ripetizione di eventi in passato durati secoli. Ne cito alcuni: il desiderio di piccole patrie, il ripudio di Regni o di Imperi globalizzati, la paura delle invasioni barbariche, la crescita dell'intolleranza, il terrore dell'estremismo religioso, la distruzione della famiglia e dei suoi valori, il ripudio della cultura come modalità di crescita (pochi leggono, tanti parlano, per cui siamo governati da ignoranti che si credono competenti). E ora è arrivato, per la terza volta, il virus asiatico, con tanto di untori e di monatti, con lazzaretti fatti in pochi giorni, spacciati per ospedali.
Che fare? La vista di Xi Jinping che indossa la mascherina e si sottopone ai protocolli sanitari immagino sia stata per lui politicamente imbarazzante. I cinesi più sprovveduti credevano che un Dio fosse esente dai virus degli umani. Costretti in questi anni al nazi-programma del riconoscimento facciale, si prendono una piccola vendetta, la mascherina coprente il viso restituisce loro la dignità della riservatezza, ridicolizzando l'algoritmo.
Osservandolo, Xi mi ha ricordato l'Imperatore Hirohito terrorizzato di essere processato come criminale di guerra (lo era, eccome!) e salvato dal generale Douglas MacArthur. Quando poi il popolo cinese dovesse fare un parallelo Wuhan-Chernobyl per Xi sarebbe la fine. L'Impero sovietico, e la sua casta di politici criminali, caddero per menzogne radioattive, identiche a queste. Intanto il processo ipotizzato dal professor Vacca accentua la velocità di caduta del modello. Chi conosce la Storia sa che dopo il Medioevo 2.0 arriverà il Rinascimento 2.0. Io non lo vedrò, ma i miei nipotini sì, avranno questo privilegio. E saranno felici, lo spero di cuore
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olafoel · 4 months
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il popolo ucraino, storicamente è sempre stato soggetto ad una visione del mondo fiabesca, ad un facile pensiero magico, e a un'eccessiva impressionabilità. Ed è quest'anima ad averla resa vittima inconsapevole …
Novembre 2023 Vladislav Surkov
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olafoel · 7 months
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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
PERCHÈ LA GUERRA? Carteggio Albert Einstein - Sigmund Freud
Lettera di Einstein a Freud - Gaputh (Potsdam), 30 luglio 1932
Caro signor Freud,
La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza.
L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé?
Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert Einstein
La risposta di Freud
Caro signor Einstein,
Quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia - starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, poiché questo mi sembrava un compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come fisico, bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto in gran parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io viaggio volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò che Lei mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo le mie migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”? Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è universalmente noto come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che arrivano fino alle più alte cime dell’astrazione e sembrano esigere, per essere decisi, un’altra tecnica. Ma questa è una complicazione che interviene più tardi. Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere portata ad attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita mediante l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più abilmente. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, vale a dire lo uccide. Il sistema ha due vantaggi, che l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora la violenza si accontenta di soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in agguato, e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che lo strapotere di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più deboli. L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la potenza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il prepotente e si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si otterrebbe niente. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La comunità deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni - le leggi - e che provvedano all’esecuzione degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del gruppo.
Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità consiste solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà di ogni individuo di usare la sua forza in modo violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine - ma anche di perfezionamento - del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti, dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto ineguale verso il diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di potere all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il diritto si può allora conformare gradualmente ai nuovi rapporti di potere, oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante non è pronta a tener conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione, alla guerra civile, dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una collettività, ma essa appartiene a un contesto che può essere preso in considerazione solo più avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. Uno sguardo alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più altre, tra unità più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra. Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si possono giudicare univocamente le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno contribuito alla trasformazione della violenza in diritto avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza venne annullata e un nuovo ordinamento giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve tuttavia ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti unite forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, tanto più devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione - i singoli Stati - gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della Società delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori non è escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi comuni ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si può attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire - da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, - e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Lei vede che propriamente si tratta soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che forse è originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre legata - vincolata, come noi diciamo - con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle.
Se Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane rivelano anche una complicazione di altro genere. E’ assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più notevole come psicologo di quel che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si potrebbero ripartire come i trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte, trattandosi per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre in modo diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni scienza naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo un’illusione. Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra.
Partendo dalla nostra dottrina mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Vede che, quando si consulta il teorico estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien fuori molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il pericolo con i mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un distacco di cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente coltivati. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo Sigm. Freud
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olafoel · 8 months
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Anthony Hopkins -
"So che mi rimane meno da vivere di quanto ho vissuto.
Mi sento come un bambino a cui hanno regalato una scatola di cioccolatini. Si diverte a mangiarlo, e quando vede che non rimane molto, inizia a mangiarli con un sapore speciale.
Non ho tempo per interminabili conferenze sulle leggi pubbliche, nulla cambierà. E non c'è desiderio di litigare con gli stupidi che non agiscono secondo la loro età. E non c'è tempo per combattere col grigio. Non partecipo a riunioni dove si gonfia l'ego e non sopporto i manipolatori.
Mi infastidiscono le persone invidiose che cercano di calunniare coloro che sono più capaci di strappargli i posti, i talenti e i successi.
Ho pochissimo tempo per discutere titoli: la mia anima ha fretta.
Sono rimaste pochissime caramelle nella scatola.
Mi interessano le persone umane. Le persone che ridono dei propri errori sono quelle che riescono, quelle che comprendono la loro vocazione e non si nascondono dalle responsabilità. Che difende la dignità umana e vuole stare dalla parte della verità, della giustizia, della giustizia. Ecco a cosa serve la vita.
Voglio circondarmi di persone che sappiano toccare il cuore degli altri. Chi, attraverso i colpi del destino, ha saputo rialzarsi e mantenere la morbidezza dell'anima.
Sì, ho fretta, ho fretta di vivere con l'intensità che solo la maturità può dare. Mangerò tutti i dolci che mi sono rimasti, saranno più buoni di quelli che ho già mangiato.
Il mio obiettivo è arrivare alla fine in armonia con me stesso, i miei cari e la mia coscienza.
Pensavo di avere due vite, ma si è rivelata essere una sola, e bisogna viverla con dignità".
Anthony Hopkins.
Diritti all'autore
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olafoel · 8 months
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“il ne s'est jamais si bien branlé que par sa main”
Professor Choron
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olafoel · 9 months
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olafoel · 9 months
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Il Fondo monetario internazionale ha cancellato il discorso del premio Nobel per la fisica Dr. Clauser a Clen, dopo che ha messo in discussione la teoria del cambiamento climatico.
Scienziato vincitore del premio Nobel: "La crisi climatica è una bufala per spopolare il pianeta"
Lo scienziato vincitore del premio Nobel Dr. John Clauser ha testimoniato che la narrativa del cambiamento climatico creata dall'uomo è una "bufala" perpetrata dall'élite "per spopolare il pianeta".
Il dottor John Clauser, co-vincitore del premio Nobel per la fisica nel 2022 e una delle principali autorità mondiali sulla meccanica quantistica, ha criticato l'agenda verde promossa dai paesi controllati dal WEF definendola una "pericolosa corruzione della scienza che minaccia l'economia mondiale e il benessere di miliardi di persone".
Secondo il dottor Clauser, la bufala del cambiamento climatico creata dall'uomo viene perpetrata dal governo e dalle organizzazioni dei media che vengono comprate e pagate dall'élite globalista.
L'obiettivo dei globalisti è quello di spopolare il pianeta e di diminuire drasticamente la qualità della vita di chi resta.
"Secondo me, non esiste una vera crisi climatica",
"C'è, tuttavia, un problema molto reale nel fornire uno standard di vita dignitoso alla popolazione più numerosa del mondo e una crisi energetica associata".
"Quest'ultimo viene inutilmente esacerbato da quella che, a mio avviso, è una scienza del clima errata", ha detto Clauser.
Il dottor Clauser non è il primo vincitore del premio Nobel a sfidare la narrativa scientifica e politica "consolidata" del "cambiamento climatico".
"Il mondo in cui viviamo oggi è pieno di disinformazione. Spetta a ciascuno di voi servire come giudici, distinguendo la verità dalla falsità sulla base di accurate osservazioni dei fenomeni".
#Clauser #censura #negazionista #negazionismoclimatico
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olafoel · 10 months
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⭕ Non possiamo strappare gli altri al loro destino, è inutile.
🖋️ «.....è molto importante che il medico non voglia guarire a tutti i costi.
Dobbiamo essere estremamente attenti a non imporre al paziente la nostra volontà e le nostre convinzioni. Dobbiamo lasciargli un certo margine di libertà.
Talvolta è veramente problematico se sia lecito salvare un uomo dal destino che deve affrontare, perché possa svilupparsi ulteriormente.
Non si può impedire a certe persone di commettere terribili assurdità perché fa parte della loro natura.
Se io mi intrometto, loro non hanno alcun merito. Il nostro sviluppo psicologico può veramente progredire soltanto se ci accettiamo quali siamo e se viviamo con il necessario impegno la vita che ci è stata affidata.
I nostri peccati, errori e colpe sono necessari, altrimenti saremmo privati dei più preziosi incentivi allo sviluppo.
Se, dopo aver sentito qualcosa che avrebbe potuto cambiare il suo punto di vista, un uomo se ne va e non ne tiene alcun conto, io non lo richiamo indietro.
Potrete accusarmi di non comportarmi cristianamente, ma non m’importa.
Io sto dalla parte della natura.
L’antico libro di saggezza cinese dice:
«Il Maestro ha parlato una sola volta. Egli non corre dietro alle persone, non serve a nulla. Coloro che devono capire – perché è questo il loro destino – capiranno, e gli altri non capiranno.»
Perciò io non insisto mai su una mia affermazione. Potete accettarla, ma se non lo fate, va bene lo stesso.»
(C.G Jung)
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olafoel · 1 year
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Cercare la felicità fuori di noi è come aspettare il sorgere del sole in una grotta rivolta a Nord (di Umberto Pietro Benini) 
La vanità delle cose, la superficialità e l'egoismo rendono l’uomo estraneo o inquieto di fronte alla fragilità del transitorio. «... il divenire riempito di eventi e circostanze, corredato di concreti contenuti, fa solo rumore». (Jankélévitch) Va riscoperta la giusta gerarchia dei valori non sacrificando la qualità della vita all’inganno di un benessere ambiguo. Che cosa basta per essere felici?
Questo interrogativo, in ogni epoca e scuola, non può essere eluso, poiché ad esso è indissolubilmente legata la questione del senso dell'esistenza umana. Ricchezza e potere, successo e benessere non riescono ad offrire risposte convincenti alle nostre attese più profonde, anzi, sembrano depistarci e confonderci sempre di più, distogliendoci dalla ricerca di una felicità autentica e duratura. Oggi, più che mai, l’uomo si accontenta di vivere alla giornata, immerso in un benessere effimero ma più sicuro di una felicità avvertita come utopica e irraggiungibile. Sono pochissimi i genitori e gli educatori disposti a mettere al primo posto, nel cammino che condividono con i giovani, la ricerca della felicità. L'obiettivo è stato quasi del tutto rimosso dall'orizzonte delle loro aspettative, perdendo di vista il fine ultimo del loro compito che è quello di aiutare figli e allievi a orientarsi, in una realtà sempre più "liquida" e "complessa", a costruire un progetto di vita. Anche se è pressoché impossibile dare una risposta univoca alla questione della felicità si può forse concordare, senza troppa difficoltà, che la felicità coinvolge tutta la persona, permettendole di sperimentare un senso di pienezza e di serenità interiore. È una virtù regalarsi la possibilità di diventare capaci di gioia anche in mezzo a fatiche e problemi di ogni tipo. Ciò che conta è riuscire a stare in pace con sé stessi e con gli altri, essere generosi nei confronti degli appelli della storia, essere pronti a condividere la costruzione di una civiltà dell'amore in cui a tutti sia data la possibilità di un effettivo benessere. La pienezza di vita è giocare la propria esistenza sulla generosità, sulla condivisione, sulla solidarietà, sulla giustizia, sulla bellezza, sulla pace, essenziali ingredienti per un mix di speranze e di positive esperienze. Ci illudiamo, inutilmente, cercando la pienezza di vita sempre all'infuori di noi, mentre essa dipende da ciò che abbiamo dentro di noi. Per compiacersi di ridere delle ostentazioni dei potenti occorre il coraggio di disprezzare tutto ciò che è illusorio. Il reale benessere e il pieno appagamento che riempiono un cuore vuoto sono, per molti versi, inafferrabili, indicibili. L’uomo deve liberarsi dalla paura di affrontare l’avvenire, deve padroneggiare, con la sua parte razionale, le componenti del concupiscibile e dell’irascibile, mirando a valori spirituali più profondi, cercandoli nel vissuto che ne dà la misura in un “ponderato raffronto tra gioie e dolori, entrambi indispensabili per una vita ben temperata” (Zygmunt Bauman). La felicità è una condizione spirituale di ordine e armonia interiori che si sperimenta anche in circostanze di assenza e privazione; non è un’emozione, ma uno stato esistenziale costruito da un vissuto interiore e dalla natura spirituale dell’essere umano. Tutte le risposte alla domanda “cosa è la felicità”, fanno riferimento a una condizione di pace e armonia che prescinde da fattori esterni. «Dobbiamo imparare a farci invadere dal vuoto» (Raffaele Morelli) la cui coscienza non ci conduce a frustrazione ma spazza via l’inutile ed evidenzia l’essenziale. “Il vuoto” che rischia di essere scambiato per “il puro nulla”, nei fatti è il serbatoio di infinite possibilità. (D.T. Suzuki) Toccare il fondo del nostro abisso più ombroso, rinnegare le futili cose che alienano la vita e risalire con ricchezze interiori e nuova forza vitale è in realtà una gestazione che ci mette in grado di scorgere la Felicità. Solo separandoci dalle compensazioni con cui ci narcotizziamo raggiungeremo quello stato di felicità, di appagamento continuo che appartengono, però, a un altro ordine della realtà. “Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell'uomo sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano”. (san Paolo)
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olafoel · 1 year
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Edizione di Sellerio curata da Tommaso Pincio, un classico che viene periodicamente rispolverato, quasi sempre in maniera impropria. Millenovecentottantaquattro (lettere e non numeri, c'è una ragione anche in questa scelta, lo scoprirete leggendo l'introduzione dell'opera) è un libro malinteso a destra e a sinistra, George Orwell fu accusato da tutti i partiti, travisato, insultato, manipolato. La dittatura ti priva della libertà in molti modi, il primo è quello di attribuirti idee e visioni che non sono mai state tue. Orwell vide quello che c'era e quello che sarebbe stato il futuro in un mondo dove ogni attività dell'essere umano è diventata 'tracciabile'.
Pensate alla cronaca di tutti i giorni e poi ai tre motti del partito che compaiono subito nel romanzo:
Il Ministero della Verità - Minivero, in Parlanuovo - era stupefacente e diverso da ogni altra cosa all'orizzonte. Un'enorme e scintillante struttura piramidale di cemento bianco che si alzava nel cielo, terrazza dopo terrazza, per trecento metri. Dal punto in cui si trovava Winston era possibile leggere, in caratteri eleganti e in bella evidenza sulla facciata bianca, i tre motti del Partito:
LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L'IGNORANZA È FORZA
Ora fermatevi, lasciate stare l'attivismo a cui siete chiamati da una ragione superiore (non sempre è quella giusta per forza e soprattutto per voi stessi), fate un bel respiro, guardatevi intorno, osservate con ironico distacco il rotocalco dell'esistenza. Ecco, ora è tutto più chiaro, cristallino, spaventoso. La guerra c'è, la libertà traballa, l'ignoranza dilaga. Sì, viviamo tempi interessanti. Forse troppo
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olafoel · 1 year
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Ce ne faremo una ragione con un bicchiere di Whisky che non fa bene all'astronomico tasso glicemico del sottoscritto ma cura decisamente l'anima. Tutta salute.
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olafoel · 1 year
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Ho udito e condivido «Sono così mal ridotto che la notte, che ho sempre amato e che mi ha dato tanti piaceri, è diventata il ricettacolo di quello che non vorrei ricordare»
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olafoel · 1 year
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Diceva Ennio Flaiano che "oggi il cretino è pieno di idee" e naturalmente va avanti, nell'era social si moltiplica, fa rumore, confermando "La prevalenza del cretino" esposta nel libro di Fruttero e Lucentini dove, ça va sans dire, "per lui, il cretino è sempre 'un altro'". Avanti un altro, mi raccomando.
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olafoel · 1 year
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Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della terra.
Se una zolla viene portata dall’onda del mare, l’Europa non è diminuita, come se un promontorio fosse stato al suo posto, o una magione amica, o la tua stessa casa.
Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.
John Donne (1573 1651)
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olafoel · 2 years
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Elezioni italiane del 25 settembre 2022
“Tranquilli, chiunque vinca, il potere continuerà ad essere delegato all’ottusità di una batteria di algoritmi (Mario Draghi ci tranquillizza “.. tanto c’è il pilota automatico”), gestiti da un batteria di ottusi maggiordomi-burocrati di 27 Paesi, guidati da una baronessa tedesca, vestita con i colori pastello del cielo e del grano, sulla base di implacabili accordi notarili approvati dai singoli Parlamenti. Gerarchicamente sopra di loro non c’è nessuna Spectre, ma, in ordine sparso, i G 7, un pugno di CEO di Silicon Valley e di Wall Street, una batteria di potentissime società di consulenza, una batteria di media mainstream che producono dosi industriali di fake truth ad usum plebe. Curiosamente, chiamano questo accrocchio di potere verticalizzato “democrazia parlamentare”. E fingono che sia eletta dal popolo.”
firmato Riccardo Ruggeri
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