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#Ferdinando Mezzasoma
condamina · 1 year
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Anche nella Rsi la propaganda culturale si fuse con quella razziale
Anche nella Rsi la propaganda culturale si fuse con quella razziale
L’ultimo atto del fascismo e della sua propaganda culturale assunsero le sembianze tipiche di un’agonia. L’iconografia della Rsi era improntata al sangue, al lutto, e recava con sè simboli funerei, insegne di morte collocate sullo sfondo di una scenografia tetra. <108 Giovanni Dolfin, ad esempio, riportò assai bene il modo in cui Mussolini guardava al Garda e alla crepuscolare repubblica che vi…
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paoloxl · 7 years
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 29 Aprile 1945 a Milano in Piazzale Loreto vengono esposti i corpi di 18 gerarchi fascisti, tra cui quello di Benito Mussolini stesso. I gerarchi erano stati fucilati da un gruppo di partigiani guidati da Walter Audisio (nome di battaglia comandante Valerio, che fornì la più importante ricostruzione della morte di Mussolini), il pomeriggio del 28 Aprile. Mussolini e la Petacci vennero fucilati a Giulino di Mezzegra (non è ancora chiaro chi effettivamente sparò a Mussolini) mentre gli altri gerarchi (Alessandro Pavolini, Francesco Maria Barracu, Ferdinando Mezzasoma, Augusto Liverani, Ruggero Romano, Paolo Zerbino, Luigi Gatti, Idreno Utimpergher, Nicola Bombacci, Pietro Calistri, Goffredo Coppola Ernesto Daquanno, Mario Nudi, Vito Casalinuovo, Marcello Petacci) vennero uccisi a Dongo. Non ancora chiare sono le origini dell'ordine di esporre i cadaveri in pubblico. La tesi più probabile è che il CLN non avesse esplicitamente richiesto di portare le salme in Piazzale Loreto. Sarebbero stati quindi i partigiani incaricati della fucilazione e della custodia dei gerarchi a portare i corpi intorno alle 3.40 di notte a Piazzale Loreto, luogo scelto in quanto utilizzato dai fascisti il 10 Agosto '44 per l'esposizione di quindici corpi di antifascisti fucilati dai repubblichini. Verso le 7 del mattino, quando i partigiani incaricati della custodia delle salme dormivano, i primi passanti si accorsero della presenza dei cadaveri, e soprattutto della presenza del corpo del Duce. In poche ore, tramite il passaparola ma anche tramite Radio Milano Liberata, che aveva già annunciato l'esecuzione dei gerarchi, la piazza si riempì. La folla, incredula di trovarsi di fronte i corpi dei suoi più infami aguzzini, inizio a calpestare i cadaveri, a colpirli con ortaggi e colpi di armi da fuoco. Solo grazie l'intervento di alcuni partigiani e dei vigili del fuoco, che lavarono le salme ormai ricoperte di sangue, sputi e urina, i corpi di Mussolini, Starace, Pavolini, Zerbino e della Petacci vennero sottratti dalla rabbia della folla e appesi "a testa in giù" sulla pensilina di un distributore di benzina presente nella piazza. Alcuni membri del CLN ( Sandro Pertini in primis) criticarono aspramente i fatti di Piazzale Loreto, ma quelle immagini restano impresse nella memoria dei partigiani e degli antifascisti, e ancora oggi sono l'esempio chiaro dell'esplosione di rabbia che fu la Liberazione e soprattutto della volontà di fare giustizia e condannare tutti quei fascisti che, in nome della pace, non subirono mai alcun processo.
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italianiinguerra · 5 years
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“Fucilali, e non perdere tempo!”
Fu questo l’ordine che Giuseppe Marozin, nome di battaglia Vero, capo della Brigata partigiana Pasubio dichiarò di aver ricevuto direttamente dal C.L.N.A.I. nella persona di Sandro Pertini: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte. Marozin responsabile della doppia esecuzione che andiamo a raccontare nel presente post, dichiarò nel corso del procedimento penale a suo carico per quell’episodio:
«La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti.»
A detta di Marozin, Pertini si rifiutò di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva scritto durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa.
Ma andiamo con ordine, la guerra sta per concludersi siamo negli ultimi giorni del tragico aprile 1945, i plotoni di esecuzione partigiani lavorano a pieno regime, si fucila senza andare tanto per il sottile, spesso senza nessuna giustificazione. I due protagonisti, loro malgrado sono due attori, accusati di collaborazionismo con la Repubblica Sociale Italiana, vediamo brevemente le loro storie e soprattutto come giunsero davanti al plotone di esecuzione che il 30 aprile del 1945 pose fine alle loro vite.
Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farné nacque a Castel San Pietro Terme, in provincia di Bologna, il 18 marzo 1914. Dopo alcune esperienze teatrali con le compagnie di Ruggero Ruggeri e Paola Borboni, esordì sul grande schermo con il film Freccia d’oro (1935) di Piero Ballerini e Corrado D’Errico. Si mise in evidenza quasi subito, interpretando numerosi film di registi minori, che le dettero però visibilità e successo di pubblico. Fra il 1937 e il 1938 costituì una coppia di successo con Amedeo Nazzari, col quale interpretò La fossa degli angeli, I fratelli Castiglioni e Il conte di Bréchard.
Quando venne richiesta da Alessandro Blasetti per il film Un’avventura di Salvator Rosa (1939), era già una giovane attrice conosciuta e apprezzata, ormai pronta per il salto di qualità. Nella pellicola sopracitata interpretò il ruolo della contadina Lucrezia, ponendosi all’attenzione della critica e del grande pubblico. Il film di Blasetti la proiettò rapidamente verso un orizzonte divistico di rilievo, permettendole di mettere in evidenza il suo temperamento grintoso e la sua recitazione asciutta e nervosa.
Osvaldo Valenti con l’uniforme della Xª Flottiglia MAS
L’incontro con Osvaldo Valenti, a cui si legò sentimentalmente sul set di questo film, coincise con il periodo di maggior successo della sua carriera. I registi più popolari dell’epoca iniziarono a offrirle ruoli di sempre maggiore importanza. Negli ultimi anni della sua carriera, vanno ricordate le sue interpretazioni nei film La corona di ferro (1941) di Alessandro Blasetti, Fedora (1942) di Camillo Mastrocinque, Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini, per il quale fu premiata come miglior attrice italiana del 1942, Gelosia (1942) di Ferdinando Maria Poggioli e La bella addormentata (1942) di Luigi Chiarini.
Durante il regime fascista i due attori non si erano distinti per le loro posizioni politiche. A seguito dell’Armistizio, Ferida e Valenti furono tuttavia fra i pochi divi del cinema dell’epoca, ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Lasciarono così Roma (e Cinecittà) per trasferirsi al Cinevillaggio, il neonato centro cinematografico della R.S.I. di Venezia, sorto per volere del ministro Ferdinando Mezzasoma, diventandone due dei più noti esponenti. Nel 1944 insieme a Valenti, girò Un fatto di cronaca, film diretto da Piero Ballerini. Sarà il suo ultimo lungometraggio.
Dopo si stabilirono per qualche giorno a Bologna, dove la Ferida, che aspettava un bambino, desiderava andare a trovare la madre. Mentre si trovavano all’albergo “Brues”, improvvisamente colta da forti dolori, ebbe un aborto spontaneo. Valenti fu colto da grande dolore e, come scrisse ad un amico: «Non voglio più sentir parlare di arte e di cinema, e non mi voglio più recare nella Spagna dove pur ho un contratto vantaggiosissimo. Io sento che il mio dovere sarebbe di fare qualcosa di positivo per questo pezzo di terra che ancora ci rimane.»
Nella primavera del 1944, i due si spostarono a Milano, dopo che Valenti era entrato col grado di tenente nella Xª Flottiglia MAS comandata dal principe Borghese. Come ufficiale di collegamento della Decima, Valenti ebbe contatti con la famigerata banda di Pietro Koch e in tali rapporti, secondo alcuni, fu coinvolta anche la Ferida; tuttavia, secondo altri, la frequentazione di “Villa Triste” da parte della Ferida, nonché la sua presunta complicità con i torturatori di partigiani, sarebbero solo calunnie prive di fondamento.
Pare, da testimonianze, che la Ferida sapesse delle torture, ma se ne tenesse alla larga; non così una delle amanti di Koch, la soubrette Daisy Marchi, e la segretaria del capo della “banda”, Alba Giusti Cimini. Entrambe si spacciavano talvolta, con i prigionieri, per la celebre Ferida, approfittando della penombra delle celle e della somiglianza fisica della Marchi con Luisa; è probabilmente questa l’origine della calunnia che costerà la vita all’attrice (mentre la Marchi e la Cimini non subiranno mai conseguenze).
Si arriva cosi agli ultimi giorni di aprile del 1945, i due vengono arrestati e dopo essere stati sottoposti a un sommario processo, vennero accusati di collaborazionismo e soprattutto di aver torturato alcuni partigiani imprigionati a Villa Triste. Per loro il destino era segnato, quando vennero fucilati, la Ferida aveva 31 anni ed era incinta, Osvlado Valenti, di anni ne aveva 39.
Dalla loro casa milanese, qualche giorno dopo i fatti appena raccontati, venne sottratto un autentico tesoro, del quale Marozin nel dopoguerra ammise la “confisca”, ma sostenendo di non ricordare dove tali beni fossero finiti: «Una parte fu restituita, credo, alla madre della Ferida, il resto andò a Milano». I due sono sepolti nel Campo X del Cimitero Maggiore di Milano, noto anche come Cimitero di Musocco e Campo dell’Onore.
Negli anni cinquanta la madre della Ferida, Luisa Pansini, fece domanda al Ministero del Tesoro per ottenere una pensione di guerra. Si rese necessaria, pertanto, un’accurata inchiesta da parte dei Carabinieri di Milano per accertare le reali responsabilità della Ferida, al termine della quale si concluse che:
«la Manfrini dopo l’8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano»
La madre di Luisa Ferida ottenne la pensione di guerra comprensiva di arretrati. Grazie per aver letto con tanta pazienza il nostro post, con la speranza che vogliate continuare a seguirci anche in futuro Vi salutiamo e diamo appuntamento al prossimo.
“Fucilali, e non perdere tempo!” la morte degli attori Luisa Farida e Osvaldo Valenti "Fucilali, e non perdere tempo!" Fu questo l'ordine che Giuseppe Marozin, nome di battaglia Vero, capo della Brigata partigiana Pasubio dichiarò di aver ricevuto direttamente dal C.L.N.A.I.
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paoloxl · 7 years
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di Armando Lancellotti
Era il 1944 quando il Nucleo di Propaganda del Minculpop, che gestiva la progettazione e la produzione di volantini e manifesti, ne realizzò uno a colori – di 34.5 x 24.5 cm, con lo slogan Difendila! Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia – che in questi giorni è assurto agli onori delle cronache perché pedissequamente riproposto da Forza Nuova, che in tal modo ha facilmente centrato almeno un paio di obiettivi: far parlare di sé e corroborare il già forte stereotipo che identifica stranieri-migranti e stupratori.
Di certo vi è una buona dose di citazionismo nostalgico decisamente rétro nella scelta di riesumare un manifesto dalla grafica e dall’estetica superate; nostalgismo indirizzato a quei “camerati” che nei propri incontrollabili vagheggiamenti onirici desidererebbero forse più di ogni altra cosa un ritorno ad un ormai lontano passato in cui si poteva – o meglio, si doveva – discriminare, arrestare e consegnare gli ebrei; internare e deportare i “barbari slavi” nei Balcani; approfittare delle “faccette nere”, trasformate in “sciarmutte” e “madame”, nelle colonie africane dai soldati italiani.
Ma se citazioni repubblichine e nostalgie “in camicia nera” si rivolgono ad un destinatario tutto sommato politicamente e quantitativamente ridotto, il “contenuto” del messaggio del manifesto del ’44 riproposto dai fascisti di oggi è in grado di raggiungere, invece, una platea ben più allargata e pericolosamente in continua, rapida ed esponenziale crescita: un destinatario che del Minculpop del Ministro Ferdinando Mezzasoma e del capo di gabinetto Giorgio Almirante potrebbe anche sapere poco o nulla, così come della storia della Rsi, ma che sempre più si sta convincendo che sia in atto una “invasione” del paese e che ci si debba mobilitare e difendere dal pericolo di una qualche “conquista allogena”, o dalla “sottomissione” agli “stranieri”, se non addirittura da una fantomatica ed apocalittica “sostituzione etnica”.
Non c’è da stupirsi, allora, che i militanti di Forza Nuova e del neofascismo italiano in generale abbiano come riferimenti ideologici il nazionalismo, lo sciovinismo, il razzismo, il maschilismo machista e paternalista (difendere madri, mogli, sorelle e figlie è lavoro da uomo risoluto e forte, avvezzo all’uso del manganello, insomma da fascista) che traboccano da un manifesto di propaganda di settant’anni fa e che costituiscono l’armamentario ideale di ogni fascismo, passato e presente; c’è da preoccuparsi piuttosto che quelle idee bislacche, quelle sbracate deduzioni ed infami associazioni ormai circolino diffusamente, al punto da costituire quasi un automatismo mentale irriflesso.
I curatori del catalogo della mostra La menzogna della razza (Grafis edizioni, Bologna, 1994) scrivevano: «chi ha progettato il manifesto riteneva che la raffigurazione dello stupro avrebbe guadagnato in atrocità proprio sottolineando la diversità etnica di chi lo perpetra. Così il soldato nero ha sguardo lubrico, bocca e labbra ingigantite, mani ad artiglio, è tutto proteso nella brama di possesso simboleggiata dalla vampa di fuoco che sembra emanare dal suo corpo, materializzazione dello smodato desiderio erotico che il pregiudizio razzista ha spesso attribuito alle genti di colore. La donna bianca viene rappresentata come il suo opposto speculare: il volto atteggiato a severo sdegno ma composto nella sua dignità ferita, la veste candida della purezza, il corpo disperatamente teso nel virtuoso sforzo della repulsione» (p. 202).
Certo, allora, nel 1944, il pericolo era individuato nel soldato americano di colore ed “invasore”, ma basterebbe sostituire la camicia verde militare e il cappello tipo ranger con una moderna felpa con cappuccio ed ogni eventuale residuo ostacolo all’innesco dell’associazione straniero-nero-migrante = stupratore di donna-bianca-italiana verrebbe agevolmente superato.
E a proposito di automatismi irriflessi o parole senza pensiero, non è stata forse la Presidente del Friuli Venezia Giulia ed esponente di primo piano del Partito Democratico Debora Serracchiani a sostenere a maggio scorso che «la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese» (il manifesto, 14 maggio 2107) ? E come se non fosse bastato, per parare le critiche che le sono piovute addosso, la stessa Serracchiani ha maldestramente affermato di avere detto semplicemente «cose di buon senso».
Di certo non si tratta di “buon senso”, di quel bon sens che Cartesio definiva come la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso e che – un po’ troppo ottimisticamente – riteneva essere la cosa nel mondo meglio ripartita; ma forse si tratta di senso comune, di un tanto generalizzato e pervasivo quanto acritico e stereotipato modo di giudicare senza pensare. Un senso comune italiano di inizio XXI secolo di cui rigurgiti razzisti, velleità nazionalistiche e sovraniste, rivendicazioni identitarie pseudoculturali-religiose, innescate da crisi economica, pauperizzazione crescente, disorientamento sociale e politico, costituiscono una parte essenziale.
Allora forse non ci si dovrà stupire se tra qualche settimana o qualche mese Forza Nuova et similia ripescheranno dagli archivi della memoria repubblichina altre immagini o manifesti, come quest’altro, che si presterebbe precisamente a fare da supporto al teorema della sottomissione culturale-religiosa, dopo un’opportuna e semplice operazione di maquillage, per la quale ci si potrebbe rivolgere agli stessi che un anno fa hanno preparato per il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il manifesto propagandistico per il Fertility Day. Nel manifesto di 100 x 70 cm disegnato da Gino Boccasile – Un soldato U.S.A. nero depreda una chiesa – «il soldato afro-americano, i cui tratti vengono contorti dal disegnatore in un grottesco ghigno satanico ed insieme subumano, diventa qui saccheggiatore di chiese, sacrilego nemico della religione nel nome del guadagno. È accovacciato in un angolo del manifesto, che così viene tragicamente dominato dalla figura di questo Cristo biondo e arianizzato, più corpo rattrappito che statua di culto, quasi ad incarnare una “razza bianca” pura ed innocente abbattuta dagli “inferiori”» (La menzogna della razza, cit, p. 202). Si pensi di svestire l’uomo di colore di uniforme ed elmetto statunitensi e di fargli indossare abiti che lo connotino immediatamente come musulmano e il manifesto è pronto per il riutilizzo, magari in occasione di una delle sempre più frequenti mobilitazioni di cittadini contro il trasferimento e l’insediamento di migranti.
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