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#Portare la mia solitudine altrove
apropositodime · 9 months
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Avrei bisogno di un posto solo per me, io sola per i cazzi miei.
Lontano da occhi
Lontano da parole
Lontano da persone
Solo io.
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perlenerenelvuoto · 1 year
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Mancano pochi giorni al mio ritorno a Bologna e come ogni volta faccio il countdown. C'è questo senso di vuoto che pervade le mie giornate quando sono qui in puglia. Un vuoto che forse porta a riflettere, a guardarsi dentro proprio perché il tempo è più dilatato rispetto ai grandi centri urbani. Un tempo dilatato che in passato mi ha fatta a pezzi, devastata ogni giorno per anni fino al compimento dei 18 anni e alla mia partenza per la bella e dannata Bologna. Il problema è che ogni volta che torno in patria mi illudo di potercela fare, mi faccio abbindolare dall'idea secondo cui, ormai, non rimane che un delicato affetto, niente più ferocia o rabbia. Come quando rincontri un vecchio amore con cui non è finita poi così male, ma ci si è lasciati comunque per una serie di cose, ma rimane quella tenerezza, quell'affetto per una persona a cui hai voluto bene. È proprio quando sono qui che, la maggior parte delle volte, provo il desiderio di voler volare via dal mio corpo e fluttuare per aria. Uscire fuori da questa mente, smettere di pensare, lasciarmi andare. Essere solo felice e leggera. Vorrei sentirmi leggera e invece avverto dei pesi addosso, davvero scomodi da portare sulle spalle e sul petto. Mi schiacciano il cuore e la leggerezza. È che quando sono qui torno a sentirmi quella ragazzina 15enne paranoica, insicura, che non riesce a camminare bene sulle sue gambe. Mi sento debole, fuori dal mondo e con la voglia di perire, in preda alle paure e dissociata dagli altri e dal resto del mondo. È che non mi piace sentirmi così, è che ultimamente mi sento spesso così. All'epoca c'era questo senso di vuoto attorno e dentro che non riuscivo a colmare. Mille richieste di aiuto non comprese mai completamente e alla fine l'unico appiglio era il mio Altrove, Bologna. Bologna mamma, Bologna amica, Bologna salvezza. Forse farebbe comodo avere un cuore diverso. Non così altamente sensibile. C'è questo senso di solitudine e malinconia che mi accompagna da sempre, già da piccolina. Non so come sia possibile che una bimba possa conoscere cos'è la malinconia, cos'è la nostalgia e cos'è il dolore. Tutto ha un'origine. E io non so se sia iniziato tutto dagli abusi subiti durante l'infanzia, ma magari ovviamente questo qualcosa centra. È la prima volta che ne parlo scrivendolo in questo modo e un po' mi trema il cuore. Di fatto sono sempre stata una bambina malinconica. E stranamente la malinconia è una parte di me che non ho mai voluto estirpare, che non ho mai troppo disprezzato, anzi, mi ha fatto compagnia e lo fa da sempre. Questo come mi fa sentire? Diversa, strana, forse. Ma in fondo non è una cosa a cui voglio rinunciare. Solo che a volte è così tanta da straripare, da stringere il petto e il cuore. Quando straripa non è più controllabile e lascio che le emozioni facciano il loro corso. Ma quando straripa il senso di solitudine che mi porto addosso da sempre, è davvero doloroso. Posso circondarmi di amici che mi vogliono bene, di sorella e fratello, amori...ma delle volte mi sento sola comunque, sola con me stessa e non c'è nulla che riesca a farmi sentire meglio. Perché è una cosa interiore, è nella mia pelle, la sento addosso ovunque vado, da sempre.
Ogni tanto devo ricordarmi di respirare, di avere cura di me e della mia solitudine e della mia malinconia, benedizione e condanna.
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esercizi di scrittura creativa Alessandra De Angelis Fogli Sparsi autobiografia tramite racconti sparsi nel tempo archive rss 19 Apr. '13 esercizi di stile Ogni giorno ci rifletto mi guardo allo specchio e vedo una vecchia demente che ricorda tutto con angoscia e amore al contempo, vivo al passato e di ricordi, scavalco l’angoscia leggendo senza fermarmi, se non per un panino e un caffè e se parlo, questo è solo con una dolcissima cagnolina. Una solitudine spessa eppure serena, così voglio io, navigare tra le eroine di carta. Ogni giorno si fa pieno dall’alba al tramonto, di piccoli gesti e letture magnifiche, attingo dalla gigantesca biblioteca che ho in casa, il sorriso si era spento, poi è tornato, la quiete dell’animo sono proprio gli anni trascorsi, la pensione, un interno casalingo dall’aria di bambole e trine, e rifugiarsi serve a difendersi da tutto ciò che fuori accade, e sempre parlando solo con la mia cagnolina, la mia dolcissima cagnolina, e con i libri che sono ovunque, accatastati in disordine, non c’è spazio. Rifuggo dalla vita mondana,  preferisco leggere romanzi, ascoltare musica e avvertire il senso forte dell’età mia importante, la giovinezza è tutta al passato.   I Patriarchi avevano ragione. Mi ricordo di quando sedevano tutti intorno alla tavola, ognuno come di consueto al posto assegnato da sempre, in un ordine immutabile, nel rispetto di una cerimonia ripetuta infinite volte. Quanto spesso mi  ero chiesta se quel ripetersi esatto e misurato  non fosse altro che violenza mascherata. Un’ombra mi suggerisce la rivoluzione, mandiamo tutto in rovina fino a toccare il fondo. Insieme sbarcheremo altrove il lunario. Ok tutto all’aria, capovolgiamo tutto in un mondo alla rovescia, ma il tempo è comunque da sempre per tutti un nemico, una partita persa da sempre, una caduta irrimediabile. E il tempo mi tormenta senza lasciarmi la possibilità di voltare la schiena e andarmene, se non sognando tra libri e musica gli spazi infiniti, ma rifletto nei perimetri la sterile mia parvenza e i pensieri  sono solo un errore nella cavità del cervello. Una trama tessuta, un’idea solo cerebrale che architetta la fine di un mondo, la mia anima nel tempo. Ricordo che a tavola si parlava di politica,brutto affare sicuramente,  mangiando la minestra di pane e brodo di gallina, i ragazzi che eravamo si interessavano al discorso, senza storia, senza capire,  e avremmo votato con tutta la voglia fresca di impegno.  Le rivoluzioni sono giovani. Ora  contemplo silenziosa, mia madre è triste, anni sulla schiena pesanti, siamo rimaste sole, e io non sono moglie, madre neppure, ed era destino obbligato nobile legge per ogni donna rispettabile. Osservo la tavola  scarna, piena di briciole, i prodotti della terra, quella rimasta, quella povera che non dà più i suoi frutti, e  solo a volte, su invito, ascolto la conversazione delle cugine e dei cugini e dei rispettivi consorti, con la voglia di fuggire senza temere l’abbandono.   Solo così renderei giustizia alla volontà mia propria, sollevate le ali del desiderio. Ho fatto amicizia con un uomo su facebook, facebook quel mostro moderno poco adeguato e nutro il  desiderio taciuto, e ricambiato, di conoscenza. Un filo di speranza.  Mi rende triste il torpore profondo nel quale mi getta  una famiglia che ricorda aneddoti, eventi di un passato nel quale ormai io non ci sono più. E io che racconto? Qualche parola sbieca. Un tempo sognavo di diventare scrittrice. E ho scritto un libro bruttissimo che nessuno legge. Mi sono ritirata in soffitta a vivere, una splendida soffitta con un computer e un allaccio internet, lontana dal clamore di chiacchiere su  trascorsi troppo lontani che mi annoiano,  un sonno profondo dal sentore di morte.  Mi sento veramente intontita, ma dolce, remissiva, perché ho anche io una mia compagna di vita,  che lenisce ogni ferita,   la mia ombra dolcissima, Priscilla o Scilla, una cagnolina dal cuore d’oro e più minuscola di una gatta. La paura comunque ritorna, mi guarda dagli angoli, si insinua nelle conversazioni, è fatta di metallo, e del metallo ha il sapore, tranne di notte quando la luna si apre a ventaglio, e il biancore argenteo ricopre il corpo nudo e dimenticato. Spegne il fuoco, è acqua che miracolosamente riempie l’anima e l’increspa dopo l’arsura. A tavola parlano della passeggiata in centro, un paese di provincia, ma io non ho una storia mia da raccontare, in quel vociante mondo intorno. Con la testa, organo delicato, attraverso verso nuove ragioni, nuovi orizzonti , eppure non c’è tregua. Il tempo governa tutto. Sono lontana perché sola, e sola ci voglio essere, è la mia natura profonda, sola con Priscilla. Sono fatta d’esperienza laboriosa e un cuore di ghiaccio, da sciogliere, non è pietra d’altronde. la pietra impenetrabile e impossibile da scorticare se non lavorando con la falce. La pietra di cui è fatta la provincia. Sono pensieri incoerenti, scherzi  della mente.   Sono stanca e troppo affaticata da una vita di lavoro e durezze, mi sembra di aver già vissuto, e di vivere un oltre che è una platonica caverna d’ombre ingannevoli, e solo con  fatica, e travaglio, si risale alla luce. All’inizio la luce acceca poi è cristallina. E’ uno specchio d’acqua increspato. Lo tocchi e affondi nell’inconsistenza. E’ giusto salpare se il coraggio sostiene i remi ma io resto, e non mi disperdo nell’invidia del mio ostinato silenzio, specchio  che riflette reti di amare profondità. Inesplorate. La mia voce ha un timbro delicato, afono, sembra incantata. La voglia di vivere dimessa, non più follie, ma impazzisco come felina in gabbia, e attraverso con la mente scene colossali in cui tutto sembra riemergere dal passato eppure tutto è quotidiano e dimesso.  Basterebbe scavalcare il muretto per essere al di là. Ma oltre è il nulla. Oltre è il computer e la lena con la quale scrivo racconti che nessuno legge e  chatto su facebook. C’è un uomo in chat che mi attende e forse verrà a trovarmi in soffitta dal Nord. Cucinerà lui, io sono un disastro ai fornelli. Ha appena partecipato al Flash Mob vestita da strega con un vecchio cappello della bisnonna fiorito e con la velina, per le grandi occasioni, ma questo non basta a rendermi simpatica a scuola, la scuola nella quale lavoro. Come sono noiose le insegnanti. Già allora a tavola il nonno raccontava di come le cose fossero proprio storte,  mentre la più energica delle cugine, un volto di porcellana,  smitizzava e si alzava da tavola  per portare i piatti sporchi in cucina e per metterli nella lavastoviglie, con garbo lasciava la sedia vuota per poi ritornare accanto al marito che le cercava la mano intimidito, lui ha meno coraggio, mentre lei sistema i capelli lunghi e biondi con un fermaglio, raccogliendoli sul capo per lasciar scoperto il volto d’angelo. Il nonno ha un modo imperioso e austero, ma è anche piuttosto caustico, e sempre sagace senza mai farsi sgarbato.   Ieri Immaginavo: attenderò il mio fantasma, la voce dolce mai udita, che  non deve sfuggire come  fantasia e inganno. Una misura diversa del tempo se condividerlo è possibile. lo psicanalista che mi cura sbaglia tutto, e il desiderio di ucciderlo è forte. Conficcato nel ventre e nella scatola dei ricordi, ma ora forse ho un uomo, con braccia forti, ancora solo immaginate,  ma è un paracadutista, ha coraggio, affronta il cielo. Quella penna gentile in chat, con una foto che ne esalta l’azzurro degli occhi, lui, un uomo solo virtuale, si scalderà al mio seno.  Sara La mattina è stata in chiesa. E’ pasqua e vuole credere ai miracoli. Magari esistono davvero. Il sentimento della colpa pesa come una maledizione su chi non sa liberarsene, e il maleficio diventa l’ordigno innescato nel cervello trafitto, la testa arrovellata, in briciole, a pezzi, nel buio di una notte senza precedenti. L’animo sgangherato e guastato dall’orrore del delitto esagera l’oscuramento, la vergogna dell’errore diventa deserto vuoto isolamento, resta un’eccitabilità nervosa che raramente solo a tratti si placa, ribolle il sangue pulsante tra le crepe della testa in fiamme, e ovunque e sempre rimbomba e si ripercuote l’assordante esplosione di un no ripetuto come uno schianto, un colpo d’arma, un tonfo che scuote, un no che è desiderio di pacificazione dal quel chiasso interno implacabile, caos primitivo, voragine oscura, abisso satanico e caduta di ogni intendimento. La notte La luna e una visione da nottambula, quando si fa buio, e tra le visioni allucinate incespico goffamente e potrebbero deridermi. Ma l’ombra torna ogni notte a giustificarmi dal sudario quotidiano. E’ fresca della frescura dei glicini e rigogliosa come uva matura che assapori nei campi quando il tempo ricopre le viti. E’ acqua che lava il bitume. Dopo un tragitto, tra le pietre arse e le strade deserte. Entra come tramontana d’amore e porta con sé il sapore del mare e della spuma, che non c’è perché la città è fatta di pietra,  ed è dolce il ricordo dei frangenti puliti e della risacca sciabordante che scomposta richiama all’orizzonte lo sguardo, e la voglia sibellina di fuga. La vita si è prosciugata, un’esile speranza soltanto, da quando con una sorta di dolcezza dell’anima, un uomo ha inciso una speranza profonda che mi rende impaziente, e mi divora la voglia. E’ lontano. La mancanza carnale  attraversa ogni tendine, ogni muscolo, mi ricaccia in un disorientamento e un abisso. Solo la notte torna clemente il silenzio, come vento tra i capelli. Ma è avaro di sé e all’alba fugge spezzando l’incanto, per riaffermare la solitudine di sudario e bitume e cenere e mura. Le basta un’occhiata allo specchio per accorgersi che la solitudine incide segni, lacrime, e l’ultima speranza è lui “l’ombra”. Uno sconosciuto,  solo un’amicizia facebook, e poi un lui incontrato in un fine settimana giocoso, eppure serio,  puro nel senso migliore,il senso con il quale ci si eleva sopra le mille giustificazioni che sei  obbligata a fornire rispetto alla vita a ritroso, e alla solitudine improvvisa. E’ stato un atto coraggioso invitarlo a dormire in soffitta in due per fare l’amore, nella frenetica emozione. Ha lasciato segni indelebili, pianti di solitudine,  contro i quali non hai rimedi, se non il trucco come apparenza superficiale. Di nuovo al lavoro, di nuovo derisa per il coraggio di mettersi a nudo. Tra le pietre che formano i muri di quella provincia medievale, giocattolo che si svita, prevale il frenetico ricorso a pettegolezzi e malignità, e di lei dicono le megere che è stata ridotta alla demenza per aver preteso troppo. La definiscono  pazza perché ha intrapreso uno stupido cammino psicanalitico durato trent’anni. In realtà è solo fragile e timida.  Intanto la recessione miete vittime. E autorevoli assassini restano a guardare, indifferenti. Lui scrive un messaggio al cellulare “ti amo”. Ho iniziato allora un colloquio furtivo con me stessa e il computer con il quale scrivo, accudisco e proteggo l’anima nascondendo agli altri il vero. Amo il fantasma di facebook, ora che lo conosco e ci siamo divertiti a letto, nonostante la pessima figura mia, mi sono ubriacata in un’enoteca, e poi ho vomitato anche l’anima, per “l’ombra” come si chiama al Nord, io però l’ho amato appassionatamente, ed è una malattia. Io lo voglio così com’è, con la sua solarità che mi rende sorridente. E’ ritornato, forse gli sono piaciuta, nonostante tutto. Appena ci troviamo in soffitta tolgo gli abiti e lascio che lui mi penetri. Prima mi bacia mi abbraccia, mi accarezza. Lui che è la luce e il vento tra i capelli. Come in un gioco che abbia smesso di essere un gioco nel limite stravolto e rigettato della realtà netta, veritiera, agonizzante, uno spazio di libertà, accarezza i seni e dona il più dolce degli amplessi, sotto il palmo suo, stretta al suo corpo, sento la pelle fino al ventre, soffoco i singulti perché non mi sentano. L’ombra, mi accarezza mi bacia mi tiene stretta. Uno scherzo del tempo che mi ridona la grazia. Lui accarezza i capezzoli, e io mi lascio penetrare dolcemente. “Sei vergine” mi dice. Quando riparte lo accompagno alla stazione, intristita.  il sogno di lui che torna come il vento tra i capelli. E’ preziosa la nostra intimità,  amplesso che illumina di mistica luce riflessa le lontananze dolorose, e vorrei il suo calore sulla pelle per affermare la presenza-assenza ancora più dappresso e sentire la voce di lui farsi richiamo invincibile, sicuro. Un richiamo ogni giorno del vento, nella casa che dorme.  Chiudo dentro il piacere serrando le cosce. Perché si rinnovi l’ardore. Amor mio sei la mia meteora, districhi i miei pensieri sciogli le mie voglie.  Volgi a me beato i tuoi occhi, guarda osserva la mia devastazione. Turgidi i capezzoli chiamano induriti di voglia e premono contro la pelle  sua.  “L’ombra” l’accarezza. Le dita si apprestano a strazianti sfioramenti, il fuoco non si spegne, caldi i seni, i sensi dilatati, la pelle sprigiona umori e chiama il piacere carnale che offre il corpo smunto,   non appartengo ad altri, solo per te sorrido,  aggrappata a te, grido e gemo. Quando tu te ne vai, amore stralunato e solo quanto me, a volte ostile come in una guerra appena iniziata,  il letto resta caldo e bagnato dei miei umori, a te mi consacro per te abbandono tutto, per te si fa sregolata la testa e premono le tempie. Tu sei il mio nido, per te sistemo il cuscino quando tutto tace. E’ un duello mortale e notturno di pazza sonnambula che trapassa il buio per incarnazioni miracolose. Ma l’ombra rinfresca e purifica la terra, e piccoli germogli vergini radici tornano come per incanto a nutrirsi alla fonte sicura. Non appartengo più a me stessa. Appartengo a lui, al vento, alla notte nella mia cameretta. Prima di conoscerlo scrivevo così, ormai pregavo per non restare troppo sola, perché io le parole non le so, e gli eloqui delle donne mi risuonano in testa come mostruosità, e ne fuggo. Nei fogli persi, perché persi il computer e non avevo registrato su chiavetta usb, e poi ritrovati tra il disordine di carte, scrivevo ingenuamente così. Come di seguito: In chiesa. Era troppo veramente troppo. Era necessario cercare un principio essenziale di quiete che tendesse verso il basso, verso la terra per ancorarsi, una forza compiuta, visibile e determinata. Non hanno limiti ora gli angelici cori per le sue orecchie e infinito è il tempo che scioglie l’animo dal mistero di un corpo  abbracciato alla carne, ma ora è ricordo, ora è lontano, e ecco affiorare il filo dei pensieri che riunisce tutte le condizioni di possibilità della sua vita, smarrita nei sentieri inessenziali, fra le dita intrecciate in preghiera lei ammette la necessità di confessare a se stessi ciò che le cose dicono per loro natura fuori dai labirinti ossessivi. Requie eterna - eterno riposo- la preghiera si alza in coro, distratta come ogni domenica ma stentorea; la grazia rallegra e definisce il tempo del  fantasticare psicotico. Sa comunque di aver perso la strada superba e chiara della ragione, ha osato indagare i misteri e ora è solitudine anche nel viso, che pure manifesta nei tratti ingenui e dolci la disponibilità a rimettere in discussione ogni tentativo di risposta per nuove possibilità. Presa da angoscia incrocia le mani, socchiude gli occhi. Ecco un luogo nel quale protetti dalle volte e dalle arcate in ritrovata pace tentiamo di sfuggire alle tempeste e saldare l’ancora della sorte disancorata, per una donna che si vuol riposare i nervi tesi e i giovani cervelli audaci sono musica stridente. Gocce di sudore le imperlano la fronte, ha disimparato la propria bellezza e l‘ha dissolta nell’oceano del dubbio, e tuttavia non si spezza il sogno, la vittoria non giustifica nessuno né redime, perdere non significa null’altro che sacrificio, trovarsi a soffrire e poi chiedersi nel martirio d’amore se un angelo qualunque giungerà a togliere la croce. Sono il trofeo di questo santuario si dice la donna e vuole scordare; dolcissimo angelo condannato a morte, non fiera ma felina , miagola e graffia ad un tempo, col desiderio di uccidere e poi giacere sulla propria tomba, da quando uno spesso fendente ha trafitto il cuore che s’è imbambolato.  Il cuore spalancato…solo non pensava, però, nulla di simile. Implorava Dio di darle un lui, un nuovo amplesso, nuovi baci. Bocca baciata non perde ventura recita il vecchio Falstaff e L’onore non salva lo stinco. Sognava sbattendosi tra preghiere in chiesa e richieste d’amore agli occasionali amanti, richieste rifiutate. Un corpo di bambola, un pulsante facile. Sognava un lui che Le tenesse una mano sulla spalla, così Sara se lo figurava, nei messaggi che lui le inviava al cellulare, nella voce dolce melodiosa,  giocoso ma intimamente malato, eppure potente come la terra infinitamente amata. Da tempo lei restava solo ad ascoltare con il mento piegato,  ferita da un vecchio doloroso abbandono, senza far altro che fumare e leggere fino a perdere il sonno. Sara Scrive messaggi al cellulare “Amore sono qui, doppia duplice con una cagnolina come compagna”. Non era più stato felice lui da quando l’inverno si era fatto spesso e le stagioni della sua tenerezza morte per mancanza di tempo da riempire di carezze.  Le finestre della  camera di Sara danno sul presbiterio, allora è lì la domenica appena fuori dalla camera, per musiche maggiori di quelle che riecheggiano nella stanza delle sue astrazioni di chimera. Eppure lui, sempre invisibile, ma presente, sa esattamente, così lei lo immagina, roteare abile le braccia forti e i pugni tesi, squadernare quelle pareti anguste, e scoperchiare le volte gotiche per aprire al cielo le preghiere e attraversare le nuvole, per scrosci di pioggia adamantina,  perché i manti verdi non muoiano di siccità e piccoli germogli vergini radici abbiano di che nutrirsi. Ma alla fine resta solo un’ombra, l’angelo, l’anima divina. Gioioso prima, l’incontro un caso fortuito di ace book, solo un’amicizia ace book e dopo, dopo, paura allarmante, che ho fatto mio Dio è peccato? Il senso del peccato è l’arma di delitto, lascia ai singhiozzi la possibilità di farsi strada, perché tutto resti così com’è, marcio dentro, e la scatola chiusa, serrata, trasudante carogne e scheletri del passato. Ma sussurrano le donne  litanie   alla luna strega. La luna  avvicina  il mondo, è fedeltà al fantasma,  lui solare, affamato di voglia di vivere. Sola nuovamente, Sara è  impietrita e fissata su fondo come Dafne fuggitiva, e lei,  donna  che non si è mai fermata con il tenace desiderio d’amore, lei che ha sempre abbandonato o è stata abbandonata, agogna ora il ritorno scacciando i pensieri di abbandono. Ricordi. Pupazzi di stoffa come le bambole della sua infanzia che conserva, infanzia lontana come matassa inestricabile,  perduta freschezza giovanile. L’immediatezza è perduta. Sogna il mare e i suoi flutti, sì, le perle di conchiglia raggianti di splendore femminile. E  ascolta; l’amore  non sfugge al serpente, è avido di croci ed essicca i cuori perché resti il deserto di morte libagioni. Allontanare il giudizio non è facile. Da bambina era facile riflette la donna, se ritrovassi la fune che mi allaccia al passato resterei a decifrare la concatenazione degli eventi per annodare le trame del destino. Torna però con poca voglia a quei tempi perché il ricordo è una rivendicazione troppo tardiva. E la morte li allontana in una lontananza indefinita. Pensa alla casa, alla famiglia, solcata di rughe,  con la fantasia eccitata,  da sedare con i farmaci, e ricorda la perduta infanzia e giovinezza come in una saga di fiabesca provenienza. Scorre recitando gli stessi interminabili versi in schemi sempre identici. La casa la solitudine i passi le voci. Tornare a cercare è complicato. Pensa al giorno trascorso, rievoca il limite di attimi, momenti di quiete. Prima del delirio. La sfrontatezza delirante è un ordigno che è la lucida coscienza delle responsabilità, della solitudine e di una guida che ha perso. E’ un’ombra ed è un sogno. Un fantasma e un angelo. Mai indiscreto eppure spregiudicato e imprevedibile le ha concesso la piena libertà delle sue azioni senza fare domande perché non si sentisse intrappolata e suggellando nel cuore un patto d’onestà. Ma battono alle tempie le parole di un cattedratico a lei rivolte.  “ora basta sei perversa sterile non comunicativa”. Ora basta. Non comprende, è inverosimile il suo ostinato silenzio, dopo gli insulti, quasi sfacciato di fronte ad una donna che cerca l’intero. Dicono sia pazzo. Eppure tanta sapienza dovrebbe rendere la saggezza.  Sei perversa sterile e non comunicativa le ha detto ed �� scomparso, si è dileguato come impossibile enigma. Sono iniziate le vacanze di pasqua e lui non telefona. Continua assorta a scrivere disordinate parole, frugando nella borsa piena di libri per cercare le sigarette. È tornata da scuola. Le piacerebbe sfidare la sorte imbrogliare il destino, voglia di rinascere come fiore nella solitudine del deserto senza impronte, e lacrime, e fiori senza i quali si muore di violenza. Ma poi il malinteso si è chiarito. “devi smetterla di sentirti malata,  tu ti allontani con questa ossessione della malattia psichiatrica”. Le gambe tremano paura furiosa di camminare. Paura del vento tra i capelli, Paura dell’acqua che lava il corpo. Piuttosto che lavarsi accende un’altra sigaretta. Paura nullificante che schiaccia annienta distrugge incenerisce. Ferite inferte ai prigionieri del tempo, un demone nemico canta un canto macabro sibilando alle orecchie il rumore che soffoca, voci fantasie parole taciute,  un orologio  esatto ma vuoto. Scavare le parole come in un museo per trovare il resto, i rimasugli della vita che resta da vivere con uno sguardo al cielo. Una terra nuova, un manto d’erba, ciclamini e nasturzi in giardino, sono riposanti, e quando la notte si alzano le stelle si ricrea l’anima che traduce la croce, curvata sotto il peso, inginocchiata, a fatica rialzata la donna chiusa nella sua cameretta di ragazza prende penna carta intreccia parole che la giustifichino . La messa è finita «Sicché tutto qui? Bè,  vecchia mia non so che farmene. Dov’è che hai messo le sigarette? Ora non ho tempo, ritorno al circolo per il bridge - il medico ordina di curare la pressione ma dovrei allarmarmi? Trovami il cellulare nella borsa che lo chiamo. Almeno si decide con questa medicina miracolosa!» Nella calca all’uscita una moltitudine ipocrita vocifera mentre correndo i bambini escono scomposti. Il fendente ha trafitto il cuore e i raggi accecano la vista che sbatte e spalanca. Nulla appare più certo, quattro spiccioli al mese e un po’ d’acquisti sfaticati, scarpe tirate a lucido, un cappotto nuovo, la passerella di domenica al centro per non sfigurare. Ma è come essere nudi. Soltanto la donna, che ha sottobraccio un libro nuovo e lucido di zecca, nuovo acquisto, ha un aspetto un po’ diverso. O almeno dà ad intenderlo. Almeno lei ha un libro, un libro mentre passeggia con fare irridente e discosto sotto il cielo, quasi giustificata come in un certo definito tratto d’anima da quel possesso che la distingue, io no, intende, ritorno ai miei libri e non resto a contemplare, non appartengo al corteo di ombrelli in piazza che attraversa la strada sotto la pioggia. Cercava riposo in quella casetta di anticaglie dal suo lavoro infaticabile. Scrive un messaggio a Giulia “Allora? Come va?”. Giunge immediata la risposta “Matteo è impossibile non si fa trovare mai è pieno di amanti non ce la faccio più…aiutami incontriamoci” “ok appena posso. Sono inguaiata anche io tra psichiatri e paure”. Colpevole. Per il momento l’altro, l’intruso amorevole, agognato, spasimato, non c’è. Era il suo quarantesettesimo compleanno quando per la prima volta è entrato nella sua casa nella sua vita. Il concerto lunatico della sua esistenza è una partitura misteriosa, genera sogni e languidi abbagli, e ottenebrata perde ciò che illumina e rischiara la strada nell’ordalia dei suoni strampalati e mutevoli.  Orsaggine e selvatichezza si affacciano, la superbia si fa aspra, e si profila spontaneo e immediato il raccapricciante ribrezzo che è la sensazione di restare sospesa nell’aria. Ha sognato che le entrava nel fianco una mucca con sette zanne il corpo bianco come la neve e la testa di smeraldo. L’analista interpreta i sogni. Lei ha sognato la mamma le ha detto. Probabilmente è un sogno di conversione. Vorrebbe nel suo corpo veder nascere un fiore, una rosa,  ma avverte che è un desiderio impossibile e forse per questo gli acquisti di creme profumi abiti non la soddisfano comunque e diventano un fatto compulsivo. Le manca il giardino da coltivare, la fertilità, e il corpo lo avverte come fortezza.  Il vuoto che dice di percepire nel fianco destro, è il sentimento della sterilità. Lei dice di sentirsi mezza, senza la destra, e forata e che muovendo il braccio destro e la spalla destra sente il vuoto dell’anima.  Cerca l’incomparabile e intangibile, cerca l’anima che dice le hanno rubato. Vogliamo provare ad attraversarli gli specchi?” Ma come si fa? Gli occhiali da presbite nella corsa euforica verso il cancello e la strada deserta, dopo quell’ora nella stanzetta d’oro erano caduti, e lei non si era fermata a raccoglierli.. Si ferma a riflettere, non vuole tornare indietro e prosegue. Teme profondamente le responsabilità. E’ l’inizio di un viaggio. Non più  sola e senza orizzonti disponibili. Chi farà scudo al nemico? In fondo era un capriccio pensa. E inconfutabile ha fallito. L’indecente in tutto questo è l’averlo previsto. Aveva fatto irruzione nella sua vita un angelo che agitava la corrente delle sue monotone giornate, e poi era mutato cambiato. Forse lei non comprendeva. II medico che sistema le “teste ha cura di un arto complicato”. Sylvia Plath. Un ordine ragionevole ammorbidisce il delirio e trasmette la sensazione di una timidezza che deriva dalla vergogna. Carica di divisi pensieri, rivendica un’imparzialità che non trova, è imparziale con se stessa e insieme iniqua. Una  resa a un nuovo amore, si è fatta improbabile davvero? nutre orrore per la dimenticanza. Una donna smaliziata da fantastiche allucinazioni. Non sopporta il freno alle sue briglie che la immobilizza e la priva di dolcezze. Intrisa di frantumate memorie. Ancora pronta a infiammarsi ma con uno sguardo indietro e il pensiero incandescente di aver subito una truffa del destino. Eppure lo sapeva. “ l’idea di qualcuno accanto mi dilania l’anima. Sono all’altezza sono adeguata sarò capace? la risposta è no non sono all’altezza non sono adeguata non sono capace. Pazienza … Ora si tratta di tentare in quella stanzetta d’oro con un estraneo che ascolta e di trovare chiarezza  e di sapere perché accade. Far luce in questo tumulto per  proteggere l’argine che straripa”. In autobus disegna arabeschi su un foglio, distratta, scarabocchia svolazzi, e  viaggia verso future esultanze, ammesso che il buon senso e il criterio dell’analista siano scienza e snocciolino il bandolo dell’anima. Ma l’analista sembra un cialtrone. Comunque è un tentativo.  Affaticata, giù di tono, indossa una giaccone e jeans. Si ferma in un bar per prendere una birra e fumare una sigaretta. Lo psichiatra è l’assassino, e anche piuttosto venale. Vede all’angolo del vicolo il suo vecchio professore di università, sciatto, trasandato, occhi bassi, passo lento. C’era stata l’anno precedente una discussione durata ore al tavolino del bar del centro.  Era impazzito, colpa di una donna, quell’essere sconosciuto che non aveva osato indagare per viltà misogina e stima del suo intelletto grave ma forte, di pietra, e per lenire ferite si era fatto con gli anni legnoso, un burattino senza forza che ratificava per mera necessità tutte le ingiustizie del mondo. Ora era agonia dubbio scomposizione era diventato un cialtrone biascicava le proprie ragioni camminando a passo lento, senza criterio, allontanato da tutti, tutti schiamazzavano chiacchiere da bar, nei tavolini del centro. Lui con la mente ottenebrata camminava con gli occhi in basso e incurante di quel monologo stralunato e solitario che sfacciatamente ostentava, un canto scandito alla pallida luna rivestita di stelle. Un pensiero grigio cupo, un sogno di riscatto ormai abbandonato, un ricordo che richiama l’illusione, poi il no secco della coscienza e la consapevolezza carica d’odio del male subito senza rimedio. La vendetta impossibile inutile fuorviante. Era  un giorno qualunque tra giorni senza importanza; una mattina d’estate inoltrata, dopo una cena in un ristorante del centro, veloce, camminava per il corso con la voglia di distruggere prima di tornare agli studi tra le carte disordinate. All’uscita aveva intravisto un uomo che usualmente ostentava la massima eleganza con una forma di sfacciata caparbia quasi a dire le mie tasche sono piene e se sono piene le mie tasche anche il mio onore, e lo aveva sorpreso a ridere del suo soliloquio da mentecatto. Comunque il ristorante d’angolo dall’insegna sciatta e all’apparenza poco invitante era poco frequentato.. L’uomo pensava e parlava da solo in un monologo strascicato, tornava con angoscia ripetuta a contare gli attimi i minuti che si rivestivano di significati giganteschi, in quel giorno maledetto, in quell’urto improvviso. Battevano le tempie, basta basta, uscire dalla gabbia dimenticare. Bisognava imparare a memoria le regole della comunicazione come la tavola pitagorica, fame una logica del pensiero, conoscere la realtà iscrivendola in un quadrato o mettiamo un cerchio anche, purché sia iscritta perché faccia parte di un universo concentrato e forse rattrappito d’accordo, ma così era solo paura, del futuro, e lui era già vecchio e gli anni si facevano sentire. bastava esaminare la sua andatura incerta gli occhi bassi la vergogna di esserci ancora il desiderio di restare appartato negli angoli nascosti, lontano dalla folla, per capire quanto fosse infelice per quell’anarchia del mondo insensato, come una trottola impazzita e girava e girava e lui non poteva più giocare come un ragazzino con quell’equilibrio incerto su due gambe come moscerini e la rabbia soffocata. Ci sono anch’io raccoglietemi cercate di capire e d’accordo sono superato ma posso esserci, anche se di lato, nascosto, travestito di memorie e rimpicciolito dal peso di una fatica senza speranza, ad occhi chiusi. Regole e leggi nuove da subire in un mondo grande quanto un guscio di noce ma feroce di fronte alle diversità, ostile con chi aveva modi inusuali o non conformi ad uno stile che lui onestamente definiva da bifolchi e straccivendoli da mercato, bifolchi travestiti da nobili per un’osservanza maniacale ad un’esteriorità solo formale. Un’eleganza in fondo triviale come immancabile travestimento e in fondo era l’invidia trasparente negli sguardi curiosi ed avidi. Il rapimento della voluttà. Ma io, si disse,  molto più abilmente so volare e levarmi rapido in alto per fuggire da chi non avendo ali cammina e cammina una strada faticosa e sconosciuta senza armi di sorta se non la cura della casa degli anni da trascorrere con quattro spiccioli e un lavoro qualunque, e se ho sottovalutato è per via dell’abitudine alla solitudine e modi da vero selvaggio, come minotauro disabituato alla luce, pensò suo malgrado, ma in fondo era stata sbadataggine, semplicemente uno sguardo poco allenato ai colori e ai riflessi screziati e confusi di un’anima senza traduzioni intellettuali, era l’animo gentile di una donna incrociata per caso; sicuramente in cerca di fuga e con poca sagacia e disabitudine al nuovo aveva lui cieco e sordo al richiamo imprevisto, ascoltato con la noia del già troppo noto e troppo detto, per tornare senza perdere tempo tra i labirintici meandri imperiosi e noti dell’intelletto che ai testi si applica senza posa e non ama distrazioni, eppure era l’animo accorto di una donna forse in pena, ma alla fine chi non lo è a questo mondo? Aveva dimenticato dunque i versi di Dante sull’anima? la creazione dell’anima, da parte di Dio -esce di mano e lui la vagheggia- prima che sia, a guisa di fanciulla- che ridendo e piangendo pargoleggia-l’anima semplicetta che sa nulla. Pensò che per la prima volta in anni aveva dimenticato di recitare le preghiere prima del desinare. Tre volte al giorno recitava le preghiere e regolarmente santificava le feste - Ma la donna era un pasto a cui non si era mai abituato; lo attraversò il pensiero cosi, nudo e macabro, e ne ebbe orrore, lo ricacciò nel fondo perché non riaffiorasse. “Se si recita la preghiera non si giunge comunque alla fine della giornata con la coscienza perfettamente in funzione e a posto. Non basta . E’ vero che la preghiera prima dei pasti rende grazie del bisogno concesso ai bisognosi, ma non basta”. Così pensava a voce alta come gli succedeva spesso ormai. Era sempre stato metodico e severo, estremamente puntuale e sempre attento alle orazioni quotidiane. non esisteva il caffè a metà mattinata, o l’abbondanza di vini nella tavola scarna e appena apparecchiata di pane affettati e prosciutti, né sigarette o droghe inquinanti, il caffellatte o la cioccolata con cornetto a colazione erano proibizioni che risalivano all’infanzia, quando i soldi erano pochi e il cibo misero e da dividere in una famiglia contadina nella quale nessuno portava scarpe che non fossero state mille volte fasciate per chiudere gli strappi e tenere legata la suola che proteggeva dalla neve i piedi intirizziti dai geloni. Ora se possibile, pranzo a mezzogiorno e alle sei la cena! Ma prima mezz’ora di ringraziamento per il nutrimento che non mancava e del quale si era grati al signore che non aveva abbandonato quella tavola, e dunque santificare i suoi doni era dovere d’onestà e rendimento di grazie. Ma era  la pazzia di un ordine che si era mutato per sortilegio in un incubo incomprensibile per un uomo che aveva sempre preso sul serio il suo spirito quanto la sua solitudine e che ora, nella vecchiaia, aveva creduto di ricavarne soddisfazione infinita per la quantità di beni accumulata in anni di lavoro.    Sara E’ tornata, dopo una lite con un lui che la soffocava, nella soffitta, la sua camera di ragazza. Suona una canzone alla radio in sordina che suggella il limite estremo del giorno, dalla strada sale il rumore frenetico di motori come note strappate di cingoli che stordiscono e abbacinano. Le orecchie. Gli occhi. Di nuovo gli occhi di un’ombra che schiude il mistero superstizioso del suono e ordina il silenzio. La donna guarda di fronte,  in una sua immobilità senza movimenti, fedele cerca di apprendere quell’arte che è il silenzio tra le morte cose, avanza e si dilata l’ingiunzione dell’ignoto, seduta con gli occhi verso il muro di fronte,   le labbra immobili. Di colpo, nel silenzio delle loro voci ammutolite, sale attimo dopo attimo, veritiero, crudele, il palpito soffocato dei loro respiri, ritmici nell’aria, e l’avversione odiosa, febbricitante, annega in una vibrazione del tempo che scorre mutando i suoni amplificati e disarticolati. Il silenzio è un ombra di luce che ha corpo e nasconde il suono teso a vomitate nauseabonde parole. Denso e grigio si riflette il disgusto, la donna tesa all’estremo urla “non ti voglio io non ti voglio”; l’uomo non risponde non si muove,  pietrificato.  Nero vibrante catramoso    il silenzio, e una lacrima scende riga il volto segnato di Sara , segnato di  vergogna, poi lenta un’altra e un’altra ancora, piano si scioglie il tumulto incessante per un attimo di pietà. Il dolore inclemente, chiuso isolato liquefatto poi spalancato di lei intenta ad ascoltare i colpi che intontiscono. L’uomo cerca la domanda cruciale oltre quelle sghembe parole gridate, paziente ascolta quei frammenti allucinati. Una spiegazione semplice del complesso, un ordine, procedere per deduzione e sbrogliare l’intrico, comprendere cosa implica e perché, e perché spontaneamente come un boato si produce quel delirio che fulmina, inintelligibile. Trovare l’armonia dell’anima comprendere l’inganno e sfuggire alla trappola che è diventata il luogo di lei smembrata in uno spazio non suo, fatto di sbarre. Non c’è stata una parola tra loro in tutto il giorno ma se anche il vuoto ha un nome in qualcosa si deve tramutare. E’ necessario scampare a questa miseria d’amore e delirio che ha frantumato l’incanto dei loro corpi abbracciati. “ L’amore non esiste. Esiste la solitudine l’abbandono la paura.” Dice la donna guardando straziata fra le cose a destra a sinistra come a cercare l’orientamento nello spazio quadrato che non riconosce, negli angoli negli oggetti nelle pareti nei mobili nella tavola apparecchiata. Ha creduto di essersi persa in una distanza ignota e tra i singhiozzi ha cercato di orientarsi sorda a ogni muto rimprovero, perché la sopravvivenza è così. Una fine una memoria una fuga un fantasma che appare in mezzo alla più conviviale delle conversazioni ed è un’ombra travestita, nascosta, grave, accesa e spenta all’ombra dell’enigmatico silenzio delle strane cose risucchiate. Trattiene il tempo e ne espande le vibrazioni, ed è come morire senza morire, con un nemico accanto invincibile, sulle prime lo credi un angelo e lo tieni nascosto come l’amante più segreto, sedotta ammaliata , ma il tradimento è vicino, ha un passo e avanza marziale, è un corpo diverso, un vecchio aguzzino rigido travestito di fessure che sono occhi tesi, e annuncia cori di voci disgiunte come parti di un corpo metallico, si prolunga in un’eco sterminata il dialogo forsennato dentro il corpo rattrappito, e si svita la testa di bambola dopo un sonno in cui la ragione conservava fedele i suoi buoni quotidiani argomenti. Un intruso speciale, occhieggiante, non uno come noi, con sguardo imperioso trafuga parole nel vigore estremo del silenzio, cicalecci che incendiano, distruggono, fucilano, prefigurano il gioco temibile di una fuggitiva senza speranza nel brivido della solitudine ad occhi chiusi. Il giorno prima c’era stata una scenata. Piangeva aggrappata ai cuscini del divano e graffiava la stoffa, bella comunque nel suo abito di seta indaco indossato per l’occasione nella speranza di mascherare la prigionia che avvertiva dentro, nonostante si riconoscesse colpevole, e quella gabbia dal canto suo la meritava come ogni altra cosa. singhiozzava”tu mi uccidi mi uccidi io soffoco”. Lui aveva il volto coperto dalle mani.  Si offriva paziente a quell’incubo improvviso e atroce. Poi si era alzato e le aveva strappato il bicchiere di mano e aveva urlato “ora mi dici tutto con ordine”. Lei si era schernita e raddoppiando la lontananza aveva respinto il gesto alzandosi con violenza e tornando in cucina a rovistare nell’acquaio tra i piatti sporchi. Io sistemo la casa lavoro fatico. Questo intendeva con le lacrime agli occhi e la testa in fiamme. Le parole cadono e non si vede il loro peso nel vuoto, eppure cadono nel vuoto ma non toccano terra. Un tuono aveva annunciato la pioggia. Lei aveva balbettato piano con un filo di voce “ sei diventato matto? Non vedi come sto tremando? Sei aspro tu non vedi non ascolti non rispondi” E allora lui si era alzato in piedi e le si era avvicinato. Le aveva stretto i polsi per fermarla o strapparla a quella risonanza incomprensibile. Impressionante orrore della verità. Aveva respinto il gesto ed era andata a dormire dopo aver preso un sonnifero per chiudere gli occhi e divorziare nel sonno dal suo incubo. L’ombra scompariva quando il sonno penetrava proiettando ombre, e ancor prima gli occhi si chiudevano e si compiva al massimo grado il divorzio dal mondo. Una pausa prima delle prime ombre del mattino. Cosa realmente vuole quell’immagine, quella maledizione dalla voce ambigua che fascia stonata e uniforme, rumore di tenaglie, ferro, pezzi di ricambio, la testa irta di crepe non rimarginate? La vita si è iscritta nell’ipotesi di un’ombra che non tramonta, non si getta, s’addentra in ogni angolo in ogni vuoto meandro. L’aguzzino non ha amore, implacabile traccia segni, persegue, scoperchia il suo sguardo, consuma ombre e beve il giorno, proietta profezie loquaci che occultano il mondo nelle pieghe della testa; in una danza infernale lei ascolta lo strepito macabro e sordo, ecatombe di tamburi, quel mostro che apre le porte ed è ovunque vince ogni fragile no, perché non creda, lei, di poter fuggire prima che si compia il sacrificio del giorno più lungo, l’eclissi del martirio, tormento, scura parabola, proiezione della vita nell’ombra, con gli occhi pupille che mettono a nudo il vecchio armamentario dei suoi sogni e dei suoi giorni quieti. L’ombra dalle fattezze azzurre, giocose scaccia i pensieri.  Tornerà da lei per nuove carezze. Il silenzio è ordine. L’ombra divide lo spazio e divide la memoria martoriata, la speranza è altrove.  Fuggire. Sara da qualche giorno, non sa quando, ha perso il senso del tempo diluito tra fantasmi e realtà, è tornata dai suoi. Perché le è impossibile continuare, picchiava sui muri versava lacrime, e allora se ne era andata via per trovare pace. I suoni subivano una sorta di incarnazione  ma la gola restava serrata. Aveva sceso ogni gradino con un intensità che era un crescendo di tonalità fino ad un mostruoso forsennato battere. . Ora è al bar della piazza seduta al tavolino. Ha visto il cielo con infinito azzurro e ha sentito il calore del sole Ha visto l’azzurro del cielo. Un sollievo della testa stanca, un risveglio della vita dal dolore riflesso del vuoto. Sorride al cielo ai passanti alle macchine. Io potrei essere o io sono continua a chiedersi? Il fantasma dai tentacoli aveva ferito la sua esistenza tranquilla per tradurla in una infelicità di orizzonti persi. Solo a volte ha occhi suoi per il cielo per il suo cuore libero dallo strazio di quella catena. Il laccio è finito la tela frantumata. Forse. No, , implacabile il nemico s’acquatta e la sorprende e imprigiona, Io ti amo e non mi vuoi. Sussurra piano con un movimento impercettibile delle labbra sottili. Ci separa il tuo orgoglio contro il quale resto inerme , a niente varrebbe scagliarmi. Nelle profondità del cuore inebriate dal sogno abita l’intruso, è li che ha voglia di ucciderla è li che la vuole come in un faccia a faccia che la ammutolisca per sempre. Un orribile battere, una conversazione alla quale finiva per preferire i volgari pettegolezzi cittadini. Le sue guance hanno assunto un colorito appena roseo, l’esemplare condanna a morte sembra scansata nella casa della sua infanzia e adolescenza, ha occhi e parole nelle ore rare di libertà del pensiero incandescente, tra i ciclamini gli oleandri e i limoni, si concede ipotesi di  vendetta. Voleva gettare fuori il mondo. I labirinti delle sue ossessioni le toglievano il fiato, la vita si biforca e sente di essere inghiottita da mostruose fauci spalancate in un delirio senza rassegnazione, riemerge alla ricerca di qualcosa contro quell’essere che la fa precipitare, cadere in un’inconcepibile voglia di venir coccolata tutta, stremata implora a se stessa rassegnazione.  Combatte la sua psiche da un’analista.  Dischiudere un tempio di amarezze e solo fortuite dolcezze. La mattina alla solita ora la seduta, all’uscita ha salutato l’analista cordiale come sempre con un sorriso stampato ed è fuggita vergognandosi di quel timido saluto scambiato e della mano stretta, è scesa a piano terra percorrendo vertiginosamente le scale. II suo analista ha emesso una sentenza. Ha ascoltato lo sconosciuto mentre era distesa sul lettino tutto d’oro. In qualche modo sì sente innocente. Perché non si dovrebbe fuggire?   Il professore Quella donna chiedeva risposte che non ho. L’ho invitata comunque a sedersi al tavolino del bar. L’ascoltavo annoiato, e lei chinava la testa. Un bel nome Sara. tornava a rialzarsi e guardarmi, sempre in base al mio discernimento che sapeva dosare le parti, semplicemente misurando il linguaggio in base al tempo e allo scorrere e al dubbio che ogni sospensione lasciava in lei quando le toglievo ogni spontaneità nel trattare con gli oggetti e i cibi di quel tavolino apparecchiato in un caffè piuttosto alla moda del centro, perché tutto diventasse un evento e un paradosso. Giocavo con lei come un’Alice nel paese delle meraviglie, “hai braccia e gambe lunghissime; se abbassi lo sguardo li vedi scomparire i tuoi piedi, e lei guardava in basso perplessa, e il tempo che ti occorre per portare alle labbra il cucchiaino di gelato è fuori portata, senza contorno, ti si scioglie prima che tu riesca a organizzare i movimenti di quest’oblungo braccio segaligno e dinoccolato che ti deve essere piuttosto d’impiccio più che d’aiuto , e finisci naturalmente per sporcarti l’abito di gelato, e lei fermava la mano e riponeva il cucchiaino nella coppa gelato che andava sciogliendosi e gocciolando ai lati. Hai gli occhio strani, stamattina devi esserti svegliata un po’ diversa ma non ti ricordi quando, probabilmente ti chiedevi chi diavolo eri, comunque questa non è una tavola pitagorica e non si tratta della metafisica del numero, spicciati con questo gelato. Finirai per protestare di non averne neanche sentito il sapore e non tossire così mangia piano altrimenti ti strozzi. Vorrà dire che lo lasceremo ai piccioni, questo gelato per essere grande è grande davvero. Le venne il singhiozzo. Nei miti indigeni le fanciulli folli di miele non sono sazie di miele e mai sazie dei piaceri del sesso e finiscono divorate dalle accorte formiche. Guarda una formichina sulla tovaglia un’altra, il tempo passa e tu non ti sbrighi a finire questa coppa sei ancora a metà. E lei osservava la tovaglia di cotone blu pensando di veder comparire un formicaio. Non osava disubbidire. Vorrei vederti con le corone di pan di zucchero, sai cosa sono? La deridevo, sta attenta a quel che fai non sai muoverti….sai qual è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico? bet e bereshit significa in principio e bet e ben figlio e figlia e bait casa e banha costruire. A te manca un bereshit e ogni mattone tu poggiassi lo poggeresti sul nulla per questo sei sterile vuota e non comunicativa. Niente principia dal nulla se non il nulla stesso. Non capisco se stai singhiozzando o belando, comunque non sai che strada prendere perché senza bereshit non esiste strada. L’amore comunque dice un grande filosofo non prende mai le strade maestre. Ma per prestare il fianco alle frecce d’amore devi dimenticarti di te e ritrovare il tuo principio, e si vede dagli occhi che sei un angelo vagabondo. Se singhiozzi o beli, non mi è ancora chiaro, è perché ti manca il verbo e in principio è il Verbo. Ti appartiene la strada ma dubito che sarà una strada maestra e sicuramente non il principio di un cammino ma qualcosa di sospeso per caso in un risveglio improvviso in un luogo impreciso, neanche tè saprai quale e perché. Continuava a ricordare, fermo il pensiero a quell’Alice triste eppure forte. Trovare il modo di rivederla. Aveva anche un nome dolce Sara, “Ma ora, che fare? Se solo ci fosse con me il mio collega che ha il dono di saperne di più risolverebbe l’enigma…” Si soffermò con piacere a pensare al vecchio amico. Ma poi facebook è stato il lieto fine di tanti incontri-scontri. Siamo tutti amici su fb. Scriviamo lettere inviamo messaggi e immagini. E sono restata una dolce schizofrenica con un uomo accanto che mi sopporta, non so per quanto tempo ancora mi sopporterà. Ma è lui la conoscenza fb. Un incontro dolce dal primo quasi immediato bacio. Fb nasconde il tempo. Ci amiamo da vegliardi con saggezza e comprensione. E rinunciamo alle liti adeguandoci a quanto esiste. Un diario fb. Siamo piattaforme face book, ma lui è vero in carne ed ossa e l’anima mia carnale ringiovanisce. Un paracadutista. Io ho trovato il farmaco giusto contro la mia liquefazione. Una schizofrenica innocua. Un bacio da lontano amore sto per venire da te.     11:55pm 29 Mar. '13 le brume Le brume Lui -Alle prima luci il canarino inizia i suoi gorgheggi. Lei se ne è andata. Ha telefonato ieri sera in preda all’agitazione. Lei - Vienimi a prendere ne ho bisogno.   Lui -Per tutta la sera ha parlato di lui anzi d’amore— Lei- lui lo dimentico, devo — Lui - bene che te ne fai d’altronde Lei - si ma ti pare facile - giro con frammenti di un discorso amoroso sempre tra le mani. Anche a te l’ho regalato per natale? Lo vado regalando a tutti-E ora capisco che è una un’illusione — Lui - piantala con lui ti fa del male – Lei - sì ma vedi lui mi sbarra la strada. — E poi che mi faccio passare la vita così? E il vuoto, lo sai vuoto cos’è no? -   Lui -Lei non si stanca delle visioni immateriali di lui che le consumano materialmente il corpo e l’anima - E’ venuta con voce eccitata ma tremante, intesse da anni il putiferio dei suoi ricordi con la fatica tutta sua di non deporli. E’ col cuore e il corpo affamati ostinata nel non voler destituire la coercizione della nostalgia alla quale si appiglia per non ricomporre un ordine già demolito da tempo. Sfavillava luce in quegli occhi castani grandi spalancati che riponevano lo sguardo nello stupore di osservare tutto quanto fosse nuovo, come a scoperchiare in ogni cosa fuori e dentro la materia spirituale, toccando lieve e assorta tutto quanto trovava per scovare mille cose vive e nessuna morta - vuole luce chiara riposante -un riverbero cordiale, per muovere l’anima che si è fermata, rimasta indietro per non correre avanti. L’amore è la corrente che riguarda in lei le cose del passato, quasi un po’ morta per l’altro il futuro. Ma eros è una potenza universale, le ricordo, e per amare bisogna amare in modo rinnovato. Io come amico potevo lenire il suo pensiero incandescente e fame pensiero di carne. Volevo il suo pensiero fatto di carne, il pensiero sensuale del corpo che a lungo ha riposto in un armadio, sicura di renderlo più vivo poi, nell’attesa del ritmo del respiro giusto e simultaneo. Mi ha fatto balzare alla mente inatteso il ricordo di versi di Montale, lei stessa mi è apparsa una donna di Montale e ripetevo dentro le parole de La casa dei doganieri, lo sciame dei suoi pensieri. Erano tanti e si affollavano, e con pazienza volevo placarla, ma rimane lo spettacolo che ho dentro del vivace suo apparire - vivido e mosso, con la visione di un pensiero nascosto, la sua fragile arrendevolezza.   Lui -Smettila di girare ti muovi come se avessi l’argento vivo addosso non ti fa bene Lei - ok suonami qualcosa — senti questa è una di quelle case in cui non si fuma vero? Lui - per stasera ti concedo di accendere poi vediamo Lei- l’importanza del sesso per esempio, io credo che in definitiva un sano sesso mi rimetterebbe in piedi, conferisce al corpo di rispondere, e mi renderebbe meno furibonda non credi? pensa al corpo come unico strumento del quale possiamo godere a piacimento   Lui -  non male   Lei -  sì ma la sai una cosa, sono anche anorgasmica, però fammi fare sesso stasera ne ho bisogno, il vero sano sesso quello che scalda piano, senza imbarazzo - chiudiamo i miei pensieri prima che faccia giorno e discorriamo di corpi, anzi coi corpi, e per stasera voglio ignorare tutto, anche me stessa che penso per sentire rifluire all’interno il sangue pulsante, non alla testa che mi vincola mi tiene stretta alle sue braccia al solo pensiero che non c’è-prova a stringermi senza che le tue di braccia siano braccia che si accavallano ai pensieri, prova a essere presente e assente. Pensa a Platone, una pedagogia dell’anima e del corpo si rivela effettivamente corretta solo quando è in grado di portare a maturità queste due realtà nel modo più perfetto e armonioso. Un po’ filosofa ci sono. No? Lui -Ma l’armonia in lei difetta della sintesi, eppure è bella ma non lo avverte converte lo spirito in qualcosa di talmente incorporeo da perdere il palpito solo carnale del piacere, per il gusto in realtà di non esserci mai, di esserci senza amore, e se non c’è amore la legge che si dà è che non vi sia al contempo nutrimento per il corpo, solo anima assottigliata, esile come la sua guizzante nervosa figura. E’ la sua dolce arroganza. Le appare un grossolano errore esporsi al pericolo di essere acciuffata e dover restare, si sentirebbe presa al laccio e vuole rimanere inafferrabile, mentre sogna cose inaspettate, possessi troppo sovrumani.     Lei - tu credi che le anorgasmiche, quelle che ci diventano o ci sono, abbiamo una qualche possibilità di riuscita? Lui -  penso di sì Lei - poi tu pensi ancora a tua moglie  Posso farmi una doccia qui? Non ho fatto la ceretta e non mi sono lavata lui si sposa e io conto le mie rughe insieme al tempo- ma è che mi divoro-e l’ansia divora l’ansia per finire in una voragine d’ansia senza fondo, è una caduta - e non sogno che di lui –meglio nascere brutte che diventarci non giochi mai gli specchi che alla fine devi allontanare per cercare l’essenza e nell’essenza trovi il vuoto, un’eco una balbuzie – Lui - sei sempre la stessa, le rughe non contano, è che hai una volontà docile e continui a soffrire, ma perché fai confronti e non sai neanche con chi, torna a rivivere, è ora Lei - lo dici tu — non prendermi per pazza ma l’ho chiamato di nuovo oddio piantala — Ok sesso allora parliamo di sesso — vado a farmi una doccia- c’è un accappatoio? Sai  questo bagno è rassicurante? Una doccia calda e poi tutto sesso. Penso che tu sia in grado sai di risolvere la mia situazione per stasera, lo credo seriamente, in fondo l’uomo molto più grande, hai vent’anni più di me necessariamente sei così saggio, è meglio del ragazzo. I tempi per esempio si allungano  come le rughe d’altronde— ti piaccio? —  Lui - volevo dirtelo da un po’ il tuo modo di entrare di muoverti di parlare mi ricorda una poesia di Montale La casa dei doganieri - desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri - — sì capisco l’anima ma la bellezza non richiede Montale sai e neanche l’anima alla fine - le nostre parole sono le migliori, ma hai ragione “il calcolo dei dadi più non torna” – Lei - insomma ora mi sento prigioniera e non preoccuparti di me  mi sento spettrale e non mi finisce non mi riesce di finirla con il pensiero di lui- Lui - Mente a se stessa. Non è lui che vuole, ma rimarcarlo ogni volta le  consente di far correre i pensieri a briglia sciolta, e tessere trame d’abbandono per l’idea che vuole dare di una cattività, e di una coercizione non volute. Perché difetta di un io voglio, di una volontà decisa, e perché ogni vincolo allora le sembra catena, richiede il tempo condiviso lo specchio dell’anima che maschera e nasconde per puerile paura, e inizia a soffocare ed è costretta a lasciare. Credo. Forse, comunque il suo discorso non torna. Essere di lui lontano (sarà vero che non la ama?) le serve a non appartenere se non a se stessa. comunque   con l’accappatoio e i capelli bagnati sembri un pulcino bagnato — Lei - mi       metto a letto— oddio è freddo—ti rendi conto che parliamo di sesso e siamo imbarazzati a darci anche un bacio? — o abbracciarci, impossibile come se fossimo immagini di noi stessi svuotate di qualcosa - cos’è che manca al sesso per essere solo sesso? non oserei darti neanche un bacio l’altro era amore e lo baciavo — noi che facciamo adesso? — Lui - Ti posso massaggiare vuoi? Lei -  sì mi tolgo l’asciugamano — oddio bello chi ti insegna? — sembra divino i massaggi hanno qualcosa di divino — le spalle premi sulle spalle e la schiena — ora che fai — Lui - perché cos’hai ho solo posato la testa sulla tua spalla, che hai? — Lei -  perché mi blocchi, ti appoggi me e non sappiamo baciarci — ci pensi? io nuda, tu mi frizioni e massaggi tutta tutta,  senta paura, e abbracciarci ci atterrisce? Nel massaggio c’è la distanza giusta per essere altrove, in Frammenti  io mi leggo nell’Assenza, la scrive con la A maiuscola -è la privazione - so a memoria il passaggio - il desiderio è qui ardente eterno: ma Dio è più in alto e le braccia levate non raggiungono mai l’adorata pienezza - Dobbiamo provare tecnicamente a baciarci? Lui - «ma sei pazza? Il bacio tecnico?» — Lei - e allora il massaggio, mi priva della privazione è incorporeo etereo e insostanziale – Da Frammenti - il desiderio si spegne sul bisogno, ma se togli desiderio e bisogno si spegne l’Assenza, e di conseguenza si dovrà accendere qualcos’altro, forse un modo diverso un cuore diverso, un cuore muscolo che palpita ovunque magari nelle cosce nei gomiti nella mani nei piedi , perché sei bravo e mi fai venire il vero sonno e non mi chiedere di ritornare a casa, la tua di casa è bella è immersa tra la terra e il verde ci sono i vetri appannati come nella casa dei doganieri sembra irreale quanto i luoghi della lontananza, dell’assenza, e del c’era una volta. Altrove non mi sarei fatta manipolare così, ma è poesia questa tua casa, l’accesso anche, nel viottolo sconnesso come un labirinto di sassi e dirupato - sembrava di allontanarsi per entrare in un altro regno, un diversa forma di riposo che viene dal suolo e dalla nebbia, e dalla luce che sa di caldo e di occulto di qualcosa di solitario, il magico interno brumoso di un faro. Ma dicevo di frammenti amorosi - lo so a memoria -nell’Assenza due ideogrammi - le braccia levate del Desiderio e le braccia tese del Bisogno. Il desiderio si spegne sul bisogno. Immagine fallica delle braccia levate, immagine bambinesca delle braccia tese - sì continua così ti prego, i polpacci devi premere e, oddio devo smettere di fumare, e ora dove vai? cosa é  questo? è bello,  talco — mi stai facendo buttare fuori tutto ciò che mi inquina dentro, è una delizia svuotarsi la mente, un esercizio che ho sempre tralasciato.   Lui - Sembra che la sua impressione - timore di me sia verginale. C’è il lei l’onestà della fedeltà al proprio patto con se stessa, si è imparata a conoscere attraversando relazioni ma negando l’anima sua bella. L’anima che tiene chiusa nella sensualità di un no ripetuto, e di un’eccitazione che solo la lontananza di un lui le dona. Non è inconsapevole. Sa di non saper attraversare gli stadi dell’erotismo perché vuole essere presa solo nella parte che di lei è più corporea, l’anima. Il resto dopo. Non vuole per una ragionevole ma involontaria giovanile musicale passione per le ragioni del cuore-anima cervello, e separa con pertinace insistenza il suo io dal resto pretendendo il riconoscimento di un tocco d’anima di due che sono sensualità e spirito in una sferica presenza - fosse pure contro il tempo – e questo solo è presentimento di una reale carnale scoperta, ancora non si accende in lei il desiderio se non attraverso chi le faccia avvertire la materia di cui è fatto l’incontro, ossia una rinnovata verginità dell’anima, per esserci senza memoria, intatti puri come avorio. Credo si avverta ogni volta superiore e recita la parte dell’abbandonata con l’agilità di chi già è altrove. Ma dove? Dove non c’è che lei sicuramente, nel cuore e nella mente. Lei - Una brusca svolta della macchina e sono entrata in un sentiero nel quale discendevo sempre più eccitata, un viottolo ogni volta trasversale e ritorto, discendevo in una nebbia che scioglieva già ogni mia tensione. Mi avvertivo furtiva e clandestina come il luogo, un rifugio nebuloso. Qui il mondo si riposa, pensavo di fronte al cancello, e il freddo bagnato d’umido aveva il sapore delle macchie selvatiche con gli alberi scheletrici e il suolo rosso-ingiallito da cui evaporava brina densa-e solforosa - Ora anch’io mi riposo ho pensato, e così è stato. Ho parlato parlato, le mie parole erano le stesse di sempre, quelle presenti, ma erano un disco incantato, mentre concepivano per me del tutto inversamente i miei piedi maneggiati le ossa dei miei gomiti i polpacci le braccia. Avevo la sfrontatezza del dominio su tutto, su di lui e le sue cose. Imponevo me quasi fossi un impero. E pensavo senza pensare, parlavo per ripetere le solite noiose cantilene, gustando al contrario la forza del meditare realmente carnale, quel bellissimo limpido riposare nella testa, per il quale era facile non ascoltare se non da un’estrema lontananza indefinita le mie solite terribilmente noiose parole, erano vuoti simulacri per i miei piedi e polpacci rinati, chiudevo involontariamente gli occhi e avevo la voce per intimare “io qui ci voglio restare” e non mi alzo. Non avrei potuto avevo il corpo già tutto assopito, meravigliosamente rilassato, e il trauma di alzarmi non glielo avrei concesso. Credo avesse delle preoccupazioni. Ma naturali - spero capisca un giorno quanto il disgregare smembrare ponderose speculazioni troppo ardite è ciò di cui ho bisogno, è questa l’assenza, quell’intelletto sempre attivo rozzo e ineguale, non eguagliabile ai miei piedi polpacci gola giro vita cosce e capelli. Sono una così, con me stessa senza divisione. Ma per parlare ripetevo come la ballerina di un carillon le parole d’amore perduto, i frammenti letti di discorsi d’amore, togliendo alle nostre parole l’autenticità dell’essere solo nostre, con astuzia forse troppo argomentativa, meccanicamente ribadivo il già detto, ormai saputo a memoria. Ma la scatola era vuota, alzato il coperchio le parole se ne volavano dopo aver per troppo tempo traboccato. Avrà sicuramente già capito tutto, o forse non capirà, sentirà di avermi fatto del male e non sa quanto bene mi mostra con la sua docile pazienza. Glielo dirò con un dono gli voglio regalare “Pensare con i piedi” di Osvaldo Soriano. Capirà. E dimenticherà le mie parole, Il carillon incantato, perché sa farmi pensare, finalmente con coraggio, cervello sì, ma con cuore fegato e sesso, e tutto il resto. Lui - sei dura come il diamante Lei— sono legnosa, me ne accorgo tu hai mani d’oro — però non mi rispondi — mi massaggi  in un modo che sembra il tuo lavoro da sempre—ma frammenti di un discorso amoroso, che ne dici, ti è piaciuto? — come diceva ti ricordi — sì qui i polpacci pigia più pigi e meglio è  così pizzicato è perfetto la schiena le braccia— neanche ti stanchi ? — Ti ecciti? Lui - sì ma non è l’eccitazione che conta — Lei- comunque dicevo niente tenerezze  Lui - ti ho già spiegato io non mi impegno, c’è mia moglie, sono separato d’accordo, ma non mi impegno      Lei - non fare lo scemo io rifletto — quanti pochi frammenti d’amore — i discorsi amorosi insomma, non ne pensi niente? — ti ho fatto vedere le foto hai visto cos’ero e come sono adesso che sono appena tre anni che se ne è andato e ho solo pensato a lui e si vedono i segni dei pensieri sul viso - ho un’ ossessione — sì ma continua non ti fermare - però non ti sdilinquire in queste tenerezze - insomma è un massaggio con la frizione, il massaggio da massaggiatore - ma voglio dire poniamo i romantici discorsi d’amore - ti rendi conto che il mio corpo è nudo? - non lo temi  perché non lo temi? Ma senti il fatto che non lo temi significa anche che non lo scopri? E nell’«amorosa quiete delle tue braccia?». E’ un paradosso sai non c’è nulla di amoroso e c’è qualcosa di mostruoso nella tua facilità a trattare il mio corpo e nella pazienza anche Lui - se ti friziono così puoi anche raggiungere l’orgasmo— Lei - Come puoi solo pensarlo io credo che la citazione di Montale ti sia servita a rendere quel minimo di poesia al movimento delle tue mani - però non fermarti - Penso con insistenza alla bella e la bestia - la fiaba - mi ci fai pensare con insistenza - non parlare di orgasmo, l’orgasmo tecnico non mi appartiene - guarda che se vai all’interno coscia ti accorgi di quanto sono asciutta – Lui - si sei dura durissima ma hai di bello gli incavi gli incavi del tuo corpo sono belli, e sei bella qui sei un loto Lei — sarebbe bello mettersi a litigare d’amore, l’amore ce lo siamo dimenticati — il massaggio è divino ma lo sai che mi sento di non esistere? — insomma chiunque fosse qui donna in queste condizioni si riposerebbe con il tuo frizionamento instancabile — mi chiedo cosa te lo faccia fare — forse sei molto generoso — quelli che mi amavano non mi hanno mai massaggiata così per ore e forse così mi stai aprendo un vuoto -e la vista appannata della tua finestra in alto per tutta la parete ha l’apparenza reale del fiabesco — e l’odore di nebbia e di muschio — ma l’espressione tua  è la stessa, hai sempre la stessa espressione di sempre solo un po’ stanco e insonne, si vede che ti manca il sonno, domani non avremo però la sensazione di essere stati in un letto nudi insieme—e lo sai neanche adesso — eppure questa è generosità — vorrei giurare di non fumare più ma è impossibile — Lui – lascia perdere non ci riesci. Lei - Chissà cosa vuole lui scoprire di me, e anzi cosa scopre, il mio irrompere strano e impaziente, le mie sconnessioni disciolgono il suo quotidiano metodico movimento sempre uguale forse, o gli sono l’impiccio di una invasione improvvisa e improvvida, oppure gode giustamente di         un’innocente voglia di godere del suo faro, nonostante la trascuratezza delle mie parole, e gli ordini che impartisco, difendendo le zone più intime, negandogli le carezze che forse avrebbe per me ma io non voglio. Mi ostino a ripassare formule svuotate, quelle dello sgabuzzino della memoria, quelle sempre pronte e rigurgitanti, basta attingere, e riafferrare vecchi interludi, quelle overtures sempre uguali. Dovrei dargli tregua, almeno un intermezzo. Il polpaccio l’altro — senti che legno che sono — sono un legnaccio — un pezzo d’albero e lì sono sempre dura — insomma dicevo il bacio la tenerezza— sai io mi pento di un uomo che non ho avuto e era dolce perché era uomo e protettivo e mi parlava con paterna premura e ironia - la schiena inizio a sentire –con l’olio così- una settimana tra le tue mani, diventerei un’altra e brancolerei un po’ meno — sai che ho perso il tatto? —ma hai mani possenti - le immagino pelose - come quelle della bestia – hai anche la dignità alla fine della bestia di fronte alla bella— ma tu perché non    parli? –  Lui - perché non serve, ascolto lo sciame dei tuoi pensieri — parli te e sei un pulcino impaurito – Lei - mi fai accorgere di una cosa - i piedi sì, dio i piedi ho il cervello nei piedi io le mie molecole migliori sono nei piedi - mi sembra di rinascere, anzi mi fai crollare dal sonno - è la prima volta che non penso niente non ho pensieri - però la riflessione filosofica te la dico - So che c’è tua moglie e io non sono emozionata e non ti bacio perché mi sentirei tecnica e tu saresti tecnico a letto - ma dimmi la verità - tra l’essere folli d’amore e l’essere tecnicamente sempre pronti non mi dire che non ti piacerebbe essere pazzo d’amore - o vuoi che il desiderio si spenga sul bisogno, il tempo fugge e l’attesa ci profana lo sai? aspettare che lei - lui chiami come un condannato a cui si rifiuta la grazia - “squilla squilla accidenti” e ogni volta si fa qualcosa sperando che serva — sai del tipo se accendo una sigaretta e preparo il caffè quando sbuffa la caffettiera allora squilla - ma sono preoccupata sai dimmi un po’ ma tu frizioni passi con le mani nelle zone più dure e contratte e mi sciogli, come se mi smontassi per rimontarmi meglio la testa che ha smesso di funzionare ma inizi dal basso dai piedi- ma è perché hai capito che soffro? - oppure sei un santo? – Lui - anche a me metterebbe in imbarazzo la tenerezza — Lei - figuriamoci se mi penetrassi - non riesco a unire quest’uomo del massaggio - mettiamola così, ti chiamo così - all’uomo che ansima e gode mettiamo alla penetrazione della mia vagina - scusa fammi dire però fica - sennò mi sembra veramente qualcosa  troppo meccanico tutto - Io sono sicura che sto bene da morire, ma domani non sarò emozionata, ma senza le tue mani il calore delle tue mani mi sentirò legata- ora provo a non parlare - non dico più una parola - l’altra cosa che ti ho segnato ti ricordi su frammenti del discorso – “Dopo un crollo la psicosi da crollo ci difende dalla psicosi del crollo. La psicosi riproduce psicosi”- Telefonarti mi ha salvato - stavo crollando un’altra volta e questa volta ho trovato la casa dei doganieri e le potenti mani della bestia - io la bella ok? - c’è una cosa che non ti ho detto quella foto di te piccolo sul pianoforte io devo averla sognata - c’è un dejà vu - lì ti vedo - e non credo al modo in cui mi parli della tua separazione - e il tuo ordine spaventa - è un ordine cattolico? Questi libri sui vari Don mi fanno un po’ orrore - bellissimo così continua il giro vita tutto, il giro vita  da tutte e due le parti ne ho bisogno - stasera mi sono accorta di una cosa io ho perso il mio corpo - devo fare qualcosa che mi risvegli - si è anestetizzato - si è fatto tardi per attendere - la vitalità richiede che se ne abbia cura perché il successo non dobbiamo concederlo a chi ci sigilla la vita Lui - La materia di cui siamo fatti è uno dei fattori determinanti dell’opera, l’armonia alla quale ritmo e melodia si aggiungono come personali momenti, mai assolutamente coerenti, anzi mutevoli sempre, come tempo che si applica alla materia pensante e irrora trasformazioni che mutano la nostra sorte, se il tempo del ritorno dell’essere sempre ripetuto consente a noi impigliati nella tela di ragno l’apparizione di una improvvisa epifania. E’ ciò che lei vuole, un improvviso inaspettato apparire che muti il corso sempre uguale di un fiume regolare la cui ansa non fa che ritornare su se stessa. Qualcosa la rende perennemente insoddisfatta, e diventa una fortezza inespugnabile. Ma il  perché, non si comprende. Lei - Che ne dici della danza o qualcosa che mi ridia il mio corpo? - se oggi ci fosse il bacio e le parole tenere e il discorso amoroso con questo massaggio divino e lungo ci sarebbe un principio -  e invece mi fa un sacco bene essere maneggiata ma mi sembra  fisioterapia e l’anima scusa? - sembri  il     medico che mi rimette in sesto - insomma io sono qui nuda tu tocchi tutto intero il mio corpo e una tenerezza mi farebbe tornare indietro  guarderei con terrore il tuo corpo -  in questo momento il tuo corpo per me non esiste - è solo scienza - voglio dire come se fossi un medico - il         resto ci potrebbe solo annoiare - non sarà che il massaggio serve per riempire il tempo come se non avessimo nulla da dirci -  perché non ci sono le carezze? - però sei carino forse hai capito quanto sono disperata - ma ora sto zitta ora provo il silenzio.   Lui - Si è addormentata. Un sonno profondo.     Lui -Ho maneggiato per ore il suo corpo che ha definito legnoso, era diamante. E in effetti era dura e contratta come un blocco di marmo, ma bella però. Io a malapena ho dormito - Per un po’ ho pensato di lei sol una cosa. Pensavo Al la Casa dei doganieri, quando gliel’ho detto e quando glielo dicevo si arrestava confusa, era un pulcino bagnato che chiede premure. il corpo di legno sì ma bello ben fatto solo contratta sofferente. Ho recitato i versi fi Montale mentre lei non riusciva a stare un attimo seduta come se il suo corpo scattasse per lei involontariamente si alzava tornava a      sedersi si rialzava girava le stanze assaporava il limoncino di Sicilia e se ne versava per scaldarsi e forse voleva sciogliersi con l’etilico e le sigarette Aveva l’accappatoio e i capelli bagnati e ho capito che si sentiva poco donna. Desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri, le parole di Montale. Si sentiva separata ne sono certo, forse tranne da questa casa che è immersa in un verde disabitato selvatico con la nebbia bassa e quasi sulfurea. Era disarmata di fronte alle sue ragioni, sulle quali deve aver riflettuto molto e da molto, e alle mie risposte si vedeva ferita. Non comprendi non è a te che mi rivolgo quando parlo della tenerezza che ci manca, voleva dire, e io continuavo la mia tiritera involontaria ma non troppo, forse troppo maschile sul fatto che non siamo più ragazzini e ci è nota ogni cosa. Ha ragione a parlare del bacio, e dello scoprire nudità con la semplicità con cui trattiamo oggetti dei quali siamo troppo sicuri. Ho letto in Frammenti di un discorso amoroso - scrutare vuol dire frugare.. sono come quei bambini che smontano una         sveglia per sapere cos’è il tempo.   Mi ha fatto riflettere. Ho massaggiato il suo corpo e ho parlato con estrema facilità di orgasmo e giustamente mi ripeteva - ma se neanche abbiamo il coraggio di una tenerezza di un bacio? –ma io imponevo  il mio io con la pesantezza di un grande         ancoraggio, forse l’incoscienza, non ho compreso L’intelligenza delle sue parole, a lei che per non amore mi ha regalato frammenti di un discorso amoroso ho solo risposto “ti ho avvertita non voglio impegnarmi” - non l’ho capita o mi sono difeso? Pretendo che l’abilità delle mie mani potenti da Bestia come le ha chiamate le sostituiscano la tenerezza di un uomo? E la mia presunzione poi, lei è la prima, a non volersi impegnare non con me, ma io maschio mio malgrado stabilisco l’ordine delle priorità sono io a dirlo per primo non voglio impegnarmi -con la sicurezza del no, che è inevitabilmente l’affermazione di una certezza, che dall’altra parte ci sia una richiesta speculare e ribaltata. Non le passave per la testa di volere di più da me, bastava riflettere sulle sue parole, non è una ragazzina e se avesse voluto mi avrebbe semplicemente avuto, con il sesso tutto quanto. Mi diceva qualcosa di grande mi diceva che l’imbarazzo che aveva nei confronti della tenerezza la faceva soffrire, è un imbarazzo da giovaneche ancora non vive il sesso per il sesso e non vuole il tempo però della costruzione, quello dell’età della ragione. La mia risposta era la risposta di un vecchio, riguardava il tempo il fare progetti di vita che proclamavo virilmente impossibili a lei, per la quale nulla di questo poteva interessare, tanto meno trattenerla a pensare al futuro a lei dall’aria così sbalordita che faceva da padrona perché le davo la possibilità di non pensarmi, di sapermi senza sapermi. Io questa note  non c’ero per lei, in lei la tenerezza è un pensiero che rimane giovane e senza tempo, è la sua giovane vergine bellezza. Bastava capirlo con un banale volgare ragionamento: che cosa le avrebbe impedito di fare realmente sesso? Nulla non è vergine di certo, e di baci ne ha avuti e ricevuti, e appena ho poggiato la testa sulla sua spalla ha detto no questo no. Per lei sono stato veramente una sorta di massaggiatore. E a lei ho parlato di orgasmo. Ma forse è giusto, solo che ora non ci sarà altro, né tenerezza né parole più intime ho reso tutto poco intimo con la mia povertà di giudizio, e la mia tutta maschile e meccanica possibilità del sesso comunque Ma se esistono due specie di movimento, l’alterazione e la traslazione, qualcosa in lei un       passaggio deve esserci stato, un movimento verso uno scopo diversamente determinato. Qualcosa di traslato che le tolga finalmente l’immobilità di non essere in nessun luogo e in nessuna cosa. E l’anima? non me ne sono dimenticato mai, non me ne sono dimenticato con lei nuda nel mio letto - non voleva che le         accarezzassi in nessun modo neanche lievemente i seni Montale mi è saltato alla testa involontariamente e ancora rimane nei miei pensieri. Le parole di un poeta. Ma alle mie parole manca l’intimità, alle mie mani nell’Assenza la tenerezza, alla mia bocca, nell’Assenza, il sapore del primo bacio vergine con una donna sconosciuta, ai miei pensieri la giovinezza che queste tre cose insieme consente, al mio ordine il disordine di consentirle al risveglio una sigaretta dopo il caffè, alla mia voce la dolcezza intrisa com’èra dell’asprezza del risveglio al nuovo giorno, spezzato l’incanto (ma quale incanto?) « ieri ti ho consentito le sigarette, stamattina mi dispiace no». Il vero incanto erano i seni che non si faceva neanche sfiorare. Timidamente ha detto, era un canarino vergognoso, perdona il mio russare se ci fosse stato. La mattina cosa era cambiato perché lei non potesse godersi in santa pace una sigaretta? Come quel messaggio di scuse al cellulare, un continuoi  “mi dispiace mi dispiace di non poter uscire con te”, un messaggio poi lungo troppo lungo, mentre ho saputo poi che lei era con gli amici fuori e io messaggiavo replicando in scuse per la mia involontaria assenza. Ha ragione lei, siamo immagini della privazione, ma c’è in lei un’invidiabil giovinezza che la rende d’argento. Il desiderio ancora intatto virginale di un lunghissimo bacio, nuove carezze ai seni che difende dal triviale contatto, e il no deciso a me alle mie mani su quelle perfette intatte rotondità, un troppo per le nostre troppo maschili facili disinibizioni. Il mio seno non lo tocchi, intendeva, non lo puoi visitare né ispezionare, è come materia pura dallo spirito umido che vi dimora più denso, solo mio. Li tu non c’entri. L’anima, ciò che muove se stesso. L’anima è l’incorruttibile. Lo stesso furore di lei ha qualcosa di incorruttibile che trapassa senza farsi attraversare dalla molteplicità degli incontri, e non replica se non sempre e tenacemente «io sono altrove». Odia ed Ama con furiosa sconnessione, come molla che si allenta per poi ritornare alla situazione di partenza negando di esserci stata. A che è servito? Direbbe  forse qualcosa - ma per fortuna non abbiamo fatto l’amore, aggiungerebbe, questo ti rende nobile, mi dic l’eco delle sue parole rimaste, penserebbe  «la tua generosa sottomissione  è l’attenzione sensuale di cui ti sono grata nella perfetta armonia che ci rimane, Tu il faro di una notte, sapersi senza l’immane pensiero di sapersi nel tempo insieme». Fugge e so che non vuole in nessun modo restare… per essere imprendibile e salpare altrove con il suo solitario pertinace remare nel vento. E questa è la sua vera Assenza. Ed è la sua essenza, lo sciame dei suoi pensieri.     Lui -Sono tornato a casa stanco. Ha squillato il telefono era lei   Lei - Ciao, te lo devo dire sei divino, ho un regalo per te spero ti piaccia, è un libro, so che ne hai letti molti ma questo forse ti manca-spero- E’ di Soriano, Pensare con i piedi, il giorno che ci vediamo te lo do. Mi hai offerto il sonno più bello del mondo, e ora penso tutt’altro sai, se ne andasse al diavolo lui, in fondo ero solo arrogante, ero troppo assillata, non me ne importa più niente, so cosa pensare e lo devo alla tua pazienza - di’ chi ti ha fatto così, paziente e generoso, sembri irreale, quasi un’anima a  parte. Io sono sempre impaziente e divoro tutto, sabato ci vieni a vedere Prendimi l’anima di Faenza?   Lei -Sono tornata a casa con l’idea che mi avesse fatto bene. Ma poi ho riflettuto, sì non nego nulla, è un principio senz’altro. Ma cosa non mi pace di lui? Non sa ridere di sé di noi di me e ha perso l’anima del ragazzo quella che fa di un uomo l’uomo  da desiderare e tutto da baciare, riempire fino a traboccarne di tenerezze e giochi e accortezze. E allora ho gettato un cencio di poesia - io non sono un poeta – ma ho nell’anima il mio trobar oscuro.  rimani un ragazzaccio. Ho ricordato il mio primo amore e le lezioni della mia insegnante che ci parlava di quel ragazzaccio di catullo   Chi mi dice ti amo chi mi guarda e si volta chi mi scruta e non vede chi mi rigetta cento occhi intorno non sono i tuoi occhi importanti smarriti per aver perso l ‘occasione di un campo di margherite di una salita pazza tra capelli scarmigliati e giunchi scostati Il ragazzo vuol essere ragazzo e pellegrino Con l’onestà tesa perché tu salga ripide salite Per discendere placata dal mare Dalle forti bracciate dalle immersioni dagli Schizzi giocosi Dalla risacca sotto il sole Tu e il pellegrino.   Con adolescente ridente Scattante preghiera Sii mia ora, intende   girandomi Intorno in un divertente Girotondo   Mentre le ossa dei morti dimentichiamo Dimenticavo tra le sue zampe feroci, felino E dolce Allacciato alla vita A i fianchi sempre più dimessi Alla pelle che si insabbia mentre sale e sale ancora e ritorna il mare E si scolora L’osso duro del cranio Aggiogato Ai pazzi pensieri   sono suoi i pensieri mio L ‘altare mie le braccia mia la pelle di felina   Mia la ferita che attraversi Quando con accorto clamore   irrompi con il tuo o traboccante spumeggiante liquore Ed ecco allora il ricordo di un prato sterrato intorno plastica smessa e io ora io sopra come un giunco mosso dal vento catturavo l’estasi e lo sfinimento In ricordo di questo ti chiamo Ragazzo Dall‘arco d ‘acciaio   Punta sui miei i tuoi occhi se ti cattura la voglia Ritorna esclamo senza vergogna Nei profondo di un recesso incarnato Carne viva essiccata, dimenticata  ad asciugare come bianco panno steso     Al sole di un’estate vecchia e opaca Abbiamo i luoghi E perdiamo i nostri luoghi Ragazzo   ferisci la mia profonda voraginosa Ferocia quando lasci e abbandoni   Chi soffre per te Ora è cranio lavorato le tue membra di tigre più non curano lacunose profondità   ma se il giunco non spezza ritorna il ricordo di te pellegrino ritorna la tempesta ti invoco dal paese straniero del tempo c’era una volta racconto intorno al camino E soggiogata nel letto di spine Quando vinta la fatica di essere sono fanghiglia Tra il verde fango e le crepe terrene Allora é desiderio esultare Di un giusto santo accordo Ma ora è ricordo Il nostro Di noi ragazzi Luogo santo Un verde prato di margherite Dov’è Ora?          Ora Possiamo stringerci Ti fai un po’più in là Non così ora Ma insomma che fai Sgualcisci il lenzuolo, sistema meglio Quella gamba Prova ad alzare un attimo magari così che dici? La carne limpida e levigata Quella di una santa Ma guarda un po’ che santa Il ragazzo non torna Lo invoco Ora è un uomo Si guarda indietro     distante?      Dove sei e chi sei ora?   fra le brume? io torno al mare quando è brumoso perché là giacciono e mi attendo le parole che non dico e lì devo farneticare troverò occhi neri profondi e verdi e troverò le parole sconosciute là sarà   la mia consistenza al tramonto sul mare, 5:53pm 25 Mar. '13 http://<script src="http//platform.tumblr.com/v1/share.js"></script> 3:36am 26 Feb. '13 il flauto magico Breve premessa Sintesi della trama dell’opera Il Flauto magico dal Dizionario dell’Opera …In un antico Egitto immaginario. Un paesaggio montuoso con un Tempio sullo sfondo. Il principe Tamino disarmato, è inseguito da un serpente; sfinito cade svenuto. Dal tempio escono tre dame velate che uccidono il serpente, e dopo aver ammirato la bellezza del volto del principe, si allontanano per informare della sua presenza la loro signora, Astrifiammante, la Regina della Notte. Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a un curioso personaggio comparso nel frattempo: è Papagheno, un uccellatore vagabondo vestito di piume, che canta accompagnandosi con un piccolo flauto di Pan.  Papagheno conferma le supposizioni di Tamino, ma subito le tre dame lo smentiscono e gli chiudono la bocca con un lucchetto d’oro.  Poi le fanciulle mostrano al principe il ritratto di Pamina, figlia della Regina della notte. Il giovane se ne innamora all’istante. Con fragore di tuono appare nel cielo Astriffiammante: ella spiega a Tamino che la figlia le è stata rapita dal malvagio Sarastro e gli chiede di liberarla , promettendogliela in sposa. Le dame donano al giovane, che si è offerto di salvare Pamina un flauto d’oro dai poteri magici: liberato Papagheno dal lucchetto consegnano anche a lui  un dono un carillon fatato e gli ingiungono di accompagnare Tamino nell’impresa. Sala nel palazzo di Sarastro, Pamina che ha tentato di fuggire per sottrarsi alle insidie del moro Monostatos, viene ricondotta indietro da costui con la forza. Sopraggiunge Papagheno, e Monostatos, spaventato dal suo strano aspetto, fugge. Papagheno rivela alla fanciulla di essere stato inviato dalla Regina della notte, insieme con un giovane principe che l’ama, per liberarla. Un bosco. Guidato da tre fanciulli, Tamino giunge dinanzi a tre templi: mentre l’accesso a quelli della Ragione e della Natura gli viene impedito, la porta del Tempio della Sapienza arcanamente si apre. Un Sacerdote spiega a Tamino che Sarastro non è un essere malvagio e che Pamina è stata da lui sottratta all’influenza materna per superiori, giusti motivi… Atto secondo Sarastro chiede ai sacerdoti degli iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove che gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti  e di sposare Pamina…la richiesta viene accolta e tutti  invocano Iside e Osiride affinchè donino alla nuova coppia spirito di saggezza. Le prove   Prova del silenzio   Prova del fuoco Prova dell’acqua   Superate le prove i Sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre. L’amore di Tamino e Pamina     Il  Flauto Magico”   Frequentava le conferenze del ragazzo. Ora il ragazzo è un uomo. Il suo volto ha qualcosa di non definito, non calcolabile. Ha descritto un’opera. Un ingegno particolare, ma oltre a questo molte ombre si addensano intorno a  parole troppo irreali e troppo giuste per essere solo frutto di studio. A chi si rivolge, si chiede? A me? «Mi guarda senza guardarmi, mi osserva e non guarda e ascolto quella melodia di strane parole come una funambola all’inizio della sua carriera di artista. Sono attenta, non perdo una parola. Ascolto per non perdere l’equilibrio delle parole». L’opera è il Flauto magico di Mozart. Il ragazzo è molto veloce  e si stenta a prendere appunti. «Vorrei ricordare non solo capire, eppure quelle parole sono troppo esatte per non essere comprese e troppo presenti per non essere dimenticate. Capisco le parole, il loro ordine il senso dei gesti, alcuni errori ripetuti, lapsus frequenti, scambi di nomi. C’e però un mistero».  C’è un incanto che prende tutte, eppure lei avverte se stessa come non si è mai avvertita. La percezione di un centro e di un centro forse virtuale. «sto leggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio, mi sembra di attraversare meraviglie attraverso giochi di specchi.   Alice…non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò subito a sprofondare lungo quella specie di pozzo veramente profondo.                O il pozzo era molto profondo oppure Alice cadeva lentamente: il fatto certo è che , prima d’arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitando «La presenza di me era così fisicamente percepibile  da risultare l’unica presenza all’interno di una folla neanche anonima». Crede di capire eppure non comprende. E non si chiede, solo partecipa e osserva, come negli scaffali di una preziosissima libreria alla quale si è inadeguati, perché è suono vista e qualcosa di non definibile, una memoria, una versione costruita per un fine… E’ tutto questo messo, insieme, «l’artefice è lui ma il centro immancabilmente «sono io» si dice la ragazza, presa da un turbamento che la rapisce. Il giovane.  Descrive la corsa in musica, la corsa è giovane i bimbi dice corrono non verso una meta corrono per il solo correre, parla di un’energia interna e dalla natura della corsa dei bimbi come loro propria natura. L’Opera è il flauto magico. Il video mostra Tamino che entra in scena correndo inseguito dal serpente, e la musica è veloce con schiamazzi e come forti pestate. E’ bello è una musica descritta umanamente. Correndo calpestiamo, e allora la musica riproduce esattamente il suono. E’ un giovane pestare, una corsa disordinata, una fuga mal eseguita, perché la direzione di Tamino bambino è la direzione che non può esserci nei bambini. Fugge e sgorga l’energia correndo, trapassando dall’una, la fuga, all’altra la corsa senza un fine e un traguardo.  Usa queste parole, come prese da una memoria che torna e da un luogo colto a prestito ma esattamente osservato da una visuale obliqua, come di traverso, «non deforma nulla dice ciò che suona a tutti noi come il nostro proprio vissuto la nostra personale memoria, a volte il rimpianto». Evoca ciò che non si ricorda se non come un passato perduto, c’è una giovinezza il lui invidiabile, la giovinezza di chi già non ha nulla da sapere e racconta agli altri ciò che hanno vissuto e non potranno più vivere. I luoghi santi della giovinezza. E la giovinezza è amore… La sua versione è tale da diventare quella di ognuno. E’ un’arte magistrale, è molto poco in concreto il discorso, brevemente riassumibile, è un dire ipnotico nel quale ognuno vuole riconoscersi per perdersi e ritornare… In tre conferenze di tre ore ciascuna, le parole dette sono molte, l’arte di dire è raffinatissima, e il vissuto di ogni parola è misura del presente, l’ascolto, e della memoria personale di ognuno, il passato. Dentro ognuno si cala il ricordo. La versione appropriata al ricordo  la dà l’ascolto delle parole del ragazzo. Ci fa sognare, «a me fa sognare», dice e pensa la giovane. «Io sono il presente, sono l’unica nel presente l’unica lì a sognare ancora e a sognare un futuro d’amore e d’assoluto». Quattro i personaggi in gioco anzi cinque, Tamino e Pamina, lo spirito, Papagheno, uccellatore dalle piume e Papaghena, la carne, ma in realtà non parla di sensi lui, ma dei giovani che di spirito poco vogliono sapere e invece di contorcersi nelle riflessioni di noi che dallo spirito siamo posseduti trascorrono la vita tra discoteche e giochi e spiritosaggini. E Astrifiammante, la Regina della notte, i lati isterici delle donne, delle madri, dice lui. Accenna al suicidio spesso. “Gli adulti si uccidono per denaro, il giovane per altro, anche solo perché è giovane”, Cita aneddoti romantici sul suicidio, Kleist, per esempio, che cerca una donna per uccidersi nell’acqua la trova e poi lascia che sia solo lei a uccidersi. E’ una strana esaltazione del suicidio, Romantico e giovane. Insiste molto poi sul Tempio, l’educazione sacerdotale, e il contrasto tra il flautino di Papagheno e il Flauto magico di Tamino “Ora scusatemi,…pausa, Il flauto di pan il flautino di Papagheno sta per l’organo sessuale” In sala echeggia una risposta soffocata di tutti. E’ piacevole  ascoltarlo è divertente, lo sa dire lascia intendere una sua potenza. Il flautino non gli appartiene. E infine il carillon magico che incanta e seduce come in una sospensione, come quando le giostre sembrano fatte apposta per essere solo osservate e fermarsi e fermare i pensieri e perdere la cognizione del tempo e dimenticare di aver vissuto di vivere il dolore.. «Mi avverto diversa. Mi proietto attraverso le sue parole in un futuro senza passato. Non penso alla memoria, la sto abbandonando, e sono troppo giovane per non subire l’incanto di un futuro attraverso l’unità stessa della memoria» pensa la ragazza e torna a casa e prende appunti sul suo diario, ma le appare uno svilimento, perché sono parole troppo presenti sono «le parole se stesse» così le definisce «le mie parole hanno il se stesso, mi ci imbatto, le trovo per caso cerco di sfuggire ed emergere, ma il se stesso delle parole è discordante e mi sembra non di disputare un incontro, ma di allontanarlo» Prova a prendere il dizionario dei luoghi comuni, a modificare, legge Byron e Puskin, Eugenio Onegin, ma è sempre se stessa, variabile mutabile, mentre lui il giovane, discute dei Werther e dei loro tormenti, e al contrario dell’importanza capitale di condurre la vita secondo schemi di regole e leggi fisse e immutabili, come nell’arte della fuga di Bach. Le leggi del contrappunto «E’ inverosimile, o è un falso o un paradosso, è troppo giovane per questo» scrive la fanciulla. .Ed è già memoria, è già tutto detto attraverso l’oblio delle parole. «L’oblio mi spezza le redini. I legami mi si sciolgono e l’unica cosa che avverto smisuratamente fuori luogo sono le mie nude parole. Sono casuali, quelle di sempre quelle inevitabili, quelle senza storia o senza proiezione, semplici parole con tutta la pesantezza delle pietre lanciate. Incanta i miei occhi». Ascoltare con gli occhi dà una specie di euforia. Sembra che gli occhi percepiscano un’eco rimandata da un passato che annuncia un abbandono. Tamino e Pamina, «due assoluti invincibili». E’ lei a dirlo del tutto involontariamente . «Perché invincibili?» Chiede lui. «Pamina non può essere comunque vinta». «Perché?». «Ma Pamina rimane se stessa anche attraverso un’altra veste o qualsiasi veste. L’anima è la volontà di vivere è il combattere, e non solo segue Pamina ma ha l’anima per combattere. Ai quattro angoli manca qualcosa, una forza in più, una pari dignità d’anima. E poi sbagliare, sbagliare per cosa, per rimanere dove, e perché?» «Ma  noi capisci cosa sbalglia Pamina? Sbaglia nell’affrontare con lui le prove, sbaglia perché lo segue, mentre dovrebbe fermarsi.  Non le appartengono le prove, eppure non rinuncia a lui, non aspetta partecipa».«Ok, sai ciò che trovo veramente orrendo? Che le prove le vedi di lui e non di lei, lei è amore, ma non solo»  «Sono nomi strani nomi di nessuno, nomi irreali a non adulti» scrive poi la ragazza nel diario, «perché si ostina a volere Pamina inferiore?. Storna lo sguardo, vede un orrore in me? Forse, forse c’è qualcosa nelle mie parole di troppo. Un tono, un modo, un qualcosa di impossibile. Sento di essere disumana, non sono nessuno, o forse non ho le parole o la voce e comunque non esiste in lui nulla da capire. Sta affermando, è rivolto a me, e alla fine chiedo: “Ma chi sono Tamino e Pamina?” “Allora hai capito risponde“». Nel finale dell’opera interviene in modo strano quanto affascinante. Un finale che colloca Tamina Pamino, In una lontananza offuscata, un mare, un’isola, e da lontano si intravede una veste sacerdotale di entrambi. Si sono persi entrambi, sono sacerdoti, e forse l’immagine è quella di un equilibrio di morte. Le prove, la prova del silenzio del fuoco dell’acqua, sono superate ma ciò a cui sono condannati è la loro stessa serietà, il loro gioco estremamente serio e la vulnerabilità di lei che segue un destino non proprio. «”che destino?» Chiede di nuovo. la ragazza. Tiene il suo diario molto perplessa per le sorti di Tamino e Pamina e infine racconta nel suo diario da cui attingiamo  «Mi guarda con occhi vacui e gira la testa guarda in basso. C’è un rovesciamento, un ribaltamento delle prospettive in tutto ciò che dice. Il centro sono Tamino e Pamina, e alla periferia Papagheno e Papaghena. Ma mentre riferisco su questi fogli sparsi  il contenuto logicamente catturato, so anche che emotivamente è a me che si rivolge. E mi chiedo quali prove dovrei superare, e in quale Tempio regno dovrei entrare.  Ha gesti sensuali , ma un colorito esangue.  Gli ossequi alla fine di ogni conferenza sono immancabilmente cerimoniali durante i quali ci allontaniamo, perché le mie parole sono così mie e così carnali, sensuali. Cioè vuote?. Nella circonferenza alla quale appartengono le sue stesse parole  carillon io aggiungo un raggio, impulsivamente, per fare da Pamina, vorrei dire, e invece temo cosa? Di essere la solita Papaghena, la solita sciocchina! Non comprendo quello sguardo senza espressione, quel vuoto negli occhi se rovista dentro trova qualche cianfrusaglia e molto poco Spirito. Quando mi si rivolge c’è quell’indecisione della parola che fino a poco prima non c’era in lui. E’ come se scendesse dal pulpito, è un Dio privato del suo regno, della potenza della distanza. Le sue parole ora sono sue e mie, anzi nostre. Altri discutono. Risponde senza guardarmi, ma sento sempre di essere un centro. Le parole ora sono di tutti, sono risposte, e di nuovo manca quell’evanescenza del monologo, quell’intenzione diretta a chi solo ascolta senza nulla dire. Non ci sono contenuti, ma non comprendo ancora. Comprendo però la sua fatica ad avvicinarsi, Capisco quanto orrore abbia ora delle parole, e negli occhi da vicino vedo ombre di incalcolabile vuoto. Qualcosa preme nel petto. Non è un dolore, ma l’affanno di essere troppo osservata, innaturalmente osservata. Quel momento è impresso nella mia mente e ha la nitidezza di una foto a colori.. Gli stessi gesti di lui li ho nella mente come un imprinting, una forma di orrore splendore, lo splendore di un sogno d’assoluto che già va frantumandosi prima ancora di essere pensato. Il destino di una morte in vita per una resurrezione in vita. Ogni volta aggiungo qualcosa una parola una definizione una precisazione e mi accorgo involontariamente di parlare solo d’amore. E’ Mozart o Armony. Eppure lui accoglie le parole con il  fastidio di un troppo. Ne sto facendo un’oracolo d’amore. Ma insieme le pesa e le rimanda nella loro esattezza e verità strappalacrime. E impensabile un amore per un nuovo Mozart, ma allora tutti sono dei Mozart? E Papagheno? Aggiungo, non sarà una dialettica di Tamino e Papagheno. “Forse è una rovina, forse lei può rovinarsi, ma non può comunque morire” «Credo di essere presa da una vertigine, è l’amore che sognavo? Ma l’uomo che amo, che per lo più è un ragazzo, e questo lo rende perfetto, può essere tale? Ossia Tamino che in alcuni momenti di raro splendore si scioglie e si rende Papagheno solo per amore?.  Tento di risalire da un qualche strano abisso in cui mi si sta collocando. Perché parlo così tanto di Pamina, perché cerco per lei la salvezza, perché sento le parole specchiate, e non riesco a fermarmi, qualsiasi cosa lui affermi io la ribalto in un destino di salvezza. La mia risposta sgorga comunque da un luogo sconosciuto. Mi sento ogni volta gettata a terra e ogni volta mi rialzo frastornata ma sono ancora io. Ho l’impressione di essere schiaffeggiata. Purtroppo è blando, non mi schiaffeggia, non mi insulta, non fugge irritato dalla folla di corteggiatori intorno. Ho paura di qualcosa, la fine è tragica, vorrei concepire una salvezza, eppure è così inutile discutere di amore quando si tratta in realtà di musica solo Musica!. Eppure tutti ci stiamo invischiando in questo desiderio di amore. Le nostre parole sono molto personali e vissute, intorno all’amore. E’ quasi ridicolo. Ognuno senza volerlo parla di sé, e tutti allegramente ognuno col suo bagaglio, migliore di qualsiasi squallido presente, sovrapponiamo aneddoti di amore e abbandono, e la musica è quella chanson che ci fa ricordare il momento in cui decidevamo che sì era meglio amarsi da lontano, amarsi per sempre pur sapendo, e questo lo dice bene Wenders in Paris Texas, dico io per vezzo, citandoun capolavoro,  ma non so se c’entra, quanto sia impossibile ed inutile la vicinanza, quanto ci distrugga e ci annienti. E’ molto eccitato anche un uomo che credo stia vivendo una relazione molto difficile, e sembra indeciso sull’esito e sul futuro. Sono giochi involontari. Sta giocando con noi e tira fuori i nostri passati e il nostro presente, e ci mostra come si tratti sempre e solo di amore e di abbandono. “Quello che mi ha lasciata si è sposato ed è ingrassato subito dopo, già lo vedo con le pantofole e il giornale” dico con un fil di voce, è l’unico momento in cui ride sorpreso. Sono l’unica a capire, mi dico. L’altro ragazzo se la prende con me, è irritato, trova sconveniente la mia risposta, non pertinente. “Voglio dire, è comunque Mozart”. Il problema è che è innamorato di me e soffre di gelosia.  Lui sorride di nuovo,  parliamo di noi o del Flauto Magico?. Ma che  situazione è, mi chiedo spaventata, è tutto così affascinante e tutto così strano. Sento di dover allontanare un pericolo, e sono sempre le parole a invischiarmi in qualcosa di sconosciuto, una spirale verso la quale sono attratta dalle parole. Sono parole-calamita, un dire solo per gioco eppure esaltante per tutti e di fatto si tratta di Teatro in musica. E’ un dire che calcola. Una combinazione soffocante. Percepisco tutto questo e già sono in qualche modo legata. E’ il primo laccio. La combinazione delle parole, mi fa avvertire il peso smisurato di ogni mio intervento. Cosa manca? La causalità del dire, la naturalezza di una fondata riflessione intorno ad un oggetto esterno. E’ arte?. E’ sapere? E perché applaudiamo così coinvolti, così affascinati da un mondo solo intravisto nella musica ma profondamente sentito dentro ognuno di noi. Ci ha dato la memoria, ci ha fatto dimenticare Mozart e fa nascere in noi il sogno di un’esperienza da vivere e in parte già vissuta. E’ desiderio sublimato, la musica sostiene la memoria personale  con delle sospensioni di ascolto sublime. Peccato non li abbia saputi valutare i miei uomini, penso, ho giocato poco con loro, li prendo troppo sul serio, veramente troppo. L’amore non si calcola. Solo chi avesse un vuoto totale alle spalle, o rimpianti di ciò che non ritorna può sentire un’esclusione e il dolore di una perdita rinnovato  da qualcuno che proietta  una speranza, se il tempo consente speranze. Le parole. E’ il peso esatto delle parole. Parole in cui ci si rispecchia, parole specchio di un amore, i miei Delly me lo dicevano, parole volute per un fine sconosciuto. Ma il fine è amore? Sembra un gioco molto serio. La passione di quel calcolo esatto di parole e amore, quel modo di costruire un puzzle dandoci l’oblio del passato per un futuro da sognare è il calcolo di qualcosa di impronunciabile? Rispondere è impossibile, le domande lo irritano, significa parlare di sé e solo di sé. Fuori da quell’auletta scarna ma romantica è inevitabile forse per un’incoscienza e un’esaltazione improvvisa non riconsiderare il nostro passato e noi stessi, e seppure alcuni tra di noi hanno una perfetta conoscenza della musica siamo trascinati da qualcosa che forse è sogno, forse illusione, e memoria di libri, aneddotica amorosa, i casi letterari di follia amorosa, e sempre si parla in un coro di voci sovrapposte, di sé, dimenticando il resto, nel caos di un’ esaltazione di nuovi eroi ed eroine, in crocchio allegri e orgogliosi di vivere da sempre  ciò che quel giovane di talento, che incanta e seduce, ha descritto come storia della stessa giovinezza. Aggiunge una cosa, sempre con modi e toni che oscillano tra il parlare di sé e il considerare con oggettività il mondo, e attraverso le sue stesse parole gli altri  leggono se stessi. “Il giovane supera l’amore. Ma chi di noi non ha lasciato pur amando. Insomma io mi ricordo che l’amavo non avrei voluto altre che lei ma le complicavo comunque la vita con un gusto anche un po’ sadico per la sua sofferenza perché guardavo inevitabilmente oltre, perché già sapevo che l’avrei dovuta lasciare pur amandola ma questo doveva costare, a lei e a me.” Sento una ferita, forse è gelosia, non vedevo altre che lei era lei che amava. Esalta in questo modo l’amore e se stesso, e suscita un desiderio, il desiderio di essere scelta per l’esperienza  assoluta, quella dell’amore così descritto, dell’amore potente perché la voce i modi i gesti i giochi stessi della voce creano un’illusione di potenza e di qualcosa di sconfinato mai provato prima, mai sognato perché nessuno fa sognare attraverso poche facili parole un regno così misterioso, un regno difficile da definire, un modo del sogno che si incarna attraverso  la sofferenza, ma non riesco a capire di chi sia la sofferenza, di chi parla, descrive in fondo un’intenzione di sacrificio, un sacrificio di una donna, e un dolore mai superato. Allora o scritto un racconto sul primo ragazzo che mi ha lasciata. Vado ad aprire. Alzo la cornetta del citofono, “vieni” e spingo il pulsante. Aspetto, e dopo un pò lo vedo percorrere il corridoio, deve aver fatto una corsa. Ora il tempo passerà ad ascoltare l’impercettibile voce del suo lasciare intendere, è in ogni suo gesto e in ogni sua parola, tutto lascia intendere, che mi ha abbandonata ed è il più forte, ma non vuole lasciar intendere che questo per me non costi sacrifici, lacrime, ferite, mentre io conto i suoi gesti e le sue parole come se manegiassi un giocattolo smontabile. I pezzi sono sempre quelli, si monta e si smonta, ma questo è un suo gioco incosciente, perché gli manca uno specchio ,perché gli manca il cielo per pensare. Tiene il casco con un braccio, e sbuffa per sottolineare il caldo la stanchezza e la giornata di lavoro. Non ci faccio caso, si passa la mano sui capello radi e rasati. Gli dico di entrare e non far caso al disordine. “perché ti sei vestita così?” chiede, e lo trovo come sempre stupido “è un vestito, cos’ha che non va?” “lo trovo eccessivo” ci tiene a dirlo, sottolinea inoltre così la mia timidezza, lo ha sempre fatto, ma non me ne importa, solo un po’, anzi mi infastidisce. Lo fa apposta, so cosa vuole dire, vuole lasciar intendere che non ce n’è bisogno, non per lui, e il mio modo di vestirmi non gli è mai piaciuto. “Come stanno i tuoi?” “bene. Senti siediti, preparo un caffè, ne ho bisogno”.  Mi urta subito il modo poco civile di entrare in casa mia, non so se se ne accorge, E’ di fatto il suo modo,  è una grossolana scortesia, e un’affermazione di possesso. Si sente di casa ovunque, è la sua alternativa all’essere un “materialista”. Il sentirsi di casa significa possedermi,  è purtroppo un cafone nei modi, per quanto la sua famiglia sia tra le migliori. D’altronde l’anticonvenzionalità è il suo orgoglio, e ormai è troppo tardi per educarlo a modi più civili.  Si guarda intorno osserva gli oggetti,  con lo sguardo e un lieve tentennare del capo mostra l’intenzione esplicita di un giudizio che vuole essere negativo. E’ una sua forma di invidia. Vado in cucina ma lo prego di attendere nel salone, non mi piace essere guardata mentre preparo il caffè e inoltre la cucina è in disordine. Li definisce convenevoli ipocriti, io mi sento inseguita quando qualcuno entra in cucina, desidero preparare il caffè o altro da sola. E’ una delle mie piccole idiosincrasie. Non posso spiegarlo, e quindi spesso le amiche o gli ospiti entrano in cucina. Questo mi rovina il gusto della solitudine, non sono per niente casalinga, ma la mia cucina è così originale che qualsiasi intrusione mi appare una violazione alla privatezza. In cucina mi sento protetta, sono sola e pregusto  il caffè. E’ un piacere, e mi distoglie. D’altronde so cosa lui ha da dirmi e non ho nessuna curiosità, le solite parole e il mio silenzio. Vuole spiegare cosa è andato storto. Dovrei dirgli che non me ne importa, ma non lo capirebbe. Odia lasciare senza lasciare rimpianti. Ama i miei rimpianti, in realtà sa quanto avverto volgari le sue parole. Il problema è banale: desidera da me un riconoscimento di una profondità che purtroppo non ha, e ogni volta è sempre peggio. Non riesce a darmi spunti, e io cerco di abbreviare le sue visite. D’altronde se questo lo umilia, gli lascio credere ciò che vuole, non ha da dire molto di noi, e io non ricordo quasi nulla. Il caffè è pronto. Prendo le tazzine, lo zucchero e porto in sala. “hai molti mobili, troppi” “perché  troppi?”. “A cosa servono? Che te ne fai di tutta questa roba?”, “Può essere, ma cosa te ne importa?”. So che questo lo irriterà, prende spunto da “cosa te ne importa”. Il suo profondo desiderio è leggere in quel “cosa te ne importa” un rimpianto, un’accusa di abbandono, la ricerca di un contatto” e non trovandoci poi altro che un normale “cosa te ne importa” si sente svilito. Per me è semplice. Gli sto solo sottolineando quanto poco lo riguardi, lui lascia intendere la sua superiorità e la superiorità di chi abbandona, ma non avrebbe senso spiegargli che mi sento libera perché non ama crederlo. La vuole far diventare una lite e non ho voglia di sprecare parole, sono inutili.  Non si tratta neanche di un pregiudizio, è il suo desiderio, essere il centro di un’attenzione. E’ un orgoglio forse molto maschile, ma non azzecca mai i modi. Non riesce a darmi un rimpianto. Sente minacciato il suo potere, ma d’altronde non è una richiesta d’amore, forse invidia, del mio silenzio e della mia noia. Trovo sciocco il sorriso, non sincero, potrebbe sinceramente sorridere di tutto e sorridere anche con me di tutto. Ma questo per lui significherebbe perdere. “E’ che ho sempre desiderato il tuo benessere, e non sono riuscito mai a trovarlo, né a vederlo”. Non ho risposte. Il mio benessere non è con lui, lo trovo piuttosto volgare.  Ha in odio il mio silenzio, lo sente carico di una verità, di un vuoto che percepisco in lui. Vorrebbe degli orpelli, degli ornamenti di parole per rendere poetico il momento. “mi dispiace” rispondo. Questo lo manderà in bestia. E’ un libro aperto, desidera qualcosa come uno stupore, un sottolineare la profondità del suo animo, la ricercatezza della sua sensibilità, e odia il mio sguardo. So che è vacuo, ma non ho niente da dirgli né da rimproverare, semplicemente trovo il lui un vuoto, e lo privo involontariamente degli orpelli fino a renderlo nudo. Non comprende che non ho nessun desiderio fisico di lui, e questo rende inutile qualsiasi spiegazione.  Lui ha conservato intatto il desiderio fisico di me, ma è il desiderio fisico in realtà di qualsiasi donna, e non vuole rendersi conto di quanto poco abbia importanza per me. Nella sua nudità riflessa non vede nulla. Si ama solo quando gli orpelli gli rendono l’illusione di se stesso. Non oso dirglielo. In quel momento il suo vuoto è il mio vuoto. Non mi sfugge il minimo particolare del suo volto, e ne provo fastidio. Le stesse espressioni, non cambiano mai. A volte basterebbe un visibile e improvviso rossore a cambiare tutto. Non arrossisce mai, è un estroverso ma non pensa nulla pur con la sua buona dose di intelligenza. “Te lo dico, ha un certo punto non ce l’ho fatta più, ero sempre io a dover parlare, credevo nella tua sensibilità, ma non la dichiari” “E allora?” “E allora che cazzo vuoi?” alza il tono “io non voglio proprio nulla, non mi serve” Dovrei aggiungere nulla, ma tolgo l’ultima parola. Non mi voglio spiegare, non ho molto da spiegare. “E allora perché ti crei sempre questa fama di ragazza sensibile?” “Cosa c’entra?” Di cosa parla? Chiede parole che non ho per lui e si rispecchia in un vuoto. Quando il silenzio lo sovraccarica sorride come sadicamente “Ecco il tuo sorrisetto” lo sottolineo sempre ma per fargli capire che se vuole parole deve prima averne. “Stronza” lo dice tra i denti, sibilando. E’ lui stesso a non avere parole, ed è molto chiaro. “lei ama il mio coraggio, e la mia forza, è la prima cosa che mi ha detto. Non trova in nessuno lo stesso coraggio” Non gli faccio notare la superficialità dell’affermazione, manca addirittura un contesto. Purtroppo è così, il contesto delle parole gli manca. Ora questo vuole essere anche un suggerimento, del tipo”lo riconosci anche tu finalmente?”. “E’ probabile, ma non so che dirti nel merito”. Mi sto stressando, ho un senso di nausea. Vorrei che se ne andasse. “Senti io mi devo preparare adesso, ho poco tempo da dedicarti, mi spiace”  dico in preda alla claustrofobia. “Va bene vado anch’io, sono stato già troppo”, si è alzato di scatto, desiderava rimanere, è  stupido dire “vado anch’io” considerato che siamo a casa mia e “sono stato già troppo” quando è lui a desiderare questi incontri. D’altronde è il suo problema. Vorrebbe gli riconoscessi una cultura e una profondità che non ha. Vorrebbe che parlassi di libri letti e di ciò di cui si fa un orgoglio insincero; perché a parte  qualche sporadica lettura leggere lo annoia, ma dirglielo è inutile. Finirà col citare il solito libro, lo cita da sempre sottolineando la stessa particolarità, non del libro ma sua personale, il personaggio nel quale si riconosce. “L’hai letto poi L’arte della fuga di Pontiggia?” Non l’ho letto ma gli vengo incontro “In chi ti riconosci?” “E’ strano - intanto accenna a un riso, questo sta per “In quel libro ho scoperto una mia natura speciale” - non accade a nessuno, ma non mi vedo in chi cerca, ma in chi è fuggito. E non si troverà mai più. E’ un giallo senza esito. Chi fugge scompare ed è inutile la ricerca. Vittorio è rimasto piuttosto perplesso. E’ raro identificarsi in chi non c’è, non accade praticamente a nessuno” “Ti ha chiesto Vittorio se questo ti è accaduto durante la lettura o anche nello stesso finale?” (Nel finale la ricerca rimane un’indagine senza soluzione).  Vittorio gliel’ha sicuramente chiesto.. Un’ espressione seria “Anche nel finale”  Dimentica la domanda ha fretta di arrivare alle sue risposte, e ora la risposta è sempre la stessa. Non capisco una cosa: cerca un riconoscimento, ma di cosa e perché e perché proprio da me? Ha appoggiato intanto il gomito ad una mensola, come a voler proseguire una discussione di raro interesse.  tiene il casco nel braccio, e io senza volerlo guardo insistentemente il casco nella speranza che si decida ad andarsene. Nota la direzione del mio sguardo. “Guarda mi dispiace devo proprio andare” e sottolinea le parole spostando il casco nell’altro braccio. Vuole comunque credere nella mia sofferenza. L’idea della mia sofferenza gli è necessaria, forse cambierebbe il suo modo di raccontare questa storia, vuole una ricercatezza della memoria, qualcosa da esibire, un piumaggio ornamentale. Il suo dispiacere è il non avere parole per raccontarmi, ma non le trova in se stesso e io non ho da darne a lui. E poi che rottura, vuole sempre dimostrare qualcosa. E’ solo arrogante. Taglio corto “In effetti” “va be’, comunque” calca sul comunque, sottolinea con questo il suo andarsene altrove, un andarsene molto speciale. “Non scomparire però” non coglie la mia ironia buona, pensavo all’Arte della fuga, “Non ti riguarda” E’ strano come la sua   estroversione gli faccia dimenticare sempre l’ironia.  Da me in realtà vuole il sesso. Sono bella. Ma io no non ci voglio stare sono stufa e poi perché è finita. Forse perché il suo tono di voce  è sempre troppo alto ancora non conosce l’ironia. “Dove vai adesso?” “E  vado, non lo so dove vado, e non me lo chiedere sempre” è una domanda come un’altra e conosco già la risposta “Ok comunque adesso vai perché devo veramente preparami”. Lo accompagno alla porta, “ciao” “ciao”, sono intimidita, ogni volta che accompagno qualcuno alla porta mi intimidisco, mi sento poco ospitale, e mi sembra di lasciar andare gli ospiti senza aver dato loro molto. Quando si giunge ai convenevoli del saluto inizio a credere  di aver offerto una brutta ospitalità o di non aver saputo godere abbastanza della compagnia, e  appena chiudo il portone ho la sensazione macabra di tagliare fuori il mondo o di esserne tagliata fuori. Ne ricavo sempre una reale impressione di solitudine e vuoto. Mi accade sempre così.. Sono i momenti in cui mi sento un po’ abbandonata. La mia casa è molto strana, molto barocca, molto disordinata. E’ carica di oggetti, ha vetrate liberty, tappeti persiani, archi con colonne, soffitti molto alti con stucchi, librerie troppo cariche, collezioni di porcellane, e l’arredamento e la disposizione dei mobili ne fanno una casa d’antiquariato più che un convenzionale appartamento. Sarebbe necessario abituarsi a spolverare regolarmente gli oggetti, trovare un detersivo per i tappeti, migliorare le librerie e ordinarle, riempire sempre il frigorifero e tenere bibite in fresco, rinnovare la biancheria e acquistare qualche tovaglia nuova, ma si può sempre fare, basta decidersi.   Insomma scopro improvvisamente un elemento vanitoso, sta dicendo del suo potere nei confronti delle ragazze, di un potere di seduzione, e del sacrificio necessario. Non è diverso dall’altro, ma spero lo sia, perché con l’altro la noia è stata molta, e se veramente è me che vuole mi deve volere bene. Per questo difendo Pamina, il suo essere parimenti spirito contro ogni differenza che la vuole solo accanto e non partecipe come eroina altrettanto potente e carica di tensioni sensuali-spirituali di sostanziale medesima specie, solo donna nel modo più perfetto, recettiva sì, ma anche cielo non solo terra accoglienza, ma cielo simile al cielo di lui.  E’ una visione alta, eppure così espressa è in fondo troppo recitata da darmi una pena indicibile. Avverto il dolore, non il suo dolore, ma il dolore impossibile di una donna, qualcosa ha rovinato quella donna, quella giovane che implorava il ritorno. Vedo che parliamo veramente tutti in coro allegri gli altri divertiti, ma io mi smarrisco e alloro riporto tutto ad un ordine oggettivo “Comunque quello che mi ha lasciata si è preso una talmente brutta ma talmente brutta che mi chiedo come possa solo guardarla”. Lui Sorride di nuovo con giocosa ironia. Capisce che sono l’unica ad aver veramente compreso mentre gli altri si lasciano incatenare. Eppure questo è un laccio, sta legando la mia vita a sé forse, oppure è un gioco da ragazzi, oppure ha bisogno di provare il suo effetto su un uditorio attento, e vuole capire cosa è stato catturato da noi estremamente attenti. Non cerca in quel momento complimenti, scopre, e vi riesce, cosa cattura in noi l’ascolto di una musica letta attraverso doppie lenti, l’autore, Mozart, e un altro autore, che inscena uno spettacolo mostrando una conoscenza altissima e quasi ossessiva e al contempo una sua propria produzione di parole per la musica e per l’incanto di una trama tutta da raccontare come in una fiaba per adulti, iridescente come una lampada magica, mi sento vestita dell’iride delle sue adulazioni. Per questo mi chiedo: ma il mio Spirito così tempestoso come quello di Pamina, come può essere improvvisamente pacificato, e divenire  mite e mansueto.  A tutti mi sono ribellata, e non sono mai stata  quieta né  placida o imperturbabile.  A volte rabbiosa, a volte mansueta, ma mai quieta. Eppure è a Papaghena che si rivolge lo so, perché di Spirito lui ne ha in corpo già in eccesso, e ci vuole qualcuna o qualcosa che mitighi le sue smoderate passioni per i fatti dell’anima. Mi appare tutto come  un romanzo nel quale ogni soggetto che legge può trovare parti di sé, o tutto ciò che è depositato nella memoria, ma io in particolare scorgo stupidamente in me un vuoto. Parla di sé dopo essere stato oggetto di ammirazione stupita e parla di amori fuori dall’ordinario. C’è qualcosa di estremamente potente, il racconto di sé è forzato fino a diventare un modo della giovinezza e dell’arroganza. E’ uno strano omaggio alle donne, la potenza del loro amore sembra equivalere alla potenza del loro sacrificio. Sembra dare senso a tutto. Non ha perso nulla, il ricordo di sé è chiaro e netto e filtrato da una volontà sempre attuata. c’è in ciò che descrive un sogno coltivato in segreto, i miei pensieri nascosti, e le complicazioni di cui parla parlando di sé e insieme di ogni giovinezza mi rendono i miei sogni filtrati da letture ottocentesche. Sto rileggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio: mi incanta: «Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto fino ad ora» disse ad alta voce. «Ormai debbo essere vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi …»   «Voglio rileggere Viaggio al centro della terra. Deve essere divertente e dolce. Il cadere trasportati è così strano. «Chissà se attraverserò tutta la terra. Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù». I viaggi di Gulliver anche e i Lillipuziani. E The King of the Ring. Il titolo è così affascinanate.  Nella lotta si deve perdere l’anello? Perché. Che maleficio è nell’anello?». 12/12/97   Abbiamo fatto l’amore, nella sua casa tutta da amare. Ho poche parole. Solo voglio dire questo. Mi avvertivo “poca” lo voglio dire così, perfettamente insufficiente. Avevo acquistato della biancheria di pizzo e una camicia da notte rosa e una vestaglia di identica seta. Abbiamo atteso mentre la musica riempiva le mie orecchie, perdersi nella trenodia per le vittime di Hiroschima. Forse è la prima prova mi sono detta, e ho ascoltato con un libro in mano, Ho letto per intero Effi Briest. Poi finalmente una cena veloce, un po’ di prosciutto e mozzarella e mi sono preparata. Eravamo tutti e due timidi. Io so di essere poca cosa a letto e invece è accaduto qualcosa. Sono entrata tra le lenzuola e anche lui, ma mi attraversava immancabilmente il pensiero di tutti gli uomini che ho avuto e con i quali non ho goduto. Trattenevo lo sbadiglio, e mi sono avvicinata per il solito usuale abbraccio. Troppo annoiata, troppo già saputo, troppo imperfetto. Allora con un tono deciso forte ma calmo ha detto “Questo no” allontanando le mie braccia con un gesto rigido del suo braccio destro. “Questo è un gesto che hai ripetuto con tutti, non con me, con me non puoi mostrare la tua noia”. Allora mi sono impaurita il silenzio era vero corposo denso. Mi sono girata verso il muro e il suono della seta trascinata era amplificato e quasi era un chiasso di stoffa e corpo e morbide forme. Ero così girata pensando di dovermi addormentare e allora lui ha infilato un braccio sotto il mio a sentire i seni tra la seta rosa. Ha sospirato di un vero sospiro, strepitoso e sommesso. E io mi sono voltata e ero finalmente io solo io, senza le mie convenzionali braccia o i miei convenzionali seni e mani. Mi accarezzava e saliva la voglia di lui solo lui, e della sua potenza. “Vieni dentro ho pregato con una voce esile. Mi devi implorare ha risposto con ironia paterna, giusta, non con sarcasmo, ma con la dolce presenza di chi è di più perché mi ha tra le sue mani. E poi è entrato, ed è stato il mio lago. “E come immergersi in un lago ha detto alla fine”.       Lui è il mio Tamino e io sarò la sua Papaghena.     No virus found in this outgoing message. Checked by AVG. Version: 7.5.549 / Virus Database: 270.9.9/1809 - Release Date: 24/11/2008 9.03   10:01am 24 Feb. '13 il gelo Il Gelo   Per il papà era molto piccola molto brava. E dava pochi baci. Perché? La prendeva tra le braccia con amore e diceva “Questa bambina si vergogna anche di respirare”. La bambina soffriva di laringospasmo e odiava gli ospedali i camici bianchi e le siringhe. A casa della nonna materna - un paesino bello e di provincia, con la chiesa nel vicolo giù basso – aveva giochi animati, che placavano le paure- in campagna prendeva una minuscola ochetta da crescere e allevare, come una vera mamma, e l’ochetta era dolcissima e seguiva passo passo i suoi passi di bambina – bambina che temeva il diavolo il buio, e la possessione del male che ti acchiappa, ed è la cattiveria, quella cattiveria della quale tutti parlano e le appartiene in realtà per difesa, ma lei non dice mai “Sto recitando, gli incubi sono altri, l’incubo è la diversità mi tira fuori dal mondo mi rende un angolo”. Un muro la separa, io voi noi loro, ma chi esiste veramente? Dio esiste? non lo sa – però nella cameretta, dai nonni sente solo uno splendido rassicurante odore di cipria e borotalco.  In casa erano tanti, il bene dei nonni erano braccia accoglienti e cibo e letti per tutti, tanti, e tutti cugini zie e zie. Amava le  vacanze al mare, sempre in acqua sempre abbronzatissima con i lunghissimi capelli dall’odor di sabbia e salsedine. Il papà sapeva affrontare il mare. Era un sub e un ingegnere. Non si faceva scalfire dalla viltà, educava al coraggio. In un viaggio in India con la mamma aveva affrontato l’oceano indiano su zattere insieme agli indianini, come li chiamava lui. Aveva il colore di pelle di un indiano, e gli occhi. Neri profondo ma cangianti nel blu. Nella provincia la nonna era terziaria francescana, nella parrocchia del vicolo di sotto, e la portava ogni giorno con sé la mattina presto alla messa. E a messa c’erano i gemelli che facevano i chierichetti. Ospiti dei frati, frequentavano il liceo classico con il chiostro e le volte a botte. Un minuscolo gioiello di provincia. Erano grandi e seminaristi e chiamavano la nonna la Regina di Saba. Lei e la nonna insieme,  andavano  a portare a quei due orfanelli in convento le crostate fatte in casa e la pizza di Pasqua cotta nel forno a legna - e i prosciutti che pendevano dai ganci nella dispensa. La nonna stendeva lesta la pasta sfoglia, tagliava la pasta con arte magistrale, coglieva dall’orto ogni frutto e ne ricava conserve o prelibatezze. La terra donava tutto ma l’arte di coltivarla richiedeva un sapere antico. Lei piccola immaginava e pensava “Chi sono quei due? Perché in convento?”,  mentre uno di loro la confessava, e una volta per pentimento le aveva imposto quaranta Padre Nostro e quaranta Ave Maria da recitare - tanto che la nonna si era preoccupata “Ora voglio proprio sapere che hai fatto” aveva esclamato. Giocavano i seminaristi.  lei era l’unica bambina a messa e ai vespri, tranne la domenica quando si riempiva la chiesa. Le signore avevano il banco col nome su lamina di bronzo inciso, ma il loro nome  di famiglia era il più importante perché erano conosciuti e stimati “la famiglia più onesta” dicevano tutti.  Solo a Natale anche il nonno ci andava a messa, e faceva con la  solita ironia, la vera totale confessione che durava due ore, e la nonna si ingelosiva e in un tono duro reclamava  “Ma che c’avrà da dirgli, io un giorno lo devo sapere”. Il papà non ritorna e neanche il nonno e la nonna. Il papà ha avuto poco amore, anzi no, il dovere l’ha ingannato, nella legge del più forte hanno stritolato quell’uomo dal carattere complesso, ma ricco di energia e voglia di vivere. D’altronde oggi è chiaro. Tolgono il lavoro torturano ti stritolano e spremono fino a che non puoi più uscirne e sono tutti, tutti quanti, con la voglia di denaro facile, gli strozzini gli aguzzini la mafia. E questo è un ricordo oggi sempre più attuale. Ti dicono è sempre accaduto, la storia insegna che il bene non esiste. Sì è vero ma è come dire sempre si nasce e sempre si muore. Lei non è riuscita a comunicare, e non l’ha dimostrato. Il dramma delle parole mancate. Mancano dentro o mancano fuori. Sono state pietre lanciate le parole di lei ragazzina. Anzi le parole intorno, quelle degli amici che vedevano una fanciulla di rarissima bellezza e la prendevano con facilità, come giocando o armeggiando con un oggetto che poi getti a terra, e resta in frantumi. La trasgressione. Nel delirio del pensiero di una identità aveva scelto i più forti, i ragazzi di sinistra con i ciclostili e i comunicati. Ma intanto senza capire la vita, la viveva attraverso i romanzi. E attraverso musica e film. Al cinema era abituata fin piccola, fin dai film di Totò e Anna Magnani e Aldo Fabrizi che la facevano ridere tanto nel salotto della nonna, la sera dopo cena. Nella famiglia di sinistra era diverso. Non si accendeva il televisore, è male, diseduca. Ma non sanno neanche Totò? Se andavano a trovarla nella splendida villa nella quale abitava ridevano di lei e del parco e di quello che loro chiamavano il parco macchine, poi spegnevano il televisore e cianciavano parole ma erano cianfrusaglie. Intanto comunque scoprire il mondo significava leggere. Ma perché quelli con il ciclostile figli dell’insegnante erano tanto bravi senza leggere un libro, era strano da capire. La professoressa esibiva in casa con fare disinvolto tutte le sue nudità, e per questo non c’è niente di male, ma era un orgoglio. Le mutande un orgoglio? Poi parlavano molto della rivoluzione sessuale, ma un’educazione sessuale ai figli non la davano. Chiaramente tra i tanti libri finalmente capitò tra le mani “L’amante di lady Chatterly” e finalmente aveva detto al ragazzo “Io non voglio te voglio un boscaiolo”. Ma l’autrice più affascinante era Jane Austen così dolce raffinata, giochi d’anime intrecciate. Poi Pasolini “Amado mio”, ma i due ragazzi di sinistra, non conoscevano né il libro né il film,  non sapevano niente.  Ma il silenzio è l’eco delle parole ingoiate e nel silenzio della notte quando tutto tace ecco i mozziconi di parole farle da contrappunto a lei balbuziente che si ascolta. Papà è partecipe a tutto. Così dice la mamma.  Il tempo l’allontana da quel giorno maledetto da quei giorni lunghi lenti dolore ripetuto silenzio del dolore che attanaglia. Non vuole dimenticare vuole restare lì, tornare indietro tornare tutti i giorni a ricordare, ma non è proprio così, le pugnalate subite dopo l’immane fiducia riposta sono una ferita prolungata nel tempo. Lei oggi è bipolare non si risolve il binomio modernità tradizione. In fondo era approdata nella capitale dopo aver giocato per strada nel calore di una famiglia patriarcale. Aderire o dividersi, e l’io resta diviso perché lo scarto non si ricompone. Andare via fuggire per essere uguale agli altri. Una follia. Era partita di nascosto per un viaggio in autostop con il ragazzo di sinistra, il giro d’Europa. E a Barcellona era finita la dittatura e il fumo era legale ed era stato bello. Le visioni. Ma premeva il giudizio di un mondo generoso fatto di chiacchiere femminili intorno al fuoco e camini abitabili, dovere portato all’estremo. Ma perché era così, perché sbagliare così tanto era facile, non è comprensibile neanche a lei che ora adulta riflette e legge i vecchi presagi come parole d’indovini mentre si macchiava di sangue. La colpa. Leggere i casi clinici di Freud  era come leggere straordinari gialli sempre a lieto fine. Ma quel Dio solo punitivo lei non lo pregava non riconosceva la Croce come simbolo non capiva. Bisognerebbe essere indulgenti con se stessi. Pretendevano  la verginità come valore assoluto e solo dopo il matrimonio la donna poteva congiungersi. A casa c’era stato uno scandalo. Che orrore questa parola priva di ogni intimità. Comunque la cugina più bella aveva sedici anni e aspettava un bambino. Il matrimonio era un obbligo. Papà e mamma avevano implorato gli zii di non commettere un delitto così inutile. E lei ragazza  era testimone di nozze ma il bambino non c’era e nessuno lo sapeva. Non c’era più, un aborto spontaneo. Ma lei ascoltava De Gregori, e ascoltava musica “Ma io non ci sto più ridò lo sposo e poi, tutti pensarono dietro ai cappelli lo sposo è impazzito oppure ha bevuto ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa non è così che se ne andrà”. Nella casa di sinistra discutevano il problema “Ma io non posso farci niente” diceva lei. Ma poi è stato un matrimonio d’amore. E i ragazzi di sinistra in realtà sono diventati dei veri borghesi, distanti inutili, e in fondo la Storia si ripete, matrimoni borghesi una casa borghese una famiglia borghese. La morte è accadimento inevitabile. Non è il giudizio né la memoria di un lutto non risolto a porre il problema, ma un dubbio sulla storia del se impossibile da scrivere, ma bella da pensare. Se quella sinistra lei non l’avesse mai incontrata sarebbe oggi diversa, una donna felice forse. Forse. In fondo a cosa è servito, proprio a nulla. Perché quando è restata senza tetto e senza nulla il ragazzo di sinistra diceva come se fosse pazzo “mors tua vita mea” e intanto la voleva scopare, lasciare e scopare. Era una violenza. L’amico di sinistra del ragazzo scriveva libri bruttissimi ed esaltava le scopate. Scopare era tutto. Ma realmente tutto non è, una dolcezza ricambia l’anima bella. Quella violenza e quel dissidio hanno scatenato una schizofrenia mai risolta.  Le parole sono un  errore insieme ai gesti. Per le parole bisogna pensare e pensare è complicato, non è vivere tranne quando lei vuole fare di testa sua, con confusione e poi tutto si sistema anche dopo un gran caos.   La somma degli attimi non l’ha mai capita. Come si dovrebbero sommare gli attimi. E sommarli a cosa equivale. Prendiamo la matematica. Il comune denominatore in una relazione,  io tu lui noi o gli altri? Ogni relazione si compone dei suoi elementi. E’ unità? Somma? Qualcosa manca dalla visuale. Sarà la zona d’ombra di Lacan. E’ troppo vasta forse, nella relazione lei è  la zona d’ombra e una parte di sè minima si disperde ai lati. Ai lati sfuma in qualcosa e a malapena lei si percepisce come fattore determinante in positivo. D’altronde il problema non è la relazione. Il problema è l’ordine poetico. Per esempio: Scrivere una poesia d’amore, o concepire un prato fiorito e qualcosa come una resurrezione dei sensi. Esercizio quotidiano: Descrivere angoli della casa settecentesca unico incantevole nido. Costruita seguendo lo schema di una quinta teatrale e di una casba, l’elemento estetico dannunziano  è palese. Si trasforma muta cambia appena un frammento del tutto si modifica anche solo per la posizione o visuale o punto di vista. E’ un arte sublime e da questa si comincia. Ha bisogno della cosa più semplice del mondo. La vita le si fa contro con il peso di qualcosa di insopportabile.   Questo scriveva anni or sono ma ritorniamo all’oggi e oggi si tratta di ricordare ed ecco prima di tutto un po’ di cronaca.   Il bacio mancato, la principessa ranocchio,  la pietra l’assenza.     Lei era  andata in analisi appena vent’enne, dopo un lutto. Il mito del secolo, l’analista. Per conto suo aveva trovato soluzioni ideali nella musica e nei libri. Ma l’analisi prometteva tutto. Con altri termini si nominavano le sofferenze, da sempre ritenute sacrificio necessario dai cattolici, e pazienza sopportazione crocifissione avevano finalmente nomi diversi, atei o agnostici. Non eri abbandonato da un Dio punitivo, soffrivi di nevrosi associata a sindrome abbandonica. Non eri una donna ferita ma soffrivi di una comune risolvibilissima frigidità. Ma il suo problema  - da sempre suo da quando era piccina e il maestro chiamava i genitori preoccupato – questa bambina è un libro chiuso diceva - era quello di una timidezza patologica dall’origine infantile, e nell’adolescenza una incapacità a raggiungere l’orgasmo.  E un pensiero ossessivo. In realtà non comprendeva l’essenza. In cosa consiste un’unione come sola condizione della donna in un abito nuziale di fronte ad un sacerdote. Il bacio era il primo passo e l’unico prima delle nozze. E del poi non sapeva nulla tutto era il bacio consentito e non negato, il resto erano atti impuri. Il suo bacio prima di bambina poi di fanciulla era incantevole. Aveva incubi. Due sogni ossessivi. I nazisti identificati in  persone conosciute soprattutto per caso la inseguivano e lei faticava faticava in maniera immane nella ricerca di fuga. E  l’altro sogno molto ricorrente ed emblematico – mentre cercava di parlare le davano un gomma da masticare. La gomma diventava una gigantesca palla di cemento che cementificava i denti e la bocca e le impediva la parola e la rendeva muta.  Una psicosi. Manie di persecuzione. Era bellissima. Lei adolescente già  si arrovellava nel cervello. Si sentiva diversa.  Quando con il ragazzo, un ragazzo all’apparenza simpatico,  con il quale, piuttosto per moda che per altro, o meglio lei solo per inquietudine pura, ricerca di vita avventurosa, ma ancor più quel voler essere “come gli altri”- quando con il ragazzo  lei appena sedicenne girava  il mondo in autostop, si arrovellava in silenzio mentre facevano l’amore e lei non capiva - fingeva con gridolini acuti l’orgasmo - come nei film d’amore deve essere - rifletteva. E lui non si accorgeva di nulla mentre cresceva dentro di lei il risentimento. Una volta sola l’aveva raggiunto l’orgasmo, e aveva diciassette anni e improvvisamente aveva avvertito straordinarie forti incontrollate contrazioni delle mucose vaginali. Non sapeva perché. Non era cambiato nulla era successo improvvisamente. Aveva avuto paura, qualcosa di improvviso che sfuggiva al controllo. E un’altra volta aveva avvertito un piacere intensissimo mentre facevano l’amore distesi sul prato di margherite della Pineta Sacchetti o ancora tra la sabbia e la risacca delle dune di Ostia. Godeva senza volerlo. Ciò che l’allarmava era l’impossibilità  della scelta razionale e di un io voglio deciso e di un ora sì ora vengo ora lo voglio. Ora. Di nascosto aveva aperto il dizionario enciclopedico alla parola frigidità e aveva letto: incapacità femminile a raggiungere l’orgasmo si cura con la psicanalisi. Aveva poi annunciato nel salone di fronte alla televisione ai genitori “Io andrò dallo psicoanalista” “Ah cominciamo bene!” aveva risposto il padre. Frigidità, timidezza, complessi adolescenziali - temeva furiosamente il suo odore, il bacio. Di baci il fidanzato la tormentava e di carezze, alla scoperta di quello oscuro arcano che era il corpo di fanciulla, ma lei credeva tutt’altro – lui, giovane dal raro fascino e talento e dall’acuta sensibilità - lui non si sottraeva alla rinuncia per un aiuto necessario, al sacrifico, il sacrificio di un giovane che si dona nonostante i rovelli, le parole mancate, i silenzi tra un libro e l’altro, la voce stonata quando pronunciava debolmente un sì o un no. Nel nido tutto era più accogliente rispetto a quell’intruso speciale ma nemico. Nel nido erano cento persone in una tavola riccamente apparecchiati con cristalli lavorati e piatti di ceramica con oro zecchino all’interno di un ordine sempre identico. A capotavola il nonno, a sinistra la nonna poi tutti gli zii e poi i ragazzi per ultimi, i più chiassosi. Non aveva mai capito la fatica che questo comportava. La nonna era sempre elegante non trapelava mai la stanchezza nonostante la tavola abbondante. Comunque uscire era un dovere oppure una necessità In televisione e ovunque si parlava di quanto accadeva. Gli attentati i sequestri le stragi. Il femminismo. La vita della donna era complicata perché non si capiva molto. D’accordo il femminismo e combatto per i miei diritti. Non la verginità fino al matrimonio il piacere la liberazione. Eppure la nonna e il nonno erano splendidi per l’amore e la passioni che li teneva uniti da sempre. “Ti amo come se fosse il primo giorno” diceva il nonno. Ma quando provavi a dire “ma fuori di qui è tutto diverso e non sanno neanche giocare come facciamo noi e non sanno le torte, le tavole non sono apparecchiate e le donne si vantano di non saper cucinare e il sesso è libero e la coppia deve essere aperta” non trovavi una strada giusta una risposta ai due lati opposti di un volto. Tradizione rivolta.  Pazzia. Ma questo ragazzo accanto è noioso non legge è strano, d’accordo di sinistra ma la destra allora cos’è. Comunque abbiamo sbagliato tutti. La tradizione liberale del nonno, antinazista sfuggito alla fucilazione, è stata tradita dalla Storia, la Democrazia Cristiana, il voto della nonna, non aveva scoperto il suo volto oscuro. Gli intenti erano onesti, ma quelli di molti di tutti forse. Con innocenza ero femminista non poteva sicuramente essere maschilista. Forse sfugge l’arte alle determinazioni non la Storia.   Da Alda Merini no, non chiudermi ancora – “no, non chiudermi ancora nel tuo abbraccio,/ atterreresti in me quest’altra vena/che mi inebria dall’oggi e mi matura./ lasciami alzare le mie forze al sole, lascia che mi appassioni dei miei frutti,/lasciami lentamente delirare…/e poi còglimi solo e primo e sempre/nelle notti invocato e nei tuoi lacci/amorosi tu atterrami sovente/come si prende una sventata agnella.”   In realtà troppo tardi dopo quattro lunghi anni aveva scoperto la vera natura di quel ragazzo, un ragazzo volgare triviale - quando il padre era morto e lei doveva occuparsi del fallimento ossessivamente e con gusto dopo averla immediatamente abbandonata amava ripeterle “mors tua vita mea”- era stata solamente  fanciulla, una agnella in mani selvagge.  Nella stanzetta che lei aveva preso in affitto lui si presentava per scopare e insultare- scopava e diceva – Mors tua vita mea – Lei non intendeva essere il suo ostacolo un sinistrorso sicuramente di talento. Oggi è un uomo  oggi forse comprende. la vita. La vita non è violenza carnale e se lei restava acquiescente era solo per la solitudine nella quale l’avevano gettata e la miseria. Ecco perché questi rovelli - e donnaccia da mercato poi che voleva dire. Questo. Un lui triviale che ti usa per uno  sfogo. Il tempo passa gli anni sul groppo giunge il perdono. Ma è rimasta frigida- e sola. Ma il male peggiore era in lei. Una psicosi per la quale non riusciva a tradurre i pensieri già adulti, buoni, in parole. Un distacco pensiero-espressione. La parola strideva. Era d’altronde un’adolescente. Aveva aderito insieme a quel ragazzo e ad un gruppo di giovani al partito radicale…aborto carcerazione preventiva Cicciolina deputato il drammatico caso Tortora che ancora oggi dovrebbe far riflettere soprattutto intorno alle cause sociali del tumore. E le ingiustizie solo subite da uno Stato assassino. Poi aveva preso presto le distanze dal partito radicale e considerava la politica un inganno. Ma quelle prime battaglie avevano un valore poi la direzione è mutata in modo catastrofico     Comunque era vissuta dai nonni che adorava e di fatto aveva perso la verginità prima del matrimonio non dopo e la nonna diceva che era peccato. Non prima dopo. Che pensieri bambini. Non si è mai sposata però. Peccato ha stima del matrimonio. Il sogno della giovinezza – una vita da dividere insieme. Ora è frammentata. Gli uomini hanno solo voglia di scopare.   Era assolutamente incapace di comunicare e solo rideva o sorrideva, ma era di una bellezza incantevole, un modello di bellezza diceva ingenuamente il ragazzo. Temeva la bocca. Le parole stridevano. Irrompevano e straziavano e poi il silenzio. Le parole sono pietre. Si nutriva di letture e cinema. Tutti i casi clinici di Freud, Jung Ricordi sogni riflessioni, Psicologia e alchimia. Libri che l’incantavano. E  grazie ad una insegnante che assegnava letture integrali leggeva  e sognava e amava. Tutta l’autobiografia di Simone De Beauvoir Dostoevskij Delitto e castigo e I fratelli Karamazov,  Puskin, L’Eugenio Onegin. Checov, l’aveva incantata Colette, e La peste di Camus… forse è il senso? Discuteva così con gli amici e tutti leggevano e sognavano grandiosi futuri.  “Grandi speranze illusioni perdute”. Una piccola Don Chisciotte. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse.  Un segnalibro. Dostoevskij le apparteneva nel profondo e il romanticismo tutto l’incantava come il primo casto pudico esaltante bacio.  Io leggo - diceva fin da bambina - quando il nonno  e la nonna, odorosa di cipria,  la chiamavano a tavola e per toglierle il libro di mano  dicevano sempre “ chi mangia e ride a tavola e a letto è un matto perfetto” e lei aveva paura di diventare matta e chiudeva il libro per sedere composta a tavola.  Nel girovagare pazzo con il primo ragazzo, erano gli anni settanta, aveva solo uno zaino un sacco a pelo lunghissimi capelli sciolti, scatolame per mangiare qualcosa e i libri di Jane Austen che leggeva a “letto prima di dormire”, ossia nel sacco a pelo matrimoniale dopo aver fatto l’amore sopra un verde campo di margherite. Ma rimuginava nella testa, e serpeggiava tra le “crepe del cervello” – come scrive Sylvia Plath - la pazzia, il “medico che cura le teste ha cura di un arto complicato” sempre da Sylvia Plath, cita a memoria forse sbaglia.   La vita è un assurdo e un paradosso. Un fallimento economico, ogni tentativo di aiutare il padre imprenditore costruttore è inutile, il padre si uccide la famiglia resta senza tetto, il ragazzo prende ad odiarla l’abbandona, le ripete ossessivamente mors tua vita mea mentre lei si occupa del fallimento e di cercare un riparo, non hanno più casa una famiglia dispersa, e lei sola come una cagna randagia che abbia perso anche il fiuto.   Lei non ha una casa non ha radici non ha una città- la madre torna in  provincia. Vive ospite della sorella e insegna in un liceo in provincia. La ragazza è  sola in una cameretta in affitto a Roma e singhiozza per un anno intero poi il pianto si placa. Mors tua vita mea. La frigidità è diventata incurabile. Il disorientamento totale. Durante il natale trascorso a casa della sorella della madre giungono a breve distanza due lettere anonime di minaccia alla madre. Parlano della vita dei figli con minacce di morte.   Dopo il no secco a Mister x e Missis y – dopo spese inutili e danni irreparabili ripara anche lei in provincia e chiede a Her Doctor la giusta cura. Anche Her Doctor non comprende, pazienza è comunque un riparo, ma sembra uno qualunque. Non concepisce un’anamnesi neanche lui. Dottori dell’anima l’anamnesi conta ascoltate e non parlate- siete dei sordi pieni di soldi.  Lo dice così non ha troppe parole. Comunque pazienza, questo passa il convento, e chiede all’illustre Her Doctor di rimetterle in sesto il cervello. O l’anima. Neuropsichiatra cioè medico. Lei  sa già che esiste un corpo e lo sta disprezzando e conosce  la timidezza di ragazza che tace. Il dramma della parola me lo spieghi lei Her Doctor, la imploro Her doctor, le parole puzzano sono pietre lanciate, preferisco la mia eco nel silenzio della casa che tace, la parole hanno peso ma cadono nel vuoto.  Posso baciare. Mi dicono tutti che profumo e sono bella Her doctor intensa e bella da baciare. Ho paura sono delicata. Il pene è violento l’uomo non lo conosco. Perché mors tua vita mea e perché quello voleva comunque scopare, suonava scopava insultava e se ne andava. Un sinistrorso pieno di soldi che non mi offriva un pranzo o un cinema. Her Doctor di droga ce ne era tanta io ho una mia origine in provincia Ecco che ritrova la prima versione della prefazione  vecchia di anni ora la lascia intatta così,  cela timidezza,  nasconde la verità della malattia.   E così un’idea del tempo  dispiegata attraverso i pensieri in un oggi ieri domani riassorbiti in unità. Eppure un’altra versione ancora dell’anima, così un tempo scriveva e descriveva la giovinezza e l’età adulta le lacrime e le risa, un modo forse più astratto ma ciò che conta è proprio questo “anni or sono” con il quale si restituisce l’idea del tempo come in una scatola cinese, un altro tempo ancora, l’identità è la stessa nel tempo eppure muta. Muta ovviamente, ma come restituire le trasformazioni se non scrivendo piano nel tempo mentre gli anni oggi hanno imbiancato i capelli, mentre quanto segue è frutto di una lingua giovane di un’energia diversa. Un modo di tradurre il tempo forse è questo, attraverso scartafacci, legati da una comune intenzione. Parole mutate forme indefinite.       Gli ostacoli tra il nostro desiderio di liberare l’anima che si è rappresa e assottigliata per sofferenza e le possibilità offerte dal mondo ribadiscono forse per un’incosciente sbadata disattenzione il tragitto faticoso verso la conquista di sé che ogni paziente analitico tenacemente intraprende pure tra mille difficoltà e naturali insicurezze.   Legge da GillesDeleuze «La scrittura è inseparabile dal divenire: scrivendo si diventa-donna, si diventa-animale o vegetale, si diventa molecola fino a diventare-impercettiibile»   Un tempo, da giovanissima, quante cose credeva di sé, anzi credere non è esatto, e di sé ancora meno, aveva però la perfetta illusione di essere un giorno qualcosa di cui meravigliarsi, qualcosa intravisto attraverso specchi labirintici dei suoi puerili pensieri, eppure già arroganti. Illusioni sogni di futuro, sognare  sempre lì nel presente con il dominio della giovinezza a far da guardia a giorni pieni di sofferta mai compiaciuta inconcludenza! Ma non era certamente l’odio a renderla inetta, quanto una forma di insicura incapace inedia, per la quale era adatta solamente alle letture e tutte ottocentesche. Quelle, del sogno e dell’educazione tutta femminile, un regno per le donne che amano e finiscono per denutrirsi anche per amore. Era secca come un chiodo. Un fuscello, esile e nervosa.   Sempre da Deleuze «come dice Lawrence, “se io sono giraffa, e gli inglesi ordinari che scrivono su di me dei bravi cani beneducati, è tutto qui: sono animali diversi …voi detestate istintivamente l’animale che sono io»   La Provincia   Quindi i sogni. Ciò significava  credere involontariamente qualcosa di importante di sé, e senza progetti che le sfiorassero seppur minimamente la mente. Era l’esperienza a renderla estrema? O le condizioni, impossibile essere forti nella privazione di tutto. Era come avvolta  in una vulnerabilità che la rendeva indomabile, bizzarra e spesso imbizzarrita, faceva appello alle sue ragioni con  scompigliata insolenza, cercando di attribuirsi l’importanza che la giovinezza chiede… A volte passava alla descrizione del dolore, poi all’ironia che mitiga e al pianto, dell’agnello sgozzato, dicevano. Giovane e timida…Questo perché era in parte un po’ esclusa realmente, impacciata, priva di una possibile collocazione nel mondo, le dispiaceva il suo non sapersi collocare. Esile come ragazzina, un po’ troppo assottigliata, e assolutamente indifesa. E non le riusciva di crederci però. Il quotidiano confronto le dava il tormento. Essere senza difese Troppo forti gli altri, le altre. Non desiderava pensarsi insufficiente o carente. Bastava poco ad annichilirla, in una perfetta invidiabile incoscienza. Di fronte agli ostacoli ne cercava altri mille però, perché il tempo non la curava, e il tempo si faceva rarefatto, e le mancavano curiosità importanti, conoscenze che le ridonassero il terreno perduto dall’anima che si andava assottigliando, il desiderio di un uomo che ti coccola più di quelli già avuti. Ora la solitudine ha  forma di sacro terrore.  E l’uomo spaventa atterrisce. Inizia a pensare di più alla solitudine protratta. Forse alla noia, teme di non riuscire a trovare ciò che realmente per anni ha cercato senza mai arrestarsi. Percorre strade tortuose intrecci di vicoli e viuzze per il timore in corpo di essere sprovvista di qualcosa, nutre una tale ansia per il futuro. E la città  è fatta di anfratti e viuzze trasversali, di salite illuminate da un cielo di un azzurro violetto ghiacciato per il freddo pungente, sferzante… Ma la posizione è cambiata. Ricorda i suoi ventidue anni. Nonostante il dolore di un abbandono, l’impaccio la solitudine, un uomo oltre i quaranta, che aveva scelto per essere accanto ad un uomo qualsiasi, (orrore della solitudine sentimentale, orrore di trovarsi nel vuoto), le ricordava sempre la sua natura e la sua bellezza  al risveglio, rispetto agli impossibili risvegli delle quarantenni, sosteneva l’uomo con l’amarezza  nella voce, fin troppo decorate la sera dal trucco, e spoglie di ogni orpello la mattina, irriconoscibili. Ora sa cosa intendeva quell’uomo il cui ricordo è solo appena percepito, troppa memoria e troppa esperienza nelle donne, vergini le menti ragazzine. E ora?…E’ fondamentale poter credere di ritrovarsi la mattina tra la braccia di un uomo senza che neanche il tempo sia intervenuto a modificare se non per un accrescimento la natura propria, riuscire a sapersi nel tempo con l’esatta sensazione di una continuità e di un orizzonte di fronte allo sguardo pur sempre smarrito, nell’incertezza del futuro che ognuno di noi ha. Immancabili gli sfoghi, ma quanto veri anche.  Ma il rovello esiste, è ora una donna così la chiamano quando per strada ragazzi e ragazze chiedono con timida cortesia all’adulta indicazioni o informazioni… Deve farsi schermo con le parole, provare con questo. Le parole fanno da specchio e da schermo, riflettono l’immagine esattamente come il luogo di promanazione del principio vitale, del respiro spirituale, dell’orizzonte che si chiede.   . Ma è illusione, e comunque questo le rende necessario il vuoto che suppongo nutra dentro. Non sono più io non sono più la stessa. Ma forse sta acquisendo anche un ordine. Forse ora sono me stessa? Un ordine finalmente.  E suppongo anche che assorba per questo gli elementi di un’associazione giusta tra sé e il mondo esterno. Ma è sempre povera in canna… Si lascia accompagnare dalla musica, La musica è senza tempo, e la memoria le dona spettacolarità… E questo sempre, con regolarità, attraverso il tempo con modi e forme diverse, ogni volta con qualcosa  che sfugge come una maglia persa, da riprendere con altri anelli, migliori. Fruisce delle sue stesse parole dette o non pronunciate come in un libro tutto da sfogliare, le parole e i pensieri. La  preparazione filosofica, approssimativa, e molte  sigarette, insieme a piccole ferite da rimarginare, le consentono di certo un ordine all’interno del disordine, una forma all’interno del caos, un esserci all’interno di un possibile svanire. Svanire era questo, io credo per lei: privarsi dell’amore. Ma per lei Amore significa qualcosa come un orizzonte, e nel mentre avverte la perdita di uno sguardo sul futuro allo stesso tempo avverte la sconfitta dell’Amore. Ha perso la terra amata. Amore dunque, ma non solo per qualcuno anche per qualcosa  o per se stessa, oltre la noia che l’attanaglia, e rende vacuo il risveglio e utile il primo caffè e la prima sigaretta.  Solo che ora l’amore è diventato il suo straccio vecchio. La coperta di linus troppo logorata dall’usura e non più così rassicurante. La incontriamo così, ora. Ha sognato molto e cerca amore, quello personale soprattutto. Ha fumato troppo ed è stato così parziale l’ordine in cui è vissuta che non sa più esattamente come collocarsi, che spazio il mondo mi assegna, si chiede, credo deliri di nuovo intorno a qualcosa, una meta irraggiungibile. Il sogno. Si dice che il delirio sia un superamento del terreno coltivabile, lo scavalcamento sterile verso l’altrove che non si può non si deve frequentare perché è terreno sterile, sterilizzato. Ma il non coltivato oltre il limite non può forse essere fertilizzato?  E divenire allora memoria di carta, per la natura che è identica nel tempo ma soggetta a trasformazioni, da un’origine verso una metamorfosi-accrescimento trasformazione sempre riproponibili, o rinnovati o da rinnovare. Perché il cuore viene spesso divorato, ma si può riconquistare, basta la tenacia di sapersi, forse riuscire a non confondere l’anima impigliata dalla potenza che lo stesso arresto dell’anima ha in fondo con sé, il principio di un cammino per un cuore-anima da riconquistare. Domande sostanziali come: ami? Sei buona? Conosci la bontà? Le risuonano come corde stese ad essiccare e che il sole abbia prosciugato per il frequente utilizzo-abuso. Musica troppo innaturalmente suonata. Preferisce allora nuove forme. Musica che non sia musica, credo, musica anche prosciugata da troppo sole e troppo fragore ma non  abbandonata, musica che si concepisca nuovamente.  Un delirare oltre, oltre i confini del già stato, oltrepassare lo steccato per coltivare una nuova forma-natura al di là della soglia del disseccato, ma senza oblio, perché la memoria torna come fertile presenza ma dimessa. Fertilizzare oltre il confine. Con le parole.  Non lo sono forse sempre fertili le parole anche nel de-lirare, nel delirio di coltivare il non coltivato, dell’essere e dell’essere stato ma anche del sarà. Aveva voglia di morire un po’ e poi rinascere alla pace e al risveglio. Concepire se stessa nuovamente, delirare di nuovo forsennatamente, con animata sostanziale voglia di non arrendersi al quotidiano esserci senza speranza, ossia privandosi d’orizzonte, ma vagabondare invece con le parole per una nuova indeterminatezza e forse un orizzonte di parole di carta. Tentare non nuoce, si ripete. Parole-orizzonte… Il tutto per non morire, e protrarsi così come vorrebbe essere, cervello cuore fegato sesso, e armonia delle parti -  una parola un circuito denso di parole, uno spirito rinnovato e come ribaltato, una carezza nuova e protratta, danno la cura, quella del cuore rinato liberato. E questo solo attraverso poche facili dimesse parole.   GELO   Un coro di voci sovrapposte rende faticosa la percezione dei suoni. Il bar è affollato i tavolini disordinati e sporchi raccolgono gruppi scomposti e disordinati di ragazzi e ragazze in una gazzarra di voci sovrapposte, sovrapposto fragore di suoni scomposti e andirivieni distratti. E’ un’inedia estiva, ultima propaggine di un sole che non scotta, le prime piogge allenano all’autunno e all’inverno sotto altro cielo, meno libero, più convenzionale, più sacrificio, meno scomposizione. La ragazza siede misurando gli angoli dei tavoli insieme alla sua angosciante magrezza. Al lato, seduta accanto alla colonna di marmo, sente  spigolose le profondità di quel  bailamme allegro, putiferio e sarabanda di buona sana festiva dimenticanza. “Quella?” Dice uno agli amici. Parlano di lei i giovani accanto.  Ascolta la ragazza - fingendosi partecipe al gruppo al lato dal quale in realtà si  ritrae, e così in fondo può meglio catturare il brusio e il mormorare poco sommesso dei ragazzi che la indicano con voglia. “Da’ retta a me, quella non te la dà, anzi sapete che vi dico non la dà ne a te né a te né a me” La ragazza pensava ai funerali, al decoro con il quale ogni cosa era stata disposta. Il suicidio del papà l’uomo generoso dagli occhi vivacissimi nero profondo a volte trascoloranti nel verde, il Fallimento, l’ossessione claustrofobica dei creditori. Dopo un Fallimento, senza più un tetto,  come continua la vita, e come si cura un fallimento e qual è il futuro quando si perde tutto? Il papà non c’è più. Prima di morire hanno tutti tentato di salvarlo, non credere al denaro abbiamo l’amore, ma un giorno il papà ha detto non avrò più mille lire da dare ai miei figli e parlava di banche e banchieri con un rovello che lo ossessionava fino a smungerlo, tanto era bello, comunque. Occhi vivaci profondi nerissimi a volte verdi,   barba folta scura capelli lunghi neri morbidissimi, ancora un ragazzo. E un giorno ha poggiato con un gesto d’abbandono, un addio,  whight rose la barboncina dolcemente tra le braccia della tata della figlia, non l’aveva mai fatto, a lei la padrona di casa - così umana aveva eletto il papà a capo branco e impazziva al ritorno del papà la sera tardi dall’ossessivo lavoro. Le voci, sempre le voci, tante voci e tanti passi, l’avevano distolta. L’amica era venuta a portare qualcosa da mangiare.”Dovete nutrirvi” diceva Concetta e lo ripeteva sempre più volte “Io vengo per ripetere solo questo, voi vi arrabbierete e io lo ripeterò sempre” “Ma che c’entra adesso” risponde qualcuno  in un tono alto, in un caos. “Non mi interessa, tu arrabbiati, io vengo solo per questo. Voi dovete sedervi e mangiare e assaporare” Lei avverte giustizia in quelle parole ma teme il coraggio di Concetta. “E se non la capissero?” Concetta è la filosofa collega della madre, e i filosofi possono non essere compresi. Concetta è un angelo. Diceva sempre di essere stata troppo puritana e un tempo si raccontavano  ridendo di quanto l’avesse sconvolta la lettura di Anna Karenina “Continuavo a pensare ma che vuole questa, abbandona la famiglia e un figlio? e ha un amante!” e tutte ridevano, perché la mente di Concetta non è così, è alta, bella e troppo intelligente. Lei teme per tutti. Cambia tutto. Il papà non c’è più. E tutti discutono, vorrebbe chiudersi in cucina con Concetta, o sdraiarsi sul divano e chiudere gli occhi, ma tante persone discutono e sono discussioni accese, definire i termini della questione del fallimento, chi se ne occupa, non si sa ancora. Concetta porta piatti che mostra e dice con il vassoio alto tra le mani “questo ve lo mostro” - dell’insalata russa, un piatto ovale giallo canarino decorato con uova e tonno ad arte, e pasticcini mignon, molti perché molti in casa aspettavano discutendo non proprio sommessamente. “Si ma non sono da offrire ma da masticare e ingoiare”. Le parole complicavano tutto, trovare cercare parole adatte. Risposte del cuore? Complicato. Dov’è il cuore? “Dove preferite che sia sepolto?” “ per me fa lo stesso” risponde senza la voce giusta la ragazza e non trova la risposta. “Forse non qui è meglio la tomba di famiglia, è più in ordine “ dice qualcuno. “E’ meno disperso”.  Sente il peso di averlo detto, con tono tanto aspro, forte, per prendere la decisione finale, ciò che rimane. “Non credo che conti comunque” aggiunge, ma desidera tanto la tomba di famiglia, dove ci sono gli altri, e il Nonno materno. E’ una bellissima tomba di famiglia, e da piccola coi nonni il giorno dei morti si chiamava un frate e si faceva dire la messa nella cappella e lei partecipava con l’acqua da svuotare e portare e si divertiva molto perché c’erano tante bellissime foto sul marmo, ognuno aveva scelto un modo e si parlava delle cappelle di ognuno, sempre fiorite. Lei andava col cugino più piccolo perché stavano sempre dai nonni, la Nonna e il Nonno. “Dovete comunque scegliere “ Si sceglie la tomba di famiglia, la famiglia di mamma, e ora  la ragazza è più serena, non sarà perso nel Verano, è più vicino. Con la nonna paterna, dal nome di Stella Alpina ogni volta era complicato andare a cercare il figlio perso giovane, perché la nonna piangeva e si confondeva e lei non trovava la strada. Il papà, fratello di quel giovane zio dalla vita stroncata in un incidente a soli ventiquattro anni,  solo un bambino,  soffriva e continuava a soffrire quella perdita incolmabile. Ora anche il papà non c’è più. Franco, papà, E Carlo, zio Carlo. Alla ragazza il papà e la mamma hanno messo nome Alessandra Giulietta perché la mamma voleva Giulietta ma Franco e la nonna paterna, Alessandra. Così Anna la mamma si era trovata Alessandra tra le braccia mentre aspettava Giulietta. Secondo nome.  I parenti e gli avvocati hanno infinite questioni da decidere, Il fallimento le Banche i creditori, Prima di morire il papà aveva pagato gli operai tutti, ma le Banche - alle ultime questioni ancora non ci si pensa, ora riordinare sbrigare accertare fogli numeri calcoli. Denaro. E’ complesso. Carte sul tavolo al centro, fogli analizzati e non riposti. Gli incartamenti si tengono nell’armadio della stanza accanto, dice qualcuno, una voce di donna, ricordarsi di trovare una disposizione - ”Qua manca qualcosa, Sei sicura di aver letto tutto?” – c’è una registrazione dei regali “costosi” tangenti ai quali il papà era costretto. Ma la mamma teme per i figli, hanno voglia di portare quella registrazione alla polizia e la mamma sa che è potere e il potere annienta due giovani. Anna è mamma e lo sarà sempre fino a diventare nonna lei stessa. Insegna Italiano e Latino è un’insegnante forse amata forse da qualcuno dileggiata, i giovani sono così e la scuola è così. La casa - le vetrate mandavano l’eco del buio nel  giardino ed oltre, spazio chiuso dalla notte. Una casa splendida dalle pareti esterne solo di vetro e un parco immenso e selvaggio da ammirare con incanto distesi in poltrona con un libro in mano e la dolcezza del verde intenso delle querce secolari dei salici del cielo bizzarro dell’arcobaleno o del sole cocente o la pioggia furiosa. Amore per il passato trascorso così nel mondo incantato scelto per il bene della famiglia. Il papà simpatico e bello di una bellezza immane  terribilmente forte ed esuberante amava ridere e dire sempre: “melius abundare quam deficere – prendi il meglio offri il meglio e avrai il meglio –“ Sarà il passato non è più il presente né il futuro”.   Di notte invisibile, di giorno la brina fitta ricoprirà il prato fuori,  il giardino così bello e scomposto. Selvaggio. La mattina c’è stato il boato. I figli sono a letto, dormono. Due piccole quadrate camere divise da un ulteriore quadrato e due archi con tendaggi ocra, poggiati ad aste dorate attraverso grandi anelli che pendono come giganteschi gioielli. Il primo suono è un boato, e schianta il cuore che batte. Il pensiero non cede. Non è non bisogna crederci. Cos’è un incubo suono? E’ la prima volta. Un incubo-suono che squarcia il petto e toglie il respiro.  Un urlo. la madre urla chiama «correte papà s’è ammazzato». La porta del bagno. Papà è nel sangue. Respira ancora forse si può salvare c’è speranza aiutateci. Muore all’ospedale, in sala rianimazione. Lei lo vede mentre lo trasportano di corsa in sala rianimazione. La testa è fasciata ricomposta. Gli occhi aperti, i suoi splendidi occhi. Specchio di un dolore anima animazione da sempre incolmabile. Una signora anziana madre semplice e bella dice esclama dal cuore « povero ragazzo» amare lei e le sue splendide parole del cuore. Ragazzo è il papà di fronte all’anziana madre in quel momento madre di ogni ragazzo finito. Si ritorna a casa. Lei è in macchina con gli zii materni. Ripete lo zio sempre con tono alto  come con un canto urlo lamento funebre “pover’uomo, l’ha ucciso la sua generosità, pover’uomo, pover’uomo, l’ha ucciso la sua generosità”.  Accanto l’altro zio  soffre smarrito col silenzio e l’ascolto per il quale l’ha sempre amato, perché è un uomo che ha la bontà scritta nel viso e negli occhi. Ogni parola, a volte gli sguardi,  sono elogi funebri, Ragazzo generoso. Le parole degli altri quelle esclamate ripetute gridate col tono del lamento lo ricordano già per ciò che sempre sarà, il ragazzo generoso che amava il mare e la pesca subacquea.  Wight Rose, la barboncina aspetta alla porta di casa, seduta come sempre aspetta da ore come faceva ogni sera,  riconosceva da lontanissimo il rumore della macchina, e andava a suonare i campanelli che pendevano dalla porta di vetro e ferro lavorato oltre la quale delle scale di leggero ferro battuto portavano al grande cancello di ferro chiuso con una semplice catena e un lucchetto da ferramenta. Poi c’è stata la grande nevicata. A Roma. Dio ha in qualche modo salvato con la neve, che contemplare dalle grandi vetrate era riposo. E la neve è tanta è attesa silenzio bianco immacolato.  Lenta la neve fiocca fiocca fiocca. La poesia che la mamma le raccontava prima di andare a letto da piccina perché a lei piaceva tanto la neve che fioccava e la vecchina che cantava la ninna nanna – ancora una volta mamma -  E così di fronte alle vetrate con la distesa di bianco e la bufera di bianchi fiocchi aveva letto l’Idiota di Dostoevskij e se l’era divorato e poi molti libri, ma la madre era preoccupata per il tetto e voleva farsi ospitare dalla zia paterna per sicurezza. La madre è venuta a ferirla con le sue paure, la solitudine già l’attanaglia, e per lei, la madre,�� la solitudine è amplificata dalla neve, è naturale forse, è giusto. Teme per i figli. Ora dovrà essere padre e madre insieme, lei che era la giovane di rarissima incalcolabile bellezza si è trasformata. Un infarto. Il medico per i farmaci. Il metabloccante. La neve la separa da quel che resta, e restare significa unirsi ai figli. Crescerli? Ma la madre ha però interrotto spezzato la calma di un momento di divina grazia. La neve pacificava, il silenzio sopiva, la neve è manto di pacata placida remissione. La neve fiocca. La neve tanta in giardino da calpestare il meno possibile, la neve che cadeva dai rami, era l’intermediario giunto improvvisamente per una strana sorte a dare attimi giorni di conciliazione.   La ragazza ritorna in sé, il fragore, scalpore di applausi concitati. Le risa brillanti di ognuno e sono tanti le servono a non essere comunque presente. Non può essere di fatto brillante in nessun modo.  . “Sai l’ora?” le  chiede urlando il ragazzo dalla bella testa riccia e nera  girata verso  gli occhi volti a lui, occhi profondi occhi negli occhi.  “Non ho l’orologio” Manca le verve di una risposta al richiamo, si smorza l’allegro sorriso dell’altro, lei reclina involontaria l’invito alle chiacchiere, troppo composta, troppo seria nei modi, poco adatta al clamore della folla che ride. La ragazza ritorna al fragore,  L’ultimo libro l’aspetta nel silenzio della camera. Emily Bronte. Leggendo spinge brutalmente da parte le voci, sempre le voci nella casa questa volta del mare, quella che c’è ancora quella che è rimasta, della nonna materna,  Sempre con gli oleandri e i glicini in fiore e i limoni. Con tutti i parenti, zie zii cugine. Se nulla e nessuno l’avesse fermata al cancello al ritorno sarebbe stata riconoscente. Le parole divine di Caty la facevano tremare d’ansia per il ritorno, non riusciva a tener testa a tutta quella felicità intorno, alle voci, un coro, non si univa la sua. Però se Caty e Heatclif si sono amati si può amare anche così: Come solitari randagi abbandonati. “Non posso non amarlo, è più me di me stessa” le parole di Caty,  la brughiera  asseconda il pensiero colorato di verde e selvaggio di vento. Il selvaggio Heatclif è perso per Caty e per se stesso. Ma il ragazzo chi è, si chiede la ragazza e si volta. Un ragazzo che siede scomposto con una voce fragorosa .  Il ragazzo si alza veloce “ Dimmi una cosa, tu non me la racconti giusta” prende una sedia e con un giro abile si porta al suo tavolino e le siede accanto “sei molto timida?” “Perché, mi trovi timida?” “Non ti ci trovi?” “La timidezza è giusta, dimostra rispetto, in fondo la sottovaluti” “Complicato, fai discorsi complicati” “Sì studio filosofia” “Io faccio architettura” “Bravo”. Niente paura mormora a se stessa. Senza casa e con una famiglia già disfatta, il peso di esserci non si sa come, né dove. La casa del mare è un riparo, sempre la stessa, da quando la madre e il padre lì si erano conosciuti e fidanzati. Ma lei non è desiderata, perché non sta benissimo, e oggi ha tolto il pezzo di sopra del costume e la zia ha fatto una scenata ”Non sarai più considerata figlia nostra, per noi questo eri, più che nipote, figlia, io mi chiudo in camera, come hai potuto, ci ha svergognato.” “il vostro puritanesimo è inclemente, riguarda sempre le vostre figlie, le altre sono perfette, noi imperfette”.  E’ la sorella della madre, e in due generalmente dosano discordia e accordi. Ma ora è diverso. Ogni giorno mangiano come sempre da sempre tutti assieme, con i cugini e le cugine, ma loro stanno bene e lei sa di essere malata non ha aiuti ma si immagina nugoli di critiche piovute addosso non sa perché, se non perché deve inventarsi un futuro, ed è incapace. Rimane seduta in silenzio per ore sulle scale della grande scalinata d’ingresso alla casa anni cinquanta semplicemente cubica e immensa, un labirinto di camere una cucina con il camino. I tre scalini in alto prima del portoncino d’ingresso con la madonnina di ceramica sopra sono sempre il luogo ambito per le chiacchiere femminili. Chissà perché. “andiamo sugli scalini” si chiedono le cugine “no sono occupati ci sono la mamma e la zia”. Tre scalini una sigaretta e le chiacchiere riposanti. Siede e passa tutto, non vorrebbe spostarsi di lì, siede con un libro in mano.  finge di niente e accumula qualcosa di non buono nella testa. Le parole ripetute di Concetta “Dovete sedervi masticare ingoiare digerire, sentire i sapori”. Cerca di darsi l’identità. Dopo le critiche, il disonore arrecato al pudore, è andata ad asciugare i piatti in cucina e ha pianto. Ma il pianto non  era vero. Le lacrime però sono vere. La zia ha ragione. In quel gesto togliersi il reggiseno c’è già un insulto, di fronte al padre non l’avrebbe fatto. Quel gesto urla la solitudine e la morte del padre. Il naturale  pudore non lo avrebbe voluto. Però pensava anche a quei film in cui la cucina è un riparo e le donne piangono in cucina. Si vede così come ripresa dall’esterno, e l’interno è la calma e l’accortezza con cui ogni goccia viene tolta col panno di cucina, piano lentamente, lucidando posate, riponendo ordinatamente. Teme le chiedano sforzi eccessivi. L’amore può salvare. L’incanto amoroso che lenisce le ferite. I libri evocano i mondi intorno al fuoco, la tranquillità del sacrificio, tessere ricamare aspettare. Il Sogno di Zola l’orfana tessitrice tesse pepli con arte straordinaria nell’attesa di Cristo, il suo amore lo sarà. Lo avrà per un giorno per il giorno delle nozze per poi morire. Sogno della vita la nuova aurora. Il ragazzo si chiama M. fa architettura, è bello, forse coraggioso e molto estroverso. A lei l’altro l’ha lasciata, la situazione in famiglia era troppo complicata. Le lacrime  per l’abbandono sono anche nella secchezza della pelle. Asciuga i piatti, perché pensa che la cucina le ridia  la vita. Nei film anche è così. E Jane Eyre ha sofferto, un collegio, l’esclusione, ma forte e decisa ha superato il suo calvario e si e sposata, perché ha una grande anima anche se la ricchezza le manca e anche la bellezza.       Comunque la musica. La musica è la soluzione. Segue in provincia le conferenze di musicologi sulla sinfonia e la musica lirica, teatro in musica,  e sono tornati come conferenzieri i due chierichetti della chiesa giù il vicolo. Sono affascinanti o è affascinante la musica e ha appuntamento per una cena con uno dei due che ora è un uomo e bello e libero dai conventi ma incarna una tradizione sacerdotale forte. Avrà amore da entrambi il giovane architetto e l’ex seminarista ora musicologo. Sense and sensibility scrive Jane Austen. E grazie al genio estetico della madre con quel poco che resta avrà un nido,  una casa antiquaria in provincia preziosissima e di rarissimo fascino. Un inno alla gioia. Per dimenticare o ricordare sempre e per sempre. Una scalinata di marmo rosa di Venezia al centro della casa fatta d’archi e colonne di porfido rosa una balaustra liberty in ghisa vetrate liberty putti d’oro settecenteschi una collezione di madame in trine lampadari di cristallo di Venezia, la cucina con marmi di Carrara e libri e musica ovunque, una casba una quinta teatrale una casa d’artisti. Con  quel poco che resta e i quattr’occhi lungimiranti della madre che studia molto e ha genio attraverso lenti speciali che le restituiscono il mondo.   Segue le conferenze del chierichetto fatto uomo su “Il flauto magico” di Mozart.     1:30am 24 Feb. '13 il flauto magico Breve premessa Sintesi della trama dell’opera Il Flauto magico dal Dizionario dell’Opera …In un antico Egitto immaginario. Un paesaggio montuoso con un Tempio sullo sfondo. Il principe Tamino disarmato, è inseguito da un serpente; sfinito cade svenuto. Dal tempio escono tre dame velate che uccidono il serpente, e dopo aver ammirato la bellezza del volto del principe, si allontanano per informare della sua presenza la loro signora, Astrifiammante, la Regina della Notte. Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a un curioso personaggio comparso nel frattempo: è Papagheno, un uccellatore vagabondo vestito di piume, che canta accompagnandosi con un piccolo flauto di Pan.  Papagheno conferma le supposizioni di Tamino, ma subito le tre dame lo smentiscono e gli chiudono la bocca con un lucchetto d’oro.  Poi le fanciulle mostrano al principe il ritratto di Pamina, figlia della Regina della notte. Il giovane se ne innamora all’istante. Con fragore di tuono appare nel cielo Astriffiammante: ella spiega a Tamino che la figlia le è stata rapita dal malvagio Sarastro e gli chiede di liberarla , promettendogliela in sposa. Le dame donano al giovane, che si è offerto di salvare Pamina un flauto d’oro dai poteri magici: liberato Papagheno dal lucchetto consegnano anche a lui  un dono un carillon fatato e gli ingiungono di accompagnare Tamino nell’impresa. Sala nel palazzo di Sarastro, Pamina che ha tentato di fuggire per sottrarsi alle insidie del moro Monostatos, viene ricondotta indietro da costui con la forza. Sopraggiunge Papagheno, e Monostatos, spaventato dal suo strano aspetto, fugge. Papagheno rivela alla fanciulla di essere stato inviato dalla Regina della notte, insieme con un giovane principe che l’ama, per liberarla. Un bosco. Guidato da tre fanciulli, Tamino giunge dinanzi a tre templi: mentre l’accesso a quelli della Ragione e della Natura gli viene impedito, la porta del Tempio della Sapienza arcanamente si apre. Un Sacerdote spiega a Tamino che Sarastro non è un essere malvagio e che Pamina è stata da lui sottratta all’influenza materna per superiori, giusti motivi… Atto secondo Sarastro chiede ai sacerdoti degli iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove che gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti  e di sposare Pamina…la richiesta viene accolta e tutti  invocano Iside e Osiride affinchè donino alla nuova coppia spirito di saggezza. Le prove   Prova del silenzio   Prova del fuoco Prova dell’acqua   Superate le prove i Sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre. L’amore di Tamino e Pamina     Il  Flauto Magico”   Frequentava le conferenze del ragazzo. Ora il ragazzo è un uomo. Il suo volto ha qualcosa di non definito, non calcolabile. Ha descritto un’opera. Un ingegno particolare, ma oltre a questo molte ombre si addensano intorno a  parole troppo irreali e troppo giuste per essere solo frutto di studio. A chi si rivolge, si chiede? A me? «Mi guarda senza guardarmi, mi osserva e non guarda e ascolto quella melodia di strane parole come una funambola all’inizio della sua carriera di artista. Sono attenta, non perdo una parola. Ascolto per non perdere l’equilibrio delle parole». L’opera è il Flauto magico di Mozart. Il ragazzo è molto veloce  e si stenta a prendere appunti. «Vorrei ricordare non solo capire, eppure quelle parole sono troppo esatte per non essere comprese e troppo presenti per non essere dimenticate. Capisco le parole, il loro ordine il senso dei gesti, alcuni errori ripetuti, lapsus frequenti, scambi di nomi. C’e però un mistero».  C’è un incanto che prende tutte, eppure lei avverte se stessa come non si è mai avvertita. La percezione di un centro e di un centro forse virtuale. «sto leggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio, mi sembra di attraversare meraviglie attraverso giochi di specchi.   Alice…non fece neppure in tempo a pensare che era meglio fermarsi, perché si trovò subito a sprofondare lungo quella specie di pozzo veramente profondo.                O il pozzo era molto profondo oppure Alice cadeva lentamente: il fatto certo è che , prima d’arrivare in fondo, ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di chiedersi che cosa le stesse capitando «La presenza di me era così fisicamente percepibile  da risultare l’unica presenza all’interno di una folla neanche anonima». Crede di capire eppure non comprende. E non si chiede, solo partecipa e osserva, come negli scaffali di una preziosissima libreria alla quale si è inadeguati, perché è suono vista e qualcosa di non definibile, una memoria, una versione costruita per un fine… E’ tutto questo messo, insieme, «l’artefice è lui ma il centro immancabilmente «sono io» si dice la ragazza, presa da un turbamento che la rapisce. Il giovane.  Descrive la corsa in musica, la corsa è giovane i bimbi dice corrono non verso una meta corrono per il solo correre, parla di un’energia interna e dalla natura della corsa dei bimbi come loro propria natura. L’Opera è il flauto magico. Il video mostra Tamino che entra in scena correndo inseguito dal serpente, e la musica è veloce con schiamazzi e come forti pestate. E’ bello è una musica descritta umanamente. Correndo calpestiamo, e allora la musica riproduce esattamente il suono. E’ un giovane pestare, una corsa disordinata, una fuga mal eseguita, perché la direzione di Tamino bambino è la direzione che non può esserci nei bambini. Fugge e sgorga l’energia correndo, trapassando dall’una, la fuga, all’altra la corsa senza un fine e un traguardo.  Usa queste parole, come prese da una memoria che torna e da un luogo colto a prestito ma esattamente osservato da una visuale obliqua, come di traverso, «non deforma nulla dice ciò che suona a tutti noi come il nostro proprio vissuto la nostra personale memoria, a volte il rimpianto». Evoca ciò che non si ricorda se non come un passato perduto, c’è una giovinezza il lui invidiabile, la giovinezza di chi già non ha nulla da sapere e racconta agli altri ciò che hanno vissuto e non potranno più vivere. I luoghi santi della giovinezza. E la giovinezza è amore… La sua versione è tale da diventare quella di ognuno. E’ un’arte magistrale, è molto poco in concreto il discorso, brevemente riassumibile, è un dire ipnotico nel quale ognuno vuole riconoscersi per perdersi e ritornare… In tre conferenze di tre ore ciascuna, le parole dette sono molte, l’arte di dire è raffinatissima, e il vissuto di ogni parola è misura del presente, l’ascolto, e della memoria personale di ognuno, il passato. Dentro ognuno si cala il ricordo. La versione appropriata al ricordo  la dà l’ascolto delle parole del ragazzo. Ci fa sognare, «a me fa sognare», dice e pensa la giovane. «Io sono il presente, sono l’unica nel presente l’unica lì a sognare ancora e a sognare un futuro d’amore e d’assoluto». Quattro i personaggi in gioco anzi cinque, Tamino e Pamina, lo spirito, Papagheno, uccellatore dalle piume e Papaghena, la carne, ma in realtà non parla di sensi lui, ma dei giovani che di spirito poco vogliono sapere e invece di contorcersi nelle riflessioni di noi che dallo spirito siamo posseduti trascorrono la vita tra discoteche e giochi e spiritosaggini. E Astrifiammante, la Regina della notte, i lati isterici delle donne, delle madri, dice lui. Accenna al suicidio spesso. “Gli adulti si uccidono per denaro, il giovane per altro, anche solo perché è giovane”, Cita aneddoti romantici sul suicidio, Kleist, per esempio, che cerca una donna per uccidersi nell’acqua la trova e poi lascia che sia solo lei a uccidersi. E’ una strana esaltazione del suicidio, Romantico e giovane. Insiste molto poi sul Tempio, l’educazione sacerdotale, e il contrasto tra il flautino di Papagheno e il Flauto magico di Tamino “Ora scusatemi,…pausa, Il flauto di pan il flautino di Papagheno sta per l’organo sessuale” In sala echeggia una risposta soffocata di tutti. E’ piacevole  ascoltarlo è divertente, lo sa dire lascia intendere una sua potenza. Il flautino non gli appartiene. E infine il carillon magico che incanta e seduce come in una sospensione, come quando le giostre sembrano fatte apposta per essere solo osservate e fermarsi e fermare i pensieri e perdere la cognizione del tempo e dimenticare di aver vissuto di vivere il dolore.. «Mi avverto diversa. Mi proietto attraverso le sue parole in un futuro senza passato. Non penso alla memoria, la sto abbandonando, e sono troppo giovane per non subire l’incanto di un futuro attraverso l’unità stessa della memoria» pensa la ragazza e torna a casa e prende appunti sul suo diario, ma le appare uno svilimento, perché sono parole troppo presenti sono «le parole se stesse» così le definisce «le mie parole hanno il se stesso, mi ci imbatto, le trovo per caso cerco di sfuggire ed emergere, ma il se stesso delle parole è discordante e mi sembra non di disputare un incontro, ma di allontanarlo» Prova a prendere il dizionario dei luoghi comuni, a modificare, legge Byron e Puskin, Eugenio Onegin, ma è sempre se stessa, variabile mutabile, mentre lui il giovane, discute dei Werther e dei loro tormenti, e al contrario dell’importanza capitale di condurre la vita secondo schemi di regole e leggi fisse e immutabili, come nell’arte della fuga di Bach. Le leggi del contrappunto «E’ inverosimile, o è un falso o un paradosso, è troppo giovane per questo» scrive la fanciulla. .Ed è già memoria, è già tutto detto attraverso l’oblio delle parole. «L’oblio mi spezza le redini. I legami mi si sciolgono e l’unica cosa che avverto smisuratamente fuori luogo sono le mie nude parole. Sono casuali, quelle di sempre quelle inevitabili, quelle senza storia o senza proiezione, semplici parole con tutta la pesantezza delle pietre lanciate. Incanta i miei occhi». Ascoltare con gli occhi dà una specie di euforia. Sembra che gli occhi percepiscano un’eco rimandata da un passato che annuncia un abbandono. Tamino e Pamina, «due assoluti invincibili». E’ lei a dirlo del tutto involontariamente . «Perché invincibili?» Chiede lui. «Pamina non può essere comunque vinta». «Perché?». «Ma Pamina rimane se stessa anche attraverso un’altra veste o qualsiasi veste. L’anima è la volontà di vivere è il combattere, e non solo segue Pamina ma ha l’anima per combattere. Ai quattro angoli manca qualcosa, una forza in più, una pari dignità d’anima. E poi sbagliare, sbagliare per cosa, per rimanere dove, e perché?» «Ma  noi capisci cosa sbalglia Pamina? Sbaglia nell’affrontare con lui le prove, sbaglia perché lo segue, mentre dovrebbe fermarsi.  Non le appartengono le prove, eppure non rinuncia a lui, non aspetta partecipa».«Ok, sai ciò che trovo veramente orrendo? Che le prove le vedi di lui e non di lei, lei è amore, ma non solo»  «Sono nomi strani nomi di nessuno, nomi irreali a non adulti» scrive poi la ragazza nel diario, «perché si ostina a volere Pamina inferiore?. Storna lo sguardo, vede un orrore in me? Forse, forse c’è qualcosa nelle mie parole di troppo. Un tono, un modo, un qualcosa di impossibile. Sento di essere disumana, non sono nessuno, o forse non ho le parole o la voce e comunque non esiste in lui nulla da capire. Sta affermando, è rivolto a me, e alla fine chiedo: “Ma chi sono Tamino e Pamina?” “Allora hai capito risponde“». Nel finale dell’opera interviene in modo strano quanto affascinante. Un finale che colloca Tamina Pamino, In una lontananza offuscata, un mare, un’isola, e da lontano si intravede una veste sacerdotale di entrambi. Si sono persi entrambi, sono sacerdoti, e forse l’immagine è quella di un equilibrio di morte. Le prove, la prova del silenzio del fuoco dell’acqua, sono superate ma ciò a cui sono condannati è la loro stessa serietà, il loro gioco estremamente serio e la vulnerabilità di lei che segue un destino non proprio. «”che destino?» Chiede di nuovo. la ragazza. Tiene il suo diario molto perplessa per le sorti di Tamino e Pamina e infine racconta nel suo diario da cui attingiamo  «Mi guarda con occhi vacui e gira la testa guarda in basso. C’è un rovesciamento, un ribaltamento delle prospettive in tutto ciò che dice. Il centro sono Tamino e Pamina, e alla periferia Papagheno e Papaghena. Ma mentre riferisco su questi fogli sparsi  il contenuto logicamente catturato, so anche che emotivamente è a me che si rivolge. E mi chiedo quali prove dovrei superare, e in quale Tempio regno dovrei entrare.  Ha gesti sensuali , ma un colorito esangue.  Gli ossequi alla fine di ogni conferenza sono immancabilmente cerimoniali durante i quali ci allontaniamo, perché le mie parole sono così mie e così carnali, sensuali. Cioè vuote?. Nella circonferenza alla quale appartengono le sue stesse parole  carillon io aggiungo un raggio, impulsivamente, per fare da Pamina, vorrei dire, e invece temo cosa? Di essere la solita Papaghena, la solita sciocchina! Non comprendo quello sguardo senza espressione, quel vuoto negli occhi se rovista dentro trova qualche cianfrusaglia e molto poco Spirito. Quando mi si rivolge c’è quell’indecisione della parola che fino a poco prima non c’era in lui. E’ come se scendesse dal pulpito, è un Dio privato del suo regno, della potenza della distanza. Le sue parole ora sono sue e mie, anzi nostre. Altri discutono. Risponde senza guardarmi, ma sento sempre di essere un centro. Le parole ora sono di tutti, sono risposte, e di nuovo manca quell’evanescenza del monologo, quell’intenzione diretta a chi solo ascolta senza nulla dire. Non ci sono contenuti, ma non comprendo ancora. Comprendo però la sua fatica ad avvicinarsi, Capisco quanto orrore abbia ora delle parole, e negli occhi da vicino vedo ombre di incalcolabile vuoto. Qualcosa preme nel petto. Non è un dolore, ma l’affanno di essere troppo osservata, innaturalmente osservata. Quel momento è impresso nella mia mente e ha la nitidezza di una foto a colori.. Gli stessi gesti di lui li ho nella mente come un imprinting, una forma di orrore splendore, lo splendore di un sogno d’assoluto che già va frantumandosi prima ancora di essere pensato. Il destino di una morte in vita per una resurrezione in vita. Ogni volta aggiungo qualcosa una parola una definizione una precisazione e mi accorgo involontariamente di parlare solo d’amore. E’ Mozart o Armony. Eppure lui accoglie le parole con il  fastidio di un troppo. Ne sto facendo un’oracolo d’amore. Ma insieme le pesa e le rimanda nella loro esattezza e verità strappalacrime. E impensabile un amore per un nuovo Mozart, ma allora tutti sono dei Mozart? E Papagheno? Aggiungo, non sarà una dialettica di Tamino e Papagheno. “Forse è una rovina, forse lei può rovinarsi, ma non può comunque morire” «Credo di essere presa da una vertigine, è l’amore che sognavo? Ma l’uomo che amo, che per lo più è un ragazzo, e questo lo rende perfetto, può essere tale? Ossia Tamino che in alcuni momenti di raro splendore si scioglie e si rende Papagheno solo per amore?.  Tento di risalire da un qualche strano abisso in cui mi si sta collocando. Perché parlo così tanto di Pamina, perché cerco per lei la salvezza, perché sento le parole specchiate, e non riesco a fermarmi, qualsiasi cosa lui affermi io la ribalto in un destino di salvezza. La mia risposta sgorga comunque da un luogo sconosciuto. Mi sento ogni volta gettata a terra e ogni volta mi rialzo frastornata ma sono ancora io. Ho l’impressione di essere schiaffeggiata. Purtroppo è blando, non mi schiaffeggia, non mi insulta, non fugge irritato dalla folla di corteggiatori intorno. Ho paura di qualcosa, la fine è tragica, vorrei concepire una salvezza, eppure è così inutile discutere di amore quando si tratta in realtà di musica solo Musica!. Eppure tutti ci stiamo invischiando in questo desiderio di amore. Le nostre parole sono molto personali e vissute, intorno all’amore. E’ quasi ridicolo. Ognuno senza volerlo parla di sé, e tutti allegramente ognuno col suo bagaglio, migliore di qualsiasi squallido presente, sovrapponiamo aneddoti di amore e abbandono, e la musica è quella chanson che ci fa ricordare il momento in cui decidevamo che sì era meglio amarsi da lontano, amarsi per sempre pur sapendo, e questo lo dice bene Wenders in Paris Texas, dico io per vezzo, citandoun capolavoro,  ma non so se c’entra, quanto sia impossibile ed inutile la vicinanza, quanto ci distrugga e ci annienti. E’ molto eccitato anche un uomo che credo stia vivendo una relazione molto difficile, e sembra indeciso sull’esito e sul futuro. Sono giochi involontari. Sta giocando con noi e tira fuori i nostri passati e il nostro presente, e ci mostra come si tratti sempre e solo di amore e di abbandono. “Quello che mi ha lasciata si è sposato ed è ingrassato subito dopo, già lo vedo con le pantofole e il giornale” dico con un fil di voce, è l’unico momento in cui ride sorpreso. Sono l’unica a capire, mi dico. L’altro ragazzo se la prende con me, è irritato, trova sconveniente la mia risposta, non pertinente. “Voglio dire, è comunque Mozart”. Il problema è che è innamorato di me e soffre di gelosia.  Lui sorride di nuovo,  parliamo di noi o del Flauto Magico?. Ma che  situazione è, mi chiedo spaventata, è tutto così affascinante e tutto così strano. Sento di dover allontanare un pericolo, e sono sempre le parole a invischiarmi in qualcosa di sconosciuto, una spirale verso la quale sono attratta dalle parole. Sono parole-calamita, un dire solo per gioco eppure esaltante per tutti e di fatto si tratta di Teatro in musica. E’ un dire che calcola. Una combinazione soffocante. Percepisco tutto questo e già sono in qualche modo legata. E’ il primo laccio. La combinazione delle parole, mi fa avvertire il peso smisurato di ogni mio intervento. Cosa manca? La causalità del dire, la naturalezza di una fondata riflessione intorno ad un oggetto esterno. E’ arte?. E’ sapere? E perché applaudiamo così coinvolti, così affascinati da un mondo solo intravisto nella musica ma profondamente sentito dentro ognuno di noi. Ci ha dato la memoria, ci ha fatto dimenticare Mozart e fa nascere in noi il sogno di un’esperienza da vivere e in parte già vissuta. E’ desiderio sublimato, la musica sostiene la memoria personale  con delle sospensioni di ascolto sublime. Peccato non li abbia saputi valutare i miei uomini, penso, ho giocato poco con loro, li prendo troppo sul serio, veramente troppo. L’amore non si calcola. Solo chi avesse un vuoto totale alle spalle, o rimpianti di ciò che non ritorna può sentire un’esclusione e il dolore di una perdita rinnovato  da qualcuno che proietta  una speranza, se il tempo consente speranze. Le parole. E’ il peso esatto delle parole. Parole in cui ci si rispecchia, parole specchio di un amore, i miei Delly me lo dicevano, parole volute per un fine sconosciuto. Ma il fine è amore? Sembra un gioco molto serio. La passione di quel calcolo esatto di parole e amore, quel modo di costruire un puzzle dandoci l’oblio del passato per un futuro da sognare è il calcolo di qualcosa di impronunciabile? Rispondere è impossibile, le domande lo irritano, significa parlare di sé e solo di sé. Fuori da quell’auletta scarna ma romantica è inevitabile forse per un’incoscienza e un’esaltazione improvvisa non riconsiderare il nostro passato e noi stessi, e seppure alcuni tra di noi hanno una perfetta conoscenza della musica siamo trascinati da qualcosa che forse è sogno, forse illusione, e memoria di libri, aneddotica amorosa, i casi letterari di follia amorosa, e sempre si parla in un coro di voci sovrapposte, di sé, dimenticando il resto, nel caos di un’ esaltazione di nuovi eroi ed eroine, in crocchio allegri e orgogliosi di vivere da sempre  ciò che quel giovane di talento, che incanta e seduce, ha descritto come storia della stessa giovinezza. Aggiunge una cosa, sempre con modi e toni che oscillano tra il parlare di sé e il considerare con oggettività il mondo, e attraverso le sue stesse parole gli altri  leggono se stessi. “Il giovane supera l’amore. Ma chi di noi non ha lasciato pur amando. Insomma io mi ricordo che l’amavo non avrei voluto altre che lei ma le complicavo comunque la vita con un gusto anche un po’ sadico per la sua sofferenza perché guardavo inevitabilmente oltre, perché già sapevo che l’avrei dovuta lasciare pur amandola ma questo doveva costare, a lei e a me.” Sento una ferita, forse è gelosia, non vedevo altre che lei era lei che amava. Esalta in questo modo l’amore e se stesso, e suscita un desiderio, il desiderio di essere scelta per l’esperienza  assoluta, quella dell’amore così descritto, dell’amore potente perché la voce i modi i gesti i giochi stessi della voce creano un’illusione di potenza e di qualcosa di sconfinato mai provato prima, mai sognato perché nessuno fa sognare attraverso poche facili parole un regno così misterioso, un regno difficile da definire, un modo del sogno che si incarna attraverso  la sofferenza, ma non riesco a capire di chi sia la sofferenza, di chi parla, descrive in fondo un’intenzione di sacrificio, un sacrificio di una donna, e un dolore mai superato. Allora o scritto un racconto sul primo ragazzo che mi ha lasciata. Vado ad aprire. Alzo la cornetta del citofono, “vieni” e spingo il pulsante. Aspetto, e dopo un pò lo vedo percorrere il corridoio, deve aver fatto una corsa. Ora il tempo passerà ad ascoltare l’impercettibile voce del suo lasciare intendere, è in ogni suo gesto e in ogni sua parola, tutto lascia intendere, che mi ha abbandonata ed è il più forte, ma non vuole lasciar intendere che questo per me non costi sacrifici, lacrime, ferite, mentre io conto i suoi gesti e le sue parole come se manegiassi un giocattolo smontabile. I pezzi sono sempre quelli, si monta e si smonta, ma questo è un suo gioco incosciente, perché gli manca uno specchio ,perché gli manca il cielo per pensare. Tiene il casco con un braccio, e sbuffa per sottolineare il caldo la stanchezza e la giornata di lavoro. Non ci faccio caso, si passa la mano sui capello radi e rasati. Gli dico di entrare e non far caso al disordine. “perché ti sei vestita così?” chiede, e lo trovo come sempre stupido “è un vestito, cos’ha che non va?” “lo trovo eccessivo” ci tiene a dirlo, sottolinea inoltre così la mia timidezza, lo ha sempre fatto, ma non me ne importa, solo un po’, anzi mi infastidisce. Lo fa apposta, so cosa vuole dire, vuole lasciar intendere che non ce n’è bisogno, non per lui, e il mio modo di vestirmi non gli è mai piaciuto. “Come stanno i tuoi?” “bene. Senti siediti, preparo un caffè, ne ho bisogno”.  Mi urta subito il modo poco civile di entrare in casa mia, non so se se ne accorge, E’ di fatto il suo modo,  è una grossolana scortesia, e un’affermazione di possesso. Si sente di casa ovunque, è la sua alternativa all’essere un “materialista”. Il sentirsi di casa significa possedermi,  è purtroppo un cafone nei modi, per quanto la sua famiglia sia tra le migliori. D’altronde l’anticonvenzionalità è il suo orgoglio, e ormai è troppo tardi per educarlo a modi più civili.  Si guarda intorno osserva gli oggetti,  con lo sguardo e un lieve tentennare del capo mostra l’intenzione esplicita di un giudizio che vuole essere negativo. E’ una sua forma di invidia. Vado in cucina ma lo prego di attendere nel salone, non mi piace essere guardata mentre preparo il caffè e inoltre la cucina è in disordine. Li definisce convenevoli ipocriti, io mi sento inseguita quando qualcuno entra in cucina, desidero preparare il caffè o altro da sola. E’ una delle mie piccole idiosincrasie. Non posso spiegarlo, e quindi spesso le amiche o gli ospiti entrano in cucina. Questo mi rovina il gusto della solitudine, non sono per niente casalinga, ma la mia cucina è così originale che qualsiasi intrusione mi appare una violazione alla privatezza. In cucina mi sento protetta, sono sola e pregusto  il caffè. E’ un piacere, e mi distoglie. D’altronde so cosa lui ha da dirmi e non ho nessuna curiosità, le solite parole e il mio silenzio. Vuole spiegare cosa è andato storto. Dovrei dirgli che non me ne importa, ma non lo capirebbe. Odia lasciare senza lasciare rimpianti. Ama i miei rimpianti, in realtà sa quanto avverto volgari le sue parole. Il problema è banale: desidera da me un riconoscimento di una profondità che purtroppo non ha, e ogni volta è sempre peggio. Non riesce a darmi spunti, e io cerco di abbreviare le sue visite. D’altronde se questo lo umilia, gli lascio credere ciò che vuole, non ha da dire molto di noi, e io non ricordo quasi nulla. Il caffè è pronto. Prendo le tazzine, lo zucchero e porto in sala. “hai molti mobili, troppi” “perché  troppi?”. “A cosa servono? Che te ne fai di tutta questa roba?”, “Può essere, ma cosa te ne importa?”. So che questo lo irriterà, prende spunto da “cosa te ne importa”. Il suo profondo desiderio è leggere in quel “cosa te ne importa” un rimpianto, un’accusa di abbandono, la ricerca di un contatto” e non trovandoci poi altro che un normale “cosa te ne importa” si sente svilito. Per me è semplice. Gli sto solo sottolineando quanto poco lo riguardi, lui lascia intendere la sua superiorità e la superiorità di chi abbandona, ma non avrebbe senso spiegargli che mi sento libera perché non ama crederlo. La vuole far diventare una lite e non ho voglia di sprecare parole, sono inutili.  Non si tratta neanche di un pregiudizio, è il suo desiderio, essere il centro di un’attenzione. E’ un orgoglio forse molto maschile, ma non azzecca mai i modi. Non riesce a darmi un rimpianto. Sente minacciato il suo potere, ma d’altronde non è una richiesta d’amore, forse invidia, del mio silenzio e della mia noia. Trovo sciocco il sorriso, non sincero, potrebbe sinceramente sorridere di tutto e sorridere anche con me di tutto. Ma questo per lui significherebbe perdere. “E’ che ho sempre desiderato il tuo benessere, e non sono riuscito mai a trovarlo, né a vederlo”. Non ho risposte. Il mio benessere non è con lui, lo trovo piuttosto volgare.  Ha in odio il mio silenzio, lo sente carico di una verità, di un vuoto che percepisco in lui. Vorrebbe degli orpelli, degli ornamenti di parole per rendere poetico il momento. “mi dispiace” rispondo. Questo lo manderà in bestia. E’ un libro aperto, desidera qualcosa come uno stupore, un sottolineare la profondità del suo animo, la ricercatezza della sua sensibilità, e odia il mio sguardo. So che è vacuo, ma non ho niente da dirgli né da rimproverare, semplicemente trovo il lui un vuoto, e lo privo involontariamente degli orpelli fino a renderlo nudo. Non comprende che non ho nessun desiderio fisico di lui, e questo rende inutile qualsiasi spiegazione.  Lui ha conservato intatto il desiderio fisico di me, ma è il desiderio fisico in realtà di qualsiasi donna, e non vuole rendersi conto di quanto poco abbia importanza per me. Nella sua nudità riflessa non vede nulla. Si ama solo quando gli orpelli gli rendono l’illusione di se stesso. Non oso dirglielo. In quel momento il suo vuoto è il mio vuoto. Non mi sfugge il minimo particolare del suo volto, e ne provo fastidio. Le stesse espressioni, non cambiano mai. A volte basterebbe un visibile e improvviso rossore a cambiare tutto. Non arrossisce mai, è un estroverso ma non pensa nulla pur con la sua buona dose di intelligenza. “Te lo dico, ha un certo punto non ce l’ho fatta più, ero sempre io a dover parlare, credevo nella tua sensibilità, ma non la dichiari” “E allora?” “E allora che cazzo vuoi?” alza il tono “io non voglio proprio nulla, non mi serve” Dovrei aggiungere nulla, ma tolgo l’ultima parola. Non mi voglio spiegare, non ho molto da spiegare. “E allora perché ti crei sempre questa fama di ragazza sensibile?” “Cosa c’entra?” Di cosa parla? Chiede parole che non ho per lui e si rispecchia in un vuoto. Quando il silenzio lo sovraccarica sorride come sadicamente “Ecco il tuo sorrisetto” lo sottolineo sempre ma per fargli capire che se vuole parole deve prima averne. “Stronza” lo dice tra i denti, sibilando. E’ lui stesso a non avere parole, ed è molto chiaro. “lei ama il mio coraggio, e la mia forza, è la prima cosa che mi ha detto. Non trova in nessuno lo stesso coraggio” Non gli faccio notare la superficialità dell’affermazione, manca addirittura un contesto. Purtroppo è così, il contesto delle parole gli manca. Ora questo vuole essere anche un suggerimento, del tipo”lo riconosci anche tu finalmente?”. “E’ probabile, ma non so che dirti nel merito”. Mi sto stressando, ho un senso di nausea. Vorrei che se ne andasse. “Senti io mi devo preparare adesso, ho poco tempo da dedicarti, mi spiace”  dico in preda alla claustrofobia. “Va bene vado anch’io, sono stato già troppo”, si è alzato di scatto, desiderava rimanere, è  stupido dire “vado anch’io” considerato che siamo a casa mia e “sono stato già troppo” quando è lui a desiderare questi incontri. D’altronde è il suo problema. Vorrebbe gli riconoscessi una cultura e una profondità che non ha. Vorrebbe che parlassi di libri letti e di ciò di cui si fa un orgoglio insincero; perché a parte  qualche sporadica lettura leggere lo annoia, ma dirglielo è inutile. Finirà col citare il solito libro, lo cita da sempre sottolineando la stessa particolarità, non del libro ma sua personale, il personaggio nel quale si riconosce. “L’hai letto poi L’arte della fuga di Pontiggia?” Non l’ho letto ma gli vengo incontro “In chi ti riconosci?” “E’ strano - intanto accenna a un riso, questo sta per “In quel libro ho scoperto una mia natura speciale” - non accade a nessuno, ma non mi vedo in chi cerca, ma in chi è fuggito. E non si troverà mai più. E’ un giallo senza esito. Chi fugge scompare ed è inutile la ricerca. Vittorio è rimasto piuttosto perplesso. E’ raro identificarsi in chi non c’è, non accade praticamente a nessuno” “Ti ha chiesto Vittorio se questo ti è accaduto durante la lettura o anche nello stesso finale?” (Nel finale la ricerca rimane un’indagine senza soluzione).  Vittorio gliel’ha sicuramente chiesto.. Un’ espressione seria “Anche nel finale”  Dimentica la domanda ha fretta di arrivare alle sue risposte, e ora la risposta è sempre la stessa. Non capisco una cosa: cerca un riconoscimento, ma di cosa e perché e perché proprio da me? Ha appoggiato intanto il gomito ad una mensola, come a voler proseguire una discussione di raro interesse.  tiene il casco nel braccio, e io senza volerlo guardo insistentemente il casco nella speranza che si decida ad andarsene. Nota la direzione del mio sguardo. “Guarda mi dispiace devo proprio andare” e sottolinea le parole spostando il casco nell’altro braccio. Vuole comunque credere nella mia sofferenza. L’idea della mia sofferenza gli è necessaria, forse cambierebbe il suo modo di raccontare questa storia, vuole una ricercatezza della memoria, qualcosa da esibire, un piumaggio ornamentale. Il suo dispiacere è il non avere parole per raccontarmi, ma non le trova in se stesso e io non ho da darne a lui. E poi che rottura, vuole sempre dimostrare qualcosa. E’ solo arrogante. Taglio corto “In effetti” “va be’, comunque” calca sul comunque, sottolinea con questo il suo andarsene altrove, un andarsene molto speciale. “Non scomparire però” non coglie la mia ironia buona, pensavo all’Arte della fuga, “Non ti riguarda” E’ strano come la sua   estroversione gli faccia dimenticare sempre l’ironia.  Da me in realtà vuole il sesso. Sono bella. Ma io no non ci voglio stare sono stufa e poi perché è finita. Forse perché il suo tono di voce  è sempre troppo alto ancora non conosce l’ironia. “Dove vai adesso?” “E  vado, non lo so dove vado, e non me lo chiedere sempre” è una domanda come un’altra e conosco già la risposta “Ok comunque adesso vai perché devo veramente preparami”. Lo accompagno alla porta, “ciao” “ciao”, sono intimidita, ogni volta che accompagno qualcuno alla porta mi intimidisco, mi sento poco ospitale, e mi sembra di lasciar andare gli ospiti senza aver dato loro molto. Quando si giunge ai convenevoli del saluto inizio a credere  di aver offerto una brutta ospitalità o di non aver saputo godere abbastanza della compagnia, e  appena chiudo il portone ho la sensazione macabra di tagliare fuori il mondo o di esserne tagliata fuori. Ne ricavo sempre una reale impressione di solitudine e vuoto. Mi accade sempre così.. Sono i momenti in cui mi sento un po’ abbandonata. La mia casa è molto strana, molto barocca, molto disordinata. E’ carica di oggetti, ha vetrate liberty, tappeti persiani, archi con colonne, soffitti molto alti con stucchi, librerie troppo cariche, collezioni di porcellane, e l’arredamento e la disposizione dei mobili ne fanno una casa d’antiquariato più che un convenzionale appartamento. Sarebbe necessario abituarsi a spolverare regolarmente gli oggetti, trovare un detersivo per i tappeti, migliorare le librerie e ordinarle, riempire sempre il frigorifero e tenere bibite in fresco, rinnovare la biancheria e acquistare qualche tovaglia nuova, ma si può sempre fare, basta decidersi.   Insomma scopro improvvisamente un elemento vanitoso, sta dicendo del suo potere nei confronti delle ragazze, di un potere di seduzione, e del sacrificio necessario. Non è diverso dall’altro, ma spero lo sia, perché con l’altro la noia è stata molta, e se veramente è me che vuole mi deve volere bene. Per questo difendo Pamina, il suo essere parimenti spirito contro ogni differenza che la vuole solo accanto e non partecipe come eroina altrettanto potente e carica di tensioni sensuali-spirituali di sostanziale medesima specie, solo donna nel modo più perfetto, recettiva sì, ma anche cielo non solo terra accoglienza, ma cielo simile al cielo di lui.  E’ una visione alta, eppure così espressa è in fondo troppo recitata da darmi una pena indicibile. Avverto il dolore, non il suo dolore, ma il dolore impossibile di una donna, qualcosa ha rovinato quella donna, quella giovane che implorava il ritorno. Vedo che parliamo veramente tutti in coro allegri gli altri divertiti, ma io mi smarrisco e alloro riporto tutto ad un ordine oggettivo “Comunque quello che mi ha lasciata si è preso una talmente brutta ma talmente brutta che mi chiedo come possa solo guardarla”. Lui Sorride di nuovo con giocosa ironia. Capisce che sono l’unica ad aver veramente compreso mentre gli altri si lasciano incatenare. Eppure questo è un laccio, sta legando la mia vita a sé forse, oppure è un gioco da ragazzi, oppure ha bisogno di provare il suo effetto su un uditorio attento, e vuole capire cosa è stato catturato da noi estremamente attenti. Non cerca in quel momento complimenti, scopre, e vi riesce, cosa cattura in noi l’ascolto di una musica letta attraverso doppie lenti, l’autore, Mozart, e un altro autore, che inscena uno spettacolo mostrando una conoscenza altissima e quasi ossessiva e al contempo una sua propria produzione di parole per la musica e per l’incanto di una trama tutta da raccontare come in una fiaba per adulti, iridescente come una lampada magica, mi sento vestita dell’iride delle sue adulazioni. Per questo mi chiedo: ma il mio Spirito così tempestoso come quello di Pamina, come può essere improvvisamente pacificato, e divenire  mite e mansueto.  A tutti mi sono ribellata, e non sono mai stata  quieta né  placida o imperturbabile.  A volte rabbiosa, a volte mansueta, ma mai quieta. Eppure è a Papaghena che si rivolge lo so, perché di Spirito lui ne ha in corpo già in eccesso, e ci vuole qualcuna o qualcosa che mitighi le sue smoderate passioni per i fatti dell’anima. Mi appare tutto come  un romanzo nel quale ogni soggetto che legge può trovare parti di sé, o tutto ciò che è depositato nella memoria, ma io in particolare scorgo stupidamente in me un vuoto. Parla di sé dopo essere stato oggetto di ammirazione stupita e parla di amori fuori dall’ordinario. C’è qualcosa di estremamente potente, il racconto di sé è forzato fino a diventare un modo della giovinezza e dell’arroganza. E’ uno strano omaggio alle donne, la potenza del loro amore sembra equivalere alla potenza del loro sacrificio. Sembra dare senso a tutto. Non ha perso nulla, il ricordo di sé è chiaro e netto e filtrato da una volontà sempre attuata. c’è in ciò che descrive un sogno coltivato in segreto, i miei pensieri nascosti, e le complicazioni di cui parla parlando di sé e insieme di ogni giovinezza mi rendono i miei sogni filtrati da letture ottocentesche. Sto rileggendo Alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio: mi incanta: «Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto fino ad ora» disse ad alta voce. «Ormai debbo essere vicina al centro della terra. Vediamo: sarebbero più di seimila chilometri di profondità, mi …»   «Voglio rileggere Viaggio al centro della terra. Deve essere divertente e dolce. Il cadere trasportati è così strano. «Chissà se attraverserò tutta la terra. Sarebbe divertente capitare fra la gente che cammina a testa in giù». I viaggi di Gulliver anche e i Lillipuziani. E The King of the Ring. Il titolo è così affascinanate.  Nella lotta si deve perdere l’anello? Perché. Che maleficio è nell’anello?». 12/12/97   Abbiamo fatto l’amore, nella sua casa tutta da amare. Ho poche parole. Solo voglio dire questo. Mi avvertivo “poca” lo voglio dire così, perfettamente insufficiente. Avevo acquistato della biancheria di pizzo e una camicia da notte rosa e una vestaglia di identica seta. Abbiamo atteso mentre la musica riempiva le mie orecchie, perdersi nella trenodia per le vittime di Hiroschima. Forse è la prima prova mi sono detta, e ho ascoltato con un libro in mano, Ho letto per intero Effi Briest. Poi finalmente una cena veloce, un po’ di prosciutto e mozzarella e mi sono preparata. Eravamo tutti e due timidi. Io so di essere poca cosa a letto e invece è accaduto qualcosa. Sono entrata tra le lenzuola e anche lui, ma mi attraversava immancabilmente il pensiero di tutti gli uomini che ho avuto e con i quali non ho goduto. Trattenevo lo sbadiglio, e mi sono avvicinata per il solito usuale abbraccio. Troppo annoiata, troppo già saputo, troppo imperfetto. Allora con un tono deciso forte ma calmo ha detto “Questo no” allontanando le mie braccia con un gesto rigido del suo braccio destro. “Questo è un gesto che hai ripetuto con tutti, non con me, con me non puoi mostrare la tua noia”. Allora mi sono impaurita il silenzio era vero corposo denso. Mi sono girata verso il muro e il suono della seta trascinata era amplificato e quasi era un chiasso di stoffa e corpo e morbide forme. Ero così girata pensando di dovermi addormentare e allora lui ha infilato un braccio sotto il mio a sentire i seni tra la seta rosa. Ha sospirato di un vero sospiro, strepitoso e sommesso. E io mi sono voltata e ero finalmente io solo io, senza le mie convenzionali braccia o i miei convenzionali seni e mani. Mi accarezzava e saliva la voglia di lui solo lui, e della sua potenza. “Vieni dentro ho pregato con una voce esile. Mi devi implorare ha risposto con ironia paterna, giusta, non con sarcasmo, ma con la dolce presenza di chi è di più perché mi ha tra le sue mani. E poi è entrato, ed è stato il mio lago. “E come immergersi in un lago ha detto alla fine”.       Lui è il mio Tamino e io sarò la sua Papaghena.     No virus found in this outgoing message. Checked by AVG. Version: 7.5.549 / Virus Database: 270.9.9/1809 - Release Date: 24/11/2008 9.03   1:24am 24 Feb. '13 remissione clochard Costruiamoci una scala per la luna “Costruiamoci una scala per la luna” Scrive un poeta su facebook. Ecco, è così, così è sognare. La luna,  raggiungere il sogno, l’argento di notte. Un lume di speranza, la luna e i suoi bagliori.  Un faro, un porto. Un sonno sereno con i raggi notturni, un miracolo improvviso, tra le persiane i bagliori, e nei brandelli di carne, nelle viscere, una sorella,  la luna, un sollievo dopo estenuanti profezie di calici frantumati. Sono una puttana, e l’anima se la sono fottuta tutta fino in fondo. Ormai il tempo è trascorso. Inizia l’analisi del Tempo. La vecchiaia è un mistero, insinuante dubbio sul Tutto,  scopre e scoperchia le ombre nella fissità estrema di una deposizione, si attorciglia nella suppurazione della pelle, nel sudore, nelle piastrelle del bagno, e  l’odore di cicche impregna la malattia. la caverna dell’ io è cervello, la maschera  un corredo  di abiti sportivi, jeans e giacconi e sciarpe. Un letto d’ospedale in un reparto psichiatrico. La vecchiaia di una puttana è un bagno caldo e profumato, è sentire di nuovo sulla pelle le emozione di un tempo, di quando era allegria, e i fiori si aprivano come ventagli.  Il volto livido la mattina, i capelli irsuti e tinti. Ricordo appena qualcosa degli anni trascorsi. Non la storia che si studia sui libri. Dei libri ho dimenticato tutto. Ricordi furtivi che ingannano il Tempo. E il delirio, paradossale, tragicamente sottratto al futuro, il Tempo è perso, si fa strada una scala che conduce alla luna. La morte e la fanciulla di Schubert.   Resta qualche vago ricordo appena percepito. Sono assorta, di notte, una ruota che non gira,  un penombra, presenze vaghe, le inferriate dell’anima, i ricordi senza emozioni. Un video. il Tutto, il Tempo, la Parola. La fuga e la circonferenza che chiude e rinserra. La pioggia e l’amore in uno scrigno e in un anello perduto, in un bicchiere affogo e annacquo il cervello. Ricordo un tempo nel quale tutto era più facile. Un tempo lontano, ero giovane e bella. Ma perché ricordare se la storia si dimentica. Il poeta parla di emozioni. Dove sono, nel cuore? O sono ripudiate, hanno perso la grazia della rugiada mattutina? Tempo per trascorrere il tempo, come pregando. Resto confusa. Gli amici si sono allontanati, sono sola e non cerco nulla. Scavalcare il tempo, il muro oltre la siepe. Depressa. Ma che significa depressa. Forse svitata, mi deridono  quando esco di casa e senza proferire parola prendo un caffè e una sigaretta al bar di fronte. Che caos la vita. Ti riducono alla fame. E se resti sola non hai risorse di sorta. Giocare sarebbe bello, ma con chi e come. La vastità del mare era un gioco da ragazzi. Un giorno lontano  era  così. Non solo così. La giovinezza era la voglia di scoprire il mondo. Il mondo erano gli altri, nemici e amici. L’inquietudine era tanta. Erano i fiori sbocciati. Un segreto dentro da sciogliere. E un usignolo nel cuore.  Chi sono o come sono, le domande ripetute, all’ombra dei glicini, e tra le limonaie, e l’orto ricco e fertile. I colori delle principesse. E quella timidezza bifronte, un momento le risa un momento il rossore, la voce stonata. La avvertivo fuori tono. Non c’era accordo. Ascoltavo nelle conchiglie il trasporto del mare. Ma sempre quella timidezza che non mi abbandonava mai, e mi ricacciava negli angoli, mentre emergere è essere come gli altri. E poi chi sono gli altri. Incomprensibili domande. La famiglia materna ha origini  patriarcali. Ma giunge doloroso il ricordo. Fare l’amore era la più disgraziata delle trasgressioni, il primo peccato, peccato mortale, prima del matrimonio non si deve. Ma  quando si trattava di crescere, il nido era protetto. Caldo. La vita era quella di un pulcino.   “Costruiamoci una scala per la luna”. La soluzione lontana. Presente, poche parole gigantesche.  Resterò a sognare e invecchierò senza luna, a morire dolcemente, vorrei l’anima leggera, come la spuma del mare. Ma il bacio assassino mi ha tradita, per sempre? Qualcosa manca. La parola, dolce poeta, non ho il verso. Non so perché ma non mi sento a posto. Non mi sento nei luoghi. La morte ha un luogo per esistere che non conosco.  Schegge di libertà la vita, ma ho le ossessioni, la morte nel ventre e nella voce, aspra come  un colpo di pistola. Un luogo esatto dove stare non ce l’ho. Una casa sì ma ci vivo appoggiata, oggi ci sono, domani forse neanche esisto più. Sepolta sarei terra. Non esistere non mi preoccupa. La vita come impegno è molto più complicata. E’ fredda la vita, l’affetto cos’è, forse immaginazione, forse è dove non esiste il nulla, e allora tocchi l’essenza ed è amore. Le emozioni si sono rarefatte, appiccicate al sempre sì della vita, al sissignore, è dovere non piacere, il mondo siete voi a voi la misericordia. Si danno molto da fare qua. Sanno le vittorie e le sconfitte. Io non conosco il discorso. Io resto a contemplare, ed è come se ascoltassi dissonanze, si sono fottuti la mia anima, e non ce l’ho più. Non è nel cuore, nelle labbra, non è l’abbraccio, né il mio cuscino o le lenzuola gualcite, non è tra le mani, o nel perimetro del mio corpo secco e aspro di fronte ai labirinti di specchi, o nell’insonnia, o nei versi che non ho. Sono suoni sbilenchi, senza melodia, i miei,  non parlo più perché avverto la mia eco. Tra gli spari.  Frasi, toni, e non capisco il senso. Ma sono tangibili come lame affilate. Ma perché tutti parlano così e sono tante voci, e io come puttana non ascolto e penso ad un fiore chiuso. Forse è l’onore perduto. Forse  sono io un po’ raccapricciante, forse malata, forse cattiva, e maligna. Cosa dico io se non bestemmie con la bocca impastata di sigarette e caffè. Vagabondo in questa provincia mentre le ore passano e il tempo non si riempie se non di apprensioni e di tensioni, eppure all’improvviso sorrido lieta e mi sembra di sentire una voce che mi intende, e mi dà forza, spensierata oltre il muro. Se tento di dire che il mio vuoto non è un vuoto psichiatrico non mi capiscono. E’ reale, non immaginato. È vero, quanto sono vere le mie spoglie, la mia oscurità, il mio destino comune, un oltre vuoto, la mia bestialità, il mostro è dentro, lo combatto, ma sfonda il petto, è asfissia,  non so il senso.  L’aborto. La bestia dentro. Lo voglio inventare il senso, non ho l’amore non lo provo, lo invento, provo tento, forse ci riesco forse no. Alla fine ho trovato la luna. E’ un’immagine. Un poeta che scrive “costruiamoci una scala per la luna”. Ed è stata luce. Un frammento tra le sbarre. Mi sentivo buia, nel buio doloroso di una bestialità mia fatta di stracci e pesi, fuori dal tempo e dallo spazio.  Stiamo a vedere. Accada quel che capita, sono parole, sono il perdono per i miei troppi delitti, per la mia coscienza esangue, che ha spazzato via tutto, per il freddo che mi rabbrividisce e mi lega alla bottiglia, al vino rosso che scalda, e non penso, così mi gira la testa e non devo chiedermi niente, e fluiscono le parole, che non diventano chiodi ma musica e caciara.   Il sacrificio ogni giorno senza un frutto non mi va giù, non mi serve affannarmi tanto. Che ne è del mio seno, del battito, della rima che non ho, dell’ago e del cuore trafitto. Pallida la luna ascolta la preghiera. Io comunque sorda e muta evito i molti giudizi e sono colpi di frusta,  non li capisco. A volte sono sciocchezze e credo che loro non abbiano capito il sentimento. In breve non dicono nulla, e molto è il vuoto, sempre la stessa monodia, un ritmo e gesti identici. Questo vuoto, comunque, stranamente, ha un peso. Anche pazzesco a volte. Se hai un lavoro te lo tolgono senza motivo, e trasporti il tuo misero corpo altrove, per una minestra calda la sera. L’ultima sigaretta non si rifiuta neanche al condannato a morte. Qualcuno pensa ai libri che ho letto. Spiego sempre che è niente, uno scivolare,  e neanche li ricordo. Ho perso la memoria lavorando. So cucinare qualche dolce questo sì, ma non so se possono piacere. E so lavorare all’uncinetto. E poi è sempre tempo perso, è l’inverno della mia vita, questo caos di emozioni non diventa cosmo. Mi piace rivedere i film su youtube e poi metterli su fb. Mi piace stare in silenzio, non parlare mai, non dire nulla, e non me ne importa niente delle ultime battute su tasse e pifferi. Mi piace la letteratura al femminile. Le eroine sconfitte mi prefigurano da sempre la mia sconfitta. Il cazzo è un organo come un altro tutto qua. Cazzo fica buco di culo…insomma che c’è di male. Cuore fegato cervello sesso. Non mi stupisce, né mi incanta. La luna  si specchia. Note a Urlo di Ginsberg Mi piacciono a volte le stagioni. Le avverto carnali. Sono nella pelle e nelle ossa. Ritornano. Sono vive, più di me, che non so che vivo a fare dal momento che non mi diverto, e mi sembra un inganno, un secolo troppo distante il mio, lo ricordo da sola, e comunque non serve, non piace a nessuno. C’è da trascorrere l’inverno. E’ inferno nei miei capelli, nel cervello. Troppo complicato e annebbiato. La parola mi intimidisce, è aborto, sangue, pietra. Ma il poeta ha parole che sono il cielo e mi fanno respirare, trasforma la mia balbuzie in melodia.  D’altronde parlare è un’arte che non possiedo. L’abile oratoria non fa per me.  Un’ossatura che non ho. L’arte è l’atto dell’artista, non conosco gli artisti ma sono elezioni. La luna, e una scala. Lo dice un poeta. E allora aspetto la luna, e mi ritorna in mente il “Poema dei lunatici”. Comunque.  Non la ricordo la luna. Ho  rivisto una scena straordinaria, senza parole, da Nostalghia di Tarkovkij.  La neve, un uomo seduto in una sorta di arena vuota con   arcate aperte, la solitudine, si siede a terra, aspetta, il silenzio ovattato, il vuoto,  nevica, grandi fiocchi. Il mio deposito è una soffitta anzi un soppalco soffitta. Lì vivo le notti e i giorni come una reclusa. Ne esco per un’altra reclusione. Volevo abbandonare i miei dati anagrafici. E ora lavoro sola, in una polverosa biblioteca. E ora proprio in biblioteca sono. Mi vado a fumare una sigaretta. La mia insegnante di liceo al biennio mi diede da leggere “Il fu mattia Pascal”. Non so perché questa scelta. Mi è rimasta impressa, e quando ho voluto dimenticare, e soprattutto farmi dimenticare, mi sono rimossa così. Togliermi. Sono non essere, femmina malata, perché dovrei avere un peso, non avrebbe senso.  Per i cristiani avrei un’anima, io non ci credo, nel bene e nel male. Del male pago le conseguenze, comunque ho una coscienza che si è fatta da sé, nel tempo. La coscienza ha trovato il vuoto, dopo una strada senza uscita. Tutti chiacchieravano a non finire e io sbagliavo. Da sempre trovo inutili le parole.  Le mie intendo. Richiamano i morti, preferisco le lanterne, e i vecchi busti delle signore in carrozza. Quando ero piccola ero cattiva, lo dicono tutti.  E ora non lo so più. Indifferente. Acqua e sabbia. Pietra rosa.  A volte la rabbia mi prende e si confonde con la noia.   E’ ovvio che se il senso non è l’anima, e non è il denaro, che non c’è, il senso si sposta da qualche altra parte, ma quale esattamente ancora non mi è dato saperlo. Comunque non soffro. Vivo semplicemente, come un riccio. Uno bravo mi ha spiegato così la vita, il senso; “Fare” ha esclamato con enfasi, per dire è solo questo. Non sapendo cosa rispondere ho detto “abitare”, anche perché non ho niente da fare e non voglio fare niente. Il lavoro non mi piaceva, fino a quando non ho travato tra questi libri la solitudine. La sinistra parla di impegno, in teoria si impegnano, poi un caffè non te lo offre nessuno. Tanto meno una sigaretta. Le sigarette costano, e in fondo mi piace solo leggiucchiare e fumare e ascoltare musica e vedere i miei vecchi film, per i quali ero già troppo sbagliata, sbagliata per la mia famiglia, era peccato e non dovevo, e poco trasgressiva, o comunque sempre sbagliata, anche per la sinistra, ero poco ciarliera e poco rivoluzionaria. E poco figlia, mi ero perduta come una Capinera. Avevo un fidanzato che si definiva molto di sinistra e “un bravissimo campeggiatore” e intanto io ero comunque fuori luogo. In realtà era il figlio della mia insegnante. Un abbaglio, un’ingenuità. Dava del tu alla mia insegnante e c’era il comunicato stampa e il ciclostile. Mi sono chiesta che mondo è, io non lo conosco. Per questa scoperta ho trascinato una storia di quattro anni, piuttosto antipatica. Non mi piaceva quel mondo, non mi piaceva nessuna realtà. Io volevo restare da parte, gli uomini non li so se non come promesse mai mantenute, le amiche parlavano d’amore e mi soffocavano, mi rabbuiavo. In realtà sceglievo i libri, i romanzi, non le persone. Sceglievo i film, il sentimento estetico, non gli altri. Sceglievo la musica. E’ senza luogo ogni luogo, tranne nella pagina scritta, o in una bella immagine, o in uno spartito. Torno a leggere “Gabriella Garofano e cannella”. Sto bene, sta per nevicare, ma sento un tepore dentro. Forse le memorie scaldano. Visto che vivo alla giornata, senza darmi significati ultramondani o complessi, scrivo, scribacchio, per non chiudere gli occhi. E mentre scrivo di dolore immagino il paese delle meraviglie. Tengo gli occhi aperti sul video, le mani sulla tastiera. La terra e la gente. Ecco è questo. E’ vero, è vera la terra è vera la gente. E dopo  racconto dei fiori e dei mandorli in fiore,  arriverà la primavera.  Non è complicata la vita, basta abituarsi al niente. Una storia. Una rosa. Senza troppa fatica si vive. O per lo meno si sopravvive. Uno psichiatra ha detto che il mio destino è il suicidio, e dovrei correre ai ripari con rimedi vari. Io penso il velo di Maja, basta non volere niente, per non chiedere niente, neanche il suicidio che è il grido estremo.  Ascolto Pierangelo Bertoli. Dolore e arte, Sublime. Magari lo psichiatra mi aveva traumatizzata, parlava frenetico, anche abile d’accordo, ma parlava di bisturi, e necessarie lobotomizzazioni. Molto veloce nel discorso, forse capace. Sta di fatto che capivo o percepivo solo il sadismo dei medici. Sono fuggita e mi sono sfogata con un amico. A volte, non so perché, se l’ascolto non è musicale, impazzisco. Non amo le parole, saranno anche giuste, ma non sono quelle dei libri. Non è arte. Al limite eloquio, velocità, o battute, ma il sarcasmo non mi piace più. Neanche l’ironia. Preferisco le tele strappate. Io mi organizzo le parole meccanicamente. Non mi ascolta nessuno comunque. E quindi per evitare di diventare troppo cattiva, sono diventata un riccio. E non rido mai né piango. Semplicemente mi alzo la mattina, un po’ sfatta, ho incubi, e mi immergo nella vasca. Poi senza dire una parola vado fuori con la mia cagnolina. Con lei parlo tanto. Anche nella soffitta, e lei ascolta e si emoziona e mi riempie di baci. In realtà mi educa lei, e se potessi ricominciare la vita la dedicherei agli animali. Gli uomini mi sfiniscono, le donne altrettanto.   Io mi trovavo in difficoltà con i soldi. Quindi dovevo un po’ starci, come sempre, è un farci non un esserci. Mi serve, ma non ne ho mai ricavato niente. La mia generosità è stata sempre strumentalizzata. Non so se è generosità o azzardo, ma io ci vedo proprio la mia noia. Il denaro mi annoia, come mi annoia un uomo o un orizzonte. La mia soffitta è calda accogliente. Lì sono sola, senza questo tutti che mi assilla. Comunque non ero in soffitta. Avevo acquistato una casa in una zona della città un po’ complicata e il prezzo è comunque altissimo. Il mutuo è alto. Poi mi ero trovata senza soldi. E io vivo di caffè e sigarette. E così ho steso la mano e ho trovato una sigaretta e un caffè. Un’estate torrida. Ero su una panchina, chiedevo qualcosa, una sigaretta a chi passava. Lui si è seduto e mi ha detto “Come ti chiami?” e ho risposto.  “Ce l’hai una sigaretta?” ho chiesto, e poi “Tu che hai fatto?” “Trent’anni di galera, rapina a mano armata, c’è scappato il morto” “Me lo offri un caffè” “Sì vieni abito qui”. Poi gli ho dato una camera dell’appartamento mio, e lui cucinava e mi offriva sigarette. Ho parlato con i servizi sociali e poi gli ho trovato un appartamento. Gli amici non mi hanno mai dato nulla. Niente di niente. E tanto meno gli uomini. Gli uomini proprio mi hanno ridotta in miseria. I  cattolici qualche predica del tipo “date da mangiare agli assetati, date da bere agli affamati”. E io che ho fame no,  perché a me niente, non lo riesco a capire. Molte prediche, in concreto il vuoto. Una valanga di chiacchiere che mi fanno dormire. Solo i nonni davano tutto, a tutti. E anch’io avevo la tavola migliore e un’ochetta da allevare. E’ il tempo. E’ così. E’ il destino. Io ho come destino il furto. Come se mi bevessero tutto il sangue che ho in corpo. Forse se avessi il dono cambierei. E ci sono i furti d’anima, strappano la pelle. Mentre chiedevo l’elemosina andavo al cim dagli stessi psichiatri che hanno il privato. Ho sempre pagato analisti per un niente di fatto. Mi assaliva una grande paura, a volte ritorna anche oggi, ma finalmente dopo vent’anni ho trovato la cura. Ma questo è successo dopo. Al cim mi avevano dato un farmaco, senza controllo, che mi aveva resa obesa. Io sono magrissima. La fiducia non va accordata ai  medici dell’anima, prendo ora solo una pasticchina d’en, e a parte una maschera  nella follia di cui mi travesto, per non farmi fottere l’anima sempre, o per vaneggiare di mirto maggiorana fiori d’arancio,  sono stati trent’anni di imbrogli, e comunque  lo ribadisco sono pazza e quindi non c’è niente da chiedere. Solo  un passaggio su questa terra con la mente che gioca con gli equivoci, e in un sudario di insulti. Poi i soldi sono comunque loro, degli analisti, mai miei. Io ho la pazzia, e l’anima, e una bestia dentro, e neanche vado in chiesa, mi drogo mi faccio canne frequento i peggiori. Ma non è vero. Io non mi drogo, sogno con i libri e la musica. Ma ora le pareti sono dure, si è frantumata la mia grammatica. L’ossessione della voce e del ventre, secco, aspro. Magari tento di dire agli psichiatri che la vita me la sono fatta con gli amici, non con i loro vaniloqui, piuttosto costosi. Ma d’altronde a mia insaputa cado dalla padella nella brace. Gli uomini col cazzo bene in vista per scopate eccellenti. Sono le loro, io gemo come una gallina in fuga, però ci credono un sacco e magari gli piaccio parecchio. A volte azzardo un “sarei frigida, potresti aiutarmi?” ma è un niente di fatto, non comprendono o non vogliono comprendere. Troppo faticoso, un’anima vuota e comunque frigida. L’anima vuota si sfoga nel sesso. Io no. E’ il mio modo di rivalutare tutto è tutti. Per lo meno sentite il vostro corpo, sangue e angue. Avete le abilità, la cura, i sacrifici. Io ho una soffitta, me stessa e una cagnolina. Si vive anche così in fondo. Manca il senso, i libri nel tempo li dimentichi, non sono un’eroina.   Con cure migliori sarei realizzata. Oggi posso vivere o morire senza cambiare nulla. Non se ne accorgerebbe nessuno. Al limite ho il passo lieve. Sono nata e muoio senza frutti né altro. Io, sola, vivo per niente. Quel niente che non è attesa, non mi aspetto nulla. Tutto è sempre uguale. Nella mia vita. Nessuno dovrebbe ricordarmi, anche se sono generosa, nessuno mi ha avuta veramente. E credo onestamente di non aver lasciato ricordi. Ma allora perché scrivo, anche questo mi chiedo. Se scrivo è perché cerco uno spazio nel tempo. E’ il mio inverno, vorrei trovare il senso. Nell’assenza il dolore si avverte.  Attendo, e questa sofferenza è il mio mostro che mi guarda sempre e scopre ogni velo. Scopro la vita, la dissotterro, poi trovo un fiore, e penso che se fossi un albero sarei serena. Avrei i miei fiori, i miei frutti, i miei secoli le radici. Senza storia non si trasforma il nero in bianco. Il nero è un colore che amo, ma il bianco mi dipinge, la sposa, ma ora non ci sto più, ora basta. Mi accontento di un fondo tinta e di un rossetto. I farmaci mi hanno sfigurata. Sono dimagrita ora, sono tornata come prima, qualche chilo in più semplicemente. Ora torno a casa e mangio la minestra. Il piatto. La cucina. Un ordine che non c’è mai stato. E naufrago nei ricordi, la tela annerita e frantumata, graffiata. Vorrei credere nel senso. Dio il destino qualcosa. Credere è necessario. Tranne a sapersi divertire molto. L’io. Io mi diverto. Io mi annoio. Oppure l’ascesi. Oppure io naufrago, e io riemergo. L’inferno.  Una terra distrutta,  un incubo spoglio, mi risveglio al nuovo giorno,  impietrita, tumefatta dopo il grigiore di notti allucinate nel baratro del mio inconscio, da sempre così, un tumulo senza luce, appena qualche chiazza di colore  che porto dentro, nelle rughe, i ricordi, e un essere qualunque, figlia di nessuno, semplicemente una donna con la luna storta. Ecco un luogo: Sembra tutto molto esplicito per la particolare disposizione del luogo, una stazione di provincia,  e la folla mostra all’apparenza caratteri chiari, stampati su fondali di cemento. D’accordo qualcosa è cambiato. Intorno alla scuola, nel perimetro che la circoscrive le saracinesche sono chiuse, le vetrine vuote, a parte una tabaccheria, il bar della stazione e qualche self service, e nell’insieme l’impressione di un vuoto o di uno svuotamento non è artificiosa ma reale,  i motivi si perdono in meandri troppo complessi, ma ad occhio nudo la miseria è lampante. La miseria di chi chiede l’elemosina e il risultato è  questo, un’interminabile serie di prospettive senza attrattiva all’interno di varchi vuoti. Escono i ragazzi da scuola, scomposti, entrano nella pizzeria d’angolo per una sosta prima di ritornare a scuola per l’autogestione. Intorno è un labirinto di case e di vite a porte chiuse. La sera dalle finestre affacciano rettangoli di luce, ma molti restano nell’androne della stazione nonostante la pioggia incessante e il freddo. Una chiesa di lato alla scuola, nascosta,  poco visibile a chi non ne conoscesse l’esistenza, comprende un piccolo giardino molto curato e pulito, in realtà l’unico luogo geometricamente curato in quella macchia fittissima di casermoni fuori dal centro storico, e che del centro hanno solo l’apparenza di una serie interminabile di labirintici agglomerati, in una sorta di gioco a nascondino. Per la polizia e i carabinieri la zona è realmente a rischio ed è necessario un controllo, comunque è ipocrisia, se si guarda al tasso di povertà registrato negli ultimi anni in tutta la provincia. Ma è un disordine al quale ci si è arresi da tempo, del quale si entra a far parte all’inizio con un istinto ribelle, poi lo spirito diventa sempre più arrendevole anche se rimane la delusione, visibile e palpabile, e una città in distruzione. E’ troppo difficile ed è come se di colpo il sentimento di un oltraggio rendesse inutile qualsiasi domanda, ti chiedi solo chi abita in questa casa o in quell’altra e perché ogni ordine diventa trascurabile, e inopportuno.   Benedetta è in biblioteca con un berretto di piume calcato sul capo e una stufetta per un po’ di calore. In quella scuola è bibliotecaria, un ufficio come un altro, solo può fumare una sigaretta ogni tanto prima di tornare a casa nel condominio di un palazzo centrale, al primo piano di una palazzina liberty, dopo che svogliatamente nella biblioteca  ha ascoltato le richieste, risposto educatamente, registrato prestiti e restituzioni, in un antro polveroso fittissimo e carico di libri, tracce di una documentazione durata un secolo, volumi importanti mai letti. Prima di entrare ha bisogno di un momento per riflettere e per capire che le colleghe la osservano con poca amabilità, e solo Sara protegge la sua infelicità da sguardi indiscreti, la collega  non la ferisce mai, è impegnata, e Benedetta può restare silenziosa e immobile alla scrivania, così magari legge un giallo e dice solo che sono tutti d’accordo e tutto va bene. Ogni tanto Giulio dalla bidelleria passa in biblioteca per un saluto, anche lui con abiti d’occasione, visto il tempo che tira, miseria e scarpe vecchie, ma  Giulio comunque ride e concede battute e fa sorridere, fino a saldare, anche se per poco, i pezzi di un puzzle scomposto. Ricompone i dettagli di un  vuoto che Benedetta si è costruita tra le sbarre di quello sgabuzzino carico di libri, in un silenzio distaccato.   Benedetta era delusa. Ogni fede riposta era stata un insuccesso. Vedeva il vuoto, voleva dire qualcosa ogni tanto, ma non riusciva. Magari provare a spiegare, spiegare i sogni di bambina e poi le cose rimaste, un grumo povero, restavano le stagioni con i contorni sempre identici, la pioggia incessante e una vecchia signora senza arie né abiti adeguati. Qualche roba vecchia e una finestra che dalla camera  di una casa accogliente affacciava sul pendio di un piccolo giardino pubblico, e al rientro la sera poteva osservare il buio dai vetri appannati, e mentre pensava e contemplava l’esterno sdraiata nel letto sotto il piumone caldo, rifletteva su tutto, e tutto si era fatto cosa, cosa e ingiurie, anche se lei lasciava correre e non voleva discutere e non amava chiedere, non voleva parlare. Una biblioteca è migliore rispetto alle urla di presidi e vicepresidi frastornanti. In fondo non era male, la scuola era la migliore in assoluto, nessuno urlava e almeno lì non esercitavano il potere ipocrita e indiscreto nei confronti di una nessuno aggrappata allo stipendio, che serve per mangiare. Com’è futile il potere. Mettevano in ridicolo la sua solitudine, mogli irreprensibili in una provincia irreprensibile fatta di celebratissimi personaggi, eppure i quotidiani parlavano di povertà e in fondo molti recriminavano, oppure gli abiti eleganti  nascondevano le sconfitte  e gli stati depressivi. Per molti la forma era una sostanza, e la sostanza era denaro, altri come Benedetta avevano accantonato gli orgogli per non sperare più e non restare amareggiati, altri, molti, stendevano la mano e forse mancava anche un tetto, e comunque gli inverni erano troppo rigidi. Pioveva a dirotto, continuamente, dopo un’estate talmente torrida da togliere il respiro. Il senso di vuoto, ancora, nonostante tutto, lasciava spazio all’attesa, ma l’attesa impegnava, a volte ripugnava, svuotava d’energia, e voltarsi indietro era impossibile. La pienezza ormai era un’illusione perduta, nei rimpianti si dilatava l’esistenza,  le recriminazioni interiori erano la bestia dentro da placare.    C’è un momento in cui bisogna rendere conto a se stessi della propria intera esistenza. Non esistono più anticipazioni, esiste una sola possibilità, una disposizione ad arrendersi al destino già dispiegato, e il caso e la volontà hanno ormai stabilito. Una volontà sbadata, il caso poi va da sé, per un pezzo la vita sembra che la giochi come in una scacchiera, poi tutto cambia. La volontà si fa ridicola, ha sbagliato e non tornano i conti, e il caso ha piegato le faccende dell’intera vita, che si dimentica tutta insieme, tanto il futuro non cambia, il passato annoia, i ricordi potrebbero farsi morbosi. Meglio pensare a un piatto caldo al rientro a casa, serve il sapore e un nido, come serve credere in quegli abiti preziosi confezionati a scuola o nei ricami raffinatissimi, o nei dipinti di artisti su tele  colorate. I colori del mare che non c’è, di arcobaleni perduti, di case lontane, lavori di pazienza e tecnica magistrale. Placano l’umore, e nel lavoro eserciti la metodica successione senza scarti o salti, che alterano la personalità. All’uscita da scuola la sera prende l’autobus. Il traffico è intenso, clacson e motori sulla strada in salita verso il centro. La quiete del ritorno pacifica. E finalmente cessa la battaglia, il miracolo di una casa di una tavola. La resistenza è un po’ questo, un campo di battaglia e una collina fatta di pietra. Cadere disarmati è facile  restare feriti e arrendersi, basta una parola di troppo, e la ferita si strappa. Una battaglia, una collina, il silenzio. L’omertà. I passi spingono attraverso il buio, la resistenza è ogni giorno ogni attimo, sfuggire ad un inseguimento con un vecchio armamentario, la ribellione è finita, le speranze rastrellate, è remissione, ma con una luna amica. Il nostro cielo. Di lunatici extraterrestri. 1:11am 24 Feb. '13 caseyweldon: ‘Chewie’ for my show ‘Lose+Find’ opening next weekend at Trifecta Gallery in Las Vegas. 1:05am 21438 notes via: caseyweldon 24 Feb. '13 il teologo e ipazia   Il Teologo e Ipazia     Il paradiso è del cuore, il paradiso è nei piedi nei gomiti nella gola tua di cigno, nelle cosce tornite, nelle mani nervose. Il paradiso deve essere qualcosa con corpo verderosso, il colore del cuore. Questo è inferno – se ne voleva andare. Ha la bellezza nella quale io mi brucio come legna da fuoco e lei se ne voleva andare. Pensati brutta, le dicevo, ciò che non ti ha ucciso ti ha fatto più forte, ma sai perche -    perché non ti senti te stessa, non sai il tuo fascino e   questo esalta il tuo candore e ti fa bella.. E’ iniziata con un invito e un dono. Sono entrato nella sua casa settecentesca già affetto da lei. Avevo acquistato Otello nella versione video in bianco e nero di Orson Wells. Eravamo timidi e beati della nostra stessa timidezza, di quella beatitudine e grazia vorrei vivere in eterno. Volevo dirlo con un omaggio, un omaggio coraggioso  « ti rendi conto si di cosa significa chiedersi  -chi è, di  lei, e d’improvviso, come avendo mutato improvvisamente la sua carne nel suo spirito  - e Desdemona, adesso perdonami – devo dirlo è idiota, Jago ha ragione  Desdemoa cita Cassio con la noia di citarlo troppo veramente troppo. Jago ha ragione, e ha ragione il padre di Desdemona – Desdemona ha tradito suo padre tradirà anche Otello».  E te  naturalmente rispondevi messa in un angolo già dalle mie parole – impossibile non commentare un oggetto se è un dono, è un dono di parole che richiede infinite parole per essere detto -«Desdemona, non è poi così stupida »- e parlavi di amicizia uomo donna. «È possibile  io ne ho molte di queste amicizie», è come aver già citato Cassio ti ho risposto. Ti lusingavo e non te ne accorgevi. Ti rendevo volgare per non darti scampo, il tono duro e severo del mio discorso la mia austera e immobile figura, parca di parole, solo quelle essenziali o quintessenziali ti davano la misura dell’angolo in cui eri – non potevi che difendere Desdemona o cadere nell’impiccio, rispondevi intorpidita curvando ogni volta per dire no alla morte, al delitto, anche se ti acceca la passione. Ti toglievo la risposta, perché Shakespeare è incontestabile come Dio, e non ti accorgevi però che a offuscarti era la mia atroce sferica serietà, compatta come la risultante di una traiettoria secondo le mie leggi, che producevo ogni volta in abbondanza senza mai deviare, fasciandoti i sensi per ottenebrarti di stupore.   Il sangue ti cola stella da qui, da questo piccolo foro nella tua testolina e riluce di fiamma come la materia che è dentro, la quintessenza impareggiabile, il sapore sulle mie mani è finalmente il sapore dei tuoi pensieri fuori da quella scatola  chiusa che non volevi  sventrare,  la tua inalienata proprietà  delle cui  violente note facevi impareggiabile dono volgendo altrove i tuoi pensieri, senza misericordia per me  che ti carezzavo - parlandoti con la pacatezza, come  leccio solitario dei miei orrori, stella, delle mie brame, tu la regina del mio reame proprio tu non hai coscienza della tua e mia dannazione. La mia dannazione. Dio la musica e i poeti, e l’amore. L’armonia nasce da cose prima discordi, l’acuto e il grave, poi rese concordi dall’arte della musica, Platone stella, e il  Simposio. Hai una laurea in filosofia ma dimentichi tutto, e poi ti stupisci della potenza della mia memoria. Io, solo io, volevo essere un poeta, un Dio, tu il mio rapsodo, e da  poeta parlavo per enigmi, posseduto dal dio che mi possiede, dio o demone ma della discordia, poeta sfatto e rovinoso, e allora tu la mia Sfinge rapsodica trovavi ovunque il recitato, e riconoscevi, acuta interprete nell’ascolto che ti faceva tremare, - giunco mosso dalla tempesta - lo stridore rorido dell’armonia e del ritmo del mio maniaco doppio vaticinare. Ti chiedevo il tuo sangue e rispondevi con i tuoi baci.   La tua dannazione stellina, è tutta femminile - I tuoi errori avevano un valore, non logico lo ammetto, ma ti era possibile amare la vita per una tua sensazione traboccante di vitale illusione nella quale l’abbandono ti era necessario, dall’assenza ricevevi l’essenza, l’ondeggiante tua natura.   Scrissi un giorno - difetta d’anima-. Reagì come volevo che reagisse con rabbia palpabile, una rabbia spessa, in quel momento la scolpivo ne ero l’artefice con mani esperte. Le sue   labbra disegnavano un ricamo intorno ai dentini d’avorio e gli occhi le si abbellivano di un incosciente civetteria. Sapeva scendere dentro le sue estreme profonde ragioni  camminando come  strega nei boschi tra le immagini superbe delle sue intricate architetture interiori.    Sono stato  me stesso,  volevo  lei proprio lei, intrisa come spugna delle sue risa impraticabili quanto le lacrime,  repentine, lacrime dolci-salate come foglie bagnate d’autunno e tiepide, del calore del sorriso non spento come limpida fonte, degli occhi che le si facevano deriva e illanguidivano senza approdo, non sapevo, era acqua lei stessa sempre in mare sempre con i seni abbronzati grandi nel corpo magro, e  le rimproveravo i sorrisi per gli altri e quei seni esibiti, ma ero debole come un prigioniero che attraversandola tratteneva il mondo, ispirando il suo profumo di mare di spuma.    Lei si difendeva -«Alessandro dice che mi spegni la dote, ognuna ha una dote e io ho il sorriso -  sai lui mi descrive come una strana figura naif, e te invece mi dipingi nei tuoi scritti così come non sono, senza anima e solo civetta» - e io  allora ho dipinto il tuo sorriso, poi ho toccato con il medio il tuo dentino storto e ho risposto - Se ti fai un orgoglio del tuo dolore e perché ti esalta. Alla sofferenza chiedi di esaltarti.  Se fossi brutta la tua vita dimostrerebbe  qualcos’altro. Ricorda Nietzsche, la donna impara a odiare nella misura in cui disimpara ad affascinare. Frena la tua lingua, e fa’ che Alessandro non sia Cassio.   E’ freddo si annuncia l’inverno Mi battono le tempie l’ora si fa piccola l’ora non passa, il tempo è come il filo di un Arianna  spezzato dalle mie mostruose mani che cingono di filo spinato. Il tempo mi avrebbe reso i segreti delle sue amorevoli afflizioni ma ho voluto  uccidere il suo e il mio tempo, e il filo si è avvolto di spine  Le ho rivelato qualcosa, ma che avrà capito di me, nulla come volevo.   «Ma sei vile mi ha detto e l’amore è coraggio, e tu odi la mia povertà e la mia fatica - lei l’altra sarà sicuramente giovane e ricca ti offre di più lo so, un terreno coltivato d’oro- io ho da offrirti il letto e il mio corpo e questa casa divorata d’anticaglie e una conversazione che  langue perchè sgomento al suono delle tue parole »- era dura e petrosa ma fiammeggiante - io indifferente per accenderla sempre di più come scintilla di pietra sfregata a pietra -  ho risposto per non fermarla e lacerare le redini a cui si impigliavano le sue parole – sì ma farmi una puttana costerebbe e farmi te non costa - ho appoggiato il gomito allo stipite di legno dell’armadio in cucina mentre con gesti lenti misurati ma con una sorta di zoppicante andatura preparava qualcosa da offrirmi. So che avrebbe potuto rispondermi – sai chi ho lasciato per te, lì avevo la mia sicurezza e l’amore -ma il silenzio l’ha spezzata, l’avevo finita attraverso il silenzio ed era sempre più impaurita come a precipizio - continuavo io a vincerla con gusto sadico - perchè la volevo solo per me in quel momento solo con me attraverso le sue lacrime e l’anima esplosa -e la solitudine da darle la disperazione che toglie forza ai nervi e riduce all’afasia – alla perdita involontaria della risposta, perché non ne fosse mai fiera -volevo sentire da lei le mie stesse parole di carta che cadendo nel sogno d’assoluto faccio più mie della mia spaventosa ombra - solo smozzicate le volevo, sentirle dire  alla fine - perdonami - per la vittoria di una sorda gelosia, per il sacro sì dei singhiozzi inarrestabili. Non volevo sopportarla così con le sue maledette vendette e farne un rogo era inevitabile, perché é l’altra quella che sposo ha la giovinezza in corpo mentre lei ha trentatre anni compiuti, e lo spirito non è libero dopo ma prima    Ha anche gli occhi molesti, hanno qualcosa ancora di vivido, c’è quella tenacia dello sguardo fisso sui miei occhi che me la faceva già allora odiare.   Vieni stellina ti prendo, hai il sangue nei capelli una striscia qui che ti bagna di rosso asprigno, oggi i tuoi capelli sono del colore dell’uva dolce amari e assassini, me lo ricordo sai il sapore dei tuoi capelli sul cuscino – hai lo strano fascino dell’anima nei capelli.   Ti prendo ma pesi  tieni le gambe giù a peso morto e le braccia penzoloni, le pantofole, ne hai persa una ti tolgo anche l’altra belli i tuoi piedini, ti potrei estrapolare l’anima attraverso i capelli e i piedini. Ora facciamo un bagno e ti spiego tutto come volevi così riuscirai a capire chi sono, ti logoravi stellina mia – e io te lo dicevo te lo ripetevo,  non puoi così, così non vivi, e tu rispondevi col sorriso, ora fai la smorfia di quando sei depressa, hai la depressione, e le ginocchia viola – perché hai le ginocchia viola? Dio pesi ti metto nella vasca piano così, tira su la testa per dio che apro l’acqua, - ti ricordi o hai già dimenticato cosa dicevi dell’acqua te lo ripeto ora – Già torna a scuotermi eros dolceamara indomabile oscura belva, perché sempre ti facevi il bagno prima di fare l’amore, fare l’amore, ti volevi spoglia e pulita come il marmo per scioglierti dopo la  frescura.   Saffo, la tua poetessa, perché l’amore ti incanta e poche righe dicevi sono tutto, anche all’altro lo dicevi ma se ti azzardi a ripeterlo sai cosa faccio con le mie mani - come quando ti sei alzata di scatto dal letto, come potevi tesoro discutere la mia preparazione lo sai che sono un Teologo e un poeta e tu ti sei messa a citare Jazz e a criticare la mia preparazione classica e hai anche aggiunto che le mie due lauree hanno il difetto di essere due, teologia non ti garba stella e ti sei messa a citare l’Anticristo e qualcosa sulla nuova scepsi gnoseologica e ti ho dovuto dimostrare stella che offendere la mia mente è la peggior bestemmia che potesse uscire dalla tua dolcissima lingua e allora ti ho preso e ti ho fatto sentire le mie mani forti, sai come sanno legiferare – si ma  perdio la testa tienila dritta però, sennò mi dai sui nervi, non ti mostri attenta, sembri una clessidra svuotata, l’orologio molle - La testa ti va da una parte e dall’altra - e poi ricordi stella - ti ho spiegato che dovevo farlo perché stavi uscendo dal cerchio  - che cerchio? – hai chiesto spegnendo le lacrime  in un arresto stupito- e ti ho fatto capire quanto entrano nei tuoi incubi i tuoi dissapori.     Aspettavi a casa nascosta agli occhi indiscreti dell’altra. Mi ingegnavo a fatica per convincerti della necessità di aspettare, si tratta di lavoro, riguarda anche te, il nostro futuro insieme.   Perché sai non sapevo cosa avesse realmente da offrirmi, ora ho un posto  accanto a lei e la stima del mondo  nel quale scusami non puoi entrare - ma ti ho spiegato mille volte di lasciarmi fare, sì d’accordo, ti ho inventato solo qualche piccola bugia, spostamenti di letto o di luoghi o di persone, ma quanta della mia anima è entrata in te stella? E questo non ti basta?.lo dici sempre prima di fare il bagno e sguazzarti con i chili di schiuma perché profumarti ti piace, ne abbiamo una collezione qui di profumi, tutti tuoi, e costosi – lo dici sempre l’acqua mi va alla testa  e penso buoni pensieri asciugarmi e fare l’amore con te. Cos’altro volevi?   Ma ti voglio intonare l’Inno a Cristo- le mie parole ti incantano lo so- «sei un Dio con una vita che mi divora» – l’hai detto ricordi ? - e ora ascolta è per te è un omaggio al saccheggio che hai fatto dei  miei doni - le parole che ho avuto per te – ma per gettarmi fango addosso dopo e dirmi – è saccheggio di libri – sciocca aneddotica – tu volevi altro non solo me, me e denaro e  per ognuna le parole sono le stesse le ho ingoiate io le ingoiano loro - –  io ti rispondo con l’alchimia dell’anima, L’inno a Cristo - sì ma  è troppo fredda l’acqua, si sta freddando vero? -   Allora ascolta sono parole d’amore per te « in qualunque logoro vascello io mi imbarchi quel vascello sarà l’emblema della tua arca, qualunque mare m’inghiotta quel flutto sarà per me emblema del tuo sangue» non sai neanche di chi è  stellina vero? E’  Donne sciocca, ti ho detto che sai solo bestemmiare di fronte ai potenti. Se ti parlo di delitto neanche tieni su la testa per la paura, e diventi sempre più viola - ti ho spesso parlato del tuo tremore di ragazza ma ora esageri, con me è come se ti si fosse aperto il più perfetto degli orizzonti, ma non parli sei muta come un pesce e fredda come ghiaccio - il delitto, il più perfetto dei delitti è quello di Edipo, te l’ho già detto e spiegato– perché stupirsi dei delitti ho aggiunto, ma la tua mente fanciulla si ribellava - Edipo è il detective di se stesso cerca l’assassino e trova se stesso, enigma ancor più perfetto  dei delitti-gialli della camera chiusa - Ti spiegavo l’arte del delitto stellina e mi hai risposto che forse è l’intrepretazione migliore se si cerca dentro di sé si trova l’assassino. Ma poi che hai aggiunto irridente e cruciale-«il film ricorda la vittima e il suo carnefice, O il carnefice e la sua vittima, non ricordo il regista, ma la vittima si fa carnefice e il carnefice vittima girandosi in tondo in una ricerca senza fine– alludevi a noi lo so, la nostra speculare idiota identità. Io e te e una camera chiusa. Chi di noi la Sfinge?    Ho dato a te senza parole le parole giuste per esserci, e esserci con me, ma senza la rabbia che ti sarebbe esplosa - hai utilizzato la mia casa la mia famiglia la mia tavola il mio letto perché i tuoi luridi soldi ti servono, e l’albergo costa - certo ti ho risposto l’albergo costa ma ricorda che è solo denaro ti ho giocato per denaro e allora non dovevi pretendere altre risposte, ti ho risposto con la poesia di nuovo, «anche se dovessi amare ottenere e contare fino alla vecchiaia non scoprirei quell’arcano mistero» è tutta impostura e ho aggiunto lo sai l’alchimia d’amore e dell’anima è tua solo tua, che ti importa in fondo del denaro, sei te lo riconosco selvaggia e romantica, sali muta le tue tempeste e ti nutri di splendore femminile quando odi in me il lato più potente, sì sono un teologo - ma non comprendi non hai compreso quanto poco questo conti, quanto mi diminuisca di fronte a te  piccola divinità silvestre a cui consacro le parole dei poeti, le parole della musica,   e hai imparato tante di quelle cose da me che le tue condanne mi fanno ridere e basta.    E tu mi insulti e ti insulti con il volgare denaro, lascia a me l’ipocrisia e la volgarità, il denaro è volgare è la mia  infamia -« ti manca la vergogna rispondi- e della tua infamia fai la chiave di un regno ammantandoti di mistero perché non passi di bocca in bocca  e le donne ti credano come ti ho creduto io».   Ecco lì piangevi piangevi ed era dolce il canto della donna e le tue labbra vogliose di un ultimo bacio – e io l’ho negato -  perché sai quanto poco alla fine mi volevi, e te lo ripeto sei femminile quando involontariamente chiedi l’abbandono e ti annebbi per manovrare, per non lasciare ma essere lasciata. Ma allora eri ubriaca di me, perché la rabbia ti ubriacava e la tua mente creativa si rifiutava alla non-esistenza della quintessenza di cui vuoi esser fatta, l’amore.   Hai l’odore penetrante del tempo che finisce eri intatta e ora sembri sbucciata, e la notte si fa fonda  quasi inavvertita. Il pentimento migliora i tuoi occhi sono stelle smerigliate, quasi sgretolati sminuzzati da filigrana ocra. Il tuo difetto è sempre stato questo sfinimento che ti leggo addosso, di divorarti in profondità, come al suono di infinite coagulate note di musica  che precipita per ingrassare l’attesa. Ma ti indurisci comunque diventi aspra tagliente e dura come legna, comprimi le risposte e poi ti laceri e t’accingi a vendicarti col colore del viola che ti cinge. Ma il tuo spirito è chiaro raccolto nelle nervature violette - ti fanno somigliare a quelle immagini della paura che penetra nel sangue e riduce l’urlo in pietra. Ti stupisci della mia memoria, memoria di libri e la tua lingua era tagliente perché era solo tua senza libri a farti da concetto. Lirica comunque lo ammetto, era un artiglio di rapace articolata nella mancanza di ricercatezza eppure naturalmente civetta. Che ne dici della mia di lingua adesso adesso è solo mia e ci sono rime baciate, te ne sei accorta? Quest’acqua è sempre più asprigna sembra il sugo della vita, è quintessenziale, non c’è niente da fare. È la congiunzione poniamo dell’anima tua che si svuota e si riposa e dell’umida tua natura che migra in una bianca vasca di marmo  dipinto mettiamo di rossastro, vermiglio scarlatto, il colore  delle vesti delle Regine. Permetti alle parole del divino poeta-filosofo-veggente di cantare per te, e fa’ stella che la sua anima trapassi nella mia mentre per te canto una morale di stelle: Predestinata ad orbite stellari, del buio o stella che ti importa?   Per questo tempo volgiti beata! La tua miseria ti sia estranea e lungi!   Del mondo più lontano è il tuo chiarore: per te sarà peccato la pietà!   Hai soltanto una legge: sii pura.           E adesso stellina ti rileggo la poesia che mi scrivesti e senti ora la differenza - sei disordinata come sempre e scrivi su fogliacci sparsi sempre da riordinare -allora ora riascoltati:   Cuore ed esistenza s’accordano forse nei libri Nella vita Raramente quasi mai Col cuore impastiamo il saporito pasto Che esalta noi e chi il nostro cuore con forza Stringe In ogni recesso, in ogni anfratto in tutta la nuda nostra carne nuda Adorna di preziosi Il cuore palpita il disaccordo Bottino di tante liriche liti Ma cuore ed esistenza non è Né fulmine né tuono Né bagliore d’infinito Né cifra d’assoluto Perso e sfatto l’assoluto Terra desolata Neanche catastrofe se non nelle lacrime spese e spente, per la Gloria di noi martiri, così è detto, logorati dalla potenza e dall’attesa La tua astuzia è la sofferenza Ti vince e ti inghiottisce Per un piano calcolato Di un inventario profetico-poetico da porgere per il migliore dei Banchetti Che si fa ti fa masticare digerire Il candido letto nuziale Per le tue voglie penetranti Scrutare da dentro con bisturi e sguardo attento Le fanciulle promesse e i loro sogni E resecare capillare materia Delle spose che sognano il celeste regno dello sposo Angelico-famelico L’universale spettacolo nuziale, annuncio di una falsa profezia O forse la tua promessa fanciulla Il tuo promesso abbandono E’ condanna? E a cosa abbandoni Odi l’ipocrisia? O il tradimento ti logora e non ti nutre se non di Quotidiano squallore O il banchetto si rinnova altrove O il tuo esserci e non esserci del tutto è un dileggio per Le teste tagliate del desiderio negato O l’abbandono ti stuzzica voglie profetiche Giochi satanico-vampiresci Troppe domande? La risposta è mia E ne sono gelosa   Quando osservavo le tue ossessive sacrali limpide abluzioni La tua educazione maniaca di fronte al marmo bianchissimo Di un disadorno lavandino E il volto fissato nello specchio di fronte, tolta ogni Espressione Terrore di essere altro e sempre  e ancora altro E altrove senza misericordia (o terrore di essere da me finalmente intravisto di rimando?)  e di te non dimenticavi né della mia carme esaurita e quando osservavo lo stupore con cui tormentato da un’indissolubile immagine, immancabilmente avevi occhi per il tuo volto stupito scoperto scoperchiato, teschio membrana e occhi e anima? L’anima ti inquietava? La tua s’intende E dimenticavi con orrore e angoscia di chiedermi chi sei Chi sono era l’urgenza che ti condannava a non Immaginare L’incancellabile domanda di fronte allo specchio delle tue Brame Allora ritornavi fanciullo Carne d’avorio La mano passava umiliata tra i capelli diradati Ora è tua la vittoria diceva la tua umiliazione E con timore e tremore Ti infilavi tra le lenzuola Ragazzo dall’umile origine E finalmente il miracolo s’avvera Il ragazzo teme l’esclusione, ha paura perde la sua futile Potenza (quella dell’intelletto) e implora il sorriso e la ricompensa «Sono un Dio?»   E quando mi sibilava dentro acuto il dolore Risvegliavi i sensi ottenebrati da troppo  crudo torpore Dal concreto trivialmente piombato esserci ed esserci Inchiodata E alle richieste non formulate  come angelo rispondevi Per togliere poi E perdonare dopo e togliere di nuovo E offuscare il mio principio razionale   Il fuoco della brace spegneva l’inutile malocchio E la pace era risveglio e l’accrescimento tempesta . Disprezzavi Un temporale nei miei occhi, il gesto  educato delle mie Mani, il lucore del mio sorriso Aperto smorzato rifiutato e spento e  poi di nuovo a chiedere elemosina Riacceso   Eri logorato forse dalle brame  ardenti dell’orgoglio   sei?   Su cui riposavi come giovane Strappato alla gloria scavato dal mondo E al mondo gettavi fango per fango ricevere dicevi   Io  resa fango per essere meglio gettata Fino al giorno del giudizio Quando la tromba del tuo muto sigillo Voce di lacrime ormai spente Suonerà chiara e assordante   sparo in una notte tiepida Oscura E l’artificio del divino artefice in scena Vorrà il volere non del Dio ma Del destino o del cuore o del senso e dei sensi o Dell’esistenza nostra o della ragione Ma l’unica Dea benigna è Follia Unico perdono per i tuoi nostri Uno mille banchetti   A lei la mia fede
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nottediprimaestate · 6 years
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Ciao, non ti scrivo da un po'.
Penso di essere destinata alla tristezza della solitudine.
Oh no, non intendo l'isolamento, ma bensì quella sensazione di non essere mai nel posto giusto, con le persone giuste.
Quel sentimento di voler essere altrove, anche senza sapere precisamente dove mi possa portare quell'altrove.
In questo periodo sono triste, vorrei avere un'amica ma ultimamente ho constatato che le persone sono solo merda, devo impormi di ricordarmelo.
Ho capito che nella mia vita la cosa cattiva, dato che a parte una cosa non è successo mai niente di così cattivo, è il fatto di non sapersi relazionare, o meglio, di pensare quest'ultima cosa solamente perché ho trovato persone marce.
Spero di poter trovare qualcuna idonea, nel frattempo mi lascio trasportare dall'aria.
Ciao, Lola
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pangeanews · 4 years
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L’ossessione per la scrittura. Francesco Consiglio dialoga con lo psicoterapeuta Marco Innamorati su Stefano D’Arrigo, Guido Morselli, Italo Svevo, Simenon, Musil…
Prima di conoscerlo, immaginavo Marco Innamorati dietro la sua cattedra di professore di Psicologia dinamica all’Università di Roma ‘Tor Vergata’. Lo immagino severissimo e imbronciato mentre decine di studenti gli sfilavano davanti sempre più sudati e balbettanti. Non avrei mai pensato di intervistarlo perché avrebbe risvegliato in me l’incubo degli anni di liceo. Questo finché non è successo l’imprevisto. Bighellonando in una grande libreria, sono stato attratto da un titolo, Amici anche no. Capire la friendzone. Uscirne e non ricascarci più. Un manuale di auto-aiuto per cuori spezzati? Pensavo l’avesse scritto Max Pezzali, l’autore della Regola dell’amico, quel teorema sentimentale che recita così: “Se sei amico di una donna, non ci combinerai mai niente, mai”. E invece, leggo il nome degli autori: Luca Manzi, sceneggiatore delle serie Don Matteo e Boris, e… Marco Innamorati!
Diavolo di un professore, questa volta me l’ha fatta! È riuscito a stupirmi. Ma è proprio lui, lo stesso Innamorati che in questo 2020 fortemente segnato dal lockdown ha pubblicato Storia critica della psicoterapia (Raffaello Cortina) e Al di là della psicoanalisi (Mondadori)? Sì, è lui, e la cosa straordinaria è che tutti i miei preconcetti sono andati in fumo. Marco Innamorati è un uomo divertente, un gran favellatore, coltissimo. E Amici anche no è uno scanzonato trattato di psicologia dei rapporti amorosi che dovrebbe essere letto da tutti gli uomini e le donne desiderosi di innamorarsi, da chi è stato lasciato, da chi crede di avere trovato l’anima gemella, dai traditi e dai solitari che hanno il cuore in fermento e non si danno pace. Perché a tutti potrebbe capitare, prima o poi, di finire nel recinto della friendzone.
Ho contattato Marco Innamorati per parlare del suo libro, ma poi si sa come vanno queste cose: quando uno scrittore incontra uno psicologo, il discorso prende strade che portano lontano, si smarrisce, si ritrova, svicola, scalpita e salta di palo in frasca. Alla fine abbiamo parlato di letteratura, psicoanalisi, mondo editoriale e patologie del web.
È ancora possibile oggi, consegnarsi interamente alla letteratura? Stare fuori dai social e dalle beghe letterarie, rifugiarsi nella propria torre d’avorio e scrivere in solitudine? Penso a Stefano D’Arrigo, che visse da autentico asceta la stesura del suo monumentale Horcynus Orca, fino a procurarsi un esaurimento fisico e mentale.
Ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare Stefano D’Arrigo per molto tempo, fin da giovanissimo, perché mio padre era un suo intimo amico. Lui rappresenta un caso tipico della necessità di scrivere. Se non avesse avuto la possibilità di scrivere e portare a termine l’Horcynus, la sua salute sarebbe sicuramente peggiorata prima in altro modo. Tra l’altro D’Arrigo regalò a mio padre una copia di Nevrosi e genialità di Johannes Cremerius, che è il primo libro psicoanalitico che io abbia tenuto in mano.  Titolo significativo, vero, venendo da D’Arrigo? Certo che perché si possa avere un altro D’Arrigo bisognerebbe avere un altro Arnoldo Mondadori, cioè un editore in grado di capire la grandezza di un artista e con mezzi e atteggiamento disinteressato tale da finanziarlo durante la stesura di un libro del genere. Qualcosa di simile avviene (poco in Italia, per la verità) con le residenze per artisti, che consentono a un autore di isolarsi per un certo periodo dal resto del mondo, salvo, se lo desidera, quei pochi colleghi con cui condivide il premio. Certo si tratta di periodi di sei mesi/un anno, non i trentacinque anni di D’Arrigo. Ma anche in questo caso, ritengo che ogni autore viva delle necessità diverse. D’Arrigo, una vita monacale di lustri per scrivere il proprio capolavoro poteva sentirla come necessità. Altri potrebbero, con altrettanta sincerità e autenticità, vivere immersi in quella che Luciano Floridi ha chiamato infosfera: scrivere in quanto online. Altri ancora, di certo, devono vivere uno specifico ambiente per poterlo narrare nei loro libri e possono intrattenere con quell’ambiente un rapporto paradossale. Ho conosciuto uno scrittore di Johannesburg, Ivan Vladislavic, che non riuscirebbe ad abbandonare la propria patria come ha fatto Coetzee, perché tutte le sue storie sono ambientate nella sua città. Per rimanere fedele a questo proposito ha dovuto abituarsi all’idea che in casa sua possano entrare di continuo ladri, magari per rubare un cuscino o una lampadina, perché il livello di criminalità di Johannesburg è decisamente elevato. Però la sua vita mi sembrava felice e soddisfacente.
La coscienza di Zeno è considerato il primo romanzo psicoanalitico nella storia della letteratura mondiale. Nella realtà, Svevo si sottopose ad analisi con Edoardo Weiss, un allievo di Freud, e il romanzo, che sembra una lunga confessione delle sedute, ha il merito di fare luce su come le teorie di Freud venivano applicate in Italia. Ma poi, nell’ultimo capitolo, scritto sotto forma di diario, Zeno abbandona la psicoanalisi, definendola “una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica” e, piuttosto banalmente, afferma di essersi convinto che “la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere”. A me sembra un goffo inciampo nel pensiero positivo ante litteram.
Sì, è vero, La coscienza di Zeno è considerato il primo romanzo psicoanalitico della storia in senso assoluto. D’altronde è anche una rivendicazione della priorità della letteratura sulla psicoanalisi: Zeno afferma che il suo psicoanalista ha applicato su di lui ‘la diagnosi di Sofocle’, alludendo al complesso edipico, ovviamente. A proposito di priorità, l’Italia spesso rappresenta un laboratorio in cui si sviluppano idee che vengono riprese altrove mentre qui si rimane indietro, nel bene e nel male (perfino il fascismo lo abbiamo inventato noi e altrove è stato applicato in modo più, come dire, ‘efficiente’). Quante avanguardie artistiche sono nate in Italia nel corso dei secoli, dal Rinascimento al Futurismo? Eppure non si può dire che la nostra cultura recente costituisca un faro per il resto del mondo. La storia del rapporto tra psicoanalisi e letteratura è in un certo modo un riflesso di questa tendenza: Svevo è all’avanguardia per i suoi tempi ma oggi la letteratura italiana non ha un contatto felice con le teorie psicoterapeutiche: c’è ancora chi utilizza Freud come strumento di comprensione dell’essere umano, mentre la proverbiale acqua sotto i ponti è passata. Mi viene da aggiungere, peraltro, che comunque è sempre meglio considerare Freud lo stato dell’arte piuttosto che Lacan, un autore che nel mondo scientifico è stato preso sul serio, oltre che da noi, soltanto in Francia (ovviamente), in Argentina e in Brasile. Tornando a Svevo, non sono convinto che l’opinione di Zeno Cosini rifletta quelle dell’autore del romanzo, in materia di psicoanalisi. Una persona che abbandona l’analisi in seguito a una resistenza difficilmente può parlare bene delle teorie psicoanalitiche.
La scena letteraria italiana è occupata da eserciti in guerra. Scrittori di destra contro scrittori di sinistra, Roma contro Milano, emergenti contro affermati, e più la torta è piccola, più s’incontrano lupi affamati che han natura sì malvagia e ria, per dirla col Poeta. Di recente il leader di un movimento che anima la piccola editoria ha scritto una recensione del libro vincitore dello Strega, Il Colibrì di Sandro Veronesi, e con un’ideale matita rossa e blu intinta nel veleno, ne descriveva i presunti errori. Un esercizio critico che a mio modo di vedere aveva il compito di alzare uno steccato e chiamare alla battaglia: o il nostro esercito o il loro.
Sono rimasto molto colpito dalla recensione del Colibrì scritta da Giulio Milani, perché l’idea che una scrittura non conforme alle proprie idee stilistiche contenga degli errori è evidentemente pretestuosa. Poi credi di averne capito il senso: quella recensione – come altri scritti simili, nell’ambiente letterario – non è rivolta al pubblico in generale quanto ai follower diretti, per creare un fenomeno di polarizzazione. Agli psicologi è noto da molto tempo che una discussione accesa non consente un confronto di idee quanto il distanziamento tra i sostenitori delle idee opposte. I casi di conversione alle idee altrui quasi non esistono, per quanto razionali possano essere le argomentazioni contrarie, mentre si rafforza sempre la convinzione nella bontà delle proprie. D’altronde il disprezzo del presunto avversario non è riservato ai letterati. Un noto analista (che qui preferisco non nominare) definì pubblicamente il leader di un partito come “un comico bipolare” – con l’aggravante dell’uso di una diagnosi applicata come stigma.
Anche il fenomeno degli hater ha un suo interesse. Viene dato credito a identità fittizie che protette dall’anonimato e senza nulla avere dimostrato sputano veleno sui libri altrui. Un triste spettacolo di insulti, invidie, esecuzioni mirate che sarebbe facile liquidare come sfoghi di frustrazione. Eppure, in una sorta di girone della merda di pasoliniana memoria, c’è chi ama farsi sodomizzare il cervello con gratitudine da queste persone e le incoraggia.
Anche l’odio è spesso frutto di polarizzazione. Più mi convinco della bontà della mia idea e più l’avversario deve essere dipinto a tinte fosche o caratterizzato per motivi che nulla hanno a che vedere con i suoi meriti e demeriti. Questo si vede molto spesso quando per attaccare una donna si usano insulti sessisti: vale da destra e da sinistra, peraltro. Maria Elena Boschi e Giorgia Meloni ambedue vengono spesso apostrofate con commenti che hanno a che vedere con la loro sessualità e non con la loro posizione politica. Però in letteratura ci sono anche hater puri, che sono solo ‘contro’ qualcuno senza essere a favore di qualcun altro. Si tratta di semplice frustrazione? Può essere una spiegazione semplice o magari semplicistica. Certo, senza una conoscenza diretta della persona è difficile arrivare a delle conclusioni psicologiche attendibili. In ogni caso, quando l’odio e l’insulto vengono da dietro una maschera è difficile pensare che chi vi si nasconda dietro non abbia bisogno di un serio aiuto psicologico. I follower di questi personaggi, invece, sono spiegati bene dall’idea di Bion per cui, in certi gruppi o comunità (evidentemente, diciamo oggi, anche virtuali) si tende a identificare come leader la persona con il livello di funzionamento mentale più primitivo.
Chi può definirsi uno scrittore? Proviamo a mettere la parola fine a questa polemica che ormai ha le ragnatele. Una volta per tutte: è scrittore chi paga le bollette con i propri libri, oppure, parafrasando Forrest Gump, scrittore è chi scrittore fa?
Ricordando la battuta originale del film, lo scrittore non fa una bella figura… Ho seguito una recente polemica sul fatto che lo scrittore è solo colui che si mantiene in vita con i proventi dei propri libri. Il che taglierebbe fuori gente come Kafka e Melville. Paradossalmente, le stesse persone che propongono una simile definizione di scrittore, talora finiscono per escluderne proprio gli autori dei best seller, spesso confinati nella letteratura cosiddetta di genere. Eppure Ray Bradbury, un autore di fantascienza, è stato uno dei grandi scrittori del Novecento come Georges Simenon, che sfornava gialli e noir a ritmo talvolta settimanale ma ha firmato almeno una ventina di capolavori assoluti. Probabilmente è proprio la psicologia a offrire la definizione più sensata. Lo scrittore veramente tale è qualcuno che sente la necessità di scrivere. E in genere i suoi lettori questa spinta la riconoscono anche se non sempre subito. Le riscoperte postume sono piuttosto frequenti. Il caso di Guido Morselli, in Italia, è emblematico: capolavori come Dissipatio H.G. erano stati rifiutati da tutti gli editori. Possiamo tranquillamente affermare che non è una colpa, di fronte alla storia della letteratura, né vendere poche copie, né vendere tante copie ai contemporanei. Che uno scrittore abbia successo o meno può essere più o meno frustrante per lui, ma non cambia di una virgola il fatto che continuerà a scrivere, indipendentemente dall’opinione altrui.
“Se non avessi fatto il regista”, dice il regista Marco Bellocchio, “sarei finito in manicomio”. Questo mi fa credere a una sorta di valenza terapeutica dell’arte, necessaria all’artista molto più che al pubblico. E allora, cosa importa se un film avrà successo o un libro venderà? L’importante è avere portato a compimento l’opera.
Volendo si può essere ancora più estremisti: l’importante è averla portata avanti. In fondo L’uomo senza qualità di Musil, che è uno dei libri-simbolo del secolo scorso, è un’opera incompiuta. Allargherei invece il numero di chi riceva benefici di natura terapeutica, se così si può dire, dall’arte. Già Aristotele, nella Poetica, parlava della catarsi, cioè del senso di purificazione che si prova dopo aver assistito alla rappresentazione di una tragedia. La catarsi si attua quando è possibile identificarsi con un personaggio. Jacob Levi Moreno ha applicato questa idea alla psicoterapia, attraverso l’invenzione dello psicodramma. Nello psicodramma la catarsi si attua mettendo in scena la propria vita in forma teatrale, con l’aiuto di altri pazienti dello stesso gruppo, che a loro volta diventano a turno protagonisti delle proprie storie.
Francesco Consiglio
* Marco Innamorati, romano, si è laureato in filosofia e psicologia, addottorato in storia della scienza e specializzato in psicoterapia. Insegna Psicologia dinamica e Storia e filosofia dei concetti scientifici presso l’Università di Roma ‘Tor Vergata’, dove coordina il Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione. È anche docente in scuole di specializzazione private. Ha pubblicato diversi contributi scientifici su pubblicazioni in lingua italiana, inglese, tedesca e portoghese; e dieci libri, tra i quali Riprendere Jung (con Mario Trevi, Bollati Boringhieri), Storia critica della psicoterapia (con Renato Foschi, Raffaello Cortina), Al di là della psicoanalisi (Mondadori Education). Nel 2020 è uscito lo scherzoso Amici anche no, sul tema della ‘friendzone’, scritto con Luca Manzi. È sposato con la compositrice Lucia Ronchetti e ha due figli: Carlo e Sara.
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Il viaggio per me è una cosa strana.
È un momento di solitudine, in cui resto e sono sola. Ma soprattutto un po’ di vuoto. Dove mi ritrovo da sola e sono sempre un po’ stordita, senza riferimenti.
Non è brutto, anzi. Lo faccio poco e mi piacerebbe farlo di più.
Però non è quella sensazione hippy o hipster di libertà, fighezza, leggerezza, yuppie yeah. È più un momento di stasi, o stallo. Dopo un movimento e prima di un altro.
Intendo il viaggio non quello della vacanza o della scoperta di un nuovo posto ma proprio il tragitto, il treno, il pullman, il percorso dal punto A per arrivare al punto B o C.
A pensarci bene io da sola ho viaggiato poco e quasi mai. Qualche treno, qualche aereo ma in realtà sempre con qualcun altro che anche se non conoscevo bene viaggiava con me. Nel senso che andava dove andavo io e poi si fermava con me lì. Sudafrica, Nicaragua, o anche solo Tour, Montpellier in Francia o Londra e Blackpool.
E in solitudine ho fatto solo tragitti, mai veri e propri viaggi in cui mi sono trovata da sola dall’inizio alla fine. Quello un po’ mi dispiace. Viaggiare da soli bisognerebbe saperlo fare.
Io nel viaggio, quello grande, di scoperta, da antropologo, sono una cagacazzo. No, in realtà a ben guardare ci sono due tipi di viaggi per me: la vacanza e il viaggio altro, per studio o lavoro in cui ti sposti per restare un po’ di tempo, più di una vacanza. Io l'ho fatto quasi sempre e solo per studio. In quel viaggio lì io sono buffa: cerco la casa, cerco l’abitudine, l’aggancio alla quotidianità che mi faccia sentire a casa. In quei viaggi non l’ho quasi mai trovato, a parte in Nicaragua.
Nel viaggio più grande e faticoso che ho fatto ad oggi, in Sud Africa, ci sono andata così sotto nel non riuscire a sentirmi a casa che quando sono effettivamente tornata a casa ho sbarellato e modificato tutto quello che pensavo, laggiù fra gli Zulu, che fosse casa.
Invece, nel viaggio-vacanza, quello che ha normalmente abbastanza giorni ma non abbastanza per vivere dentro un posto, sono una cagacazzo. Mi viene la smania di vedere tutto, provare tutto, camminare fino a quando non mi fanno male anche le dita dei piedi.
Non cerco la casa, cerco la diversità. Faccio calendari con itinerari che cambio praticamente ogni due giorni, calcolo tragitti dei treni, tempi di percorrenza dei pullman, misuro ore di viaggio e ore a disposizione per riuscire a vedere tutto e poi prendere un altro pullman e spostarmi in un'altra città. Cerco le periferie in tutte le città, controllo quali metro o barche o carretti mi ci possono portare. Leggo tutto quello che c'è da leggere.
Ma soprattutto cammino, ore ed ore. Praticamente muta. In silenzio. Poi cerco le osterie, i tavolacci,i bar che mi diano ristoro con vino o rachia o rhum. Negli ultimi anni soprattutto rachia, diciamo.
Normalmente torno dalle mie vacanze più stanca di quando sono partita. Ma sempre più contenta. Perché è il momento in cui spengo l’interruttore della quotidianità e accendo quello del mondo fuori. In cui guardo, osservo, vivo altro. In cui mi accorgo, mi ricordo diciamo, che oltre alla mia vita esiste altro. Altre vite, altri viaggi, altre storie, altre città, altre famiglie, altre case.
Normalmente i miei compagni di viaggio non mi amano molto durante i viaggi. Cioè, puntualmente si entusiasmano del mio entusiasmo. Mi seguono, scoprono, leggono, guardano. Però mi sopportano anche poco, perché un po’ io viaggio da sola. E quindi, non trombo, non li cago, li amo molto meno che nella vita quotidiana. E probabilmente devo sembrare un po’ bipolare.
Devo dire che però sono così solo nel viaggio a due. Nel viaggio di gruppo è diverso, mi adatto di più. Il viaggio nella situazione di gruppo è il gruppo, lo stare insieme. Sono meno interessata alla scoperta ossessivo compulsiva incessante.
Emma mi ha messo un po’ in pausa, devo dire. 
È subentrata una cura per l’altro che prima non c’era. Prima potevo collassare alle 2 di notte vestita su un letto di un ostello di sarajevo, ora devo almeno assicurarmi che lei dorma, stia bene, abbia mangiato, si sia lavata i denti, non abbia freddo o troppo caldo. 
 La cura per lei è impegnativa, più che fisicamente direi mentalmente. Il pensiero per lei mi tiene occupata una parte del cervello e quindi non esagero nel viaggio, non troppo. Viaggio con morbidezza. E anche un po’ di noia ogni tanto. Con ritmi più lenti. Meno invasivi. 
 Non so dire se per lei o alla fine per me. Perché lei nel viaggio non fa una piega. Sta. 
Son più io che non gestisco la cura per lei e il senso di altrove che mi produce il viaggio. La cura mi tiene legata, come un ancora a terra, il viaggio mi fa tendere verso il largo. E non so bene come gestirmela probabilmente.
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Io che combatto con io mentre curo un tumore tra letti di ospedale e speranze
Sono schizofrenica, vivo un distacco dalla realtà. La follia un rifugio. Non sono vostra non appartengo a nessuno. Un tempo, anni or sono, un intellettuale me l’aveva detto, alla realtà che verrà tu non sarai adeguata, e così è stato e mi sono distaccata e con molto desiderio di non esserci mi dichiaro schizofrenica, per sopportare questa realtà di soli conflitti io devo distaccarmi totalmente e restare nel mio nido. Ho comunque un fondo strano mio  un alternarsi di lacrime e risa, di buio e luce, che oggi chiamano bipolarismo, ma sicuramente saggio nell'alternarsi di luci e ombre e nella passività residua. Ogni giorno ci rifletto mi guardo allo specchio e vedo una vecchia demente che ricorda   tutto. Demente, fragile per reazione, e con questa mia preghiera noiosa rendo omaggio agli oracoli della tradizione, i miei avi di cui ricordo ogni gesto ogni parola ogni proclama. Ogni vaticinio.
Io sempre donna, non ho mai rinunciato a pensare i fiori e le ginestre prima del furto, e i girasoli  e il mare, l’azzurro blu del mare lontano, mentre vivo nella città di pietra. Anche ora che curo un tumore contemplo senza alcuna paura la morte osservandola come in uno specchio e lego la morte mia ad un futuro di rinascite gagliarde, anche dei fiori dei deserti tanto amati.  E nel contempo la mia psicosi acuta sottrae significati e densità di senso alla parola terribile, morte, e proprio la psicosi mia, riduce ad uno stupido niente il termine assoluto. Senza orgogli vani o vanitosi, anche se un uomo mi è accanto per una pietà sua verso me, proprio me, me che con assoluta sicurezza attribuisco la mia malattia alle mie colpe e alla punizione. Travestirmi da pagliaccio mi è semplice e ai perimetri sono abituata, sono sfortunata. Io no, io non voglio ambizioni, non desidero nulla, nei miei ricoveri rituali il senso chiude in una ampolla il mio smascherare il niente, quel niente  che mi dipinge di grigio e spegne gli occhi miei. Ho la mia cucciola Scilla nome altisonante per una cagnolina che pesa  solo tre chili ed è la mia piccola meravigliosa ombra. Buona buona  e sensitiva ha sviluppati i sensi in maniera gigantesca, nella difesa ma mai aggressiva,  e nel gioco. Io comunque con metodica pazienza frutto dei silenzi, io mi travesto come tutti,  un cappotto elegante un abito adeguato per la passerella in centro e occhiali scuri per nascondere gli sguardi. Molto poco civetta da sempre da quando giovanissima ero bella e senza artifici.  E anche se eterosessuale sono piuttosto androgina, odio andare dalla parrucchiera o dall’estetista o portare abiti femminili. Jeans maglioni da uomo e giacconi da uomo. Io però sono donna comunque. Resto uno spirito solitario,  è solo uno slancio vitale e un arresto, non saprei dirlo e non sono io a decidere e scegliere, ma tento almeno la ricerca, questo sì, con la paura terribile di fallire o restare aggrovigliata  da l'altro o dagli altri. L’amore.  Avventure e scoperta, un grido di ribellione nascosto nei ricordi,  una mia  tenace voglia di vivere quando sognavo, anche oggi, che non sogno più se non rovine, e penso con la solita mia  ossessione, l’amore per la vita e l'azzurro del cielo. Ma la noia ritorna, chi è costui con ricordi di esperienze secolari. Uno incontrato per strade note in un paese sempre identico nel quale ci distingue solo il tempo come dato d’anagrafe, nome e data di nascita. Serve il dono, ma come e a chi, chi  lo sa.  Sono rigorosamente monogama, nell’assenza di anonimato in provincia divento stridente, isterica e mi piglia una capricciosa rabbia nevrotica, e odio il tempo che vorrebbe segni indelebili e solitudini allucinate. Uno slancio vitale e perdono i peccati della mia giovinezza e vecchiaia disarmante.
Ma Lui oggi mi dice che sono uterina. Dove sono finiti i doni per la sposa, e i suoi giochi abili io non lo so più. Sì Lui.   Improvvisa e inaspettata, inesplorata, un’irruzione, meravigliosa, nella mia vita modesta, e Lui ha modificato la mia sorte come se fosse già stabilito dalle stelle il nostro incontro, e non in balia del caso. Ero nel terrore di una solitudine rabbiosa, per un tumore che mi uccide lentamente. Ed è ora solo amore e sempre amore. Eppure oggi sono con Lui e segni di dolore e depressione stravolgono i lineamenti del suo volto, insieme a silenzi assoluti  che temo più di una bestia feroce, un silenzio selvaggio cupo e così infelice, in questa solitudine a due che mi farebbe fuggire, talmente mi dispera il pensiero di essere io responsabile dei suoi incomprensibili umori. E’ “L’ora del lupo”, il film  che abbiamo visto insieme perché Lui così vuole, l'ora della palingenesi, ossia l'ora in cui gli eventi della morte e della nascita convivono, l'ora dell'equilibrio luce ombra,. Lui mi spiega tutto, ed è la mia guida spirituale, io la sua pupilla, la mia fragile fibra non mi consente risposte pronte, solo domande e stupiti silenzi.  Ora comprendo qualcosa però, e gli chiedo di avere per sé ogni bene e preservarsi, perché nessuno e niente lo uccida. Lui così ha voluto dirlo, e senza aggiungere parole, nel silenzio, si è dichiarato con un film, L’ora del lupo di Bergman. Io trascinata nella sua isola in un bosco in collina da una tempesta. Un abbraccio e uno slancio mio improvvisi. E’ accaduto lentamente però, era un giorno di estate piena e riposo, dopo il primo intervento per un carcinoma, e io passiva, io necessariamente, il seguito una incognita, morte o vita chi lo poteva sapere, ma dopo un mio slancio, un abbraccio spontaneo,   sono salita  in macchina accanto a Lui,  e saliva la collina e mi sono lasciata condurre senza chiedere nulla, e poi ero qui, in questa casa splendida immersa nella solitudine del bosco. Lui che è un artista,  preannuncia e comunica di sé la catena che lo tiene stretto in una morsa, la sua incomprensibile ora del lupo. Meraviglioso Ingmar Bergman. Avevo nella mia biblioteca l’autobiografia di Bergman,  La lanterna magica,  e ha capito con ancora più esattezza,  la fragilità dell'artista, lui che di musica e libri si nutre e cinema, e questo leggendo le pagine che descrivono l'errore del commercialista di Ingmar Bergman, e l'incubo del gigantesco regista che somatizza nella sua innocenza quei numeri per lui impossibili, denaro numeri tabelle,  fino ad ammalarsi di violentissima colite spastica. Questo lo stupisce, un'artista anche lui,  e comprende la fragilità dell'artista.  E a Lui l’ho data l'autobiografia del genio del cinema, e ho la certezza che niente e nessuno mi porterà via da qui. Lui  ovviamente l’ha letta d’un fiato l’autobiografia di Bergman.  È un artista d’altronde, uno scrittore, esperto nell’ascolto musicale, ama Bach, Bach è Dio mi dice, ha l’orecchio assoluto, e non è  certo uno qualunque. Ne “La lanterna magica” scopre quell’indagine interiore di Bergman con passione analitica. Lui invece mi ha regalato Fame di Hamsun che ho divorato in un giorno, e me lo sono letta d’un fiato mentre ero ogni giorno in ospedale per la radioterapia.  In quel libro trovo entrambi, io e Lui, i trascorsi difficili, ricordo la mia miseria e la giovane incoscienza negli anni dell’abbandono. Raccapezzavo lavoretti, lavapiatti, cameriera, un posto letto di una casa qualunque tra mostri e sconosciuti assassini.  Insomma quello che trovavo, senza talenti, e poche aspirazioni,  mi arrabattavo, e mi arrabbiava avere sempre un padrone che rubava tempo ai miei libri e al mio tempo da trascorrere libera da schiavitù e doveri nauseanti. Con una vespa giravo Roma sola, anche di notte, e il lavoro io l’odiavo. Mi distoglieva troppo dai libri e sempre sui libri io volevo restare. Eppure oggi Lui è così, silenzio assoluto, forse rifiuto di me, è proprio L’ora del Lupo. Sì in fondo anche Lui mi imbroglia, ma senza volerlo. L’ora del lupo, i suoi fantasmi interiori, lo possiedono fino a cambiare i tratti del volto e io so, ora, quando devo osservare il silenzio e nascondermi nel mio piccolo studio per non sapere la sua ora del lupo o tradirla, e so che per i suoi spettri non mi riconosce più, sono un’altra una qualunque e un’intrusa che acuisce le sue allucinazioni. E non devo capire, Lui dice, solo restare silenziosa, per evitare urla angoscianti, il suo dramma è l’incarnazione di mostri interiori materializzati in oggetti e in persone. E’ la sua terribile condanna, non ha resistenze. Vivi nascosta ripete sempre, e ricorda Epicuro, hai una laurea in filosofia mi dice, tu devi startene da parte e sai perché. Nascosta al mondo che di me non deve sapere nulla, e io dico solo hai ragione e mi volto altrove, per non guardarlo negli occhi, e nei tratti stravolti del volto che sembra aspiri alla vendetta, ma non oso chiedere chi ti ha ucciso e chi vuoi uccidere, e vivo in silenzio tra le mura della sua splendida casa senza proferire parole per settimane, lunghe, faticose, fino a quando nella sua camera ritorniamo a fare l’amore, e questo lo rende lucido, ma è un momento, poi si volta e io non esisto di nuovo, se non come fastidiosa carnale presenza. Mi alzo allora dal letto e vado nella cameretta accanto dove ho allestito uno studio per me sola, e scrivo perché lo amo con tutta me stessa, e voglio continuare ad amarlo nascosta agli occhi del mondo, e voglio capire, sapere i suoi incubi e curarli, con pazienza, lentamente.  Allora prima che lui mi abbandoni, Gli regalo Xavié De Maistre Viaggio intorno alla mia camera con l’orribile timore e tremore che la mia schizofrenia, il mio ritrarmi,  che lo carica di odio, resti come rudere indimenticabile  di me,  dopo, quando avrà stabilito l’abbandono. Prima che si materializzi il suo incubo, e il lutto si ripeta, mi allontano, e sono salva, ed è salvo l’amore che mi accecava per tornare agli arcobaleni, al mare alla vita e torno a coltivare i fiori del mio giardino.
Il sorriso si è spento. Il sorriso ritorna. Ma dirò del prima, di quando credevo di aver esaurito speranze e illusioni, e come una gatta che si orienta nel buio cercavo annaspando occasioni. Occasioni di vita amorevole e tenerezza di uomini, uomini dall’anima bella. Di fronte l'incubo della morte un tumore ma poi l'incoscienza che ricompone tutto all'interno di una psicosi mi conduceva ovunque, viaggi mare e poi ospedali dopo piccole lunghe pause altrove, e da ultimo leggendo i latini mi ossessionava una certezza, forte, ritrovata tra i libri antichi. L’anima bella senza armi di sorta è il terribile e il peggior timore del più atroce dei tiranni.  E l’anima bella non ha armi, se non l’anima bella che nutre dentro, psiche o cuore, nient’altro. E l’amore non può appartenere a noi vecchioni ma ai ragazzi e alle ragazze. Scopare no, no.
Rinascita forte, esuberante, l’attaccamento alla vita, dolceamara come da sempre ma bella comunque, anche con un tumore mio da curare e occhi spenti, se solo non ci condannasse il destino  capriccioso al dolore. E al male, ai nostri mostruosi fantasmi dentro.  Anche io,  nella ricerca che non termina mai, sbagliavo. Sapevo cadere senza ferirmi come un’acrobata, con passo da gatta randagia. I miei lamenti erano preghiere, come miagolii.  Secoli fa, mezzo secolo or sono, premeva, subdolo e nascosto, nella testa, come una nota ossessiva e ripetuta, un pensiero perturbante che toglie il respiro, il fallimento inevitabile. Oggi che ho vissuto due interventi per un tumore e la radioterapia comprendo l’importanza della vita e questo mi spaventa da morire, non credo in nulla se non nella vita stessa, ma non la mia che posso sacrificare ma quella dei miei cari, niente mi aspetta dopo, paradiso o inferno, forse la morte sarebbe solo il perdono ultimo di ogni mio peccato, presto dimenticato. Con Lui vivo la mia passione, dovrei allontanarmi lo so ho un tumore, ma restare è più forte della mia volontà, ed è la mia schiavitù, e oso curarlo dalle sue terribili allucinazioni, con la paura ormai lucida della morte, che ho sfiorato, e sono salva solo per caso dal male del secolo.
Ho saputo la morte nel letto d’ospedale,  nella sala operatoria, nel risveglio dalla morfina, e la cura la conosce il destino, ci muove senza la nostra volontà. Non ho mai creduto di essere io a scegliere e volere. Al destino mi abbandono. Scrivevo… (scrivevo?) tempo addietro, quando nell’orientarmi non trovavo direzione, scrivevo  rabbiose volgarità, su di me, con il desiderio di appigli, anche solo una pagina scritta, semplicemente tentativi di salvezza e di senso, e sensi risvegliati dopo agonie di fine.
Ero piuttosto responsabile delle mie tristezze e immani solitudini. E allora questo travaglio,  io lo scrivevo, nella mia misantropia, che mi è indispensabile, e la paura si  scioglie. E’ raro l’amore, e allontana le asprezze, e noi mortali l’amore lo vogliamo.  Se un Dio  generoso  amasse le sue creature non le abbandonerebbe al destino amaro e tragico. Io, come donna, ero la disperata metà di una ricerca ininterrotta;
Quando mi coglieva la rabbia da strapparmi i capelli scrivevo. “L’unica cosa che so fare è scopare, ma neanche bene, sono passiva”. Questo scrissi un giorno, e poi di seguito altro, scrivevo di chiostri e gabbie con un corpo fragile e abituato ai letti di ospedale. . Oggi è falso, ma lo scrivo lo stesso, lascio alla memoria i suoi scherzi e alla rabbia le sue bestemmie. E’ richiesta di senso.  Disprezzo di sé per un furore animale che con sacro rispetto cerca e tenta l’amore nelle strade ripide e contorte. I rapporti occasionali non li amo, sviliscono il mio corpo ed è un gioco solo maschile. Il romanticismo ha altre leggi e categorie, altri sogni,  molto più complessi. Perché dovrei abbandonarmi ad un uso sciatto del mio corpo? Non trovo il senso e considero sacro l’amore, inviolabile.
E poi ancora; “ogni giorno della mia santa vita che butterei nel secchio la stessa routine in un lavoro odiato”. Buttare la vita in un secchio. No mai. I sensi di colpa sono fuorvianti. Sfiorare la morte è stato il perdono. Ho perdonato me stessa, la morte vanifica, no, è troppo, amo l’alba e il tramonto, come tutti ho ferite, lesioni, ricordi e distacchi duri, che il tempo ha di fatto addolcito togliendo le esasperazioni e i desideri di vendetta. Gli slanci vitali scavalcano la materia oscura che mi perimetra e il tempo si riempie di scommesse interiori.  Lui ora dorme e io cullo il pensiero dell’alba e che arrivi presto, è un martirio questa separazione, non posso vivere lontana da Lui e sono gelosa del suo sonno. Divento insonne. Mi sposto nella mia cameretta, il suo sonno profondo mi allontana, si dimentica di me Lui, e si immerge nei suoi sogni,  allora nella camera studio che ho allestito da sola,  un letto singolo un comodino una scrivania, tengo un vasetto di roselline che scacciano i pensieri e accendo il computer e scrivo per vivere sempre, anche di notte, gelosa e insonne. Io lo amo, e lo amo al punto da rischiare la morte per mano sua. Voglio penetrare i suoi segreti, ma non parla, non mi dice nulla, abile in tutto sa recitare anche nella quotidianità come in scena, a teatro, e io resto confusa e non ci capisco più niente.
I Patriarchi avevano ragione. Mi ricordo di quando sedevano tutti intorno alla tavola, ognuno come di consueto al posto assegnato da sempre, in un ordine immutabile, nel rispetto di una cerimonia ripetuta infinite volte. Quanto spesso mi ero chiesta se quel ripetersi esatto e misurato, destino che mi legava ad un punto esatto del suolo, non fosse altro che violenza mascherata. Un’ombra mi suggerisce la rivoluzione, mandiamo tutto in rovina fino a toccare il fondo. Insieme sbarcheremo altrove il lunario. Ok tutto all’aria, capovolgiamo tutto in un mondo alla rovescia, ma il tempo è comunque da sempre per tutti un nemico, una partita persa dal principio, una caduta irrimediabile. E il tempo mi tormenta senza lasciarmi la possibilità di voltare la schiena e andarmene, i pensieri  sono solo un errore nella cavità del cervello. Una trama tessuta, un’idea solo cerebrale che architetta la fine di un mondo, la mia storia di nessuno nel tempo che di sé ha fatto macerie, e brandelli finché un angelo non giunge a mutare la strada e a ricomporre i pezzi sconnessi per troppo dolore. Ma forse è noia se lo spirito si infiacchisce e non sostiene il peso.
Ricordo che a tavola si parlava di politica, e i ragazzi che eravamo noi si interessavano al discorso, senza storia, senza capire,  però  avremmo votato con tutta la voglia fresca di impegno e rivoluzione silenziosa e timida. Eravamo timidi, e ancora oggi la timidezza non  mi abbandona, la rivoluzione ci ha abbandonati invece davvero. Le rivoluzioni sono giovani e oggi la tecnologia ci ha separato dai sogni. Ma a me ha salvato la vita. Comunque abbiamo timori apprensioni silenzi densi e significativi. Poche parole e compostezza di vecchie signore.
Sola e smarrita, io,  e annoiata mortalmente dal caos interno ed esterno,  osservo la tavola scarna, piena di briciole, i prodotti della terra, ma quale terra d’altronde, è rimasto un briciolo di verde tra cattedrali di cemento nel deserto, comunque la terra, quella rimasta, quella povera che non dà più i suoi frutti, si ribella, e la siccità ha devastato i campi,   in stagioni strane dei sensi e non solo. A volte, su invito ascolto la conversazione delle cugine e dei cugini e dei rispettivi consorti, ognuno ha avuto un suo destino, ognuno carico di storia e amarezze e dolcezze e ricordi di chi non è più in questa terra, e timori adulti che hanno lasciato il passo alla gazzarra di voci di noi ragazzi sempre però con uno spirito lieve che ci unisce nel gioco.
Volevo fuggire dalla provincia. Senza temere l’abbandono. Ma la vita è bizzarra sono rimasta e il destino favorevole alla fine mi ha premiata in un modo nuovo inatteso.
In famiglia ricordi ci legano, ricordi  di un mondo scomparso, e la festa dei morti e i fiori nella cappella di famiglia.  Ma che  dolcezza quello stravagante dolce antico odore di cipria e camini abitabili. E le nostre, di noi bambine e oggi donne, ribellioni. Ricordo come fosse censurato il bacio di Via col vento a noi fanciulle “Girate” diceva la nonna “ci sono le figlie il bacio non lo devono vedere”.  E allora, senza mancare d’amore e riconoscenza, le nostre  fughe folli, per un destino di baci appassionati, e straordinarie avventure in giro per il mondo. Ora non fuggo se non da me stessa, così rendo giustizia alla mia propria volontà, ma nella mia fuga, oggi, porterei un solo bagaglio, vorrei un abito qualunque, e qualcosa di lana per scaldarmi negli inverni, senza specchi, oscurati per non pensarci,  e finalmente una terrazza sul mare. E come una misantropa, che tale sono, potrei contemplare sola il mare e i suoi flutti, uscire di rado per mettere qualcosa sotto i denti, e leggere annoiata un libro, magari solo qualche giallo, un puro divertissement scacciapensieri. Ma sollevate le ali del desiderio, ho poi cambiato rotta, o meglio ora, oggi, a questo suolo, questo proprio, mi legano i ricordi, le radici, e sono dolci, e l’amore ritrovato. Vorrei restare qui fino alla fine, ma fuori del tutto dai circuiti grossolani di una provincia aspra e maligna, e ormai nuda. Più nuda, ora, con la recessione che preoccupa e bisogna difendersi, e allora forse anche la provincia ferita o quello che ne resta si è fatta più mite, gli orgogli si stanno abbandonando, sono ormai inutili.
Comunque, per non dimenticarmi di me e tornare indietro, ai tempi in cui ero una giovane incosciente fanciulla sognavo lo stesso ripetuto sogno. L’amore, sempre per sempre l’amore.
Poi l’oggi imprevedibile, oggi l’imponderabile.
Allora esattamente dopo il primo intervento chirurgico, piuttosto magrolina e malmessa, triste di gigantesca solitudine ma tenace nel desiderio di ritorno alla vita, mentre tentavo strade diverse perché diverso è questo mondo, ho stretto amicizia con Lui su facebook, e ho lasciato il mio numero di telefono. Lui. Ora dico solo questo, è’ un artista, e ci siamo dati un appuntamento e io su facebook ho lasciato il mio numero di telefono, in chat, e chi l’avrebbe mai detto che oggi una chat può salvare la vita, , e comunque il salto frettoloso all’oggi che mi preme come straordinario mondo di chiacchiere virtuali e viaggi con un clic in tutto il mondo, e strano, oggi la terra, la stessa terra, prima rifiutata, e troppo odiata, è diventata la mia terra pazza e assassina.
Vivo con lui, ma di Lui dirò poi, e vivo in un bosco, non lontano dalla mia pazza casa,  comunque di nuovo o forse per la prima volta sembra che io riceva amore,  vivo in un bosco, altrove ma non lontana da casa mia, il mio vero nido, fuori città, e  comunque curo sempre con attenzione il nido materno, anche perché sono schizofrenica, e lui mi odia per questo e mi chiede cos’è la schizofrenia, e io rispondo un distacco dal mondo. Solo in quell’atmosfera femminile della casa materna, trovo riposo, io lì torno e rimetto  ordine  cambiando mobili lucidando antiquariato e preziose collezioni,eppure qui, ora, a casa sua, di Lui, appena in collina fuori città,   nel verde alberato, querce secolari e fichi e prugni e mandorli, in un altro spazio, eppure qui, ora, per uno scherzo dolce o un mio inconscio sesto senso che mi guida, anche nelle condizioni difficili, estreme, ora, qui, all’amore sono tornata di nuovo, ma una relazione breve e di aiuto, mi ha raccolta moribonda vuole che io guarisca. E allora allo stesso suolo legata, doppiamente più di prima che fuggivo sbandata come cartapesta gettata nel secchio, solo  qualche manoscritto mio, e nessuna illusione di ritorno;   proprio ora come per incanto e con fortissimo cuore vivo la freschezza del primo amore. Sursum corda, mi diceva sempre un uomo, che mi era in fondo padre, oggi troppo ferito, ha perso il bene più grande, la bellisima, biondissima, unica figlia, lei sempre giocherellona; e io che ero scura o cupa, avrei dato la mia vita al suo posto, ma il destino così ha deciso e le parche hanno scelto lei non me.  Spesso naufrago ancora, forse di tristezza forse di paura, temo si deprima Lui, nella nostra solitudine a due, ma poi energica torno a ridere a sperare che i nostri “mai ci abbandoneremo” siano veri. Facebook. Quel mostro moderno poco adeguato e anzi maligno a sentire i pareri della vecchia guardia. Ma  nutrivo il  desiderio , e ricambiato, di conoscenza. Un filo di speranza. La speranza disperata e ignara, si è fatta realtà. Oggi è vero, siamo amorevolmente intrecciatti e legati dal desiderio di non perderci mai, lui si prende cura di me, io di lui. Ma è un gioco, insomma io devo guarire, per la mia vera famiglia e per questo sconosciuto garbato che odia la morte e ama Bergman e le donne e la follia, io sostengo sua follia, vuole una donna con un tumore? Il suo straordinario talento mi eccita,e allora vivo un’altra terra fatta di film libri musica cinema arte purissima e cristallina. E baci appassionati e immane tenerezza. Sì, Lui è un puro. Un artista purissimo, un talento gigantesco sotto semplici modi da ragazzo. Nel corso di lettura ad alta voce che insieme ad altri seguo vedo in Lui che ci insegna, esplodere  in ogni attimo secondo un talento da gigante, un amore anche per le formichine, che siamo noi, un gruppo di mezzi sbandati sognatori; Lui misura anche la modestia di una vita di sacrifici, casa da pulire lavatrici e panni da stendere e stirare, i pranzi e le cene ordinati e semplici e salutevoli,. Una cagnolina incredibilmente simpatica trovata per caso abbandonata in autostrada. Come direbbero a Todi..”Oh che tipa!!”.  
Mi rende triste il torpore profondo nel quale mi getta  una famiglia che ricorda aneddoti, eventi di un passato nel quale ormai io non ci sono più. E io che racconto? Qualche parola a rallentatore. Un tempo sognavo di diventare scrittrice. E ho scritto un libro bruttissimo che nessuno legge. Sono tornata al mio nido dopo le sue urla furibonde. Il suo non volermi aspro, crudele improvviso, l’ora del lupo. Mi sono ritirata in soffitta a vivere, una splendida soffitta con un computer e un allaccio internet, lontana dal clamore di chiacchiere su trascorsi troppo lontani che mi annoiano,  un sonno profondo dal sentore di morte.  Sono veramente intontita, ma dolce, remissiva, perché ho anche io una mia compagna di vita,  che lenisce ogni ferita,   la mia ombra dolcissima, Priscilla, una cagnolina dal cuore d’oro e più minuscola di una gatta. La paura comunque ritorna, mi guarda dagli angoli, si insinua nelle conversazioni, è fatta di metallo, e del metallo ha il sapore, tranne di notte quando la luna si apre a ventaglio, e il biancore argenteo ricopre il corpo nudo e dimenticato. Spegne il fuoco, è acqua che miracolosamente riempie l’anima e l’increspa dopo l’arsura.
A tavola parlano della passeggiata in centro, un paese di provincia, ma io non ha una storia mia da raccontare, in quel vociante mondo intorno. Con la testa, organo delicato, attraverso la parola, immagino nuove ragioni, nuovi orizzonti , eppure non c’è tregua. Il tempo governa tutto. Sono lontana perché sola, e sola ci voglio essere, è la mia natura profonda, sola con Priscilla. Sono fatta d’esperienza laboriosa e un cuore di ghiaccio, da sciogliere, non è pietra d’altronde. la pietra impenetrabile e impossibile da scorticare se non lavorando con la falce. La pietra di cui è fatta la provincia. Sono pensieri incoerenti, scherzi  della mente.   Sono stanca e troppo affaticata da una vita di lavoro e durezze, mi sembra di aver già vissuto, e di vivere un oltre che è una platonica caverna d’ombre ingannevoli, e solo con  fatica, e travaglio, si risale alla luce. All’inizio la luce acceca poi è cristallina. E’ uno specchio d’acqua increspato. Lo tocchi e affondi nell’inconsistenza eppure ti avvolge di freschezza.  E’ giusto salpare se il coraggio sostiene i remi ma io resto, e non mi disperdo nell’invidia del mio ostinato silenzio, specchio  che riflette reti di amare profondità. Inesplorate.
La mia voce ha un timbro delicato, afono, sembra incantata. La voglia di vivere dimessa, non più follie, ma impazzisco come felina in gabbia, e attraverso con la mente scene colossali in cui tutto sembra riemergere dal passato eppure tutto è quotidiano e dimesso.  Basterebbe scavalcare il muretto per essere al di là. Ma oltre è il nulla. Oltre è il computer e la lena con la quale scrivo racconti che nessuno legge e chatto su facebook. C’è un uomo in chat che mi attende e forse verrà a trovarmi in soffitta dal Nord, e cucinerà a basso costo una pizza, solo pochi centesimi per una pizza fatta con lievito puro e salsa di pomodoro. Cucinerà lui, io sono un disastro ai fornelli. Ho appena partecipato al Flash Mob vestita da strega con un vecchio cappello della bisnonna fiorito e con la velina, per le grandi occasioni, ma questo non basta a rendermi simpatica a scuola, la scuola nella quale lavoro. Come sono noiose le insegnanti.
Già allora a tavola il nonno raccontava di come le cose fossero proprio storte,  mentre la più energica delle cugine, un volto di porcellana, e deliziosamente simpatica quando giocava a farci ridere nonostante tutto con battute che le sorgono sempre spontanee, giocherellona com’è, smitizzava e si alzava da tavola  per portare i piatti sporchi in cucina e per metterli nella lavastoviglie, con garbo lasciava la sedia vuota per poi ritornare accanto al marito che le cercava la mano intimidito, lui ha meno coraggio mentre lei sistema i capelli lunghi e biondi con un fermaglio, raccogliendoli sul capo per lasciar scoperto il volto d’angelo. Il nonno ha un modo imperioso e austero, ma è anche piuttosto caustico, e sempre sagace senza mai farsi sgarbato.
Ieri Immaginavo: attenderò il mio fantasma, la voce dolce mai udita, che  non deve sfuggire come fantasia e inganno. Una misura diversa del tempo se condividerlo è possibile. lo psicanalista che mi cura sbaglia tutto, e il desiderio di ucciderlo è forte. Conficcato nel cervello e nella scatola cranica, ma ora forse ho un uomo, con braccia forti, ho voglia di abbracciarlo, ha coraggio, affronta il mondo con forza leonina. Quella penna gentile in chat, con una foto che ne esalta l’azzurro degli occhi, lui, un uomo solo virtuale, si scalderà al mio seno.  
La mattina è stata in chiesa. E’ pasqua e vuole credere ai miracoli. Magari esistono davvero. Una colpa pesa come una maledizione su chi non sa liberarsene, e il maleficio diventa l'ordigno innescato nel cervello trafitto, la testa arrovellata, in briciole, a pezzi, nel buio di una notte senza precedenti. L'animo sgangherato e guastato dall'orrore del delitto esagera l'oscuramento, la vergogna dell'errore diventa deserto vuoto isolamento, resta un'eccitabilità nervosa che raramente solo a tratti si placa, ribollisce il sangue pulsante tra le crepe della testa in fiamme, e ovunque e sempre rimbomba e si ripercuote l'assordante esplosione di un no ripetuto come uno schianto, un colpo d'arma, un tonfo che scuote, un no che è desiderio di pacificazione dal quel chiasso interno implacabile, caos primitivo, voragine oscura, abisso satanico e caduta di ogni intendimento.
La notte
La luna e una visione da nottambula, quando si fa buio, e tra le visioni allucinate incespico goffamente e mi derido da sola con accessi di riso pazzo e solitario. Ma l'ombra torna ogni notte a giustificarmi dal sudario quotidiano. E' fresca della frescura dei glicini e rigogliosa come uva matura che assapori nei campi quando il tempo ricopre le viti. E' acqua che lava il bitume, tradisce il giorno per fertilizzare la notte. Dopo un tragitto, tra le pietre arse e le strade deserte. Entra come tramontana d'amore e porta con sé il sapore del mare e della spuma, che non c’è perché la città è fatta di pietra,  ed è dolce il ricordo dei frangenti puliti e della risacca sciabordante che scomposta richiama all'orizzonte lo sguardo, e la voglia pazza di naufragio. La vita si è prosciugata, un’esile speranza soltanto, da quando con una sorta di dolcezza dell'anima,allegro e giocherellone, un uomo ha inciso una speranza profonda che mi rende impaziente e mi divora la voglia.  E’ lontano. Urla mi abbandona mi cerca e poi di nuovo urla e abbandona. Un gioco doppio che sdoppia anche me e mi distacca come se la sua forza leonina mi annichilisse togliendomi il respiro vitale.  La mancanza carnale  attraversa ogni tendine, ogni muscolo, mi ricaccia in un disorientamento e un abisso. Solo la notte torna clemente il silenzio, come vento tra i capelli. E allora fumo e scrivo il mio distacco la mia schizofrenia.  Ma la luna è un poema  avaro di sé e all'alba fugge spezzando l’incanto, per riaffermare la solitudine di sudario e bitume e cenere e mura. Le basta un'occhiata allo specchio per accorgersi che la solitudine incide segni, lacrime, e l’ultima speranza è lui “l’ombra”. Uno sconosciuto  conosciuto su facebook, e poi incontrato in un fine settimana giocoso, eppure serio, pazzo e divertente, puro nel senso migliore,il senso con il quale ci si eleva sopra le mille giustificazioni che sei  obbligata di fornire rispetto alla vita a ritroso, e alla solitudine improvvisa. E’ stato un atto coraggioso invitarlo a dormire in soffitta in due per fare l’amore, nella frenetica emozione. Ha lasciato segni indelebili, pianti di solitudine,  contro i quali non ha rimedi, se non il trucco come apparenza superficiale. Di nuovo al lavoro, di nuovo derisa per il coraggio di mettersi a nudo. Tra le pietre che formano i muri di quella provincia medievale, giocattolo che si svita, prevale il frenetico ricorso a pettegolezzi e malignità, e di lei dicono le megere che è stata ridotta alla demenza per aver preteso troppo. La definiscono  pazza perché ha intrapreso uno stupido cammino psicanalitico durato trent’anni. In realtà è solo fragile e timida.  Intanto la recessione miete vittime. E autorevoli assassini restano a guardare, indifferenti.
Lui scrive un messaggio al cellulare “ti amo”.
Ho iniziato allora un colloquio furtivo con me stessa e il computer con il quale scrivo, accudisco e protteggo l’anima nascondendo agli altri il vero. Amo il fantasma di facebook, ora che lo conosco e ci siamo divertiti a letto, nonostante la pessima figura mia, mi sono ubriacata in un’enoteca, e poi ho vomitato anche l’anima, per “l’ombra” come si chiama al Nord, io però l’ho amato appassionatamente, ed è una malattia. Io lo voglio così com’è, con la sua solarità che mi rende sorridente.
E’ ritornato, forse gli sono piaciuta, nonostante tutto.
Appena ci troviamo in soffitta tolgo gli abiti e lascio che lui mi penetri. Prima mi bacia mi abbraccia, mi accarezza. Lui che è la luce e il vento tra i capelli. Come in un gioco che abbia smesso di essere un gioco nel limite stravolto e rigettato della realtà netta, veritiera, agonizzante, uno spazio di libertà, accarezza i seni e dona il più dolce degli amplessi, sotto il palmo suo, stretta al suo corpo, sento la pelle fino al ventre, soffoco i singulti perché non mi sentano. L'ombra, mi accarezza mi bacia mi tiene stretta. Uno scherzo del tempo che mi ridona la grazia. Lui accarezza i capezzoli, e io mi lascio penetrare dolcemente. “Sei vergine” mi dice. Quando riparte lo accompagno alla stazione, intristita.  il sogno di lui che torna come il vento tra i capelli. E' preziosa la nostra intimità,  amplesso che illumina di mistica luce riflessa le lontananze dolorose, e vorrei il suo calore sulla pelle per affermare la presenza-assenza ancora più dappresso e sentire la voce di lui farsi richiamo invincibile, sicuro. Un richiamo ogni giorno del vento, nella casa che dorme. Chiudo dentro il piacere serrando le cosce. Perché si rinnovi l’ardore. Amor mio sei la mia meteora, districhi i miei pensieri sciogli le mie voglie.
Volgi a me beato i tuoi occhi, guarda osserva la mia devastazione. Turgidi i capezzoli chiamano induriti di voglia e premono sulla pelle sua. . “L'ombra” l’accarezza. Le dita si apprestano a strazianti sfioramenti, il fuoco non si spegne, caldi i seni, i sensi dilatati, la pelle sprigiona umori e chiama il piacere carnale che offre il corpo smunto,   non appartengo ad altri, solo per te sorrido,  aggrappata a te, grido e gemo. Quando tu te ne vai, amore mio pazzo, a volte ostile come in una guerra appena iniziata,  il letto resta caldo e bagnato dei miei umori, a te mi consacro per te abbandono tutto, per te si fa sregolata la testa e premono le tempie. Tu sei il mio nido, per te sistemo il cuscino quando tutto tace. E' un duello mortale e notturno di pazza sonnambula che trapassa il buio per incarnazioni miracolose. Ma l'ombra rinfresca e purifica la terra, e piccoli germogli vergini radici tornano come per incanto a nutrirsi alla fonte sicura. Non appartengo più a me stessa. Appartengo a lui, al vento, alla notte nella mia cameretta.
Prima di conoscerlo scrivevo così, ormai pregavo per non restare troppo sola, perché io le parole non le so, e gli eloqui delle donne mi risuonano in testa come mostruosità, e ne fuggo. Nei fogli persi, perché persi il computer e non avevo registrato su chiavetta usb, e poi ritrovati tra il disordine di carte, scrivevo ingenuamente così. Come di seguito:
In chiesa.
Era troppo veramente troppo. Era necessario cercare un principio essenziale di quiete che tendesse verso il basso, verso la terra per ancorarsi, una forza compiuta, visibile e determinata. Non hanno limiti ora gli angelici cori per le sue orecchie e infinito è il tempo che scioglie l'animo dal mistero di un corpo  abbracciato alla carne, ma ora è ricordo, ora è lontano, e ecco affiorare il filo dei pensieri che riunisce tutte le condizioni di possibilità della sua vita, smarrita nei sentieri inessenziali, fra le dita intrecciate in preghiera lei ammette la necessità di confessare a se stessi ciò che le cose dicono per loro natura fuori dai labirinti ossessivi. Requie eterna - eterno riposo- la preghiera si alza in coro, distratta come ogni domenica ma stentorea; la grazia rallegra e definisce il tempo del  fantasticare psicotico. Sa comunque di aver perso la strada superba e chiara della ragione, ha osato indagare i misteri e ora è solitudine anche nel viso smagrito, sciupato, che pure manifesta nei tratti ingenui e dolci la disponibilità a rimettere in discussione ogni tentativo di risposta per nuove possibilità. Presa da angoscia incrocia le mani, socchiude gli occhi. Ecco un luogo nel quale protetti dalle volte e dalle arcate in ritrovata pace tentiamo di sfuggire alle tempeste e saldare l’ancora della sorte disancorata, per una donna che si vuol riposare i nervi tesi e i giovani cervelli audaci sono musica stridente. Gocce di sudore le imperlano la fronte, ha disimparato la propria bellezza e l‘ha dissolta nell'oceano del dubbio, e tuttavia non si spezza il sogno, la vittoria non giustifica nessuno né redime, perdere non significa null'altro che sacrificio, trovarsi a soffrire e poi chiedersi nel martirio d'amore se un angelo qualunque giungerà a togliere la croce. Sono il trofeo di questo santuario si dice la donna e vuole scordare; dolcissimo angelo condannato a morte, non fiera ma felina , miagola e graffia ad un tempo, col desiderio di uccidere e poi giacere sulla propria tomba, da quando uno spesso fendente ha trafitto il cuore che s'è imbambolato.
Il cuore spalancato...solo non pensava, però, nulla di simile. Implorava Dio di darle un lui, un nuovo amplesso, nuovi baci. Bocca baciata non perde ventura. Sognava sbattendosi tra preghiere in chiesa e richieste d’amore agli occasionali amanti, richieste rifiutate. Un corpo di bambola, un pulsante facile. Sognava un lui che Le teneva una mano sulla spalla, così Sara se lo figurava, nei messaggi che lui le inviava al cellulare, nella voce dolce melodiosa,  giocoso ma intimamente malato, eppure potente come la terra infinitamente amata. Da tempo lei restava solo ad ascoltare con il mento piegato,  ferita da un vecchio doloroso abbandono, senza far altro che fumare e leggere fino a perdere il sonno. Sara Scrive messaggi al cellulare “Amore sono qui, doppia duplice con una cagnolina come compagna”. Non era più stato felice lui da quando l’inverno si era fatto spesso e le stagioni della sua tenerezza morte per mancanza di tempo da riempire di carezze.
Le finestre della  camera di Sara danno sul presbiterio, allora è lì la domenica appena fuori dalla camera, per musiche maggiori di quelle che riecheggiano nella stanza delle sue astrazioni di chimera. Eppure lui, sempre invisibile, ma presente, sa esattamente, così lei lo immagina, roteare abile le braccia forti e i pugni tesi, squadernare quelle pareti anguste, e scoperchiare le volte gotiche per aprire al cielo le preghiere e attraversare le nuvole, per scrosci di pioggia adamantina,  perché i manti verdi non muoiano di siccità e piccoli germogli vergini radici abbiano di che nutrirsi. Ma alla fine resta solo un'ombra, l’angelo, l'anima divina. Gioioso prima, l’incontro un caso fortuito di facebook, solo un’amicizia facebook e dopo, dopo, paura allarmante, che ho fatto mio Dio è peccato? Il senso del peccato è l’arma di delitto, lascia ai singhiozzi la possibilità di farsi strada, perché tutto resti così com'è, marcio dentro, e la scatola chiusa, serrata, trasudante carogne e scheletri del passato.
Ma sussurrano le donne  litanie alla luna strega. La luna  avvicina  il mondo, è fedeltà al fantasma,  lui solare, affamato di voglia di vivere. Sola nuovamente, Sara è  impietrita e fissata su fondo come Dafne fuggitiva, e lei, donna  che non si è mai fermata con il tenace desiderio d’amore, lei che ha sempre abbandonato o è stata abbandonata, agogna ora il ritorno scacciando i pensieri di abbandono.
Ricordi. Pupazzi di stoffa come le bambole della sua infanzia che conserva, infanzia lontana come matassa inestricabile,  perduta freschezza giovanile. L’immediatezza è perduta. Sogna il mare e i suoi flutti, sì, le perle di conchiglia raggianti di splendore femminile. E  ascolta; l’amore non sfugge al serpente, è avido di croci ed essicca i cuori perché resti il deserto di morte libagioni. Allontanare il giudizio non è facile. Da bambina era facile riflette la donna, se ritrovassi la fune che mi allaccia al passato resterei a decifrare la concatenazione degli eventi per annodare le trame del destino. Torna però con poca voglia a quei tempi perché il ricordo è una rivendicazione troppo tardiva. E la morte li allontana in una lontananza indefinita. Pensa alla casa, alla famiglia, solcata di rughe,  con la fantasia eccitata,  da sedare con i farmaci, e ricorda la perduta infanzia e giovinezza come in una saga di fiabesca provenienza. Scorre recitando gli stessi interminabili versi in schemi sempre identici. La casa la solitudine i passi le voci. Tornare a cercare è complicato. Pensa al giorno trascorso, rievoca il limite di attimi, momenti di quiete. Prima del delirio. La sfrontatezza delirante è un ordigno che è la lucida coscienza delle responsabilità, della solitudine e di una guida che ha perso. E' un'ombra ed è un sogno. Un fantasma e un angelo. Mai indiscreto eppure spregiudicato e imprevedibile le ha concesso la piena libertà delle sue azioni senza fare domande perché non si sentisse intrappolata e suggellando nel cuore un patto d'onestà. Ma battono alle tempie le parole di un cattedratico a lei rivolte.  "ora basta sei perversa sterile non comunicativa. Ora basta. Non comprende, è inverosimile il suo ostinato silenzio, dopo gli insulti, quasi sfacciato di fronte ad una donna che cerca l’intero. Dicono sia pazzo. Eppure tanta sapienza dovrebbe rendere la saggezza. Sei perversa sterile e non comunicativa le ha detto ed è scomparso, si è dileguato come impossibile enigma. Sono iniziate le vacanze di pasqua e lui non telefona. Continua assorta a scrivere disordinate parole, frugando nella borsa piena di libri per cercare le sigarette. È tornata da scuola. Le piacerebbe sfidare la sorte imbrogliare il destino, voglia di rinascere come fiore nella solitudine del deserto senza impronte, e lacrime, e fiori senza i quali si muore di violenza. Ma poi il malinteso si è chiarito. “devi smetterla di sentirti malata,  tu ti allontani con questa ossessione della malattia psichiatrica”.
Le gambe tremano paura furiosa di camminare. Paura del vento tra i capelli, Paura dell’acqua che lava il corpo. Piuttosto che lavarsi accende un'altra sigaretta. Paura nullificante che schiaccia annienta distrugge incenerisce. Ferite inferte ai prigionieri del tempo, un demone nemico canta un canto macabro sibilando alle orecchie il rumore che soffoca, voci fantasie parole taciute,  un orologio  esatto ma vuoto. Scavare le parole come in un museo per trovare il resto, i rimasugli della vita che resta da vivere con uno sguardo al cielo. Una terra nuova, un manto d'erba, ciclamini e nasturzi in giardino, sono riposanti, e quando la notte si alzano le stelle si ricrea l'anima che traduce la croce, curvata sotto il peso, inginocchiata, a fatica rialzata la donna chiusa nella sua cameretta di ragazza prende penna carta intreccia parole che la giustifichino .
La messa è finita
«Sicché tutto qui? Bè, vecchia mia non so che farmene. Dov'è che hai messo le sigarette? Ora non ho tempo, ritorno al circolo per il bridge - il medico ordina di curare la pressione ma dovrei allarmarmi? Trovami il cellulare nella borsa che lo chiamo. Almeno si decide con questa medicina miracolosa!» Nella calca all'uscita una moltitudine ipocrita vocifera mentre correndo i bambini escono scomposti. Il fendente ha trafitto il cuore e i raggi accecano la vista che sbatte e spalanca. Nulla appare più certo, quattro spiccioli al mese e un po' d'acquisti sfaticati, scarpe tirate a lucido, un cappotto nuovo, la passerella di domenica al centro per non sfigurare. Ma è come essere nudi. Soltanto la donna, che ha sottobraccio un libro nuovo e lucido di zecca, nuovo acquisto, ha un aspetto un po' diverso. O almeno dà ad intenderlo. Almeno lei ha un libro, un libro mentre passeggia con fare irridente e discosto sotto il cielo, quasi giustificata come in un certo definito tratto d'anima da quel possesso che la distingue, io no, intende, ritorno ai miei libri e non resto a contemplare, non appartengo al corteo di ombrelli in piazza che attraversa la strada sotto la pioggia.
Cercava riposo in quella casetta di anticaglie dal suo lavoro infaticabile. Scrive un messaggio a Giulia “Allora? Come va?”. Giunge immediata la risposta “Matteo è impossibile non si fa trovare mai è pieno di amanti non ce la faccio più…aiutami incontriamoci” “ok appena posso. Sono inguaiata anche io tra psichiatri e paure”.
Colpevole. Per il momento l'altro, l'intruso amorevole, agognato, spasimato, non c'è. Era il suo quarantesettesimo compleanno quando per la prima volta è entrato nella sua casa nella sua vita. Il concerto lunatico della sua esistenza è una partitura misteriosa, genera sogni e languidi abbagli, e ottenebrata perde ciò che illumina e rischiara la strada nell'ordalia dei suoni strampalati e mutevoli.  Orsaggine e selvatichezza si affacciano, la superbia si fa aspra, e si profila spontaneo e immediato il raccapricciante ribrezzo che è la sensazione di restare sospesa nell'aria. Ha sognato che le entrava nel fianco una mucca con sette zanne il corpo bianco come la neve e la testa di smeraldo. L'analista interpreta i sogni. Lei ha sognato la mamma le ha detto. Probabilmente è un sogno di conversione. Vorrebbe nel suo corpo veder nascere un fiore, una rosa,  ma avverte che è un desiderio impossibile e forse per questo gli acquisti di creme profumi abiti non la soddisfano comunque e diventano un fatto compulsivo. Le manca il giardino da coltivare, la fertilità, e il corpo lo avverte come fortezza.  Il vuoto che dice di percepire nel fianco destro, è il sentimento della sterilità. Lei dice di sentirsi mezza, senza la destra, e forata e che muovendo il braccio destro e la spalla destra sente il vuoto dell'anima.  Cerca l’incomparabile e intangibile, cerca l'anima che dice le hanno rubato. Vogliamo provare ad attraversarli gli specchi?” Ma come si fa? Gli occhiali da presbite nella corsa euforica verso il cancello e la strada deserta, dopo quell'ora nella stanzetta d'oro erano caduti, e lei non si era fermata a raccoglierli.. Si ferma a riflettere, non vuole tornare indietro e prosegue. Teme profondamente le responsabilità. E' l’inizio di un viaggio. Non più  sola e senza orizzonti disponibili. Chi farà scudo al nemico? In fondo era un capriccio pensa. E inconfutabile ha fallito. L'indecente in tutto questo è l'averlo previsto. Aveva fatto irruzione nella sua vita un angelo che agitava la corrente delle sue monotone giornate, e poi era mutato cambiato. Forse lei non comprendeva. II medico che sistema le “teste ha cura di un arto complicato”. Sylvia Plath. Un ordine ragionevole ammorbidisce il delirio e trasmette la sensazione di una timidezza che deriva dalla vergogna. Carica di divisi pensieri, rivendica un'imparzialità che non trova, è imparziale con se stessa e insieme iniqua.
Una  resa a un nuovo amore, si è fatta improbabile davvero? nutre orrore per la dimenticanza. Una donna smaliziata da fantastiche allucinazioni. Non sopporta il freno alle sue briglie che la immobilizza e la priva di dolcezze. Intrisa di frantumate memorie. Ancora pronta a infiammarsi ma con uno sguardo indietro e il pensiero incandescente di aver subito una truffa del destino. Eppure lo sapeva. " l’idea di qualcuno accanto mi dilania l'anima. Sono all'altezza sono adeguata sarò capace? la risposta è no non sono all'altezza non sono adeguata non sono capace. Pazienza … Ora si tratta di tentare in quella stanzetta d'oro con un estraneo che ascolta e di trovare chiarezza  e di sapere perché accade. Far luce in questo tumulto per  proteggere l'argine che straripa". In autobus disegna arabeschi su un foglio, distratta, scarabocchia svolazzi, e  viaggia verso future esultanze, ammesso che il buon senso e il criterio dell’analista siano scienza e snocciolino il bandolo dell'anima. Ma l’analista sembra un cialtrone. Comunque è un tentativo.  Affaticata, giù di tono, indossa una giaccone e jeans. Si ferma in un bar per prendere una birra e fumare una sigaretta. Lo psichiatra è l’assassino, e anche piuttosto venale.
Vede all’angolo del vicolo il suo vecchio professore di università, sciatto, trasandato, occhi bassi, passo lento. C’era stata l’anno precedente una discussione durata ore al tavolino del bar del centro.  
Era impazzito, colpa di una donna, quell'essere sconosciuto che non aveva osato indagare per viltà misogina e stima del suo intelletto grave ma forte, di pietra, e per lenire ferite si era fatto con gli anni legnoso, un burattino senza forza che ratificava per mera necessità tutte le ingiustizie del mondo.
Ora era agonia dubbio scomposizione era diventato un cialtrone biascicava le proprie ragioni camminando a passo lento, senza criterio, allontanato da tutti che schiamazzavano chiacchiere da bar, nei tavolini del centro. Lui con la mente ottenebrata camminava con gli occhi in basso e incurante di quel monologo stralunato e solitario che sfacciatamente ostentava, un canto scandito alla pallida luna rivestita di stelle. Un pensiero grigio cupo, un sogno di riscatto ormai abbandonato, un ricordo che richiama l'illusione, poi il no secco della coscienza e la consapevolezza carica d'odio del male subito senza rimedio. La vendetta impossibile inutile fuorviante. Era  un giorno qualunque tra giorni senza importanza; una mattina d'estate inoltrata, dopo una cena in un ristorante del centro, veloce, camminava per il corso con la voglia di distruggere prima di tornare agli studi tra le carte disordinate. All'uscita aveva intravisto un uomo che usualmente ostentava la massima eleganza con una forma di sfacciata caparbia quasi a dire le mie tasche sono piene e se sono piene le mie tasche anche il mio onore, e lo aveva sorpreso a ridere del suo soliloquio da mentecatto. Comunque il ristorante d'angolo dall'insegna sciatta e all'apparenza poco invitante era poco frequentato.. L'uomo pensava e parlava da solo in un monologo strascicato, tornava con angoscia ripetuta a contare gli attimi i minuti che si rivestivano di significati giganteschi, in quel giorno maledetto, in quell'urto improvviso. Battevano le tempie, basta basta, uscire dalla gabbia dimenticare. Bisognava imparare a memoria le regole della comunicazione come la tavola pitagorica, fame una logica del pensiero, conoscere la realtà iscrivendola in un quadrato o mettiamo un cerchio anche, purché sia iscritta perché faccia parte di un universo concentrato e forse rattrappito d'accordo, ma così era solo paura, del futuro, e lui era già vecchio e gli anni si facevano sentire. bastava esaminare la sua andatura incerta gli occhi bassi la vergogna di esserci ancora il desiderio di restare appartato negli angoli nascosti, lontano dalla folla, per capire quanto fosse infelice per quell'anarchia del mondo insensato, come una trottola impazzita e girava e girava e lui non poteva più giocare come un ragazzino con quell'equilibrio incerto su due gambe come moscerini e la rabbia soffocata. Ci sono anch'io raccoglietemi cercate di capire e d'accordo sono superato ma posso esserci, anche se di lato, nascosto, travestito di memorie e rimpicciolito dal peso di una fatica senza speranza, ad occhi chiusi. Regole e leggi nuove da subire in un mondo grande quanto un guscio di noce ma feroce di fronte alle diversità, ostile con chi aveva modi inusuali o non conformi ad uno stile che lui onestamente definiva da bifolchi e straccivendoli da mercato, bifolchi travestiti da nobili per un'osservanza maniacale ad un'esteriorità solo formale. Un'eleganza in fondo triviale come immancabile travestimento e in fondo era l'invidia trasparente negli sguardi curiosi ed avidi.
Il rapimento della voluttà. Ma io, si disse,  molto più abilmente so volare e levarmi rapido in alto per fuggire da chi non avendo ali cammina e cammina una strada faticosa e sconosciuta senza armi di sorta se non la cura della casa degli anni da trascorrere con quattro spiccioli e un lavoro qualunque, e se ho sottovalutato è per via dell'abitudine alla solitudine e modi da vero selvaggio, come minotauro disabituato alla luce, pensò suo malgrado, ma in fondo era stata sbadataggine, semplicemente uno sguardo poco allenato ai colori e ai riflessi screziati e confusi di un'anima senza traduzioni intellettuali, era l'animo gentile di una donna incrociata per caso; sicuramente in cerca di fuga e con poca sagacia e disabitudine al nuovo aveva lui cieco e sordo al richiamo imprevisto, ascoltato con la noia del già troppo noto e troppo detto, per tornare senza perdere tempo tra i labirintici meandri imperiosi e noti dell'intelletto che ai testi si applica senza posa e non ama distrazioni, eppure era l'animo accorto di una donna forse in pena, ma alla fine chi non lo è a questo mondo? Aveva dimenticato dunque i versi di Dante sull'anima? la creazione dell'anima, da parte di Dio
-esce di mano e lui la vagheggia- prima che sia, a guisa di fanciulla- che ridendo e piangendo pargoleggia-l’anima semplicetta che sa nulla.
Pensò che per la prima volta in anni aveva dimenticato di recitare le preghiere prima del desinare. Tre volte al giorno recitava le preghiere e regolarmente santificava le feste - Ma la donna era un pasto a cui non si era mai abituato; lo attraversò il pensiero cosi, nudo e macabro, e ne ebbe orrore, lo ricacciò nel fondo perché non riaffiorasse. "Se si recita la preghiera non si giunge comunque alla fine della giornata con la coscienza perfettamente in funzione e a posto. Non basta . E' vero che la preghiera prima dei pasti rende grazie del bisogno concesso ai bisognosi, ma non basta". Così pensava a voce alta come gli succedeva spesso ormai. Era sempre stato metodico e severo, estremamente puntuale e sempre attento alle orazioni quotidiane. Ne per lui esisteva il caffè a metà mattinata, o l'abbondanza di vini nella tavola scarna e appena apparecchiata di pane affettati e prosciutti, ne sigarette o droghe inquinanti, il caffellatte o la cioccolata con cornetto a colazione erano proibizioni che risalivano all'infanzia, quando i soldi erano pochi e il cibo misero e da dividere in una famiglia contadina nella quale nessuno portava scarpe che non fossero state mille volte fasciate per chiudere gli strappi e tenere legata la suola che proteggeva dalla neve i piedi intirizziti dai geloni. Ora se possibile, pranzo a mezzogiorno e alle sei la cena! Ma prima mezz'ora di ringraziamento per il nutrimento che non mancava e del quale si era grati at signore che non aveva abbandonato quella tavola, e dunque santificare i suoi doni era dovere d'onestà e rendimento di grazie. Ma la pazzia di un ordine che si era mutato per sortilegio in un incubo incomprensibile per un uomo che aveva sempre preso sul serio il suo spirito quanto la sua solitudine e che ora, nella vecchiaia, aveva creduto di ricavarne soddisfazione infinita per la quantità di beni accumulata in anni di lavoro.
Sara
E’ tornata, dopo una lite con un lui che la soffocava, fino a smembrare l'identità, nella soffitta, la sua camera di ragazza. Cos'era accaduto dentro o fuori non era chiaro a lei che lacrimava e a lui che restava sconcertato da quel  repentino capovolgimento di una vita d'amore, trascorsa per lei, con lei, per puro amore.
abbandono
Suona una canzone alla radio in sordina che suggella il limite estremo del giorno, dalla strada sale il rumore frenetico di motori come note strappate di cingoli che stordiscono e abbacinano. Le orecchie. Gli occhi. Di nuovo gli occhi di un'ombra che schiude il mistero superstizioso del suono e ordina il silenzio. La donna guarda di fronte,  in una sua immobilità senza movimenti, fedele cerca di apprendere quell'arte che è il silenzio tra le morte cose, avanza e si dilata l'ingiunzione dell'ignoto, seduta con gli occhi verso il muro di fronte,   le labbra immobili. Di colpo, nel silenzio delle loro voci ammutolite, sale attimo dopo attimo, veritiero, crudele, il palpito soffocato dei loro respiri, ritmici nell'aria, e l'avversione odiosa, febbricitante, annega in una vibrazione del tempo che scorre mutando i suoni amplificati e disarticolati. Il silenzio è un ombra di luce che ha corpo e nasconde il suono teso a vomitate nauseabonde parole. Denso e grigio si riflette il disgusto, la donna tesa all'estremo urla "non ti voglio io non ti voglio"; l'uomo non risponde non si muove, pietrificato.  Nero vibrante catramoso    il silenzio, e una lacrima scende riga il volto segnato di Sara , segnato di  vergogna, poi lenta un'altra e un'altra ancora, piano si scioglie il tumulto incessante per un attimo di pietà.
Il dolore inclemente, chiuso isolato liquefatto poi spalancato di lei intenta ad ascoltare i colpi che intontiscono. L'uomo cerca la domanda cruciale oltre quelle sghembe parole gridate, paziente ascolta quei frammenti allucinati. Una spiegazione semplice del complesso, un ordine, procedere per deduzione e sbrogliare l'intrico, comprendere cosa implica e perché, e perché spontaneamente come un boato si produce quel delirio che fulmina, inintelligibile. Trovare l'armonia dell'anima comprendere l'inganno e sfuggire alla trappola che è diventata il luogo di lei smembrata in uno spazio non suo, fatto di sbarre. Non c'è stata una parola tra loro in tutto il giorno ma se anche il vuoto ha un nome in qualcosa si deve tramutare. E' necessario scampare a questa miseria d'amore e delirio che ha frantumato l'incanto dei loro corpi abbracciati. " L'amore non esiste. Esiste la solitudine l'abbandono la paura." Dice la donna guardando straziata fra le cose a destra a sinistra come a cercare l'orientamento nello spazio quadrato che non riconosce, negli angoli negli oggetti nelle pareti nei mobili nella tavola apparecchiata.
Ha creduto di essersi persa in una distanza ignota e tra i singhiozzi ha cercato di orientarsi sorda a ogni muto rimprovero, perché la sopravvivenza è così. Una fine una memoria una fuga un fantasma che appare in mezzo alla più conviviale delle conversazioni ed è un'ombra travestita, nascosta, grave, accesa e spenta all’ombra dell’enigmatico silenzio delle strane cose risucchiate. Trattiene il tempo e ne espande le vibrazioni, ed è come morire senza morire, con un nemico accanto invincibile, sulle prime lo credi un angelo e lo tieni nascosto come l’amante più segreto, sedotta ammaliata , ma il tradimento è vicino, ha un passo e avanza marziale, è un corpo diverso, un vecchio aguzzino rigido travestito di fessure che sono occhi tesi, e annuncia cori di voci disgiunte come parti di un corpo metallico, si prolunga in un'eco sterminata il dialogo forsennato dentro il corpo rattrappito, e si svita la testa di bambola dopo un sonno in cui la ragione conservava fedele i suoi buoni quotidiani argomenti. Un intruso speciale, occhieggiante, non uno come noi, con sguardo imperioso trafuga parole nel vigore estremo del silenzio, cicalecci che incendiano, distruggono, fucilano, prefigurano il gioco temibile di una fuggitiva senza speranza nel brivido della solitudine ad occhi chiusi. Il giorno prima c'era stata una scenata. Piangeva aggrappata ai cuscini del divano e graffiava la stoffa, bella comunque nel suo abito di seta indaco indossato per l’occasione nella speranza di mascherare la prigionia che avvertiva dentro, nonostante si riconoscesse colpevole, e quella gabbia dal canto suo la meritava come ogni altra cosa. singhiozzava"tu mi uccidi mi uccidi io soffoco". Lui aveva il volto coperto dalle mani.  Si offriva paziente a quell'incubo improvviso e atroce. Poi si era alzato e le aveva strappato il bicchiere di mano e aveva urlato "ora mi dici tutto con ordine". Lei si era schernita e raddoppiando la lontananza aveva respinto il gesto alzandosi con violenza e tornando in cucina a rovistare nell'acquaio tra i piatti sporchi. Io sistemo la casa lavoro fatico. Questo intendeva con le lacrime agli occhi e la testa in fiamme. Le parole cadono e non si vede il loro peso nel vuoto, eppure cadono nel vuoto ma non toccano terra. Un tuono aveva annunciato la pioggia. Lei aveva balbettato piano con un filo di voce " sei diventato matto? Non vedi come sto tremando? Sei aspro tu non vedi non ascolti non rispondi" E allora lui si era alzato in piedi e le si era avvicinato.
Le aveva stretto i polsi per fermarla o strapparla a quella risonanza incomprensibile. Impressionante orrore della verità. Aveva respinto il gesto ed era andata a dormire dopo aver preso un sonnifero per chiudere gli occhi e divorziare nel sonno dal suo incubo. L'ombra scompariva quando il sonno penetrava proiettando ombre, e ancor prima gli occhi si chiudevano e si compiva al massimo grado il divorzio dal mondo. Una pausa prima delle prime ombre del mattino. Cosa realmente vuole quell'immagine, quella maledizione dalla voce ambigua che fascia stonata e uniforme, rumore di tenaglie, ferro, pezzi di ricambio, la testa irta di crepe non rimarginate? La vita si è iscritta nell'ipotesi di un'ombra che non tramonta, non si getta, s'addentra in ogni angolo in ogni vuoto meandro. L'aguzzino non ha amore, implacabile traccia segni, persegue, scoperchia il suo sguardo, consuma ombre e beve il giorno, proietta profezie loquaci che occultano il mondo nelle pieghe della testa; in una danza infernale lei ascolta lo strepito macabro e sordo, ecatombe di tamburi, quel mostro che apre le porte ed è ovunque vince ogni fragile no, perché non creda, lei, di poter fuggire prima che si compia il sacrificio del giorno più lungo, l'eclissi del martirio, tormento, scura parabola, proiezione della vita nell'ombra, con gli occhi pupille che mettono a nudo il vecchio armamentario dei suoi sogni e dei suoi giorni quieti. L'ombra dalle fattezze azzurre, giocose scaccia i pensieri.  Tornerà da lei per nuove carezze. Il silenzio è ordine. L'ombra divide lo spazio e divide la memoria martoriata, la speranza è altrove.
Fuggire.
Sara da qualche giorno, non sa quando, ha perso il senso del tempo diluito tra fantasmi e realtà, è tornata dai suoi. Perché le è impossibile continuare, picchiava sui muri versava lacrime, e allora se ne era andata via per trovare pace. I suoni subivano una sorta di incarnazione  ma la gola restava serrata. Aveva sceso ogni gradino con un intensità che era un crescendo di tonalità fino ad un mostruoso forsennato battere. . Ora è al bar della piazza seduta al tavolino. Ha visto il cielo con infinito azzurro e ha sentito il calore del sole Ha visto l'azzurro del cielo. Un sollievo della testa stanca, un risveglio della vita dal dolore riflesso del vuoto. Sorride al cielo ai passanti alle macchine. Io potrei essere o io sono continua a chiedersi? Il fantasma dai tentacoli aveva ferito la sua esistenza tranquilla per tradurla in una infelicità di orizzonti persi. Solo a volte ha occhi suoi per il cielo per il suo cuore libero dallo strazio di quella catena. Il laccio è finito la tela frantumata. Forse. No, , implacabile il nemico s'acquatta e la sorprende e imprigiona, Io ti amo e non mi vuoi. Sussurra piano con un movimento impercettibile delle labbra sottili. Ci separa il tuo orgoglio contro il quale resto inerme , a niente varrebbe scagliarmi. Nelle profondità del cuore inebriate dal sogno abita l'intruso, è li che ha voglia di ucciderla è li che la vuole come in un faccia a faccia che la ammutolisca per sempre. Un orribile battere, una conversazione alla quale finiva per preferire i volgari pettegolezzi cittadini. Le sue guance hanno assunto un colorito appena roseo, l'esemplare condanna a morte sembra scansata nella casa della sua infanzia e adolescenza, ha occhi e parole nelle ore rare di libertà del pensiero incandescente, tra i ciclamini gli oleandri e i limoni, si concede ipotesi di  vendetta.
Voleva gettare fuori il mondo. I labirinti delle sue ossessioni le toglievano il fiato, la vita si biforca e sente di essere inghiottita da mostruose fauci spalancate in un delirio senza rassegnazione, riemerge alla ricerca di qualcosa contro quell'essere che la fa precipitare, cadere in un'inconcepibile voglia di venir coccolata tutta, stremata implora a se stessa rassegnazione.
Combatte la sua psiche da un'analista.  Dischiudere un tempio di amarezze e solo fortuite dolcezze. La mattina alla solita ora la seduta, all'uscita ha salutato l'analista cordiale come sempre con un sorriso stampato ed è fuggita vergognandosi di quel timido saluto scambiato e della mano stretta, è scesa a piano terra percorrendo frettolosa le scale. II suo analista ha emesso una sentenza. Ha ascoltato lo sconosciuto mentre era distesa sul lettino tutto d'oro. In qualche modo sì sente innocente. Perché non si dovrebbe fuggire?
Il professore
Quella donna chiedeva risposte che non ho. L’ho invitata comunque a sedersi al tavolino del bar.
L’ascoltavo annoiato, e lei chinava la testa. Un bel nome Sara. tornava a rialzarsi e guardarmi, sempre in base al mio discernimento che sapeva dosare le parti, semplicemente misurando il linguaggio in base al tempo e allo scorrere e al dubbio che ogni sospensione lasciava in lei quando le toglievo ogni spontaneità nel trattare con gli oggetti e i cibi di quel tavolino apparecchiato in un caffè piuttosto alla moda del centro, perché tutto diventasse un evento e un paradosso. Giocavo con lei come un’Alice nel paese delle meraviglie, "hai braccia e gambe lunghissime; se abbassi lo sguardo li vedi scomparire i tuoi piedi, e lei guardava in basso perplessa, e il tempo che ti occorre per portare alle labbra il cucchiaino di gelato è fuori portata, senza contorno, ti si scioglie prima che tu riesca a organizzare i movimenti di quest'oblungo braccio segaligno e dinoccolato che ti deve essere piuttosto d'impiccio più che d'aiuto , e finisci naturalmente per sporcarti l’abito di gelato, e lei fermava la mano e riponeva il cucchiaino nella coppa gelato che andava sciogliendosi e gocciolando ai lati. Hai gli occhio strani, stamattina devi esserti svegliata un po' diversa ma non ti ricordi quando, probabilmente ti chiedevi chi diavolo eri, comunque questa non è una tavola pitagorica e non si tratta della metafisica del numero, spicciati con questo gelato. Finirai per protestare di non averne neanche sentito il sapore e non tossire così mangia piano altrimenti ti strozzi. Vorrà dire che lo lasceremo ai piccioni, questo gelato per essere grande è grande davvero. Le venne il singhiozzo. Nei miti indigeni le fanciulli folli di miele non sono sazie di miele e mai sazie dei piaceri del sesso e finiscono divorate dalle accorte formiche. Guarda una formichina sulla tovaglia un'altra, il tempo passa e tu non ti sbrighi a finire questa coppa sei ancora a metà. E lei osservava la tovaglia  pensando di veder comparire un formicaio. Non osava disubbidire. Vorrei vederti con le corone di pan di zucchero, sai cosa sono? La deridevo, sta attenta a quel che fai non sai muoverti....sai qual è la seconda lettera dell'alfabeto ebraico? bet e bereshit significa in principio e bet e ben figlio e figlia e bait casa e banha costruire. A te manca un bereshit e ogni mattone tu poggiassi lo poggeresti sul nulla per questo sei sterile vuota e non comunicativa. Niente principia dal nulla se non il nulla stesso. Non capisco se stai singhiozzando o belando, comunque non sai che strada prendere perché senza bereshit non esiste strada. L'amore comunque dice un grande filosofo non prende mai le strade maestre. Ma per prestare il fianco alle frecce d'amore devi dimenticarti di te e ritrovare il tuo principio, e si vede dagli occhi che sei un angelo vagabondo. Se singhiozzi o beli, non mi è ancora chiaro, è perché ti manca il verbo e in principio è il Verbo. Ti appartiene la strada ma dubito che sarà una strada maestra e sicuramente non il principio di un cammino ma qualcosa di sospeso per caso in un risveglio improvviso in un luogo impreciso, neanche tè saprai quale e perché.
Continuava a ricordare, fermo il pensiero a quell'Alice triste eppure forte.
Trovare il modo di rivederla. Aveva anche un nome dolce Sara, "Ma ora, che fare? Se solo ci fosse con me Luciano che ha il dono di saperne di più risolverebbe l’enigma..." Si soffermò con piacere a pensare al vecchio amico.
E poi fu troppo tardi e Sandra ora non esiste più, è diventata una farfalla e vola vola e nessuno la cattura, è impossibile, prima da donna con confusione e lacerazioni, chiedeva aiuto, quando nel corpo di donna viveva, purtroppo le parole ingannavano, le sue e quelle degli altri, ora noi qui ricordiamo ma è troppo tardi, La terra ha risucchiato Sara, che chiedeva poco alla vita, uno stipendio una casa un tetto, e un uomo, ma non trovava mai se stessa, così diceva, alludendo alle sue schiavitù, diceva che erano solo voragini spalancate nel buio pesto, senza sole, ed è stato un addio profondo, e le campane suonano a morte,  e Sara non ha voluto lasciare tracce di ricordanze a noi che l'amavamo, non resta niente una preghiera e niente più.
Io sono il lutto. Noi lunatici, quelli del reparto manicomiale, quelli delle canne e del buon vino, conosciamo  la fine prima degli altri, chi per dolore chi per amore,  chi per solitudine come me che non volevo adeguarmi troppo a tutto, ma magari giocavo d’azzardo. Con parecchia fatica addosso per miseria e lavoro sottopagato.  Di notte resto sveglia, per scansare la morte.
Volevo chiedere vita e felicità per ogni angolo di mondo,  e per me pure, la diversa, ma neanche questo mi è riuscito, l’invidia della mia libertà rispetto a chi guardava la vita dal buco della serratura mi  rovinava. Una tortura concertata da molti.  Nessuno più del loro DIO  sacro o profano e sempre ribadito mi lasciava atterrita. Io voglio vivere comunque, con le tue umane fragilità, il mio vuoto,  un sì alla vita, dolcissimo sì alla vita.  Dopo mi chiedi, dopo, un vino a riscaldarci, diamanti rubini smeraldi per giocare di nuovo con te, che bestemmi contro la morte. Non ha amore questo loro Dio per chi vuole restar fuori dalla loro arrogante   e fatale dittatura, ma io ho compreso e ho cucinato per te i miei piatti migliori, ho scelto i vini più generosi,  ho giocato con il mio corpo di bambola e poi, invecchiata, la mia lontananza serena e pacata, la mia artrite impossibile e la musica ossessivamente e sempre e i libri ossessivamente e sempre, e finalmente sola non mi riguarda l’attesa mia ma prego per voi e chiedo alle divinità,  pregando un Dio  della misericordia  per il vostro futuro,  la voglio semplice la vita, mite, coperte calde se nevica,  l’estate le terme vicine un alberghetto semplice, cibo per malati ma ottimo,  e i soldi pochi e i conti da far quadrare, ed è  festa per tutti gli altri invitati, per loro  le danze esaltanti, eccitati dal vino, e dai loro fantasmi smaniosi. Noi ci vogliamo bene e adoriamo i nostri idoli minori. Le nostre visioni sono sante, anche quando i soldi per mangiare non ci sono.
In ogni uomo qualcosa di te, e poi di me, solo le solite miti sembianze, gli anni nostri sui volti nostri sono chiari, ma questo ci diverte, finalmente  non dobbiamo recitare ipocrite seduzioni, siamo io e te così come siamo. Una tavola e un letto meraviglioso per fare l'amore. Come sempre ci piace, o ancora più di sempre. Ci piace giocare e ricordare. E un giorno, chinata a raccogliere un nontiscordardime, io ho sbagliato. Con ritmo sempre identico gioco le carte del delirio, nella chiesa vicina un campanile, rintocchi,  ascolto il perdono di un magro raccolto, di  mie anime sbandate, resto in casa a ricamare, lavorare all'uncinetto, ascoltare. Io, se ho sbagliato, non farmi parlare•  Ora mi rifiuti, sono brutta e depressa, non ho il mio giorno giusto, ma io così voglio. Ho chiuso il portone e sei svanito, era un sogno delle mie notti arabe, vini e sensi esaltati, I nostri corpi fusi nell’abbraccio, ma no, era un sogno, io non ti voglio. Io smetto allora la fiducia, mal riposta e illusoria per un capriccio mio che a tutti i costi volevo l'amore. Quello che per me non hai, ricca di speranze comunque di amore, nelle righe impastate e sporche. Rispondo sì no, chino il capo cerco altrove, un computer la mia disordinata biblioteca, la mia cagnolina sempre accanto. Lei è magnifica nel bene che pone, è la  mia dolcissima ombra, e stropicciandosi con le zampette sui miei capelli e dormendo nel cuscino accanto al mio, mi è sempre vicina, l’eterna cuccioletta, io non sono mai sola.
Sono malata d'accordo, ma non chiedevo nulla, diluita nell'intruglio magico ero la pozione da svuotare, per un perverso groviglio di giudizi sparati, e io ho me, e la mia dolcissima cagnolina e mi basta così. E sempre ti dico, mentre applico metodica le mie quattro categorie, voglio sola, voglio niente, manca il tempo, e lo so, di te ho memoria, non mi riguardi memoria santa, scherzi della mente, mi immagino una bambola un dono, resto sola senza coraggio, dico no, annoiata, bestia mia immonda, ferita stordita, per te ricamo Itaca, la tua patria.
Ho perso il cuore, ho perso il fuso, non governo casa, sola e mutilata, ossessivamente nascosta e abbandonata, felice di me che penso e trovo il tuo coraggio vittorioso finalmente, tieni l'otre a me il bicchiere, poca roba un mazzo di carte, viaggi di carta, suoni parole un gioco. Hai vinto, il perdono giace in me con immensa gigantesca felicità, e tu fratello che proclami i tuoi versi disinvolti ricorda chi ci ha dato la vita e abbassa il tono, e troverai l'amore tra scarpe vecchie e casolari, parole, io no non ci riesco, e perdo serena la battaglia, ho scelto di amare alba e tramonto, e basto a me stessa, non chiedo e rispondo, e fuggo, altrove cenere e polvere sono io. E poi torna il ricordo nell’età della ragione, oltre e ancora nella vecchiaia malata. Fuori dai miei labirinti, asfittici e seri come pietre. Ricordo ora tutto come nel martirio di lenzuola macchiate di sangue stese al sole, e così sono serena comunque e mi abbandono alla mia  vecchiaia disarmata, nonostante gli insulti al mio gentile repertorio di crisi spaccadiavolo.
. Perché sono felice, spiegarlo è complicato, ero piccola e già diversa, un mondo in scatola chiuso. Non era una scatola comunque, anche se temevo gli altri, chi quali altri, per la mia cocciuta ostinazione alla misantropia e alle sicurezze delle nonne che davano ordine al caos interno ed esterno. La provincia era sicura, i portoni erano sempre aperti e non esisteva citofono nella casa dei miei nonni, non si doveva chiudere la porta altrimenti come fanno gli altri ad entrare, diceva la nonna, e tutti potevano entrare per prendere l’indispensabile dalla dispensa rifornita di ogni bene, passate di pomodoro prosciutti formaggi pasta fatta a mano marmellate tutto il necessario per star bene e non vivere la miseria. C’era stata la guerra e i nonni da antinazisti la sapevano la guerra, e dopo aver salvato e difeso tutti nel minuscolo paese sotto assedio,  perseguitati dai nazisti erano fuggiti, a cavallo il nonno e la nonna, e a dorso d’asina le tre figlie piccole. E orientandosi con le stelle avevano attraversato la dorsale appenninica. Io non sapevo niente della guerra, ed ero malata e semplicemente a letto ridevo con isteria e poi leggevo con isteria. Questa bambina è un libro chiuso diceva preoccupato il maestro. A Todi restavo mesi con i nonni che non sapevano come prendermi, mi mettevo nella cameretta delle rose così chiamata per una carta da parati con dipinte grandi rose rosse, e a letto iniziavo a ridere senza fermarmi per giornate intere. La mia nascita è sbagliata. Un parto podalico senza cesareo, i medici avevano sbagliato, e sono nata al contrario, prima i piedi e per ultimo la testa, e non respiravo.  Soffrivo di crisi cianotiche. Se solo le parole volassero, saprei descrivere con estasi di versi il mio essere nulla che si ricorda e le mille terapie seguite, e la sconfitta, che è   vittoria finalmente,  nella rena solitaria, non cerco più niente e finalmente posso dire ora è il tempo vostro, desiderio di una vita che volevo così, un po’ a caso senza troppa dimestichezza con tutto che significa essenziale. Occhi bassi e vita ai margini. Il mio impulso mi guida verso le sconfitte, amo i perdenti forse per le letture o meglio le poesie i romanzi, tanta musica, d’altronde io sono sempre una perdente. Così mi piace e così voglio, non desidero niente e tolgo il velo di Maia e basta, il desiderio uccide la nostra felicità e mentre sono sotto le coperte con la mia dolcissima cagnolina accanto, e leggo e ascolto musica io sono la persona più felice del mondo, anche se gli altri non lo capiscono, io così voglio non cerco altro, posso dire ai miei nipoti ora è il tempo vostro e la mia vita è perfetta così. A volte la mia famiglia assume il tono, nelle alterne vicende, di una commedia di Terenzio suocera nuora cognata, ma questo per me è indifferente, penso è il tempo loro, il futuro loro non il mio che ho già navigato ogni mare e ho sul groppo i miei quasi 60’ anni, con rughe profonde e viole del pensiero nascoste nelle sottogonne o negli ormeggi di vecchie barche abbandonate. L’unica cosa che so fare è nascondermi al mondo per leggere romanzi che mi fanno sognare, e ascolto musica tutto il giorno fino a notte fonda. Però non è poco, ma il pensiero del vuoto è un abisso di pensiero, l’identità perduta, tranne per le parole magiche che mi restituiscono l’identità, e sono proprio vecchiaia e malattia  e solitudine, parole magiche come titoli di paragrafi giganteschi, mi allontano da tutto, non voglio più nessuno, mi ripeto serena mentre ascolto musica e leggo o guardo film o ascolto le chiacchiere da bar mentre prendo un caffè. Maligne chiacchiere da bar e stupidi nauseanti pettegolezzi che tradiscono le reali intimità, sarebbe troppo disonesto e volgare l'ascolto e senza aprire bocca prendo un caffè, senza sorridere se non dentro nell'attesa del mio sabba notturno, nell'amplesso che esalta i miei sensi e li rende vivi. Ogni giorno della mia santa vita che butterei nel secchio la stessa routine in un lavoro odiato. Con un senso di nausea ogni giorno. Avevano ragione in questa strana famiglia a carattere patriarcale a dirmi così non ti riuscirà niente. E mi sono perduta, io non so fare niente. Mi ricordo di quando sedevamo tutti intorno alla tavola, ognuno come di consueto al posto assegnato da sempre, in un ordine immutabile, nel rispetto di una cerimonia ripetuta infinite volte. Quanto spesso mi ero chiesta se quel ripetersi esatto e misurato, destino che mi legava ad un mondo chiuso e perfetto con modi e parole sempre misurati secondo tempo e spazio identici,  come in un tic tac di orologio, se quel ripetersi  non fosse altro che violenza mascherata. Un’ombra mi suggerisce la rivoluzione, mandiamo tutto in rovina fino a toccare il fondo. Insieme sbarcheremo altrove il lunario. Ok tutto all’aria, capovolgiamo tutto in un mondo alla rovescia, ma il tempo è comunque da sempre per tutti un nemico, una partita persa da sempre, una caduta irrimediabile. E il tempo mi tormenta senza lasciarmi la possibilità di voltare la schiena e andarmene, i pensieri sono solo un errore nella cavità del cervello. Una trama tessuta, un’idea solo cerebrale che architetta la fine di un mondo, la mia anima nel tempo. Ricordo che il secolo scorso a tavola si parlava di politica, brutto affare sicuramente, i ragazzi che eravamo si interessavano al discorso, senza storia, senza capire, e noi, i ragazzi, avremmo votato con tutta la voglia fresca di impegno. Nell'illusione eravamo grandi. Le rivoluzioni sono giovani, solito luogo comune anche se vero, Ora contemplo silenziosa la mia casa fatta di archi colonne e vetrate liberty, e contemplo la mia cagnolina  l’esserino che mi è vicino sempre senza mai abbandonarmi. E torno ai manicomi, sono sola e disarmata. Felice di poco ma a molti sembra niente, un lavoro una pensione una casa stracarica di libri e musica sempre. E volevo, volevo la libertà mia, la volevo la mia solitudine da sempre, da quando si è ucciso il mio papà, e non sarebbe orgoglioso ora, però, di me, amava i successi e io non ce l’ho fatta. O forse sì sono qui con una casa mia acquistata con il lavoro i tragitti regolari la mia onesta pensione il mio onesto studio il mio onesto lavoro una famiglia poco allegra ma mamma sta morendo papà lei ti amava e tua madre la nonna ti adorava le hai fatte soffrire non dovevi.  Alleno il cervello o cerco per non morire troppo presto. E per mano altrui. Osservo la tavola scarna, i prodotti della terra, quella rimasta, quella povera che non dà più i suoi frutti, e solo a volte, su invito, ascolto la conversazione delle cugine e dei cugini e dei rispettivi consorti, con la voglia di fuggire senza temere l’abbandono. Solo così renderei giustizia alla mia volontà semplice, sollevate le ali del desiderio. Ma sono anziana e ora dal dolore mi salvo con abitudini scandite e sempre identiche mi resta poco da vivere e i malefici non li ho saputi scansare.   Ho stretto amicizia con un uomo su facebook, facebook quel mostro moderno poco adeguato e anzi maligno se ricordo la mia giovinezza senza cellulari e con quaderni e penne e lettere d’amore  recapitate dai postini e nutro il desiderio taciuto, e ricambiato, di conoscenza. Un filo di speranza. Mi rende triste il torpore profondo nel quale mi getta una famiglia che ricorda aneddoti, eventi di un passato nel quale ormai io non ci sono più. E io che racconto? Qualche parola sbieca. Un tempo sognavo di diventare scrittrice. E ho scritto un libro bruttissimo che nessuno legge. Mi sono ritirata a vivere in soffitta , una splendida soffitta con un computer e un allaccio internet, lontana dal clamore di chiacchiere su trascorsi troppo lontani che mi annoiano, un sonno profondo dal sentore di morte. Mi sento veramente intontita, ma dolce, remissiva, perché ho anche io una mia compagna di vita, che lenisce ogni ferita, la mia ombra dolcissima, Priscilla o Scilla, una cagnolina dal cuore d’oro e più minuscola di una gatta. La paura comunque ritorna, mi guarda dagli angoli, si insinua nelle conversazioni, è fatta di metallo, e del metallo ha il sapore, tranne di notte quando la luna si apre a ventaglio, e il biancore d'argento ricopre il corpo nudo e dimenticato. Spegne il fuoco, è acqua che miracolosamente riempie l’anima e l’avvolge di freschezza dopo l’arsura. A tavola parlano della passeggiata in centro, un paese di provincia, ma io non ho una storia mia da raccontare, in quel vociante mondo intorno. Con la testa, organo delicato, attraverso nuove ragioni, nuovi orizzonti , eppure non c’è tregua. Il tempo governa tutto. Sono lontana perché sola, e sola ci voglio essere, è la mia natura profonda, sola con Priscilla, la mia inseparabile cagnolina. Sono fatta d’esperienza laboriosa e un cuore di ghiaccio, da sciogliere, non è pietra d’altronde. la pietra impenetrabile e impossibile da scorticare se non lavorando con la falce. La pietra di cui è fatta la provincia. Sono pensieri incoerenti, scherzi della mente. Sono stanca e troppo affaticata da una vita di lavoro e durezze, mi sembra di aver già vissuto, e di vivere un oltre che è una platonica caverna d’ombre ingannevoli, e solo con fatica  e travaglio si risale alla luce. All’inizio la luce acceca poi è cristallina. E’ uno specchio d’acqua increspato. Lo tocchi e affondi nell’inconsistenza che avvolge di freschezza. E’ giusto salpare se il coraggio sostiene i remi ma io resto, e non mi disperdo nell’invidia del mio ostinato silenzio, specchio che riflette reti di amare profondità. Inesplorate. La mia voce ha un timbro delicato, afono, sembra incantata. La voglia di vivere dimessa, non più follie, ma impazzisco come felina in gabbia, e attraverso con la mente scene colossali in cui tutto sembra riemergere dal passato eppure tutto è quotidiano e dimesso. Basterebbe scavalcare il muretto per essere al di là. Ma oltre è il nulla. Oltre è il computer e la lena con la quale scrivo racconti che nessuno legge e chatto su facebook. C’è un uomo in chat che mi attende e forse verrà a trovarmi in soffitta dal Nord, e cucinerà prelibatezze per me. Cucinerà lui, io sono un disastro ai fornelli. Ha appena partecipato al Flash Mob vestita da strega con un vecchio cappello della bisnonna fiorito e con la velina, per le grandi occasioni, ma questo non basta  e so che sto recitando un ruolo, a casa mi attende il silenzio e la mia cagnolina ha voglia di casa. . Come sono noiose le insegnanti. Già allora, il secolo scorso, a tavola il nonno raccontava di come le cose fossero proprio storte, mentre la più energica delle cugine, un volto di porcellana, giocherellona com’era, smitizzava e si alzava da tavola per portare i piatti sporchi in cucina e per metterli nella lavastoviglie, con garbo lasciava la sedia vuota per poi ritornare accanto al marito che le cercava la mano intimidito, lui ha meno coraggio, mentre lei sistema i capelli lunghi e biondi con un fermaglio, raccogliendoli sul capo per lasciar scoperto il volto d’angelo. Il nonno ha un modo imperioso e austero, ma è anche piuttosto caustico, e sempre sagace senza mai farsi sgarbato. Ieri. Immaginavo. Attenderò il mio fantasma, la voce dolce mai udita, che non deve sfuggire come fantasia e inganno. Una misura diversa del tempo se condividerlo è possibile. lo psicanalista che mi cura sbaglia tutto, e il desiderio di ucciderlo è forte. Non ha saputo diagnosticare l’epilessia e io dicevo pietrificazione pietrificazione avevo 26 anni,  lui era junghiano e io leggevo tanti libri e anche Jung che affascina e incanta,  e lui diceva anima e animus. Un lutto ha scassato il cuore, e addolora ogni muscolo del mio corpo, mentre l’io nel naufragio si allaga di angosce di morte ma neanche, anche io amo i ricordi e torno indietro al tempo del prima, con dpolcezza e lacrime che finalmente sciolgono il mio manto di neve,  e ora ho un uomo, con braccia forti, ancora solo immaginate, ma è un paracadutista, ha coraggio, affronta il cielo. Quella penna gentile in chat, con una foto che ne esalta l’azzurro degli occhi, lui, un uomo solo virtuale, si scalderà al mio seno. Una piattaforma facebook è molto per me che  non ho niente e nessuno al mondo. La mattina è stata in chiesa. E’ pasqua e vuole credere nei miracoli. Magari esistono davvero. Una colpa pesa come una maledizione su chi non sa liberarsene, e il maleficio diventa l’ordigno innescato, la testa arrovellata, in briciole, a pezzi, nel buio di una notte senza precedenti. L’animo sgangherato e guastato dall’orrore del male subito esagera l’oscuramento, la vergogna sembra scritta con caratteri chiari, segni indelebili, e diventa deserto vuoto isolamento, resta un’eccitabilità nervosa che raramente solo a tratti si placa, si squaderna e preme il sangue pulsante tra le crepe della testa in fiamme, e ovunque e sempre rimbomba e si ripercuote l’assordante esplosione di un no ripetuto come uno schianto, un colpo d’arma, un tonfo che scuote, un no che è desiderio di pacificazione da quel chiasso interno implacabile, caos primitivo, voragine oscura, abisso esasperante e morte sibillina di ogni illusione, già prima e comunque da sempre destino inevitabile. La notte. La luna e una visione da nottambula, quando si fa buio, e tra le visioni allucinate inciampo goffamente e potrebbero deridermi e mi deridono. La muta di portici. Ma l’ombra torna ogni notte a giustificarmi dal sudario quotidiano. E’ fresca della frescura dei glicini e rigogliosa come uva matura che assapori nei campi quando il tempo ricopre le viti. E’ acqua che lava il bitume, tradisce il giorno per fertilizzare la notte. Dopo un tragitto, tra le pietre arse e le strade deserte. Entra come tramontana d’amore e porta con sé il sapore del mare e della spuma, che non c’è perché la città è fatta di pietra, ed è dolce il ricordo dei frangenti puliti e della risacca sciabordante che scomposta richiama all’orizzonte lo sguardo, e la voglia pazza di mare sempre mare. Acqua.. La vita si è prosciugata, un’esile speranza soltanto, da quando con una sorta di dolcezza dell’anima, disperato ma forte, un uomo ha inciso una speranza profonda che mi rende impaziente, e mi divora la voglia. E’ lontano. La mancanza carnale attraversa ogni tendine, ogni muscolo, mi ricaccia in un disorientamento e un abisso. Solo la notte torna clemente il silenzio, come vento tra i capelli. Ma è avaro di sé e all’alba fugge spezzando l’incanto, per riaffermare la solitudine di sudario e bitume e cenere e mura.
Mi  basta un’occhiata allo specchio per accorgermi che la malattia incide segni, lacrime, speranza è lui “l’ombra”. Attrazione e repulsione convivono come in un interiore poema mai dichiarato se non in tutti i gli abbandoni, e nella vita in soffitta con musica e libri e una adorabile cagnolina compagna di vita. Scilla la mia dolcissima ombra la mia bambina con la coda. Uno sconosciuto, solo un’amicizia facebook, e poi un incontro in un fine settimana timido e pericoloso, chi sei ora che sei qui,   parole e sorrisi forzati, è un nessuno uno di fb, eppure serio, divertente alienazione fuggita, pura nel senso, il senso con il quale ci si eleva sopra le mille giustificazioni che sei obbligata a fornire rispetto alla vita a ritroso, e alla solitudine improvvisa. E’ stato un atto coraggioso invitarlo a dormire in soffitta in due per fare l’amore, nella frenetica emozione. Ha lasciato segni indelebili, pianti di solitudine, contro i quali non hai rimedi, se non il trucco come apparenza superficiale. Di nuovo al lavoro, di nuovo derisa per il coraggio di mettersi a nudo. Tra le pietre che formano i muri di quella provincia medievale, giocattolo che si svita, prevale il frenetico ricorso a pettegolezzi e malignità, e  dicono le megere che è stata ridotta alla demenza per aver preteso troppo. Mi  definiscono pazza perché ho intrapreso uno stupido cammino psicanalitico durato trent’anni. In realtà è solo fragile e timida. Intanto la recessione miete vittime. E autorevoli assassini restano a guardare, indifferenti. Lui scrive un messaggio al cellulare “ti amo”. Ho iniziato allora un colloquio nascosto in soffitta nella  con la mia cagnolina, lei che  è una divinità del bene, e  il computer con il quale scrivo, accudisco e proteggo l’anima nascondendo agli altri il vero. Amo il fantasma di facebook, ora che lo conosco e ci siamo divertiti per forza, stonati ci siamo dichiarati le nostre solitudini faticose, i deserti d'abbandono, e la pessima figura mia, che mi sono ubriacata in un’enoteca, e poi ho vomitato anche l’anima, per “l’ombra” come si chiama al Nord, io però l’ho amato appassionatamente, ed è una malattia. Io lo voglio così com’è, con la sua solarità eccitata che mi rende sorridente.
E Poi  è ritornato, forse gli sono piaciuta, nonostante tutto. Appena ci troviamo in soffitta tolgo gli abiti e lascio che lui mi penetri. Prima mi bacia mi abbraccia, mi accarezza. Lui che è la luce e il vento tra i capelli. Lui che viene dal mare. Come in un gioco che abbia smesso di essere un gioco nel limite stravolto e rigettato della realtà netta, veritiera, agonizzante, uno spazio di libertà, accarezza i seni e dona il più dolce degli amplessi, sotto il palmo suo, stretta al suo corpo, sento la pelle fino al ventre, soffoco i singulti perché non mi sentano. L’ombra, mi accarezza mi bacia mi tiene stretta teneramente. Uno scherzo del tempo che mi ridona la grazia. Lui accarezza i capezzoli che premono, e io mi lascio penetrare dolcemente. “Sei vergine” mi dice. Quando riparte lo accompagno alla stazione, intristita. Il sogno di lui che torna come il vento tra i capelli. E’ preziosa la nostra intimità, amplesso che illumina di mistica luce riflessa le lontananze dolorose, e vorrei il suo calore sulla pelle per affermare la presenza-assenza ancora più dappresso e sentire la voce di lui farsi richiamo invincibile, sicuro. Un richiamo ogni giorno del vento, nella casa che dorme. Chiudo dentro il piacere serrando le cosce. Perché si rinnovi l’ardore. Amor mio sei la mia sofisticata  balorda speranza, districhi i miei pensieri sciogli le mie voglie. Volgi a me beato i tuoi occhi, guarda osserva la mia devastazione. Turgidi i capezzoli chiamano induriti di voglia e premono contro la pelle sua. . “L’ombra” l’accarezza. Le dita si apprestano a strazianti sfioramenti, il fuoco non si spegne, caldi i seni, i sensi dilatati, la pelle sprigiona umori e chiama il piacere carnale che offre il corpo smunto, non appartengo ad altri, solo per te sorrido, aggrappata a te, grido e gemo. Quando tu te ne vai, amore mio pazzo, a volte ostile come in una guerra appena iniziata, il letto resta caldo e bagnato dei miei umori, a te mi consacro per te abbandono tutto, per te si fa sregolata la testa e premono le tempie. Tu sei il mio nido, per te sistemo il cuscino quando tutto tace. E’ un duello mortale e notturno di pazza sonnambula che trapassa il buio per incarnazioni miracolose. Ma l’ombra rinfresca e purifica la terra, e piccoli germogli vergini radici tornano come per incanto a nutrirsi alla fonte sicura. Non appartengo più a me stessa. Appartengo a lui, al vento, alla notte nella mia cameretta. Prima di conoscerlo scrivevo così, ormai pregavo per una malattia devastante, perché io le parole non le so, e gli eloqui delle donne mi risuonano in testa come mostruosità, e ne fuggo. Nei fogli persi, perché persi il computer e non avevo registrato su chiavetta usb, e poi ritrovati tra il disordine di carte, scrivevo ingenuamente così. Come di seguito…
L’unica cosa che so fare è nascondermi al mondo per leggere romanzi che mi figurano i sogni, gigantesche avventure di carta,  e ascoltare musica, un paradiso per isolarmi e non commerciare con gli altri, il resto del mondo. Però non è poco, ma il pensiero del vuoto è un abisso di pensiero, l’identità persa, tranne per le parole magiche che mi restituiscono l’identità, e sono proprio vecchiaia e malattia, mi allontano da  tutto, non voglio più nessuno, mi ripeto serena mentre ascolto musica e leggo o guardo film o ascolto le chiacchiere da bar mentre prendo un caffè. riposanti chiacchiere da bar e stupita non ascolto pettegolezzi che tradiscono le reali intimità,  sarebbe troppo disonesto e volgare l'ascolto e senza aprire bocca prendo un caffè, senza sorridere se non dentro nell'attesa del mio sabba notturno, nell'amplesso che esalta i miei sensi e li rende vivi.  Ogni giorno della mia santa vita che butterei nel secchio la stessa routine in un lavoro odiato. Con un senso di nausea ogni giorno.  Avevano ragione in questa strana famiglia quando con ostinazione mi dicevano così non ti riuscirà niente. E mi sono persa, io non so fare niente. Mi ricordo di quando sedevamo tutti intorno alla tavola, ognuno come di consueto al posto assegnato da sempre, in un ordine immutabile, nel rispetto di una cerimonia ripetuta infinite volte. Quanto spesso mi  ero chiesta se quel ripetersi esatto e misurato, destino che mi legava ad un punto esatto del suolo, non fosse altro che violenza mascherata. Un’ombra mi suggerisce la rivoluzione, mandiamo tutto in rovina fino a toccare il fondo. Insieme sbarcheremo altrove il lunario. Ok tutto all’aria, capovolgiamo tutto in un mondo alla rovescia, ma il tempo è comunque da sempre per tutti un nemico, una partita persa da sempre, una caduta irrimediabile. E il tempo mi tormenta senza lasciarmi la possibilità di voltare la schiena e andarmene, i pensieri  sono solo un errore nella cavità del cervello. Una trama tessuta, un’idea solo cerebrale che architetta la fine di un mondo, la mia anima nel tempo. Ricordo che il secolo scorso a tavola si parlava di politica, brutto affare sicuramente, i ragazzi che eravamo si interessavano al discorso, senza storia, senza capire,  e noi, i ragazzi, avremmo votato con tutta la voglia fresca di impegno.  Nell'illusione eravamo grandi. Le rivoluzioni sono giovani, solito luogo comune anche se vero, ma secoli fa i greci dicevano già tutto senza noi. Ora  contemplo silenziosa la mia casa fatta di archi colonne e vetrate liberty, e contemplo la mia cagnolina come l’esserino che mi è vicino sempre senza mai abbandonarmi.  
 E  volevo, volevo la libertà mia, la volevo la mia solitudine da sempre, da quando si è ucciso il mio papà, e non sarebbe orgoglioso ora, però, di me, amava i successi e io non ce l’ho fatta. Alleno il cervello o cerco per non morire troppo presto. E per mano altrui.Osservo la tavola  scarna, non mi siedo a tavola per pranzare o cenare, la terra è alienata, i prodotti della terra, quella rimasta, quella povera che non dà più i suoi frutti, e  solo a volte, su invito, ascolto la conversazione delle cugine e dei cugini e dei rispettivi consorti, con la voglia di fuggire senza temere l’abbandono.   Solo così renderei giustizia alla volontà mia propria, sollevate le ali del desiderio. Ma sono anziana e ora dal dolore mi salvo con abitudini scandite e sempre identiche mi resta ancora tempo da vivere e i malefici  li ho saputi scansare. Amen la miaa malata passione per i libri ovunque in casa la mia malattia ma quella che adoro.
Ho stretto amicizia con un uomo su facebook, facebook quel mostro moderno poco adeguato e anzi maligno se ricordo la mia giovinezza,  e nutro il  desiderio taciuto, e ricambiato, di conoscenza. Un filo di speranza.  Mi rende triste il torpore profondo nel quale mi getta  una famiglia che ricorda aneddoti, eventi di un passato nel quale ormai io non ci sono più. E io che racconto? Qualche parola sbieca. Un tempo sognavo di diventare scrittrice. E ho scritto un libro bruttissimo che nessuno legge. Mi sono ritirata in soffitta a vivere, una splendida soffitta con un computer e un allaccio internet, lontana dal clamore di chiacchiere su  trascorsi troppo lontani che mi annoiano,  un sonno profondo dal sentore di morte.  Mi sento veramente intontita, ma dolce, remissiva, perché ho anche io una mia compagna di vita,  che lenisce ogni ferita,   la mia ombra dolcissima, Priscilla o Scilla, una cagnolina dal cuore d’oro e più minuscola di una gatta
La paura comunque ritorna, mi guarda dagli angoli, si insinua nelle conversazioni, è fatta di metallo, e del metallo ha il sapore, tranne di notte quando la luna si apre a ventaglio, e il biancore d'argento ricopre il corpo nudo e dimenticato. Spegne il fuoco, è acqua che miracolosamente riempie l’anima e ammanta di freschezza dopo la strada dei giganti che continuano a farmi da guardia. A tavola parlano della passeggiata in centro, un paese di provincia, ma io non ho una storia mia da raccontare, in quel vociante mondo intorno. Con la testa, organo delicato, attraverso  nuove ragioni, nuovi orizzonti , eppure non c’è tregua. Il tempo governa tutto. Sono lontana perché sola, e sola ci voglio essere, è la mia natura profonda, sola con Priscilla, la mia inseparabile cagnolina. Sono fatta d’esperienza laboriosa e un cuore di ghiaccio, da sciogliere, non è pietra d’altronde. la pietra impenetrabile e impossibile da scorticare se non lavorando con la falce. La pietra di cui è fatta la provincia. Sono pensieri incoerenti, scherzi  della mente.   Sono stanca e troppo affaticata da una vita di lavoro e durezze, mi sembra di aver già vissuto, e di vivere un oltre che è una platonica caverna d’ombre ingannevoli, e solo con  fatica, e travaglio, si risale alla luce. All’inizio la luce acceca poi è cristallina. E’ uno specchio d’acqua increspato. Lo tocchi e affondi nell’inconsistenza che avvolge di freschezza. E’ giusto salpare se il coraggio sostiene i remi ma io resto, e non mi disperdo nell’invidia del mio ostinato silenzio, specchio  che riflette reti di amare profondità. Inesplorate. La mia voce ha un timbro delicato, afono, sembra incantata. La voglia di vivere dimessa, non più follie, ma impazzisco come felina in gabbia, e attraverso con la mente scene colossali in cui tutto sembra riemergere dal passato eppure tutto è quotidiano e dimesso.  Basterebbe scavalcare il muretto per essere al di là. Ma oltre è il nulla. Oltre è il computer e la lena con la quale scrivo racconti che nessuno legge e  chatto su facebook. C’è un uomo in chat che mi attende e forse verrà a trovarmi in soffitta dal Nord, e cucinerà a basso costo una pizza, solo pochi centesimi per una pizza fatta con lievito puro e salsa di pomodoro. Cucinerà lui, io sono un disastro ai fornelli. Ha appena partecipato al Flash Mob vestita da strega con un vecchio cappello della bisnonna fiorito e con la velina, per le grandi occasioni, ma questo non basta so che sto recitando un ruolo, a casa mi attende il silenzio e la mia cagnolina ha voglia di casa. . Come sono noiose le insegnanti. Ma i ragazzi e le ragazze portano allegria ogni giorno a noi vecchioni, voglio il loro futuro, il resto è perdono per tutti come vogliono tutti. Anche io troppo severa con me stessa. Il nonno ha un modo imperioso e austero, ma è anche piuttosto caustico, e sempre sagace senza mai farsi sgarbato. Ieri. Immaginavo. Attenderò il mio fantasma, la voce dolce mai udita, che  non deve sfuggire come  fantasia e inganno. Una misura diversa del tempo se condividerlo è possibile. lo psicanalista che mi cura sbaglia tutto, e il desiderio di ucciderlo è forte. Non ha saputo diagnosticare l’epilessia e io dicevo pietrificazione pietrificazione avevo 26 anni,  lui era junghiano e primario, io leggevo tanti libri e anche Jung, lui diceva anima e animus.  Un lutto stravolge il cuore e la scatola cranica,  ma ora  ho un uomo, con braccia forti, ancora solo immaginate,  ma è un paracadutista, ha coraggio, affronta il cielo. Quella penna gentile in chat, con una foto che ne esalta l’azzurro degli occhi, lui, un uomo solo virtuale, si scalderà al mio seno.  Io non ho niente e nessuno al mondo. Una donna sola tra pile di romanzi e una cagnolina e la solitudine nel sangue. Nel dna.
La mattina è stata in chiesa. E’ pasqua e vuole credere nei miracoli. Magari esistono davvero. Una colpa pesa come una maledizione su chi non sa liberarsene, e il maleficio diventa l’ordigno innescato nel cuore addolorato, la testa arrovellata, in briciole, a pezzi, nel buio di una notte senza precedenti. L’animo sgangherato e guastato dall’orrore del delitto esagera l’oscuramento, la vergogna dell’errore diventa deserto vuoto isolamento, resta un’eccitabilità nervosa che raramente solo a tratti si placa, si squaderna e preme il sangue pulsante tra le crepe della testa in fiamme, e ovunque e sempre rimbomba e si ripercuote l’assordante esplosione di un no ripetuto come uno schianto, un colpo d’arma, un tonfo che scuote, un no che è desiderio di pacificazione da quel chiasso interno implacabile, caos primitivo, voragine oscura, abisso esasperante e morte di ogni illusione, e già prima e da sempre destino inevitabile.  La notte.
La luna e una visione da nottambula, quando si fa buio, e tra le visioni allucinate inciampo goffamente e potrebbero deridermi e mi deridono. La muta di portici. Ma l’ombra torna ogni notte a giustificarmi dal sudario quotidiano. E’ fresca della frescura dei glicini e rigogliosa come uva matura che assapori nei campi quando il tempo ricopre le viti. E’ acqua che lava il bitume, tradisce il giorno per fertilizzare la notte. Dopo un tragitto, tra le pietre arse e le strade deserte. Entra come tramontana d’amore e porta con sé il sapore del mare e della spuma, che non c’è perché la città è fatta di pietra,  ed è dolce il ricordo dei frangenti puliti e della risacca sciabordante che scomposta richiama all’orizzonte lo sguardo, e la voglia pazza di naufragio. La vita si è prosciugata, un’esile speranza soltanto, da quando con una sorta di dolcezza dell’anima, disperato ma forte, un uomo ha inciso una speranza profonda che mi rende impaziente, e mi divora la voglia.  E’ lontano. La mancanza carnale  attraversa ogni tendine, ogni muscolo, mi ricaccia in un disorientamento e un abisso. Solo la notte torna clemente il silenzio, come vento tra i capelli. Ma è avaro di sé e all’alba fugge spezzando l’incanto, per riaffermare la solitudine di sudario e bitume e cenere e mura. Le basta un’occhiata allo specchio per accorgersi che la malattia incide segni, lacrime,  speranza è lui “l’ombra”. Attrazione e repulsione convivono come in un interiore poema mai dichiarato se non in tutti i gli abbandoni,  e nella vita in soffitta con musica e libri e una adorabile cagnolina compagna di vita. Scilla la mia dolcissima ombra la mia bambina con la coda. Uno sconosciuto,  solo un’amicizia su facebook, e poi incontrato in un fine settimana ipocritamente giocoso, parole e sorrisi forzati, è un nessuno uno di fb, eppure serio, divertente alienazione fuggita, pura nel senso, il senso con il quale ci si eleva sopra le mille giustificazioni che sei  obbligata a fornire rispetto alla vita a ritroso, e alla solitudine improvvisa. E’ stato un atto coraggioso invitarlo a dormire in soffitta in due per fare l’amore, nella frenetica emozione. Ha lasciato segni indelebili, pianti di solitudine,  contro i quali non hai rimedi, se non il trucco come apparenza superficiale. Di nuovo al lavoro, di nuovo derisa per il coraggio di mettersi a nudo. Tra le pietre che formano i muri di quella provincia medievale, giocattolo che si svita, prevale il frenetico ricorso a pettegolezzi e malignità, e di lei dicono le megere che è stata ridotta alla demenza per aver preteso troppo. La definiscono  pazza perché ha intrapreso uno stupido cammino psicanalitico durato trent’anni. In realtà è solo fragile e timida.  Intanto la recessione miete vittime. E autorevoli assassini restano a guardare, indifferenti. Lui scrive un messaggio al cellulare “ti amo”.
Ho iniziato allora un colloquio furtivo con me stessa e il computer con il quale scrivo, accudisco e proteggo l’anima nascondendo agli altri il vero. Amo il fantasma di facebook, ora che lo conosco e ci siamo divertiti per forza, stonati ci siamo dichiarati le nostre solitudini faticose, i deserti d'abbandono, e la pessima figura mia, che mi sono ubriacata in un’enoteca, e poi ho vomitato anche l’anima, per ���l’ombra” come si chiama al Nord, io però l’ho amato appassionatamente, ed è una malattia. Io lo voglio così com’è, con la sua solarità che mi rende sorridente .E’ ritornato, forse gli sono piaciuta, nonostante tutto. Appena ci troviamo in soffitta tolgo gli abiti e lascio che lui mi penetri. Prima mi bacia mi abbraccia, mi accarezza. Lui che è la luce e il vento tra i capelli. Come in un gioco che abbia smesso di essere un gioco nel limite stravolto e rigettato della realtà netta, veritiera, agonizzante, uno spazio di libertà, accarezza i seni e dona il più dolce degli amplessi, sotto il palmo suo, stretta al suo corpo, sento la pelle fino al ventre, soffoco i singulti perché non mi sentano. L’ombra, mi accarezza mi bacia mi tiene stretta teneramente. Uno scherzo del tempo che mi ridona la grazia. Lui accarezza i capezzoli che premono, e io mi lascio penetrare dolcemente. “Sei vergine” mi dice. Quando riparte lo accompagno alla stazione, intristita.  il sogno di lui che torna come il vento tra i capelli. E’ preziosa la nostra intimità,  amplesso che illumina di mistica luce riflessa le lontananze dolorose, e vorrei il suo calore sulla pelle per affermare la presenza-assenza ancora più dappresso e sentire la voce di lui farsi richiamo invincibile, sicuro. Un richiamo ogni giorno del vento, nella casa che dorme.  Chiudo dentro il piacere serrando le cosce. Perché si rinnovi l’ardore. Amor mio sei la mia meteora, districhi i miei pensieri sciogli le mie voglie. Volgi a me beato i tuoi occhi, guarda osserva la mia devastazione una vecchia che sono che osa chiedere carezze profonde al più occasionale degli amanti. Turgidi i capezzoli chiamano induriti di voglia e premono contro la pelle  sua. . “L’ombra” l’accarezza. Le dita si apprestano a strazianti sfioramenti, il fuoco non si spegne, caldi i seni, i sensi dilatati, la pelle sprigiona umori e chiama il piacere carnale che offre il corpo smunto,   non appartengo ad altri, solo per te sorrido,  aggrappata a te, grido e gemo. Quando tu te ne vai, amore mio solitario come viandante che abbia perso la soglia, a volte ostile come in una guerra appena iniziata,  il letto resta caldo e bagnato dei miei umori, a te mi consacro per te abbandono tutto, per te si fa sregolata la testa e premono le tempie. Tu sei il mio nido, per te sistemo il cuscino quando tutto tace. E’ un duello mortale e notturno di pazza sonnambula che trapassa il buio per incarnazioni miracolose. Ma l’ombra rinfresca e purifica la terra, e piccoli germogli vergini radici tornano come per incanto a nutrirsi alla fonte sicura. Non appartengo più a me stessa. Appartengo a lui, al vento, alla notte nella mia cameretta. Prima di conoscerlo scrivevo così, ormai pregavo per una malattia devastante, perché io le parole non le so, e gli eloqui delle donne mi risuonano in testa come mostruosità, e ne fuggo. Nei fogli persi, perché persi il computer e non avevo registrato su chiavetta usb, e poi ritrovati tra il disordine di carte, scrivevo ingenuamente così. Come di seguito…
 crookedlyunlikelytimemachine
alessandra de angelis
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  vicissitudini mie io ho voluto poco dalla vita, eppure a me sembra tanto, non piaccio a nessuno e nessuno mi voleva il mio viso deforme mi allontana da tutti, ma volevo la conservazione di me, tratta dal tempo del terribile lutto e al tempo della cura tornata con infermieri e farmaci. Violenta la cura con ricoveri coatti, per disattenzione medica di medici in famiglia che vogliono il mio annientamento la mia distruzione. Bisturi e lobotomizzazioni.
Anestetici per il mio corpo e per la mia psiche. E io ne ho un bisogno vero, le mie deformità vanno esaminate catalogate chiuse al resto del mondo, bisogno di terapie farmacologiche essenziale e carnale, nel cerchio del mio dolore irrisolvibile, se non proprio con dosi massicce di farmaci- .Ho la mia dolcissima cagnolina, una Leoncina tibetana minuscola e meravigliosa, un angioletto accanto, il suo musetto muove alla tenerezza, tutto in lei è il bene. Il dolore, mai rimosso o perduto, e Il loro rifiuto di me ,la diversa, la magnifica donna dei lutti e dei rimpianti con lo sguardo sempre a ritroso. Mio padre giovanissimo per un fallimento è morto suicida il dopo per me è il vuoto. Io e qualche amica una laurea in filosofia lavoro.
La mia famiglia nutre odio per la mia persona e ricevo solo odio di  parenti che sono bravi sani allegri vitali, io no, sono il funerale e tutti in paese mi chiamano l'ibrida la trans il funerale. So comunque il mio non chiedere nulla e dare tutto e le loro dissertazioni su di me mi assordano, sono cacofonia l mio riportali alla materia mi rende la lucidità, Marx troppo stupido non era rispondo, ovviamente, e questa piccola Versailles è vostra, neghi il gesto conclamato. Non parole, basta ora di chiedere parole, le parole ingarbugliano diventano una matassa inestricabile, la materia che lascio resta come futuro. Fertile, se Dio lo concede, e per me fertilissima umbratile agonia, che ai testi si applica con amore e solo ai testi rimando le parole. Nei testi ritrovo l’identità perduta, nella memoria e nel mio riso forsennato e isterico i lutti e il ricordo fantastico di chi non c’è, ed è solo ricordo e ricostruzione del pensiero mai adeguata alla materia reale. Una cappella in un Camposanto .fuoriporta, Nell’assenza,  negli imbrogli di parole i furti d’anima, negano la mia natura molteplice, resa ineloquente dal tempo, insieme ai miei molteplici io. Nel tempo, non io divisi come dicono in famiglia, ma in atto e nelle diverse operazioni della vita, arrendevole però ad ogni disordine, ad ogni insulto, alle richieste qualsiasi, da quelle complesse a quelle minime, al destino così come si esplica, come il tumore che ho curato e curo o l’ascesso che sto curando. La chiesa in cui ieri sono entrata più volte. Non sono gesti minimi, avrei voluto baciare i piedi inchiodati di Gesù, in chiesa insieme agli altri. Lì sono con gli altri, e il dolore della madonnina mi appare superno, io non ho avuto figli comunque, forse questo intendono con il sacrificio di me, corpo e sangue. Ma mi sono vergognata e ribadisco io non sono perdonabile. Il mio viso è livido mostra segni indelebili d’affanno e malattia, occhi cerchiati, in paese mi chiamano funerale, la bocca tirata e sigillata sul sorriso nero, non ho i denti e quelli che restano sono neri, e per questo il mio fiato è immondo e lavare i denti produce ascessi, il collo è piegato e porto un collare ortopedico, la casa in cui abito invasa di formiche per i detriti non cestinati, per abbandono all’evidenza, io ho il male addosso e accanto a ogni uomo o donna che io frequenti anche per poco la morte sorella. Molti i ricoveri coatti ordinati dalla mia famiglia che non mi vuole, dopo gli interventi e le cure per un tumore. In paese il manicomio lo chiamano repartino, prima o poi qualcuno che non c’entra niente ci finisce magari chi è semplicemente odiato in casa come me. Ma quando entro in chiesa e guardo la madonnina incoronata e accanto Gesù crocefisso, capisco i chiodi, e so che io non sono perdonabile. Ho tolto i miei veli scoperto l’intimità ed è stata una pugnalata in pieno petto la pena del mio cuore mangiato. Non ritrovo il cuore se non nella paura e nell’angoscia dei lutti. L’impotenza del lutto-. Nell’impotenza della cura io non sono capace, io ho le parole assassine non la cura e sono una nessuno, che comprende ora però senza alcun narcisismo  e in vecchiaia i chiodi di Gesù redentore. Gesù e il calvario, voi chiamate la risposta, posso solo dire è vero non ho figli e non ho frutti e non vivo pericoli e non perdo, non avendo nulla, e allora lo ripeto io non sono perdonabile. La mia famiglia ha ordinato una mutilazione chirurgica hanno resecato materia cerebrale e inserito una protesi informatica in gola mentre nel secondo intervento per un tumore all’utero ero in anestesia totale. Estroflettendo con ultrasuoni il mio privato pensiero, uno scandalo cittadino che riguarda il Silvestrini e tutti coloro che più o meno coinvolti rispondono al pensato non al parlato. Mi sono rivolta alla chiesa, semplicemente con un messale e un mio delirio. Ho osservato la Croce e i chiodi e le piaghe sanguinolente di Cristo, e ho capito che niente mi salva se non la mia acquiescenza e l’amore per la vita deformata dal dolore, voglio continuare a viverla nonostante la loro violenza, vogliono internarmi in una comunità di sindromi autistiche e sindromi Dawn. Io avevo studiato amavo i libri nel mio disordine casalingo e nella mia ingenuità. Poi insegnato con modestia e molta apprensione per i ragazzi e le ragazze che mi avevano come insegnante, il sacro mi torturava come mia deficienza. Ora sono in miseria, ho dato tutto non ho più niente. Così sia. Molti mi insultano per la mia bocca disgustosa come la definiscono, non ho i denti, nel delirio di Croce fuga e salvezza mi sono resa arrendevole a tutto. So che è niente perché niente valgo, e se qualche uomo mi guarda è per distogliere subito l'attenzione e portarla altrove vedono funerale, il mio nomignolo in paese.è funerale. Ma lavorando come docente nonostante tutto e chiedo perdono a chi mi ha avuta come insegnante, ho comprato casa mia tutto mutuo, fatico a pagare ma sarà la casa della mia libertà e senza uomini, solo gli animali amici come la mia adorabile ombra, la mia cagnolina. .Dio mi ha voluto assegnare il compito del perdono e il perdono è il mio baricentro salvifico. Molti stenteranno a credere un pensato estroflesso tramite ultrasuoni, parla una schizofrenica.. Schizofrenica sì, ma realmente un pensiero comunicato tramite ultrasuoni.e l’ha stabilito il cugino,medico primario, Un suo infantilismo adolescenziale, un’invidia pura mai risolta che gli fa pestare i piedi come ad un bambino capriccioso, un bambino che abbia perso il suo gioco insostituibile. Ma ora comprendo di fronte al Cristo inchiodato quanto poco valgano le mie rimostranze, io non sono perdonabile, e con molta angoscia chiedo inginocchiata il perdono, era il mio primo respiro, il respiro del dolore e dell’inedia e dell’incoscienza. E del rifiuto di ogni responsabilità. .il mistero dell’iniquità del corpo flagellato mi riporta all’ordine, io rifiutavo le responsabilità, ora so con metodica misura i limiti dei miei inutili tragitti, la solitudine mi dipinge di nero, vado oltre e scopro il perdono del sangue e della carne. Se ci fosse il limite della sofferenza nel dono sarei comunque sbagliata, nessuno mi ha amata ero un inutile fardello
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pangeanews · 4 years
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“Nel punto d’estrema solitudine”: Giorgio Caproni, il nostro Enea, il super classico
Né inquietudine né questione s’incunea, tranne rari episodi, nella poesia italiana di oggi. Non c’è la tortura della tradizione, sostituita da un tradizionalismo spiccio – proprio di chi cita i grandi sperando di assurgere a quella grandezza – oppure, semplicemente, la scandita ignoranza – in nome, a volte, di una ‘semplicità’ che è statuaria ignavia.
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Così, dopo decenni di napalm letterario – da un lato: ideologia da realismo socialista; dall’altro: apocalisse dello show – che legame hanno, ora, gli scrittori, i poeti con i ‘classici’? Sintetizzo brutalmente: se ragioni di Bibbia sei preso per un neoconvertito bacchettone (ignorando che lì è la bottega editoriale formidabile, ineludibile); se parli di Virgilio ti pigliano per un fascista, per un nostalgico della Roma imperiale; Dante han finito di leggerlo al liceo, ma lo citano ai convegni, fa tanto colto. Così, lasciamo la discussione dei ‘classici’ al resto della letteratura che conta, continuamente – sul rapporto con Virgilio, ad esempio, s’è fortificato Thomas S. Eliot, è scaturito il romanzo più grande di Hermann Broch, ha perfezionato il verbo Seamus Heaney. Il ‘classico’ deve entrare con muso di tigre, vivo, biologicamente in atto nell’opera, non come mausoleo di blabla, cimitero di marmi, utile per versi fotogenici, da cartolina sotto il Partenone.
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Il Novecento è il secolo segnato da Ulisse, da Joyce a Saba a Kirk Douglas. Enea ci appare laterale, epica obliqua, devoto al destino, imberbe alla ribellione. Ulisse si perde per tornare, è il trionfo della curiosità; Enea è in esodo: parte da una patria per fondarne un’altra, senza ritorno, all’amore preferisce il dovere, alla gloria la compassione. La Terra Promessa è il luogo in cui Ungaretti si dilegua in Virgilio. Nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone Ungaretti assolutizza il mito, ponendolo in una fattura esistenziale, che ribolle. “Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto;/ Replica il mio le care tue fattezze;/ Nulla contengono di più i nostri occhi/ E, disperato, il nostro amore effimero/ Eterno freme in vele d’un indugio”. Di Virgilio, Ungaretti estrae il cristallino – in Recitativo di Palinuro declina al neoclassico.
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La Terra Promessa esce nel 1950 per Mondadori; nel 1956 Vallecchi pubblica Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni. Sul “Corriere Mercantile”, nel 1959, Caproni spiega dove nasce quella poesia. “Fu un’estate del primo dopoguerra ch’io, trovandomi a Genova per una visita, m’incontrai la prima volta (e si capisce mentre meno me l’aspettavo) con Enea figlio di Anchise. Me lo vidi di soprassalto davanti, in piazza Bandiera, e sebbene fosse un Enea di marmo, cioè quel monumentino a Enea che tutti i genovesi sanno, la mia emozione non fu minore di quanta ne avrei provata incontrando Enea in carne e ossa”. Conclude così, Caproni, “Io ho girato molte altre città d’Italia, ma Enea non l’ho incontrato altrove. Perlomeno, non ho incontrato l’unico Enea ammissibile: l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine, amaro simbolo della nostra. L’unico Enea, insomma, che meritasse un monumento in mezzo a una piazza, emblema di tutti noi in questo tempo, mentre ci troviamo veramente soli sopra la terra, con sulle spalle una tradizione che tentiamo di sostenere mentre questa non ci sostiene più, e per la mano una speranza ancor troppo gracile per potercisi appoggiare, e che pur dobbiamo portare a compimento”. L’Enea di Caproni è carnale, vivo, privo di ‘moto d’animo’, è qui, ci stringe. Ora, si dirà, senza tradizione sulle spalle e speranza al fianco, siamo, di Enea, soltanto l’allucinazione, la demenza.
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Non c’è altra indagine, forse, che indugiare sul frammento di un mito, specchiarsi lì, riconoscere che siamo nati tra le mura del labirinto, nella svolta di un tradimento, in un viaggio mediterraneo tra Troia e l’avvenire, esentati da moltiplicare il futuro, scampati al mattatoio di Gerico, all’egida dei Giudici, al massacro dei primogeniti ordito dagli Achei, dagli dèi, sempre, per impetrare buona caccia, buona morte.
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Del Passaggio d’Enea estraggo una lassa:
Nel pulsate del sangue del tuo Enea solo nella catastrofe, cui sgalla il piede ossuto la rossa fumea bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto. Nell’avvampo funebre d’una fuga su una rena che scotta ancora di sangue, che scampo può mai esserti il mare (la falena verde dei fari bianchi) se con lui senti di soprassalto che nel punto, d’estrema solitudine, sei giunto più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Raccogliendo, come conchiglie, dall’estro del testo, alcune parole – sangue, catastrofe, schianto, gracile, funebre, fuga, falena, incerto, bui – è chiaro l’oggi, la domanda che solo dall’“estrema solitudine” si avvera: di cosa puoi incaricarti, cosa puoi portare sulle spalle, a chi puoi prendere la mano? E verso dove – perché non basta l’affetto, ci vuole l’afflato di un destino?
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Proprio come scrive Alessandro Fo, Il mio Enea (Garzanti, 2020), nato in concomitanza con i 30 anni dalla morte di Caproni, a rivelare i legami tra il poeta e Virgilio, “è anche un libro necessario. Necessario per chi voglia comprendere a fondo l’umanità ferita e fraterna del poeta Giorgio Caproni, ma anche i traumi profondi della sua epoca e i destini generali di fronte a cui si è trovata… E necessario per chi (come me, come noi) crede fermamente che l’antichità abbia ancora un importante ruolo da giocare nell’oggi”. Letteratura, in effetti, significa eseguire il sussurro degli antichi, di chi non passa – il passato è sempre il nostro: l’immutabile muta ringiovanendo –, non esiste altra esigenza di novità.
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Così Caproni in un testo del 1963: “Attraverso il suo Enea, Virgilio ha saputo darci dell’uomo (di noi) una rappresentazione che ancor oggi è quant’altre mai attuale. Dico d’un Enea meno arma che vir (meno eroe che uomo), il quale, scampato alla totale distruzione della sua città, cerca di portare in salvo, sulle spalle, una tradizione che cade da tutte le parti e non lo sostiene più, mentre per la mano ha un domani ancora incerto… Quale altro poeta, mai, ci ha offerto uno specchio così preciso anche della tremenda solitudine e responsabilità dell’individuo d’oggi, diviso tanto dolorosamente fra identità da salvar nel salvabile, e speranza d’una nuova città da fondare, la quale ancora non può difenderlo ma anzi vuol essere da lui difesa contro tutte le furie?”. Da sempre la tradizione è a pezzi, l’uomo è in esilio, scambia dio per il porco d’oro, ha bisogno dell’amore inaudito e sospeso, di vedere il viso dei morti, tentando qualcosa a cui votarsi, che lo impegni nella morte – cioè, nella vita.
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Pier Paolo Pasolini – fin dal 1952, replicando il pensiero in un articolo del 1956, pubblicato su “Il Punto”, in concomitanza con Il passaggio d’Enea – riteneva Caproni “uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”. A volte leggo Caproni, di più quello de Il Conte di Kevenhüller, come un oracolo.
Mi piacciono i colpi a vuoto. I soli che infallibilmente centrino ciò ch’enfaticamente viene chiamato l’Ignoto.
C’è il tiro di dadi in versi che, senza cautela, sbrana le verità, ti getta ridendo nel circense del mistero. La goliardia e il distillato del ‘classico’ tornano, come un evento, sulle labbra di Caproni. Dovremmo chiamarla sequela, questa cosa, e aderirvi. (d.b.)
L'articolo “Nel punto d’estrema solitudine”: Giorgio Caproni, il nostro Enea, il super classico proviene da Pangea.
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