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fotopadova · 3 months
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La fotografia documentaria come forma d’arte (sesta parte)
La fotografia umanista
di Lorenzo Ranzato
Introduzione
Con questo articolo completiamo il nostro racconto sul vasto mondo della fotografia documentaria, affrontando il significativo capitolo della fotografia umanista. Com’è facile intuire, la selezione degli argomenti e degli autori trattati è stata del tutto personale: quindi una scelta selettiva e parziale, che trascura inevitabilmente molti altri fenomeni del documentarismo che si sono manifestati nella seconda metà del ‘900.[1]
Come abbiamo visto, questo importante filone della fotografia del ‘900 si afferma a partire dagli anni ‘30, con un comune filo conduttore che può essere ben riassunto in questa frase: “il desiderio di vedere qualcosa riconosciuto come una realtà”[2]. Come ci segnala David Bate, questa aspirazione o volontà di raccontare in modo diretto (straight photography) il reale in tutte le sue manifestazioni “può includere approcci differenti, dove la verità è valutata in termini di interpretazione e rappresentazione”.
In effetti, seguendo il suo ragionamento, possiamo riconoscere all’interno del genere documentario la presenza di due tendenze diverse che si relazionano con il reale in modo oggettivo oppure soggettivo.[3]
A grandi linee, avremo un tipo di fotografia oggettiva o descrittiva che tende a porre un filtro tra fotografo e soggetto, cercando di mantenersi in una posizione neutrale senza farsi coinvolgere all’interno della scena ripresa. Questo tipo di fotografia è comune ad autori che abbiamo già conosciuto nelle precedenti puntate e che si esprimono con modalità espressive diverse: ci riferiamo a fotografi come Albert Renger-Patzsch o August Sander, oppure ai fotografi del Gruppo f/64.
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1-Cartier-Bresson, foto da Images à la Sauvette 1952, “il libro” per eccellenza secondo Federico Scianna
Diversamente, la fotografia soggettiva o espressiva non pone barriere tra il fotografo e il soggetto, anzi vuole entrare dentro le cose che desidera raccontare, cercando di coinvolgere lo spettatore nella narrazione, pubblica o privata che sia. In questo filone molto variegato possiamo riconoscere le esperienze del documentario sociale (in particolare quella della Farm Security Administration) e più in generale quelle del fotogiornalismo – da Robert Capa, il più famoso fotoreporter di guerra, alla Bourke-Withe -, sino ad abbracciare la stagione d’oro della fotografia umanista che si afferma come “la tendenza dominante del documentario postbellico”[4].
A conclusione di questo breve riepilogo, segnaliamo che sul sito di Fotopadova è presente un contributo in due puntate di Guillaume Blanc, La storia della fotografia documentaria, tradotto e pubblicato da Gustavo Millozzi (a cui dedichiamo questo articolo). Una sua consultazione potrà essere utile per inquadrare l’argomento in una prospettiva temporale più allargata, che non solo riassume la storia del documentarismo sviluppatosi nel corso del ‘900, ma va anche alla ricerca dei precursori e di tutti quei fenomeni ragruppabili sotto l’etichetta di “documento”, che rappresenta fatti o persone reali oppure descrive avvenimenti storici.[5]
La fotografia umanista
“L'oggetto della fotografia è l'uomo, l'uomo e la sua vita breve, fragile, minacciata”.
La frase di Henri Cartier-Bresson, registrata in un’intervista del 1951 viene generalmente considerata da molti studiosi un modo per definire “la fotografia umanista”.[6]
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2-Innamorati per le vie di Parigi, foto di Doisneau, Boubat e Izis.
In realtà, questo filone della fotografia soggettiva/espressiva, nasce all’interno del milieu fotografico francese degli anni ’30, dove un nutrito gruppo di fotografi condivide un comune interesse per l’uomo e le sue vicende di vita quotidiana. Particolarmente attenti alla vita della città, ci restituiscono “le figure di un’umanità autentica e sincera: uomini semplici, lavoratori e le loro famiglie di ceti modesti, bambini ricchi della loro innocenza e spontaneità solitaria, o coppie di innamorati rese migliori dalla forza dei loro sentimenti”.[7]
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3-Brassaï, Paris de nuit, libro sulla vita notturna parigina.
La maggior parte dei fotografi umanisti condivide la professione di “reporter-illustratore”, ma ciò non toglie che molti di loro raggiungano lo status di fotografi-autori, grazie all’editoria che costituisce la parte più gratificante del loro lavoro. Valga per tutti il famoso libro fotografico Paris de nuit (1933) del fotografo ungherese Brassaï, che si stabilisce a Parigi nel 1924 dove frequenta l’ambiente surrealista e conosce Picasso. Dopo la seconda guerra mondiale “le flaneur des nuit de Paris” si trasformerà in un “globe-trotter”, grazie a una lunga e fruttuosa collaborazione con Harper’s Bazaar.[8]
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4-Foto di bambini di Doisneau, Ronis, Izis e Boubat
Assieme a lui, ricordiamo i quattro più importanti rappresentanti della fotografia umanista francese: Robert Doisneau, Willy Ronis, Izis e Édouard Boubat che hanno in comune un grande amore per la città di Parigi e per le sue strade che diventano la principale scenografia dei loro scatti. Soprattutto a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, trasmettono al mondo “une certaine idée de la France”, attratti da quanto c’è di incanto o di mistero nei fatti quotidiani oppure alla ricerca di temi cari ad altre arti quali le canzoni, il cinema, la poesia e la letteratura.[9]
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5-Doisneau  Au Pont des Art 1953, Un regard oblique 1948
Ma per il pubblico restano due gli indiscussi protagonisti di quella stagione d’oro della fotografia: da un lato Robert Doisneau, con la sua visione del mondo romantica e compassionevole e il suo sguardo attento a cogliere lo spettacolo permanente della vita quotidiana, che trasforma le anonime persone della strada in attori naturali della commedia umana, trasfigurandoli spesso in figure fantastiche e oniriche [10]; dall’altro, Henri Cartier-Bresson, che nei diversi periodi della sua vita è sempre riuscito a rinnovare il suo sguardo sul mondo, tanto da essere definito l’occhio del secolo e considerato il massimo interprete del cosiddetto “realismo espressivo”, che si contraddistingue per la capacità di saper individuare e cogliere dentro il flusso ininterrotto del tempo l’istante decisivo.[11]
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6- Cartier-Bresson, Hyères 1932, Ivry sur Seine 1955
Il movimento umanista inizia ad avere un certo seguito anche al di fuori della Francia a partire dagli anni ’50, come reazione al terribile dramma della seconda guerra mondiale, con la volontà di affermarsi nel resto del mondo come linguaggio universale accessibile a tutti.
Il movimento raggiunge il suo apice con la Mostra The Family of Man - organizzata da Edward Steichen al Museum of Modern Art di New York nel 1955 - che assume una risonanza planetaria, grazie ai suoi messaggi di fratellanza universale e di dignità dell’uomo, di speranza e di condivisione di un medesimo destino. È un progetto grandioso, costituito da 503 fotografie provenienti da 68 paesi diversi, che diventa la più grande manifestazione nella storia della fotografia e che verrà esposta negli anni successivi in molte parti del mondo.
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7- The family of man, 1955
Alle fotografie di grandi autori come Ansel Adams, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Édouard Boubat, Robert Capa, David Seymour, Bill Brandt, Elliott Erwitt, Eugene Smith, Robert Frank, August Sander, Sabine Waiss, Margaret Bourke-White, Richard Avedon, Garry Winogrand, si affiancano immagini di fotografi meno noti, mentre altre fotografie di Dorothea Lange e Russel Lee provengono dall’ archivio della Farm Security Administration, realizzato negli anni della Grande Depressione statunitense.
Come abbiamo già detto nell’introduzione, il movimento umanista diventa la principale espressione della fotografia a livello mondiale a cavallo degli anni ’50 e ’60, ma verrà ricordato anche come uno dei periodi più caratterizzanti della fotografia francese, che dagli anni ’30 fino agli anni ’60 ha avuto il suo centro indiscusso nella metropoli parigina.
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8- The family of man, 1955
Gli anni del secondo dopoguerra sono caratterizzati da importanti trasformazioni politiche, sociali e culturali, dove il generale benessere dell’occidente, sostenuto dal boom economico, convive con “la guerra fredda” e il rischio nucleare. Ma già negli anni ’60 iniziano a manifestarsi fenomeni di crisi, alimentati anche dalla contestazione dei tradizionali valori borghesi da parte delle giovani generazioni in nome di una nuova ideologia libertaria: contestazione che raggiunge l’apice nel 1968, che verrà ricordato come l’anno delle grandi manifestazioni di piazza e degli scioperi dentro le fabbriche e le università. 
Nello stesso tempo, con l’affermarsi del pensiero liberale e il propagarsi di nuove forme di consumismo, al di là dell’oceano gli Stati Uniti acquisiscono progressivamente un ruolo egemone a livello mondiale, diventando la principale forza trainante dell’economia di mercato, che porterà a radicali cambiamenti anche in ambito culturale.
In particolare nel campo delle arti visive, assisteremo a un grande sviluppo dell’arte e della fotografia americana - inizialmente influenzate da quella europea - che nel corso del tempo si imporranno autonomamente a livello internazionale. Con lo sviluppo dell’Espressionismo astratto (in particolare l’Action painting di Jackson Pollock) e con l’affermarsi di una particolare forma di street photography tipicamente americana, si aprirà una nuova stagione per le arti visive caratterizzata da una radicale trasformazione dei linguaggi, che segnerà una forte discontinuità con il passato.
Anche il mondo della fotografia a cavallo fra gi anni ’50 e ’60 dovrà affrontare una vera e propria “rivoluzione visiva” attuata da Robert Frank con il suo libro The Americans: dalla critica Frank verrà considerato come l’anticipatore di un nuovo linguaggio che sovverte radicalmente i paradigmi che hanno contraddistinto l’estetica e le più tradizionali forme espressive della fotografia umanista, un linguaggio “informale” che ancor oggi possiamo riconoscere in molte manifestazioni della fotografia contemporanea.[12]
---- [1] Ci riferiamo in particolare a quanto già scritto in un mio precedente articolo pubblicato il 18 giugno 2021: I territori del “fotografico”: pittorialismo, documentarismo, concettualismo. Documentarismo va inteso nello specifico significato che gli attribuisce David Bate nel suo libro La fotografia d’arte, (Einaudi, 2018). Bate prova a reinterpretare il mondo della fotografia, della sua storia e dei suoi autori attraverso tre categorie del fotografico - pittorialismo, documentarismo e concettualismo -, entro le quali circoscrivere i diversi comportamenti della fotografia, così come si sono evoluti a partire dalle origini sino ai giorni nostri: comportamenti che di volta in volta hanno assunto proprie specificità linguistiche e poetiche e che, a mio avviso, in alcuni casi hanno avuto modo di contaminarsi o ibridarsi, soprattutto nella più recente fase della contemporaneità.
[2] David Bate, Photography. The Key Concepts, 2016, Trad. it. Il primo libro di fotografia, Einaudi, 2017, p. 89. 
[3] Bate, op. cit. p. 83.
[4] Bate, op. cit. p. 68.
[5] Gli articoli sono stati pubblicati rispettivamente il 10 dicembre 2022 e il 23 gennaio 2023. Il testo originale è consultabile al seguente indirizzo: https://www.blind-magazine.com .
[6]Ricordiamo che sul sito di Fotopadova ci sono diversi articoli che trattano della fotografia umanista, articoli rintracciabili con una ricerca dal menu collocato in alto a sinistra: Edouard Boubat, sguardo di velluto di Marie d'Harcourt, da: https://www.blind-magazine.com/news/edouard-boubat-a-velvet-gaze/ (trad. Gustavo Millozzi); Henri Cartier-Bresson: “Non ci sono forse - vivere e guardare”, da https://lens.blogs.nytimes.com/ (trad. Gustavo Millozzi); Adolfo Kaminsky: la Parigi “umanista” e popolare (seconda parte) di Lorenzo Ranzato; Templi, Santuari, Cappelle e capitelli della Fotografia: 2, Casa dei Tre Oci a Venezia:“Esposizione” di WillY Ronis, di Carlo Maccà; Sabine Weiss, ultima fotografa umanista, di Gustavo Millozzi.
[7] Si veda: La photographie humaniste sul sito del Ministero della Cultura francese-Biblioteca nazionale di Francia: https://histoiredesarts.culture.gouv.fr/Toutes-les-ressources/Bibliotheque-nationale-de-France-BnF/La-photographie-humaniste-1945-1968.
[8] Brassaï, Photo Poche n. 28, 2009, con introduzione di Roger Grenier e un’ampia bibliografia alla fine. La collezione di questi agili ed economici libretti tascabili, pubblicati dal Centre national de la photographie, presenta un vastissimo catalogo di fotografi con più di 150 titoli.
[9] La photographie humaniste, cit. Segnaliamo anche il libro La photographie humaniste, 1945-1968: Autour d'Izis, Boubat, Brassaï, Doisneau, Ronis..., Catalogo della Mostra omonima, a cura di Laure Beaumont-Maillet e Françoise Denoyelle, con la collaborazione di Dominique Versavel, ed. Biblioteque Nationale de France, 2006
[10] Fra i molti libri si veda il recente: Robert Doisneau, Catalogo della Mostra a cura di Gabriel Bauret, Rovigo 23 settembre 2021-30 gennaio 2022, Silvana Editoriale 2021.
[11] Fra l’immensa bibliografia consigliamo la lettura del libro tascabile: Henri Cartier-Bresson, Gallimard 2008, con testi di Clément Chéroux, storico della fotografia e conservatore per la fotografia al Centro Pompidou. Alla fine, oltre ad un’ampia bibliografia, sono riportati alcuni testi e aforismi di HCB. Ricordiamo una delle sue celebri frasi: “Scattare una fotografia significa riconoscere, simultaneamente e in una frazione di secondo‚ sia il fatto stesso sia la rigorosa organizzazione delle forme visivamente percepite che gli conferiscono significato. È mettere testa, occhio e cuore sullo stesso asse”.
[12] Per un approfondimento si rinvia a: Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Mondadori, 2012. Particolarmente interessanti i capitoli: Sull’onda dell’informale e La grande armata delle avanguardie che racconta il rapporto fra mezzo fotografico e i nuovi fenomeni artistici della Body Art, Narrative Art e Conceptual Art che si affermano nel corso degli anni ’70.
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La fotografia documentaria come forma d’arte (terza parte)
di Lorenzo Ranzato
 -- Due esperienze significative
del documentarismo fotografico negli Stati Uniti
 Introduzione
Alla fine del 1929, con il crollo della borsa di Wall Street, si apre il periodo della Grande Depressione che coinvolge le economie dell’intero pianeta. Negli Stati Uniti, dopo alcuni anni di profonda crisi, nel 1933 si registra una svolta con l’elezione del nuovo presidente Franklin D. Roosevelt, che per superare la crisi fra il 1933 e il 1937 adotta un programma di riforme economiche e sociali, più noto con il nome di New Deal. In questo clima, maturano due esperienze significative nell’ambito della fotografia americana, esperienze che nascono con finalità diverse, ma che saranno entrambe determinanti per l’affermazione dello stile documentario negli Stati Uniti: la breve avventura del Gruppo f/64, costituitosi nel 1932 e scioltosi nel 1935, e le campagne fotografiche avviate nel 1935 dalla Resettlement Administration e continuate dal Farm Security Administration project, a partire dall’anno 1937 sino al 1943.
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 1-Ansel Adams, Moonrise, Hernandez New Mexico, 1941
 I fotografi del Gruppo f/64
Il Gruppo f/64 è una libera associazione di fotografi californiani che si forma nel 1932, con lo scopo di promuovere lo stile purista della straight photography. Il nome del gruppo deriva dall'impostazione più piccola dell'apertura del diaframma nelle fotocamere di grande formato, con la quale si ottiene una notevole profondità di campo che si estende dal primo piano sino all’infinito. Originariamente il gruppo è composto da 11 membri: Ansel Adams, Imogene Cunningham, Edward Weston[1], Willard Van Dyke, Henry Swift, John Paul Edwards, Brett Weston, Consuelo Kanaga, Alma Lavenson, Sonya Noskowiak e Preston Holder.
La prima uscita collettiva avviene con la Mostra collettiva di 80 fotografie, inaugurata il 15 novembre del 1932 al M. H. de Young Memorial Museum di San Francisco. L’obiettivo del gruppo è quello di rappresentare il mondo “così com’è”: a questo proposito è utile ricordare l’affermazione di Weston secondo il quale "la macchina fotografica dovrebbe essere usata per registrare la vita, per rendere la sostanza stessa e la quintessenza della cosa stessa, sia che si tratti di acciaio lucido o di carne palpitante".
In questa visione si collocano i paesaggi di Ansel Adams realizzati all’interno del Parco Nazionale dello Yosemite.
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2-Adams, Yosemite falls e Yosemite point, 1932
 Le fotografie di Ansel Adams, che rappresentano la natura del West americano sono tra le immagini più conosciute al mondo. Fra le più famose è quella scattata nel 1942 nel nord-ovest del Wyoming: The Tetons and the Snake River.
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3-Adams, The Tetons and the Snake River, 1942
 Altrettanto significative sono le fotografie di botanica di Imogen Cunningham, esposte durante gli anni '30 in numerose mostre personali: con le sue immagini di piante e fiori riesce a trasmetterci la perfezione delle forme della natura e i suoi incredibili dettagli.
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4-Cunningham, a sinistra Agave Design, 1920; a destra: Mano e foglia di Voodoo Lily, 1972
 Edward Weston, fautore della fotografia diretta ha contribuito a consolidare il ruolo della fotografia come mezzo artistico moderno, influenzando un'intera generazione di fotografi americani. Weston inizia a fotografare nudi nei primi anni '20 e continua nei successivi vent'anni.
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5-Galleria con i temi più rappresentativi della fotografia di Weston
 Alla fine degli anni '20, si orienta verso la fotografia still life. Particolarmente conosciuta è la serie fotografica dei peperoni, fra i quali spicca l’immagine Pepper n. 30, che “viene spesso descritta come l’icona per eccellenza della natura morta modernista negli Stati Uniti”: “l’elegante profilo antropomorfo” ricorda le fotografie di nudo e “la superficie levigata, le forme arrotondate e i profondi punti d’ombra dell’oggetto” richiamano le sculture di Brancusi, anche se la critica contemporanea tende a vedere in queste immagini l’influenza di altri artisti europei, da Pablo Picasso ai surrealisti Joan Mirò e Jean Arp[2].
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6-Weston, Pepper No. 30, 1930
 Nel 1935, quando il gruppo si scioglierà e ogni fotografo andrà per la sua strada, la visione di questi fautori della fotografia diretta, che si era ormai affermata nel paese, andrà a influenzare il lavoro di altri fotografi americani, fra i quali Dorothea Lange e Walker Evans, che saranno impegnati all’interno dell’esperienza della Farm Security Administration (FSA).
Il “Farm Security Administration project”
Durante il periodo della Grande Depressione, uno dei settori maggiormente colpiti è stato quello agricolo, dove le condizioni di vita degli agricoltori e delle loro famiglie con il passar degli anni sono diventate sempre più critiche. Nell’ambito dei programmi di intervento statale del New Deal, finalizzati a dare assistenza al mondo agricolo, va ricordata l’istituzione dell’agenzia governativa Resettlement Administration (1935), trasformata nel 1937 in Farm Security Administration (FSA), attraverso la quale il governo americano incarica alcuni dei più importanti fotografi del tempo, per documentare il mondo rurale americano e le condizioni di vita della sua gente.
A capo del progetto - che ha forti connotazioni politiche e rimane attivo fino al 1943 - viene messo Roy Stryker, economista e assistente del più famoso Rexford Tugwell, consulente di Roosevelt. Stryker nel corso di otto anni riuscirà a realizzare “la collezione di foto di documentazione sociale più ricca di tutto il XX secolo”[3], costituita per lo più da fotografie in bianco e nero di grande potenza narrativa e che alla fine verrà trasferita alla Biblioteca del Congresso.
Stryker interpreta il suo mandato in maniera molto ampia, con l’obiettivo di “restituire un’immagine dell’America rurale alle soglie dell’età moderna, da trasmettere alle generazioni seguenti”[4] e a questo scopo ingaggia un nutrito gruppo di fotografi – più di 40 - che nel corso degli anni scatteranno migliaia di fotografie, fino al 1943. Fra questi ricordiamo: Arthur Rothstein, responsabile del laboratorio, Theodor Jung, Ben Shahn, Dorothea Lange e Walker Evans che si affermerà come uno dei fotografi più influenti del Novecento. A questo primo gruppo in seguito si uniranno, fra gli altri, Jack Delano, John Vachon e Gordon Parks.
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7- Fotografie di Arthur Rothstein
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8- Fotografie di Dorothea Lange
 I confini tra il lavoro dei fotografi della FSA, descritti come “sociologi con la macchina fotografica”, e il fotogiornalismo - che in quell’epoca iniziava ad affermarsi grazie alla nascita delle riviste illustrate come Fortune, Life e Look – sono piuttosto “fluidi”, soprattutto perché molte foto ciclicamente vengono pubblicate sulle riviste che erano in grado di raggiungere un pubblico molto vasto [5].
La differenza sostanziale riguarda “l’atteggiamento davanti al soggetto, la cosiddetta osservazione partecipante”[6]. “Malgrado un certo distacco artistico, questa tecnica dava luogo a una fotografia empatica che, invece di trasformare la situazione in un racconto di immagini confezionato, si concentrava sull’immediatezza e la drammaticità dell’immagine”[7].
La mancanza di spazio non ci consente di raccontare in modo esaustivo le vicende della FSA, che comunque va ricordata come “uno dei grandi progetti fondativi in cui la fotografia documentaria sociale sia stata adottata come metodo di ricerca sociologica”[8].
Per questo motivo, come approfondimento, suggeriamo il link alla Library of Congress[9], dove è possibile consultare la collezione fotografica FSA, completamente digitalizzata e resa disponibile al pubblico nella sua interezza.
Inoltre, consigliamo la lettura del libro già citato nelle note: New Deal Photography, USA 1935-1943, edito da Taschen, che raccoglie “una selezione rappresentativa” di stampe in bianco e nero e a colori del vasto archivio FSA.
Infine, rinviamo agli articoli di Paolo Felletti Spadazzi, presenti in questo stesso sito, per chi volesse avvicinarsi allo studio della complessa figura di Walker Evans, che già durante la turbolenta collaborazione con la FSA ha cercato di superare il tipico approccio del “documentario sociale”, riconoscibile nella fotografia di Dorotea Lange, per esplorare nuove forme di “fotografia documentaria poetica”, che cercherà di sviluppare nelle sue opere successive, proponendo lo stile documentario come possibile sintesi tra due tendenze antitetiche che contrappongono la “visione personale” alla “visione della società”[10].
 Appendice: il Sistema Zonale di Ansel Adams
Ansel Adams ha un ruolo importante nella storia della fotografia non solo per i suoi inimitabili paesaggi, ma anche per aver ideato il Sistema Zonale (Zone System), assieme al suo collega Fred Archer, fotografo noto per i suoi ritratti delle star del cinema di Hollywood. Il Sistema Zonale nasce negli anni ‘40, in funzione della fotografia analogica.
La scala tonale dei grigi presente in una scena fotografica (e quindi nella fotografia scattata) viene divisa in 11 parti, dette zone, che vanno dal bianco puro al nero assoluto. Ogni zona rappresenta un determinato tono di grigio. Questa suddivisione della scala continua in più gradini permette di riconoscere nella fotografia b/n 11 specifici livelli di grigio, che hanno una variazione di uno stop di luminosità dall’uno all’altro.
- La zona 0 e la zona 10 corrispondono rispettivamente al nero assoluto e al bianco assoluto (equivalenti al valore zero e al valore 255, oggi presenti nell’istogramma digitale). In entrambe le zone si ha una perdita di dettaglio, dovuta alla sottoesposizione o alla sovraesposizione;
- nelle zone 1 e 9 si registra un piccolo cambio di tonalità rispetto alla zona precedente, ma anche in questo caso la trama del soggetto non è distinguibile. Queste zone sono utili per marcare i punti di massimo contrasto dell'immagine;
- nelle zone 2 e 8 sono presenti le ombre profonde e le alte luci: si tratta di zone  fortemente sottoesposte o fortemente sovraesposte, ma che conservano un minimo dettaglio del soggetto;
- infine le zone 3, 4, 5, 6, 7 sono quelle che codificano i diversi livelli di grigi intermedi, più ricchi di dettagli che danno carattere alla fotografia.
La zona 5, che rappresenta il grigio medio, va considerata sotto il profilo operativo come la zona-base più significativa e centrale in termini esposimetrici della scena osservata, attorno alla quale impostare l’esposizione dell’immagine con una determinata coppia tempi/diaframma, in modo da “restituire, in accordo al concetto di ‘previsualizzazione’ (anch’esso adamsiano) la massima scala tonale dell’immagine, in grado di contenere sia i dettagli in ombra, sia quelli presenti sulle luci”*.
“La previsualizzazione è ciò che consente all’abilità del fotografo di far emergere, dal negativo prima, e dalla stampa poi, tutto il potenziale espressivo, in termini di ricchezza tonale, contenuto nell’immagine che il fotografo si accinge a riprendere”. Adams ritiene che: “visualizzare un’immagine […] consiste nell’immaginarla, ancor prima dell’esposizione, come una proiezione continua, dalla composizione dell’immagine fino alla stampa finale”.
* Luca Chistè, Ansel Adams e il Sistema Zonale analogico/digitale per la fotografia in bianco/nero,
in: http://www.cuneofotografia.it/pdf/RPSistemaZonale.pdf. Cfr. anche il manuale scritto da Ansel Adams: La fotocamera e Il negativo, Zanichelli, 1987.
 [1] Per un approfondimento su questi 3 importanti autori segnaliamo:
- Ansel Adams' 400 Photographs, 2004, (ed. inglese), che presenta una panoramica completa del suo lavoro;
- Imogen Cunningham – A retrospective di Paul Martineau, 2020, (ed. inglese) a cura del J. Paul Getty Museum;
- Edward Weston, 2020, (ed. inglese) che contiene le iconiche e classiche nature morte, i nudi e i paesaggi del fotografo.
 [2] Juliet Hacking (a cura di), Fotografia, la storia completa, Atlante, 2012, p.283.
 [3] Peter Walther (a cura di), New Deal Photography, USA 1935-1943, TASCHEN, 2016, p. 29.
 [4] Peter Walther, ibidem.
 [5] Peter Walther, p. 34.
 [6] Peter Walther, ibidem.
 [7] Peter Walther, ibidem.
 [8] David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p. 106.
 [9] https://www.loc.gov/pictures/collection/fsa/.
 [10] David Bate, op. cit., pp. 107-08.
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picturesofpadua · 7 years
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Piazza Garibaldi - 26 nov 2016
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La fotografia documentaria come forma d’arte (terza parte)
di Lorenzo Ranzato
 -- Due esperienze significative del documentarismo fotografico negli Stati Uniti
 Introduzione
Alla fine del 1929, con il crollo della borsa di Wall Street, si apre il periodo della Grande Depressione che coinvolge le economie dell’intero pianeta. Negli Stati Uniti, dopo alcuni anni di profonda crisi, nel 1933 si registra una svolta con l’elezione del nuovo presidente Franklin D. Roosevelt, che per superare la crisi fra il 1933 e il 1937 adotta un programma di riforme economiche e sociali, più noto con il nome di New Deal. In questo clima, maturano due esperienze significative nell’ambito della fotografia americana, esperienze che nascono con finalità diverse, ma che saranno entrambe determinanti per l’affermazione dello stile documentario negli Stati Uniti: la breve avventura del Gruppo f/64, costituitosi nel 1932 e scioltosi nel 1935, e le campagne fotografiche avviate nel 1935 dalla Resettlement Administration e continuate dal Farm Security Administration project, a partire dall’anno 1937 sino al 1943.
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Ansel Adams, Moonrise, Hernandez New Mexico, 1941
I fotografi del Gruppo f/64
Il Gruppo f/64 è una libera associazione di fotografi californiani che si forma nel 1932, con lo scopo di promuovere lo stile purista della straight photography. Il nome del gruppo deriva dall'impostazione più piccola dell'apertura del diaframma nelle fotocamere di grande formato, con la quale si ottiene una notevole profondità di campo che si estende dal primo piano sino all’infinito. Originariamente il gruppo è composto da 11 membri: Ansel Adams, Imogene Cunningham, Edward Weston[1], Willard Van Dyke, Henry Swift, John Paul Edwards, Brett Weston, Consuelo Kanaga, Alma Lavenson, Sonya Noskowiak e Preston Holder.
La prima uscita collettiva avviene con la Mostra collettiva di 80 fotografie, inaugurata il 15 novembre del 1932 al M. H. de Young Memorial Museum di San Francisco. L’obiettivo del gruppo è quello di rappresentare il mondo “così com’è”: a questo proposito è utile ricordare l’affermazione di Weston secondo il quale "la macchina fotografica dovrebbe essere usata per registrare la vita, per rendere la sostanza stessa e la quintessenza della cosa stessa, sia che si tratti di acciaio lucido o di carne palpitante".
In questa visione si collocano i paesaggi di Ansel Adams realizzati all’interno del Parco Nazionale dello Yosemite.
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Ansel Adams, Yosemite falls e Yosemite point, 1932
Le fotografie di Ansel Adams, che rappresentano la natura del West americano sono tra le immagini più conosciute al mondo. Fra le più famose è quella scattata nel 1942 nel nord-ovest del Wyoming: The Tetons and the Snake River.
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Ansel Adams, The Tetons and the Snake River, 1942
Altrettanto significative sono le fotografie di botanica di Imogen Cunningham, esposte durante gli anni '30 in numerose mostre personali: con le sue immagini di piante e fiori riesce a trasmetterci la perfezione delle forme della natura e i suoi incredibili dettagli.
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Imogen Cunningham, a sinistra Agave Design, 1920; a destra: Mano e foglia di Voodoo Lily, 1972
Edward Weston, fautore della fotografia diretta ha contribuito a consolidare il ruolo della fotografia come mezzo artistico moderno, influenzando un'intera generazione di fotografi americani. Weston inizia a fotografare nudi nei primi anni '20 e continua nei successivi vent'anni.
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Galleria con i temi più rappresentativi della fotografia di Edward Weston
Alla fine degli anni '20, si orienta verso la fotografia still life. Particolarmente conosciuta è la serie fotografica dei peperoni, fra i quali spicca l’immagine Pepper n. 30, che “viene spesso descritta come l’icona per eccellenza della natura morta modernista negli Stati Uniti”: “l’elegante profilo antropomorfo” ricorda le fotografie di nudo e “la superficie levigata, le forme arrotondate e i profondi punti d’ombra dell’oggetto” richiamano le sculture di Brancusi, anche se la critica contemporanea tende a vedere in queste immagini l’influenza di altri artisti europei, da Pablo Picasso ai surrealisti Joan Mirò e Jean Arp[2].
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Edward Weston, Pepper No. 30, 1930
Nel 1935, quando il gruppo si scioglierà e ogni fotografo andrà per la sua strada, la visione di questi fautori della fotografia diretta, che si era ormai affermata nel paese, andrà a influenzare il lavoro di altri fotografi americani, fra i quali Dorothea Lange e Walker Evans, che saranno impegnati all’interno dell’esperienza della Farm Security Administration (FSA).
Il “Farm Security Administration project”
Durante il periodo della Grande Depressione, uno dei settori maggiormente colpiti è stato quello agricolo, dove le condizioni di vita degli agricoltori e delle loro famiglie con il passar degli anni sono diventate sempre più critiche. Nell’ambito dei programmi di intervento statale del New Deal, finalizzati a dare assistenza al mondo agricolo, va ricordata l’istituzione dell’agenzia governativa Resettlement Administration (1935), trasformata nel 1937 in Farm Security Administration (FSA), attraverso la quale il governo americano incarica alcuni dei più importanti fotografi del tempo, per documentare il mondo rurale americano e le condizioni di vita della sua gente.
A capo del progetto - che ha forti connotazioni politiche e rimane attivo fino al 1943 - viene messo Roy Stryker, economista e assistente del più famoso Rexford Tugwell, consulente di Roosevelt. Stryker nel corso di otto anni riuscirà a realizzare “la collezione di foto di documentazione sociale più ricca di tutto il XX secolo”[3], costituita per lo più da fotografie in bianco e nero di grande potenza narrativa e che alla fine verrà trasferita alla Biblioteca del Congresso.
Stryker interpreta il suo mandato in maniera molto ampia, con l’obiettivo di “restituire un’immagine dell’America rurale alle soglie dell’età moderna, da trasmettere alle generazioni seguenti”[4] e a questo scopo ingaggia un nutrito gruppo di fotografi – più di 40 - che nel corso degli anni scatteranno migliaia di fotografie, fino al 1943. Fra questi ricordiamo: Arthur Rothstein, responsabile del laboratorio, Theodor Jung, Ben Shahn, Dorothea Lange e Walker Evans che si affermerà come uno dei fotografi più influenti del Novecento. A questo primo gruppo in seguito si uniranno, fra gli altri, Jack Delano, John Vachon e Gordon Parks.
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Fotografie di Arthur Rothstein
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Fotografie di Dorothea Lange
I confini tra il lavoro dei fotografi della FSA, descritti come “sociologi con la macchina fotografica”, e il fotogiornalismo - che in quell’epoca iniziava ad affermarsi grazie alla nascita delle riviste illustrate come Fortune, Life e Look – sono piuttosto “fluidi”, soprattutto perché molte foto ciclicamente vengono pubblicate sulle riviste che erano in grado di raggiungere un pubblico molto vasto [5].
La differenza sostanziale riguarda “l’atteggiamento davanti al soggetto, la cosiddetta osservazione partecipante”[6]. “Malgrado un certo distacco artistico, questa tecnica dava luogo a una fotografia empatica che, invece di trasformare la situazione in un racconto di immagini confezionato, si concentrava sull’immediatezza e la drammaticità dell’immagine”[7].
La mancanza di spazio non ci consente di raccontare in modo esaustivo le vicende della FSA, che comunque va ricordata come “uno dei grandi progetti fondativi in cui la fotografia documentaria sociale sia stata adottata come metodo di ricerca sociologica”[8].
Per questo motivo, come approfondimento, suggeriamo il link alla Library of Congress[9], dove è possibile consultare la collezione fotografica FSA, completamente digitalizzata e resa disponibile al pubblico nella sua interezza.
Inoltre, consigliamo la lettura del libro già citato nelle note: New Deal Photography, USA 1935-1943, edito da Taschen, che raccoglie “una selezione rappresentativa” di stampe in bianco e nero e a colori del vasto archivio FSA.
Infine, rinviamo agli articoli di Paolo Felletti Spadazzi, presenti in questo stesso sito, per chi volesse avvicinarsi allo studio della complessa figura di Walker Evans, che già durante la turbolenta collaborazione con la FSA ha cercato di superare il tipico approccio del “documentario sociale”, riconoscibile nella fotografia di Dorotea Lange, per esplorare nuove forme di “fotografia documentaria poetica”, che cercherà di sviluppare nelle sue opere successive, proponendo lo stile documentario come possibile sintesi tra due tendenze antitetiche che contrappongono la “visione personale” alla “visione della società”[10].
 Appendice: il Sistema Zonale di Ansel Adams
Ansel Adams ha un ruolo importante nella storia della fotografia non solo per i suoi inimitabili paesaggi, ma anche per aver ideato il Sistema Zonale (Zone System), assieme al suo collega Fred Archer, fotografo noto per i suoi ritratti delle star del cinema di Hollywood. Il Sistema Zonale nasce negli anni ‘40, in funzione della fotografia analogica.
La scala tonale dei grigi presente in una scena fotografica (e quindi nella fotografia scattata) viene divisa in 11 parti, dette zone, che vanno dal bianco puro al nero assoluto. Ogni zona rappresenta un determinato tono di grigio. Questa suddivisione della scala continua in più gradini permette di riconoscere nella fotografia b/n 11 specifici livelli di grigio, che hanno una variazione di uno stop di luminosità dall’uno all’altro.
- La zona 0 e la zona 10 corrispondono rispettivamente al nero assoluto e al bianco assoluto (equivalenti al valore zero e al valore 255, oggi presenti nell’istogramma digitale). In entrambe le zone si ha una perdita di dettaglio, dovuta alla sottoesposizione o alla sovraesposizione;
- nelle zone 1 e 9 si registra un piccolo cambio di tonalità rispetto alla zona precedente, ma anche in questo caso la trama del soggetto non è distinguibile. Queste zone sono utili per marcare i punti di massimo contrasto dell'immagine;
- nelle zone 2 e 8 sono presenti le ombre profonde e le alte luci: si tratta di zone  fortemente sottoesposte o fortemente sovraesposte, ma che conservano un minimo dettaglio del soggetto;
- infine le zone 3, 4, 5, 6, 7 sono quelle che codificano i diversi livelli di grigi intermedi, più ricchi di dettagli che danno carattere alla fotografia.
La zona 5, che rappresenta il grigio medio, va considerata sotto il profilo operativo come la zona-base più significativa e centrale in termini esposimetrici della scena osservata, attorno alla quale impostare l’esposizione dell’immagine con una determinata coppia tempi/diaframma, in modo da “restituire, in accordo al concetto di ‘previsualizzazione’ (anch’esso adamsiano) la massima scala tonale dell’immagine, in grado di contenere sia i dettagli in ombra, sia quelli presenti sulle luci”*.
“La previsualizzazione è ciò che consente all’abilità del fotografo di far emergere, dal negativo prima, e dalla stampa poi, tutto il potenziale espressivo, in termini di ricchezza tonale, contenuto nell’immagine che il fotografo si accinge a riprendere”. Adams ritiene che: “visualizzare un’immagine […] consiste nell’immaginarla, ancor prima dell’esposizione, come una proiezione continua, dalla composizione dell’immagine fino alla stampa finale”.
* Luca Chistè, Ansel Adams e il Sistema Zonale analogico/digitale per la fotografia in bianco/nero,
in: http://www.cuneofotografia.it/pdf/RPSistemaZonale.pdf. Cfr. anche il manuale scritto da Ansel Adams: La fotocamera e Il negativo, Zanichelli, 1987.
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[1] Per un approfondimento su questi 3 importanti autori segnaliamo:
- Ansel Adams' 400 Photographs, 2004, (ed. inglese), che presenta una panoramica completa del suo lavoro;
- Imogen Cunningham – A retrospective di Paul Martineau, 2020, (ed. inglese) a cura del J. Paul Getty Museum;
- Edward Weston, 2020, (ed. inglese) che contiene le iconiche e classiche nature morte, i nudi e i paesaggi del fotografo.
 [2] Juliet Hacking (a cura di), Fotografia, la storia completa, Atlante, 2012, p.283.
 [3] Peter Walther (a cura di), New Deal Photography, USA 1935-1943, TASCHEN, 2016, p. 29.
 [4] Peter Walther, ibidem.
 [5] Peter Walther, p. 34.
 [6] Peter Walther, ibidem.
 [7 Peter Walther, ibidem.
 [8] David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p. 106.
 [9] https://www.loc.gov/pictures/collection/fsa/.
 [10] David Bate, op. cit., pp. 107-08.
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La fotografia documentaria come forma d’arte (seconda parte)
di Lorenzo Ranzato
--- I precursori del documentarismo  
---  Introduzione
 -- Come abbiamo visto, nel corso degli anni ‘30 si afferma il documentarismo, che si sviluppa “all’interno di un più ampio movimento di cambiamento sociale e attitudine liberale”(1): è una grande svolta epocale, che chiude una significativa stagione della storia della fotografia, durata oltre settant’anni, e che ha visto la nascita e il tramonto del pittorialismo.
Al filosofo tedesco Walter Benjamin va attribuito il merito di aver ribaltato l’ormai anacronistica concezione di Charles Baudelaire, che per oltre mezzo secolo aveva diviso il mondo della pittura e dell’arte in due schieramenti contrapposti (2): da un lato gli immaginativi (i veri artisti che vogliono “illuminare le cose” con il loro spirito) e dall’altro i realisti (ovvero i positivisti, che vogliono erroneamente “rappresentare le cose come sono”).
Ed è proprio grazie ai suoi scritti e in particolare ai due saggi - Piccola storia della fotografia del 1931 e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936 - che l’arte ha potuto emanciparsi in modo definitivo da quella atavica dimensione spirituale o religiosa che aveva caratterizzato da sempre l'opera artistica tradizionale. In questo modo, con la liberazione dell’oggetto artistico dall’ ”aura”, si apriranno nuove prospettive e inediti spazi per i media emergenti quali la fotografia e il cinema, che rapidamente si affermeranno non solo come forme innovative del modernismo, ma anche come forme iconiche del XX secolo.
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                                                             Atget Photographe de Paris, 1930
La fotografia documentaria muove i primi passi negli Stati Uniti, inaugurando una nuova importante e complessa stagione della fotografia, che pervade tutto il ‘900 e arriva fino ad oggi, creando nel tempo una varietà di ramificazioni – generalmente definite in molti testi e nel web come “sottogeneri” - che spaziano dal fotogiornalismo, con la nascita delle riviste illustrate, alla fotografia pubblicitaria, dalla fotografia umanista sino al reportage di guerra e alla street photography, per arrivare forse alle recenti forme di giornalismo diffuso o all’inesauribile fenomeno della produzione fotografica nei social network.
In realtà, anche nell’epoca del pittorialismo imperante è possibile individuare alcuni fotografi che in qualche misura non seguono i canoni pittoricisti, ma usano il mezzo fotografico in modo più diretto. Tra questi, abbiamo scelto quattro autori che hanno contribuito con modalità diverse a porre le basi del nuovo linguaggio fotografico moderno. In Europa: Thomson che fotografa la vita di strada di Londra, Atget che documenta l’antica Parigi. In America Riis e Hine che utilizzano la fotografia come strumento di indagine e denuncia sociale.
Due precursori europei: Thomson e Atgèt
Il primo autore che possiamo citare è lo scozzese John Thomson, che è stato uno dei primi fotografi di “reportage” nell’Estremo Oriente. Negli anni ‘70 dell’Ottocento ha documentato “la vita di strada” di Londra: le sue fotografie scattate in modo sistematico – che sembrano evocare le descrizioni dei romanzi “realistici” di Charles Dikens – vengono pubblicate nel 1877 in forma di libro. Street life in London può essere considerato, a tutti gli effetti, fra i primi esempi di “realismo fotografico”, un genere che troverà la piena affermazione con l’avvento delle riviste illustrate, destinate a raccontare “storie per immagini” per un sempre più vasto pubblico di lettori (3).
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                                              John Thomson, Vita di strada a Londra, 1876-1877
Fra i precursori non può mancare Eugène Atget, che dal 1889 al 1924 ha documentato la vecchia Parigi, che si stava trasformando in una metropoli moderna, “manifestando fin dall’inizio l’ambizione di creare una collezione di tutto ciò che vi è di artistico a Parigi e nei dintorni” (4). Si considera un fotografo commerciale, tanto che nel 1890 espone fuori del suo laboratorio una piccola targa con la scritta “Documenti per artisti”. Con il suo apparecchio a soffietto 18x24, un pesante treppiedi di legno e qualche scatola di lastre fotografiche ha percorso in modo sistematico le strade di Parigi, fotografando le sue architetture, i suoi negozi e le vetrine con inquietanti manichini, suscitando l'interesse dei surrealisti come Man Ray e Brassaï. 
Il riconoscimento artistico di questa vasta collezione documentaristica è soprattutto postumo, grazie all’interessamento di Berenice Abbott che acquista dopo la sua morte gran parte della collezione di negativi, stampe e album, oggi custodita al Museo d’arte moderna di New York. Atget infatti muore quasi sconosciuto nel 1927, sebbene gruppi di sue stampe fossero già presenti in vari archivi di Parigi. Soltanto nel 1930, sempre per iniziativa della Abbott, esce il primo libro composto da 96 fotografie, Atget, Photographe de Paris. Da questo momento la sua fama crescerà, tanto da essere consacrato come uno dei più influenti fotografi della prima età moderna: apprezzato e riconosciuto sia dai giovani fotografi americani come Walker Evans, Ansel Adams, Margaret Bourke-White, sia da quelli europei come André Kertesz, László Moholy-Nagy ed Henri Cartier-Bresson.
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                                               Eugène Atget, Il Cabaret à l’homme armée, 1900                                                                                                             Eugène Atget, Rue Hautefeuille, 1898
La fotografia come indagine sociale: Riis e Hine
In America Jacob Riis può essere considerato il capostipite della moderna fotografia di indagine sociale. Emigrato dalla Danimarca, inizialmente lavora come reporter della polizia, ma poi si dedica a fotografare le aree più disagiate di New York. Nel 1890 pubblica il suo libro Come vive l’altra metà: studi sulle case popolari di New York, dove documenta la miserevole vita degli immigrati nel Lower East Side di Manhattan, libro che ha un forte impatto sull’opinione pubblica per la crudezza delle immagini, al punto da convincere l’allora governatore Theodore Roosevelt – suo amico personale, che lo defini “il miglior americano che abbia mai conosciuto” - a prendere provvedimenti per migliorare le condizioni di vita nell’area più densamente popolata del mondo, con oltre mezzo milione di persone concentrate in poco più di un chilometro quadrato. Per questi motivi, Riis è ricordato come uno dei fotogiornalisti e riformatori sociali più influenti, che ha documentato le ingiustizie sociali dell’America a cavallo fra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900.
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                                      Jacob Riis, Inquilini della casa popolare di Bayard Street, 1889
Lewis Hine, insegnante presso la Ethical Colture School di New York, si avvicina alla fotografia con l’occhio del sociologo, fotografando la vita degli immigrati a Ellis Island, ma a partire dal 1908 la sua attenzione si concentra sul lavoro minorile, diventando fotografo ufficiale del National Child Labor Committee, una organizzazione creata per combattere il lavoro minorile nell’industria pesante. Attraverso una descrizione accurata dei soggetti ripresi e delle loro condizioni di lavoro, utilizza la fotografia come strumento di denuncia sociale.
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                                          Lewis Hine, Famiglia di immigrati italiani, Ellis Island, 1905
Nel 1918 viaggia in Europa per documentare, su richiesta della Croce Rossa Internazionale, la situazione dei paesi del Vecchio Continente devastati dalla Prima Guerra Mondiale. Tornato a New York nel 1919, Hine rivolge nuovamente il suo interesse al mondo del lavoro, con una nuova attenzione alle qualità formali dell’immagine, pubblicando nel 1932 il libro Men at Work, dedicato alle maestranze che hanno contribuito alla costruzione dei grattacieli di New York.
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                                  Lewis Hine, Lavoro minorile in un cotonificio della Carolina, 1908
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1 David Bate, Photography. The key concepts,2016; trad. Il primo libro di fotografia, Einaudi, 2017, p. 67.
2 David Bate, Art Photography, 2015; trad. it. La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p. 102.
3  David Bate, op. cit., pp. 61-2.
4  J. C. Gautrand (a cura di), Eugène Atget. Paris, TASCHEN, 2016, p. 19.
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La fotografia come forma d’arte (seconda parte)
di Lorenzo Ranzato
– La fotografia pittorialista tra artificio e natura 
 L’ambivalenza della fotografia pittorica
Nella seconda metà dell’Ottocento il dibattito sulla fotografia d’arte si concentra sul nodo cruciale che ruota attorno al tema dell’antinomia tra finzione e verità. Come abbiamo visto, un esempio paradigmatico delle diverse posizioni culturali e stilistiche dei nuovi fotografi-artisti è costituito dal confronto spesso aspro e irriducibile tra Robinson ed Emerson, che David Bate ha ben documentato nel suo libro La fotografia d'arte.
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 H.P. Robinson, When the day,s work is done, 1877, stampa composita
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 P.H. Emerson, Setting the bow-net, 1886, “fotografia naturalistica”
Già in quella contesa emerge chiaramente l’ambivalenza della fotografia autoriale che aspira a ottenere "l'effetto artistico" per due strade diverse, mediante la stampa combinata (Robinson) o attraverso le riprese dal vero (Emerson). In realtà, “il conflitto fra artificio e natura”[1] diventa il tema ricorrente che si manifesterà lungo il complesso percorso di tutta la storia delle arti visive del Novecento, e quindi anche della fotografia. Tema ancor oggi centrale nel dibattito artistico-culturale, perché, come ci ricorda Claudio Marra, riemerge agli inizi degli anni duemila, quando si consuma il passaggio rapidissimo e totalizzante dal sistema analogico a quello digitale.
Ma ritorniamo sulle tracce dei fotografi pittorialisti…
Gli autori che hanno l’ambizione di realizzare creazioni artistiche con il mezzo fotografico sono attratti dai tradizionali temi della pittura, come i ritratti, le figure di nudo, i paesaggi o le composizioni narrative che rappresentano scene allegoriche, storiche e letterarie[2]. I fotografi pittorialisti non si limitano ad essere “pittorici” nella forma, ma condividono gli stessi soggetti degli impressionisti in Francia, dei preraffaelliti in Gran Bretagna e più tardi dei secessionisti a Vienna[3].
Le occasioni per promuovere le opere fotografiche avvengono seguendo percorsi analoghi a quelli delle Accademie di Pittura e dei vari Saloni internazionali, nonostante le difficoltà iniziali dovute alla diffidenza o alla contrarietà di organizzatori e critici d’arte. Tutto ciò è possibile grazie anche alla nascita delle Associazioni fotografiche che promuovono concorsi e organizzano mostre e premi, in Europa e in America, con l’obiettivo di affermare lo statuto artistico della fotografia.
 Differenti modi e diversi gradi di “manipolazione dell’immagine”
Una delle fotografie più controverse dell’epoca è senza dubbio “la complessa e ambigua allegoria morale” Due modi di vivere dello svedese Oscar Rejlander, esposta alla mostra Tesori d’Arte di Manchester nel 1857. L’artista utilizza più di trenta negativi diversi, per mettere in scena una sofisticata composizione, con il dichiarato obiettivo di “dimostrare l’eccellenza della fotografia e il potenziale artistico dello strumento”[4].
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 O.G. Rejlander, Two ways of life, 1857
La tecnica, come abbiamo visto nella prima parte dell’articolo, è quella della stampa combinata (più negativi assemblati e composti in camera oscura), che Rejlander insegna a Henry Peach Robinson. A partire dalla sua prima stampa composita Fading away, Robinson diventa a sua volta un fautore convinto di questo approccio compositivo, che divulga anche attraverso i suoi libri, per dimostrare che la fotografia è “in tutto e per tutto arte pittorica”[5], a dispetto dei detrattori che ne criticano l’artificiosità.
 Altri sono i metodi utilizzati da due autori francesi, con produzioni artistiche che tendono a una maggiore naturalità (Le Gray) o virano decisamente verso l’imitazione delle tecniche pittoriche (Demachy). Questi fotografi-artisti usano rispettivamente la stampa al collodio e alla gomma bicromata, dove la manualità nella fase di “postproduzione” e l’abilità del fotografo diventano un requisito indispensabile.
Gustave Le Gray nasce come pittore, ma presto si avvicina alla fotografia, diventando uno degli esponenti di spicco del pittorialismo francese. Fra l’altro, contribuisce alla fondazione della Societé héliographique nel 1851 e poi alla fondazione della Société française de photographie nel 1854.
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G. Le Gray, Alberi-foresta di Fontainebleau, c. 1856, stampa all’albumina al collodio umido
Diventa famoso tra i suoi contemporanei, che definiscono la sua opera “il trionfo dell’arte fotografica”[6], grazie a una straordinaria capacità di usare le innovazioni tecniche per creare immagini di grande lirismo. Un lirismo a volte metafisico, con il quale ha saputo riprodurre la natura, nei suoi paesaggi marini, nei suoi studi del cielo oppure nelle sue vedute della foresta di Fontainebleau.
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 G. Le Gray, La grande onda, Séte, 1856-59, stampa all’albumina da due negativi al collodio umido
“Una marina, un molo, onde e nuvole. È questa la fotografia più famosa e drammatica scattata da Le Gray sulla costa mediterranea nei pressi di Montpellier. Un panorama che oggi diremmo quasi banale, eppure nel 1857 non era così. Infatti non era semplice ottenere sulla stessa lastra al collodio umido la giusta esposizione per la luminosità del cielo e dell’acqua, inevitabilmente si sarebbe favorito l’uno o l’altra”[7]. La soluzione escogitata da Le Gray è quella di riprendere la veduta in due momenti distinti, ottenendo due negativi con esposizioni diverse, uno esposto per il cielo, per avere maggior contrasto e nuvole più definite, l’altro esposto per il mare, stampandoli poi insieme. La composizione dei negativi appare così perfetta che solo in tempi recenti gli studiosi si sono accorti che le sue marine sono ottenute con più di un negativo. Questo approccio, che qualcuno potrebbe considerare uguale alla stampa combinata, in realtà non ha la funzione di mettere in scena una narrazione allegorica o letteraria, come nelle fotografie di Rejlander e Robinson, né possiede quella complessità compositiva costituita dal montaggio di molti negativi. Le Gray, con grande maestria, usa la sovrapposizione dei negativi con un intento squisitamente tecnico: estendere la latitudine di posa dell’immagine.
 Un altro “metodo di manipolazione dell’immagine” è quello usato dal fotografo pittorialista francese Robert Demachy, già presentato da Gustavo Millozzi su Fotopadova: “particolarmente interessato ai processi fotografici non tradizionali è noto soprattutto per aver contribuito alla rinascita del processo della gomma bicromatata […] che gli ha permesso l'introduzione di colori e pennellate nell'immagine fotografica. Il pigmento arancione talvolta da lui impiegato intende evocare la sanguigna, una matita rossastra spesso usato nei disegni antichi” [8]. Non vi è dubbio che la sua visione fotografica sia stata decisamente influenzata dall’uso di questo metodo di stampa che si avvicina alle tecnica pittorica, soprattutto per quanto riguarda lo stile e la resa materica della téxture.
Fondatore del Photo Club di Parigi nel 1894, è uno dei più importanti interpreti di questo approccio estetico, basato sul seguente postulato “l’interprétation manuelle du cliché, qui intervient – en sus de l’opération de la prise de vue – sur le négatif e surtout sur le tirage”[9].
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 R. Demachy, fotografie realizzate con metodi di manipolazione che si avvicinano alle tecniche pittoriche
Grazie al procedimento di stampa alla gomma bicromatata, molti fotografi pittorialisti avranno la possibilità di esprimere la loro artisticità, con tecniche che consentono di assimilare le stampe ottenute agli acquerelli: è il procedimento in assoluto più creativo, che ogni artista decide di personalizzare, in base all'effetto finale che vuole ottenere soprattutto grazie alla propria abilità manuale.
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[1]  La definizione di Gillo Dorfles (in Artificio e natura, Skira, 2003, p.9) è riportata da Claudio Marra nel suo libro Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Mondadori, 2012.
[2]  Juliet Hacking, Fotografia la storia completa, Atlante, 2013: per una ricostruzione esaustiva del periodo trattato e per una panoramica completa dei fotografi pittorialisti, si veda il capitolo “dal 1856 al 1899”, pp.89-167, in particolare i paragrafi “la fotografia e le arti”, pp.112-115, “la fotografia pittorica”, pp. 160-163.
[3]  David Bate, Art photography , 2015, trad. It. La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p. 47.
[4] J. Hacking, op. cit., pp.116-117.
[5] Ivi, p.113.
[6] Ivi, pp.98-99.
[7] https://ilfotografo.it/il-fotografo/fotografia-storica-gustave-le-gray/
[8]  Si veda di Gustavo Millozzi, Robert Demachy e il pittorialismo, in fotopadova.org, dove sono riprodotte alcune delle immagini più significative del fotografo francese: https://www.fotopadova.org/post/170982186403
[9]  AA. VV., Histoire de voir, Le medium des temps modernes (1880-1939), Photo Poche, 1989, p. 70.
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Nathan Lerner: lo sguardo fotografico di un pittore “impressionista”
di Lorenzo Ranzato
(prima parte)
--- La biografia
 -- Nato nel 1913 a Chicago - da una famiglia di ebrei provenienti dall’Ucraina ed emigrati negli Stati Uniti - e morto l'8 febbraio del1997, all’età di 83 anni, Nathan Lerner ha potuto vivere tutte le vicende storiche del Novecento. La sua biografia ci restituisce l’immagine di un personaggio poliedrico, con una lunga carriera di fotografo, pittore, designer e docente di arti visive che resta però “indissolubilmente legata alla storia della cultura visiva di Chicago” - come ricorda un’articolo del New York Times, scritto pochi giorni dopo la sua morte.
Lerner inizia a studiare pittura all'età di 16 anni, presso Louis Rittman, seguace della pittura impressionista, e negli anni 1931-32 frequenta l’Accademia delle Arti di Chicago, utilizzando la macchina fotografica per perfezionare le sue abilità compositive.
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© Kiyoko Lerner-Nathan Lerner, The Swimmer, Chicago 1935
A partire dal 1935, inizia a fotografare uno dei quartieri più antichi della città, "Maxwell Street", "gateway" per immigrati, dove convivono ebrei, greci, russi, tedeschi, italiani, afroamericani e messicani. Nel 1936 fa un viaggio fra le città minerarie del sud dell’Illinois con lo scrittore Murray, per un progetto di libro sulle condizioni di vita dei minatori (non realizzato).
Nel 1937, entra a far parte come studente del New Bauhaus, fondato a Chicago da Lazlo Moholy-Nagy nello stesso anno. I suoi interessi si orientano sempre di più verso la sperimentazione fotografica, realizzando immagini semi-astratte e fortemente costruttiviste, ottenute mediante proiezioni luminose, solarizzazioni e altri metodi sperimentali. Il suo interesse nel manipolare la luce lo porta a inventare la prima "scatola luminosa"… Nel 1939 diventa assistente di Gyorgy Kepes, capo dell'officina leggera della scuola, con il quale scrive The Creative Use of Light (1941).
Dopo aver lavorato come esperto civile per la Marina di New York durante la seconda guerra mondiale, Lerner torna alla scuola (che prende il nuovo nome di Institute of Design) e, dopo la morte di Moholy-Nagy nel 1946, diventa direttore della Scuola.
Conclusa la sua esperienza di docente nel 1949, Lerner apre un ufficio di progettazione e diventa noto a livello nazionale realizzando mobili, sistemi di costruzione e contenitori in vetro e plastica. Nel 1955 fonda il Low-Cost Modern, che propone su catalogo “oggetti belli e moderni” a meno di 10 dollari e promuove “il fai da te”, ottenendo un largo successo. Nel 1968 Lerner sposa Kiyoko Asia, pianista di musica classica giapponese, e nei due decenni successivi fa numerosi viaggi in Giappone, dove scatta le sue prime fotografie a colori.
In ambito fotografico, ha realizzato la sua prima mostra personale nel 1973, a cui hanno fatto seguito numerose mostre in Europa al Bauhaus-Archiv di Berlino, a Boston, a New York, a Tokio, a Parigi e in molti altri stati americani. Oggi i suoi lavori sono inclusi in collezioni di fotografia e design di tutto il mondo e molte gallerie americane hanno in portafoglio sue opere fotografiche e artistiche [1].
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© Kiyoko Lerner-Nathan Lerner, Indian picnic, 4th of July, New Mexico
Già le prime fotografie degli anni ’30 ci consentono di comprendere come il linguaggio fotografico di Lerner sia stato influenzato dalla pittura. Quando inizia a fotografare, lo fa come farebbe un giovane pittore “impressionista”: la fotocamera gli serve soprattutto per affinare il senso della composizione artistica e la fotografia diventa “un esercizio dello sguardo”, per rappresentare la realtà così come viene percepita dal suo occhio nel momento in cui scatta. Una pratica singolare - come ricorda Gèrard Audinet [2] - dematerializzata, completamente arroccata sul momento dell’inquadratura e dello scatto, come una sorta di schizzo mentale… Tant’è che gran parte delle sue fotografie non vengono stampate in quegli anni, ma molto più tardi, addirittura dopo gli anni ’60.
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© Kiyoko Lerner-Nathan Lerner, Lilian 1935
Così Audinet commenta il ritratto di Lillian, una giovane donna vista attraverso un vetro di una finestra: “le portrait…s’inscrit également dans cette étude impressioniste d’une vision analytique de la forme à travers l’effet de la lumière” [3].
Lo sguardo impressionista su Maxwell street: un mondo che “si guadagna da vivere”
Dopo questo breve inquadramento, indispensabile per capire il modo di pensare e vedere la fotografia di Nathan Lerner, proviamo a calarci nel mondo multietnico di “Maxwell street”: un quartiere che a partire dalla fine dell’Ottocento, grazie alla presenza degli ebrei dell'Europa orientale, si trasforma in breve tempo in uno dei più grandi Mercati all'aperto degli Stati Uniti, dove si vende qualsiasi cosa, dai lacci delle scarpe ai vestiti costosi.
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© Kiyoko Lerner-Nathan Lerner, Maxwell street 1936-37
È un mondo che “si guadagna da vivere”. Makes a living: questa è l’espressione che usano gli anziani abitanti di Maxwell street, per indicare il percorso di vita degli immigrati che ambiscono a riscattare le loro condizioni di indigenza e guadagnarsi libertà e dignità. Da ciò potrebbe derivare quel misto di distacco ed empatia tipico degli scatti di Natahn Lerner. In fondo anche lui è stato un immigrato, seppur con altri mezzi e capacità individuali che lo caratterizzano come self made man.
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© Kiyoko Lerner-Nathan Lerner, Maxwell street 1936-37
In effetti, tutte le sue “fotografie di strada”, scattate nel corso degli anni ’30, a San Francisco, a New York [4], nel sud dell’Illinois manifestano in varia misura una visione della realtà influenzata dai suoi studi di pittura, in particolar modo dall’estetica impressionista. Si ha la sensazione che lo sguardo di Lerner non sia interessato a documentare, secondo i canoni delle nuove tendenze americane della fotografia sociale, piuttosto: “son intérêt est d’abord plastique, et s’attache particulièrement à la composition et au cadrage [5]”. Ma l’incontro con Lazlo Moholy-Nagy e l’iscrizione al New Bauhaus nel 1937 segneranno una svolta decisiva nella sua successiva formazione di artista, fotografo e designer…e questo sarà l’argomento della seconda parte: l’esperienza fotografica e artistica di Lerner all’interno del New Bauhaus, alle sue sperimentazioni e “all’uso creativo della luce”.
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© Kiyoko Lerner-Nathan Lerner, Bambini e auto 1936
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[1] Nathan Lerner va ricordato anche per aver scoperto e contribuito a far conoscere l'arte di Henry Darger, uno dei grandi artisti stranieri del secolo, il cui lavoro è stato oggetto di una retrospettiva al Museum of American Folk Art di Manhattan, alla fine del secolo scorso. La scoperta del tutto casuale ha dell’inverosimile: appena dopo la morte di Darger nel 1972, Lerner rovistando nella stanza che gli aveva affittato, ha notato che era piena zeppa di fantastici scritti e dipinti… E da quel momento ha iniziato un’altra attività, un altro impegno della sua vita: quello di salvaguardare e divulgare l’opera di Henry Darger.
[2] Gèrard Audinet, “Nathan Lerner, le lumières de la ville”, in Nathan Lerner, l’héritage du Bauhaus à Chicago, Catalogo MahJ 2008. Gèrard Audinet, conservatore del Musèee d’Art Moderne de la Ville de Paris, è l’autore del testo di presentazione del Catalogo, a cui faremo riferimento nel seguito.
[3] Ibidem.
[4] http://nathanlerner.com/articles/maxwell-street.html
[5] Dall’introduzione alla Mostra del Musée d’art et d’histoire du Judaisme (MahJ), 13 novembre 2008-11 gennaio 2009. (https://www.mahj.org/fr/programme/nathan-lerner-l-heritage-du-bauhaus-a-chicago-16027)
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fotopadova · 2 years
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La fotografia documentaria come forma d’arte (prima parte)
di Lorenzo Ranzato
--- La nascita del documentarismo
--- Introduzione: straight photography vs. pittorialismo
Dopo la fine della prima guerra mondiale, con l’affermarsi dell’ideologia modernista[i], promossa dalle avanguardie europee nel campo delle arti figurative, assistiamo a un radicale cambiamento del linguaggio fotografico. Il principale obiettivo è quello di sviluppare una fotografia artistica “pura”, fondata sulla maggior autonomia del mezzo fotografico, nel tentativo di superare definitivamente l’estetica predominante del pittorialismo internazionale, che si era progressivamente costituito - tra fine dell’Ottocento e inizi del Novecento - come un eterogeneo insieme di teorie e pratiche tendenti a imitare i canoni artistici della pittura[ii].
Possiamo collocare il punto di svolta alla fine dell’esperienza americana della Foto-Secessione (1902-1917), dove il suo principale esponente, Alfred Stieglitz, ha svolto un duplice ruolo: da un lato quello di infaticabile animatore culturale ed esponente di punta del pittorialismo americano, dall’altro quello di geniale promotore di un nuovo linguaggio fotografico modernista, incarnato dalla straight photography (fotografia diretta).
Ed è proprio Stieglitz a individuare nelle immagini di Paul Strand, giovane fotografo emergente, il primo esempio di fotografia diretta: le sue foto verranno pubblicate nella rivista Camera Work, nel numero doppio 49/50 stampato nel giugno del 1917. Sarà l’ultima uscita della prestigiosa rivista, che oltre a chiudere la stagione della Foto-Secessione, assesta anche un duro colpo a quella particolare visione della fotografia pittorialista che faceva largo uso dei pigmenti e del ritocco a pennello nella manipolazione del negativo[iii].
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 Edward Steichen, Lo stagno-Sorge la luna, 1904
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 Paul Strand, The White Fence, Port Kent, 1916
Il semplice confronto tra due famose fotografie ci consente di comprendere facilmente la differenza tra linguaggio pittorico e diretto.
La prima - Lo stagno-Sorge la luna, 1904 - è una delle più emblematiche immagini del periodo pittorialista di Edward Steichen. L’effetto pittorico viene reso mediante la tecnica della gomma bicromata, un’emulsione fotosensibile stesa a mano sulla carta dall’autore stesso, che in questo caso fa uso di pigmenti colorati, quasi a voler realizzare un paesaggio di gusto tardo-impressionista[iv].
Nella seconda, - The White Fence, Port Kent, 1916 – Strand, influenzato dalla nuova estetica delle avanguardie europee, vuole proporre un nuovo linguaggio visivo, riconoscendo una qualità estetica alle proprietà intrinseche del mezzo fotografico. In effetti, ritrae un soggetto che a quel tempo un pittorialista avrebbe considerato privo di artisticità: un frammento di paesaggio urbano organizzato su tre piani differenziati. La forza dell'immagine è data dal forte contrasto del bianco e nero, accentuato dalla contrapposizione fra i piani degli edifici sullo sfondo e la bianca staccionata in primo piano, che vuole marcare il confine tra lo spazio fotografico e lo spazio esterno dello spettatore[v]. 
La straight photography
L’espressione straight photography[vi] è stata introdotta dal critico d’arte Sadakichi Hartmann, che in un articolo del 1904 lanciava un appello per “la fotografia diretta”, rivolgendo una dura critica a quelle tecniche pittorialiste di manipolazione dell’immagine, usate nei processi di sviluppo fotografico, quali la gomma bicromata adoperata da Demachy e sviluppata poi da Steichen, che producevano secondo il giudizio sarcastico di Hartmann degli strani ibridi: “paintographs or photopaints”[vii].
Ma come si può definire la fotografia diretta? - si domanda Hartmann[viii]. “In fondo,è abbastanza facile. Affidati alla tua fotocamera, al tuo occhio, al tuo buon gusto e alla tua conoscenza della composizione, considera ogni variazione di colore, luci e ombre, studia le linee e i valori tonali e la suddivisone spaziale, e aspetta pazientemente fino a che la scena o l'oggetto che stai inquadrando non si rivelino all’apice della loro bellezza. In breve, componi la foto che intendi scattare con la maggior precisione possibile, per ottenere un negativo assolutamente perfetto, sul quale non bisognerà intervenire in alcun modo o al più con qualche leggero ritocco”.
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Moholy-Nagy, Balcone al Bauhaus di Dessau,1926  e  Barche con pontile a Marsiglia, 1929,  © ELMN 
Rivolgendo lo sguardo all’Europa, possiamo registrare alcune importanti sperimentazioni del linguaggio modernista in Germania.
La prima avviene sotto la regia di Laszlò Moholy-Nagy, poliedrico artista e fotografo, allora professore al Bauhaus, che durante gli anni ‘20 si fa promotore della “Nuova Visione”, un linguaggio a cavallo “tra fotografia d’arte e ricerca scientifica”, basato su “spettacolari effetti visivi”, quali vedute dall’alto e dal basso, primi piani ravvicinati, fotomontaggi. Ma dopo il successo ottenuto con la rassegna Film und Foto nel 1929, “l’utopia di un rinnovamento della visione a opera della macchina” perde slancio e il movimento è duramente criticato come nuova “forma di pittorialismo”, di matrice cubista e astratta[ix].
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Renger-Patzsch, riprese dal mondo naturale e artificiale, 1928
 L’altra esperienza innovativa riguarda l’opera di Albert Renger-Patzsch, sostenitore della Nuova Oggettività, che persegue una ricerca di precisione e chiarezza nel rappresentare gli oggetti, rifiutando tutto ciò che esula dalla “pura registrazione della realtà”[x]. Nel suo libro fotografico Il mondo è bello (1928) propone “una fotografia plastica, in cui è esaltata la forma del soggetto”[xi], sia che provenga dal mondo naturale sia da quello artificiale. Ma anche questo approccio ben presto sarà accusato di deriva formalista e dovrà essere l’opera di August Sander a schiudere le porte alla fotografia documentaria, grazie alla sua “fotografia esatta” che consente di “vedere le cose così come sono”.
All’inizio degli anni ‘20 Sander elabora un progetto enciclopedico Uomini del XX secolo, con l’obiettivo di comporre un grande ritratto della società tedesca nell’epoca della Germania di Weimar. Grazie a questo colossale lavoro, che non verrà mai pubblicato interamente, diventa famoso soprattutto tra i critici e gli intellettuali: una fama che gli consentirà di esercitare un’influenza determinante nei riguardi della nuova generazione di fotografi “documentaristi” che si affermarà negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘30.
Nel 1929 Sander riesce a pubblicare il libro Il volto del tempo, con un’interessante prefazione del romanziere Alfred Döblin, dove propone 60 immagini meticolosamente scelte dall’”archivio” che stava costruendo. Sono ritratti di contadini, di persone appartenenti a famiglie operaie o piccolo-borghesi, di membri dell’alta borghesia o di artigiani e professionisti affermati: un vasto atlante fisiognomico di tipi umani descritti in base alla rispettiva posizione sociale [xii], che Walter Benjamin non esita a definire una sorta di manuale su cui esercitarsi a “guardare in faccia gli altri”[xiii].
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 August Sander, ritratto di pittore e di giovani in campagna, 1929
La nascita della fotografia documentaria negli Stati Uniti
E’ opportuno iniziare con una breve premessa, necessaria per comprendere la differenza tra l’espressione “documento fotografico” e il termine “documentario”.
Il concetto di “documento fotografico” veniva impiegato già nella seconda metà dell’Ottocento, per indicare esclusivamente il valore scientifico e archivistico delle immagini[xiv]; il termine “documentario” invece entra nel linguaggio fotografico alla fine degli anni ’20 e sarà utilizzato, in accezione alquanto generica, per definire il filone del documentarismo.
Non dobbiamo dimenticare che tutta la seconda metà dell’Ottocento è segnata dal dibattito sulla “duplice identità della fotografia”: pura tecnica e/o nuova forma di manifestazione artistica. In effetti, ai tempi della “durissima requisitoria di Baudelaire contro le aspirazioni artistiche della fotografia”[xv] (1859), il documento fotografico non era degno di ottenere un qualche riconoscimento estetico o artistico, proprio perché intendeva riprodurre la “realtà” tale e quale, in modo oggettivo, senza alcun intervento creativo[xvi].
Come sappiamo, bisognerà aspettare il Novecento perché l’originaria diatriba fra arte e scienza si ricomponga in nuovi equilibri e conseguentemente si possa compiere la riconciliazione fra immaginario e realtà, sulla base di “nuovi codici estetici”, fondati su “un rapporto oggettivo e diretto con il reale”[xvii].
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 Berenice Abbott, Changing New York , 1935-39
Sulla scia della straight photography, la fotografia documentaria trova negli Stati Uniti il proprio centro di sviluppo, grazie a un gruppo di giovani fotografi americani che verso la fine degli anni ‘20 si avvicinano alle nuove forme del linguaggio modernista: si tratta di Berenice Abbott, Walker Evans, Ralph Steiner, Margaret Bourke-White, Ansel Adams e Willard Van Dyke. Sono molteplici gli autori a cui fanno riferimento: ci limitiamo a segnalare l’influenza di personaggi europei come August Sander o Eugène Atget, straordinaria figura di fotografo documentarista ante litteram e al tempo stesso artista riconosciuto malgré soi [xviii], o la riscoperta di autori americani come Lewis Hine, “fotografo sociale”, che è stato tra i primi a comprendere le potenzialità del linguaggio fotografico e il suo potere persuasivo sull’opinione pubblica.
In breve tempo “la forma documentario” raggiungerà “una relativa autonomia rispetto alla funzione di documentazione in senso stretto” e accederà rapidamente al rango di categoria artistica. Durante gli anni ‘30 i due termini, documento e arte, vengono considerati “indissociabili” nella costituzione del nuovo genere documentario, ma nei decenni successivi assisteremo a ulteriori sviluppi che avranno il loro punto di arrivo in quello che sarà definito da Walker Evans lo stile documentario[xix].
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 Margaret Bourke-White, Garment - district New York city , 1930
Non è facile dar conto del complesso e variegato dibattito sulla fotografia documentaria, in modo del tutto analogo a quanto è avvenuto con il pittorialismo in epoca tardo-ottocentesca. Per chi volesse approfondire la materia, rinviamo al testo di Oliver Lugon Lo stile documentario in fotografia, che affronta in modo completo ed esauriente le vicende del documentarismo e dei suoi esponenti.
Proviamo a sintetizzarne gli aspetti più significativi:
- “il rispetto delle specificità del medium fotografico”, che si inquadra perfettamente all’interno della teoria modernista;
- “la metafora della chiarezza” (cioè un “fascio di caratteristiche” che comprende la chiarezza tonale, la precisione della resa, l’oggettività e la leggibilità), che Lugon considera come la possibile chiave interpretativa del progetto documentario;
- la conseguente scelta formale di una grande luminosità della fotografia (accentuata dall’abbandono dei metodi di stampa su carta leggera tipici del pittorialismo e dall’introduzione della carta lucida, più rigida e più spessa) e una assoluta nitidezza basata sulla pulizia dei dettagli;
- una tendenza verso “l’anonimato”, che possiamo ritrovare ad esempio negli scatti di Walker Evans e nella sua concezione delle ”composizioni inconsapevoli, ossia di una “creatività involontaria”;
- la metafora della “scrittura” e soprattutto della “lettura” della fotografia, secondo la definizione di Evans che “la macchina fotografica è una specie di macchina da scrivere” (tema caro anche a Berenice Abbott che nel corso degli anni si dimostrerà sempre più interessata alla “comunicazione e ai “messaggi”);
- la serialità delle fotografie documentarie, che acquisiscono senso e valore non tanto come immagini singole, ma in quanto appartenenti a “un insieme organizzato”, cioè a una serie [xx].
In definitiva, l’affermarsi di una visione più oggettiva dell’immaginario fotografico - supportata dall’innovazione delle tecnologie e dei metodi di stampa - provocherà un profondo cambiamento dei tradizionali paradigmi artistici e condurrà a uno slittamento di significato all’interno del concetto stesso di fotografia, da un piano eminentemente estetico a una dimensione euristica nuova, orientata alla conoscenza del reale e alla comunicazione. Un cambiamento radicale che consentirà al neonato genere documentario di diventare a tutti gli effetti la nuova forma d’arte della modernità[xxi].
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 Walker Evans, Ossining, New York, 1932
 Concludiamo questo articolo introduttivo, ricordando che nelle prossime puntate approfondiremo altri aspetti del documentarismo e presenteremo alcuni dei più significativi esponenti della fotografia documentaria, che nel corso della sua storia ha sempre ricercato quel rapporto diretto e non mediato con la realtà circostante che costituisce la sua irrinunciabile cifra stilistica.
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[i]               Il modernismo è il risultato sia di radicali cambiamenti culturali e di nuove tendenze nel campo dell’arte, sia di trasformazioni su larga scala avvenute nella società occidentale durante la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. I principali fattori che hanno modellato il modernismo sono: da un lato la rivoluzione artistica delle Avanguardie storiche che mettono in discussione l’identità stessa dell’arte; dall’altro lo sviluppo delle moderne società industriali e la rapida crescita delle città, nonché il drammatico evento della prima guerra mondiale e le conseguenti reazioni di orrore manifestate dall’opinione pubblica.
[ii]              Su tale argomento è possibile consultare sempre sul sito di Fotopadova 4 articoli dal titolo “La fotografia come forma d’arte” (2021), che affrontano le vicende del pittorialismo a cavallo fra Ottocento e Novecento, dalla sua nascita sino al suo riconoscimento come forma d’arte.
[iii]             Si veda: Alfred Stieglitz, Camera Work, Taschen, 2018, pp. 211-213.
[iv]             Si veda: Juliet Hacking (a cura di), Fotografia: la storia completa, Atlante, 2013, pp. 180-181.
[v]              Strand, rispettando sia i limiti che le potenziali qualità del mezzo fotografico, si pone l’obiettivo di produrre immagini “senza trucchi di processo o manipolazione, attraverso l'uso di metodi fotografici diretti". Cfr: Paul Strand, Camera Work 49–50 ,1917, p. 3.
[vi]             Sadakichi Hartmann, "A Plea for Straight Photography", in American Amateur Photographer 16, 1904, pp. 101-109.
[vii]            Sadakichi Hartmann, “A monologue”, in Camera Work 6, 1904, p. 25.
[viii]           Hartmann, "A Plea for Straight Photography", p. 109.
[ix]             Oliver Lugon, Lo stile documentario in fotografia, Electa, 2008, pp. 42-47.
[x]           Lugon, Ivi, p. 50.
[xi]         Angela Madesani, Storia della fotografia, Mondadori, 2008, p. 76.
[xii]         Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, Abscondida, 2015, p. 32-35.
[xiii]         David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p. 99.
[xiv]          Lugon, op. cit., pp. 15-16.
[xv]          Si veda al proposito: Claudio Marra, Che cos’è la fotografia, Carrocci, 2017, pp.11-38.
[xvi]         Ad esempio il documento d’identità, che rappresenta il soggetto fotografato frontalmente, ha soltanto il compito di consentire il riconoscimento della persona titolare del documento stesso e nulla più.
[xvii]         Claudio Marra, Che cos’è la fotografia, Carrocci, 2017, p. 33:
[xviii]       La riscoperta della figura di Atget è dovuta all’iniziativa di Berenice Abbott che dopo la sua morte acquista a Parigi le sue fotografie e le porta a New York nel 1929.
[xix]          Lugon, op. cit, pp. 16-19.
[xx]           Lugon, op. cit. Si veda in particolare il capitolo 2 “La chiarezza”, pp.136-212.
[xxi]         Bate, op. cit., pp. 102-103.
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fotopadova · 3 years
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La fotografia come forma d’arte (quarta parte)
di Lorenzo Ranzato  
–- I territori del “fotografico”: pittorialismo, documentarismo, concettualismo 
Il riconoscimento della fotografia pittorialista come forma d’arte
La rapida carrellata storica che abbiamo compiuto, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento sino alla chiusura della rivista Camera Work nel 1917, ci ha consentito di tracciare una panoramica del pittorialismo europeo e statunitense, ma soprattutto di conoscere metodi e stili di alcuni dei suoi più autorevoli rappresentanti, i cosiddetti artisti-fotografi. In questo modo, abbiamo potuto comprendere come il pittorialismo sia stato non solo “un’insieme piuttosto eterogeneo di idee su ciò che rende buona una fotografia d’arte”[1], ma sia diventato anche il primo vasto movimento fotografico internazionale, che si è guadagnato un proprio spazio di autonomia fra le arti maggiori.
A questo successo hanno contribuito senza dubbio le esperienze dei pittorialisti europei, ma un impulso determinante è stato dato dal movimento Photo-Secession (Edward Steichen, Clearence White, Käsebier, Frank Eugene, F. Holland Day e Alvin Langdon Coburn) e soprattutto dal loro più autorevole rappresentante, Alfred Stieglitz. Lo stanno a confermare le iniziative portate avanti dallo stesso Stieglitz, sia con la pubblicazione di Camera Work, sia con le diverse mostre realizzate, fra le quali spicca l’International Exhibition of Pictorial photography tenuta a Buffalo nel 1910, che segna il punto più alto dell’esperienza pittorialista europea e statunitense.
Negli anni successivi alla mostra di Buffalo il movimento Photo-Secession perde coesione, anche a causa dei modi autoritari di Stieglitz e - complice anche l’avvento della Prima Guerra Mondiale - conclude la sua parabola nel 1917, quando Stieglitz scioglie il movimento e chiude la rivista Camera Work.
 Purismo fotografico vs. pittorialismo
Il riconoscimento artistico della fotografia pittorialista rappresenta indubbiamente il più grande risultato ottenuto da Stieglitz e dal suo gruppo, ma all’interno di questo variegato movimento internazionale restano ancora molte questioni aperte, che ruotano prevalentemente attorno all’irrisolto rapporto fra pittura e fotografia, che ora bisognerà nuovamente affrontare.
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 Paul Strand, Astraction-porch shadows, Connecticut, 1916
 Dobbiamo fare riferimento ancora alla figura di Stieglitz che, attratto dal nuovo linguaggio fotografico di Paul Strand che incarna i nuovi principi della “fotografia pura”, pubblica le sue fotografie negli ultimi due numeri di Camera Work: nelle opere di Strand vede “una versione fotografica dell’astrazione pittorica” tipica dei dipinti di Picasso e che ora ritrova “nella sua prima passione, la fotografia”[2]. Non dimentichiamo che sarà lo stesso Stieglitz a ospitare e a far conoscere le nuove tendenze dell’avanguardia artistica europea proprio a New York presso la Galleria 291, con mostre dedicate a Matisse, Cézanne, Picasso, Rodin.
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 Alfred Stieglitz, The Steerage, Il ponte di terza classe, 1907-1911
 Già da queste brevi considerazioni, possiamo intuire come nei primi decenni del Novecento si radicalizzi una nuova contrapposizione fra linguaggi fotografici che - come ci racconta Luigi Marra nel suo libro, più volte citato Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre) - sembrano apparentemente diversi: da un lato il purismo della cosiddetta “fotografia diretta” (straight photography), dall’altro il consolidato filone del pittorialismo fotografico, che in diversi modi continua a imitare la pittura impressionista.
Per rappresentare questo cambiamento di linguaggio inaugurato da Strand, si ricorre anche alla fotografia più emblematica di Stieglitz, La terza classe, considerata da molti critici il punto di passaggio “da uno stile pittorico a uno stile documentaristico”[3]: è un unico scatto realizzato durante la traversata verso l’Europa, con una portatile Auto Graflex nel 1907, ma viene pubblicato su Camera Work solo nel 1911, quando Alfred è del tutto convinto che questa fotografia sia la sua prima opera modernista.
L’equivoco della contrapposizione tra pittorialismo fotografico e straight photography
In realtà, se seguiamo il ragionamento di Marra, il passaggio dal pittorialismo alle fotografia diretta (o purismo fotografico), considerato da molti critici come l’affrancamento della fotografia dalla pittura è una questione mal posta. In effetti, “sotto le apparenze di un rinnovamento linguistico capace di far emergere la tanto invocata specificità fotografica” sembrano emergere ancora forme di “un pittoricismo ben più potente e subdolo”[4].
Ma dove sta l’equivoco?
Marra sostiene che ci troviamo di fronte a un evidente “errore metodologico”: “si è attribuita una categoria generale (il pittorialismo, cioè l’essere simile alla pittura) a una particolare interpretazione della pittura, l’Impressionismo appunto”, nella convinzione che la fotografia pittorialista sia stata un fenomeno circoscritto soltanto ai due o tre decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Questo “limite temporale ma soprattutto stilistico indurrebbe a credere che “la fotografia possa essere definita pittorica solo quando imita l’Impressionismo e non altre scuole” [5].
Seguendo l’interpretazione critica di David Bate, che abbiamo già brevemente illustrato nella prima puntata, appare del tutto evidente che il pittorialismo, assieme al documentarismo e al concettualismo, siano le tre categorie del fotografico[6] “entro le quali racchiudere i comportamenti della fotografia nel tempo e fino alla contemporaneità”[7], comportamenti che assumeranno di volta in volta una propria specificità linguistica e poetica.
Ne consegue che “il pittorialismo fotografico non è un fenomeno limitabile a un determinato periodo storico e a una particolare scuola”, ma si ripresenta ogni volta che “la fotografia segue la logica complessiva della pittura”[8].
Possiamo dunque riconoscere nel linguaggio della straight photography nuove forme di pittorialismo fotografico, che ovviamente si distinguono dalle più tradizionali soluzioni proposte dal “pittorialismo storico”, ispirato dall’accademismo e basato sui metodi di manipolazione dell’immagine (due nomi per tutti: l’inglese Robinson e il francese Demachy).
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 Paul Strand, Vedute di New York, 1915 e 1916
 Sotto questo profilo, esemplare è l’opera di Paul Strand che, alla ricerca di un’autonomia della fotografia, rifiuta il linguaggio del pittorialismo storico e disprezza i cosiddetti “fotopittori”. Ma in questo modo ricade in una nuova forma di “pittorialismo forse inconsapevole ma potentissimo”[9] che riprende le modalità stilistiche delle avanguardie e risente delle influenze del cubismo e dell’astrattismo. Quando afferma che lo specifico fotografico va identificato con “le forme degli oggetti, le tonalità di colore relative, le strutture e le linee”, in realtà sta descrivendo quello che costituisce “lo specifico trasversale di tutta la pittura”[10], peraltro ancora rintracciabile in molta fotografia contemporanea.
Tutto ciò vale anche per la fotografia di altri autori come ad esempio Clarence White, Coburn e Stieglitz, quando il loro linguaggio fotografico si allontana dal “gusto” impressionista e si avvicina a quello delle nuove correnti artistiche del primo Novecento.
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 Clarence White, Drop of rain, 1908
 Possiamo dunque concludere con Marra che con l’avvento della straight photography il filone pittorialista non si esaurisce, ma piuttosto si aggiorna, con “un passaggio di tutela dall’area impressionista a quella “neoplastica-costruttivista”[11].
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 Alvin Langdon Coburn, Vortografia, 1917
 Peraltro, il concetto di neopittorialismo introdotto da Marra e anche da Bate, con sfumature diverse, per definire questi nuovi orientamenti fotografici, può diventare un’utile chiave interpretativa, per affinare il nostro “occhio critico”, ogni volta che andremo a indagare tipi di fotografia che in qualche modo fanno uso di linguaggi riconducibili a qualche tendenza pittorica, sia essa figurativa o astratta. Ciò vale ad esempio, per la fotografia astratta di Làslò Moholy-Nagy o per le composizioni alla maniera di Malevič o Modrian della newyorkese Florence Henri – commentate da Marra -, oppure in epoca più vicina a noi, per i tableaux del canadese Jeff Wall – che David Bate accosta a quelli ottocenteschi di Robinson – o infine per le grandi composizioni di David La Chappelle, dalla quali emerge prorompente lo scontro “tra artificio e natura”.
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        Alfred Stieglitz, Fofografie di Georgia O'Keeffe, 1917-1918
 Oltre il pittoricismo: “l’arte del documento” e la fotografia concettuale
Per ricercare l’autonomia della fotografia dalla pittura dovremo esplorare altri territori del “fotografico”, dove si consumerà lo scontro dialettico tra pittoricità ed extrapittoricità[12]. E le prime avvisaglie di un autentico sforzo antipittorialista potremmo rintracciarle in quel tipo di fotografia che “entra in relazione con le ricerche extrapittoriche sviluppate in area dadaista-surrealista”[13].
Ad ogni modo, come afferma Walter Benjamin, a incarnare la nuova forma d’arte dell’epoca moderna è il documento fotografico[14], che trova negli album fotografici della Parigi di Eugéne Atget l’esempio storico più significativo. Rilevanti esponenti della fotografia documentaristica saranno i fotografi della Farm Security Administration in America e August Sander ed Henri Cartier-Bresson in Europa, solo per fare alcuni nomi.
L’affrancamento definitivo dalla cultura del pittoricismo avverrà soltanto con l’affermazione della fotografia concettuale[15], che nascerà sulla scia delle esperienze artistiche del concettualismo: performance, body art, land art, narrative art… Solo allora la fotografia potrà acquisire in modo completo quella specifica identità extrapittorica, che, come sappiamo, trova origine nella poetica del dadaismo e nella teoria del ready-made di Marcel Duchamp[16]. A titolo esemplificativo, seguendo le indicazioni di David Bate sul tema dell’assenza della presenza, possiamo ricordare Richard Long e Victor Burgin, o la sequenza Autoseppellimento di Keith Arnatt (1969); oppure, seguendo il racconto di Claudio Marra, l’opera di Francesca Woodman sul tema del corpo, o le opere narrative di Franco Vaccari e Duane Michals “maestro della narrazione pseudotriller di gusto cinematografico”, o ancora i lavori di Cindy Sherman, in bilico tra finzione e realtà, per arrivare alla fotografia italiana del “pensiero debole”, rappresentata da Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Mimmo Jodice e Guido Guidi.
Da questo punto in avanti, grazie anche ai nuovi scenari aperti dalla moda e dalla pubblicità - con la contaminazione fra ricerca artistica e industria culturale -, per il medium fotografico si schiudono nuovi orizzonti, che lo portano ad acquisire progressivamente una rilevante centralità in tutti i processi di produzione artistica contemporanea, sia nelle arti dello “spazio” (pittura, scultura, installazioni), sia nelle arti del “tempo” (video, media digitali e performance)”[17].
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 Fontana di Marcel Duchamp, fotografata da Alfred Stieglitz, 1917[18]
 Dunque, non ci resta che concludere condividendo la tesi di David Bate: riconoscere che è tramontato il tempo della fotografia come arte e pensare piuttosto di essere entrati nella nuova epoca dell’arte come fotografia.
Ma queste sono altre nuove storie da raccontare…
[1]              David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p.45.
[2]            Alfred Stieglitz, Camera Work-The Complete Photographs 1903-1917, Tachen, 2018, p.213.
[3]              Juliet Hacking (a cura di), Fotografia la storia completa, Atlante, 2013, p.183.
[4]              Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Mondadori, 2012, p.120.
[5]              Ivi, p.121.
[6]              David Bate, op. cit. p.9.
[7]              Roberta Valtorta, “Dissimiglianza vs. somiglianza: un concetto in flashback”, in rivista di studi di fotografia rfs, n.8, 2018.
[8]              Claudio Marra, op. cit. p.121.
[9]              Ivi, p.125.
[10]            Ibid.
[11]            Ivi, p.131.
[12]            Ivi, p.120 e 122.
[13]            Ivi, p.131.
[14]            David Bate, op. cit. p.102. Per una conoscenza più approfondita del documento come forma d’arte, si consiglia la lettura di parte del cap. 3 “L’arte del documento”: pp. 83-112.
[15]          Si veda al proposito la parte iniziale del cap. 4 “Il concettualismo e la fotografia d’arte”, in David Bate, op.cit., e in particolare le pagine dedicate al ready-made Fontana, di Duchamp: pp140-143.
[16]          Con il ready-made Duchamp attua una rivoluzione epocale, negando l’arte come attività manuale. In altri termini, l’artista non è più tale per l’abilità di manipolare la materia, ma per la capacità di creare nuovi significati.
[17]               David Bate, op.cit. p.3.
[18]             Anche in questo caso torniamo a incrociare l’onnipresente Alfred Stieglitz, quando nel 1917 Duchamp scandalizza l’ambiente artistico di New York, proponendo il ready-made Fontana, costituito da un orinale bianco firmato con lo pseudonimo “R. Matt”, che viene rifiutato alla mostra della Società degli artisti indipendenti, ma trova spazio in un’altra mostra organizzata dallo stesso Stieglitz che fotografa l’opera e l’importante riproduzione viene pubblicata sempre nel 1917 sul giornale dadaista The Blind Man. Fontana può essere considerata “un prototipo concettualista” (Bate, op. cit. p.141) ed è l’opera d’arte più dissacrante e influente del XX secolo: la geniale operazione dadaista, che postula il rifiuto dell’arte tradizionalmente intesa, consiste nell’estrapolare dal contesto un oggetto comune - in questo caso l’orinatoio -, che grazie a questa selezione eseguita dall’artista, diventa esso stesso opera d’arte.
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La fotografia come forma d’arte (terza parte)
di Lorenzo Ranzato
– Alfred Stieglitz e il pittorialismo internazionale
Dal pittorialismo europeo al pittorialismo statunitense
Come abbiamo visto, in Europa la pittura ha esercitato una forte influenza sulle diverse correnti della fotografia pittorialista del tardo Ottocento, sia per i temi trattati che si ispiravano ai canoni classici o alle narrazioni storico-letterarie, sia per le tecniche di manipolazione come la stampa combinata o i processi artigianali di sviluppo e stampa come il collodio umido, la gomma bicromata e la stampa all’albumina.
Anche le stesse vedute agresti di Emerson - che pratica un tipo di “fotografia naturalistica” e usa la messa a fuoco selettiva – dimostravano un’indubbia influenza di stampo impressionista.
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 Constant Puyo, Montmartre, 1906
 Con l’avvicinarsi del cambio di secolo, la fotografia si sviluppa su larga scala, trasformandosi in un mezzo accessibile e fruibile da un pubblico sempre più vasto, soprattutto grazie all’introduzione di fotocamere compatte ed economiche e di pellicole flessibili, di celluloide trasparente e sottile. Contestualmente si va affermando anche negli Stati Uniti una schiera di fotografi che si è formata in Europa e che propone una propria visione del pittorialismo, con la dichiarata ambizione di promuovere la fotografia come autonoma forma d’arte e costruire un nuovo linguaggio visivo.
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 Immagini di White (1906), Sears (c.1900), Kasebier (1902), Steichen (1899), Stieglitz (1897) e (1897)
 Alfred Stieglitz, poliedrico personaggio dotato di grandi capacità organizzative unite a una profonda formazione culturale, è senza dubbio la figura più importante attorno alla quale ruota l’esperienza pittorialista statunitense. Seguendo le orme della Secessione viennese, riunisce attorno a sé un gruppo di fotografi amatoriali “eurofili”, per costituire nel 1902 il movimento nazionale del Photo-Secession, e nel 1903 fonda la rivista Camera Work, che si concentrerà inizialmente sulla promozione del movimento pittorialista e della fotografia come forma d'arte[1].
 Le atmosfere pittorialiste di Alfred Stieglitz
Per Stieglitz la missione dei “camera workers”, dei fotografi moderni è quella di guardare al futuro, non più al passato: le immagini che imitano la pittura e che sembrano provenire da realtà senza tempo sono copie mal riuscite di quadri, mentre la fotografia deve dimostrare di essere un mezzo indipendente, capace di creare nuove realtà, puramente fotografiche. In altri termini, l’obiettivo è quello di mostrare che la fotografia è “un’entità con il proprio statuto”, in grado di “diventare la forma artistica del XX secolo e oltre”[2].
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 Alfred Stieglitz, Winter 5th Avenue, 1983
 Con l’aiuto di David Bate, proviamo ora ad approfondire la poetica di Stieglitz che influenzata dal naturalismo di Emerson[3] si stacca decisamente dai tradizionali cliché pittorialisti europei, trovando ispirazione tra i grattacieli e le strade trafficate della città moderna. Essa è ben rappresentata da due celebri immagini di New York, scattate in giornate contigue nel 1893 con una macchina portatile 4x5 pollici: la prima, Winter 5th Avenue, ci mostra uno scorcio di città battuto da una tormenta di neve[4], la seconda, Terminal, la stazione del tram a cavalli nei pressi della Quinta Strada.
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 Alfred Stieglitz, Terminal, 1983
 L’ approccio è completamente diverso dai metodi di manipolazione o di alterazione del negativo, utilizzati dai fotografi europei: le immagini sono ottenute senza artifici e sono il risultato diretto del gioco delle luci e delle ombre e dell’abilità nello scatto, che ci restituiscono in pieno le atmosfere della città avvolta dalla neve.
Illuminante al proposito, è il commento di David Bate: nelle sue fotografie “lasciava che l’impatto di pioggia, neve, vapore e calore generasse un effetto atmosferico nel momento in cui la fotografia veniva scattata, e poi lo enfatizzava in seguito, durante il processo di sviluppo e stampa”[5].
 L’affermarsi del pittorialismo internazionale
Il pittorialismo, che agli inizi del Novecento si sta già affermando come movimento di portata internazionale, raggiunge il suo apice nel 1910 con l’International Exhibition of Pictorial photography tenuta a Buffalo sotto la regia di Stieglitz.
La mostra presenta 594 immagini di 65 autori pittorialisti provenienti da tutto il mondo e darà impulso alla vendita delle opere a musei e gallerie private: per la fotografia è un importante punto di svolta, perché viene ufficialmente riconosciuta come una forma d'arte autonoma, degna di una collezione museale[6].
Le molteplici iniziative di Stieglitz, le mostre e soprattutto la rivista Camera Work, che cesserà la sua pubblicazione nel 1917, ci restituiscono un ampio e articolato panorama del pittorialismo statunitense ed europeo. In particolare Camera Work ci presenta immagini di elevata qualità, stampate con il metodo della fotoincisione, “le migliori fotografie del momento”, secondo il giudizio di Steiglitz, che cura personalmente le selezioni: da quelle dei fondatori del Photo-Secession, Edward Steichen, Frank Eugene, Clarence H. White, a quelle di altri fotografi americani, come Alvin Langdon Cobrun, Paul Strand e Gertrude Käsebier, sino a quelle di fotografi europei come Margaret Cameron e Constant Puyo[7].
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 Fotografie di Stieglitz (1894), Steichen (1904), Kuhn (1906), F.H. Evans (1905), Steichen (1905), Eugene (1898)
 Come ricorda David Bate, il pittorialismo internazionale si caratterizza per una varietà di stili e linguaggi, influenzati anche da particolari fattori culturali o geografici[8] David Bate, op. cit., pp. 45-47.: nelle diverse mostre dedicate al pittorialismo e nella rivista Camera Work possiamo trovare le immagini eteree, poetiche e d'atmosfera di autori europei come Demachy, Cameron e Puyo o americani come Steichen – prima della svolta modernista - ed Eugene, accanto a immagini più “dirette” e obiettive, prive di manipolazioni, che seguono le regole dell'indipendenza della fotografia dalle altre pratiche artistiche.
Sono per lo più i fotografi americani a privilegiare la “purezza del mezzo”, prendendo le distanze – come fa lo stesso Steichen – dalle forme del pittorialismo più tradizionale. Ma la svolta significativa avviene con la mostra alla Galleria 291 di fotografie di Paul Strand - considerato da Stieglitz l’unico fotografo veramente moderno - e con la pubblicazione su Camera Work di alcuni suoi scatti che resteranno famosi nella storia della fotografia, come anticipatori della straight photography [9].
Si apre in questo modo una nuova fase cruciale del dibattito sul “fotografico”, con il passaggio dall’estetica pittorialista al “modello modernista”che sembra riportarci all’iniziale dilemma e che proveremo ad analizzare nella quarta e ultima parte…
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Paul Strand, Wall Street New York, 1915
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[1] Questo raffinato periodico di fotografia, all’inizio svolgerà la funzione di portavoce del Photo-Secession. Dopo l’apertura della Galleria 291 nel 1905 da parte di Stieglitz e Steichen, che faranno conoscere per la prima volta al pubblico statunitense l’arte moderna francese (da Cézanne a Renoir, da Matisse a Rodin), inizierà un percorso più variegato, pubblicando non solo articoli di letteratura, pittura, scultura, ma anche riproduzioni di opere d’arte di artisti contemporanei: addirittura il numero dell’agosto del 1912 non conterrà neppure una fotografia, ma pubblicherà esclusivamente opere di artisti dell’avanguardia del calibro di Matisse e Picasso.
[2] Juliet Hacking (a cura di), Fotografia la storia completa, Atlante, 2013, p.177.
[3] Alfred Stieglitz, Camera Work The Complete Photographs 1903-1917, Taschen, 2018, p.183 (vers. It. del saggio di Palm Roberts).
[4] Stieglitz definisce questa fotografia, scattata il pomeriggio del 22 febbraio 1893, “l’inizio di una nuova era …di una nuova visione del mondo”. Cit. in Bonny Yochelson, Alfred Stieglitz New York, Skira Rizzoli, 2010, p.15.
[5] David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, pp.59-60.
[6] Andrew T. Youngman, "Revisiting The 1910 International Exhibition Of Pictorial Photography", 2009, Paper 1211, reperibile sul web in Digital Commons@Ryerson. Il catalogo della mostra si trova su Internet Archive: https://archive.org/details/catalogueofinter00buff/page/n57/mode/2up
[7] Per una conoscenza più approfondita delle vicende di Camera Work, si può fare riferimento al testo: Alfred Stieglitz, Camera Work The Complete Photographs 1903-1917, Taschen, 2018, che presenta la collezione completa delle fotografie pubblicate nei 50 numeri della rivista, dal 1902 al 1917. Si consiglia inoltre la lettura degli articoli di Monica Mazzolini, pubblicati sul sito FIAF, con una rassegna di immagini dei pittorialisti americani:
http://www.fiaf.net/agoradicult/2018/09/23/manifesti-virtuali_07-1-di-monica-mazzolini/
http://www.fiaf.net/agoradicult/2018/09/30/manifesti-virtuali_07-2-di-monica-mazzolini/
[8] David Bate, op. cit., pp. 45-47.
[9] La cosiddetta fotografia diretta viene contrapposta generalmente alla corrente pittorialista e a ogni forma di manipolazione dell'immagine estranea alle specificità linguistiche del mezzo. Il termine compare per la prima volta nel 1904, in un articolo del critico d'arte Sadakichi Hartman, A plea for Straight Photography, che, dopo aver visto una mostra di fotografie di Steichen, Eugene,Cobrun e altri, giudica i loro lavori troppo compromessi con le tecniche di manipolazione dell’immagine e di tradire quindi le aspettative della vera fotografia propugnata dal movimento Photo-Secession.
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fotopadova · 3 years
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La fotografia come forma d’arte (prima parte)
di Lorenzo Ranzato
   -- il confronto fra arte e fotografia nella seconda metà dell’Ottocento
“Quando si diffuse la voce che due inventori[1] erano riusciti a fissare su lastre argentate ogni immagine posta ad esse di fronte, si produsse uno stupore generale che oggi non potremmo neppure concepire, abituati come siamo alla fotografia da un bel po’ di anni, indifferenti ormai alla sua grande diffusione”.
(Nadar, Quand j’étais photographe, 1900)
 Introduzione
L’occasione per affrontare il tema della fotografia come forma d’arte, nasce dalla lettura del libro Art photography (2015) di David Bate (trad. it La fotografia d’arte, Einaudi 2018) . Il fotografo e saggista ripercorre alcuni significativi momenti della storia della fotografia con interpretazioni del tutto originali e, partendo dalla constatazione che la fotografia ha assunto oggi un ruolo centrale nell’arte e nella cultura contemporanea, ne esplora i rapporti con le diverse esperienze artistiche, dalla pittura impressionista alle avanguardie artistiche del Novecento, sino all’arte concettuale.
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      La fotografia “ancella” della pittura: E. Durieu 1854, E. Delacroix 1857
 La sua narrazione è “tendenzialmente anacronistica”, distaccandosi dalla lettura lineare e cronologica dei tradizionali metodi della storia dell’arte e della fotografia, e “procede in modo libero in cerca di progettualità di natura artistica vicine fra loro, o avvicinabili”[2]. Questo metodo gli consente di proporre inediti accostamenti di immagini fotografiche e pittoriche della fase pionieristica e moderna con quelle di fotografi e artisti contemporanei. Ad esempio, già all’inizio del suo libro ci spiazza deliberatamente con un salto temporale di oltre tre secoli, mettendo a confronto il quadro seicentesco di Jan Vermeer, Ragazza che legge una lettera davanti alla finestra aperta, con la fotografia di Tom Hunter del 1998, Donna che legge l’ordinanza di sfratto.
Il suo metodo interpretativo fa riferimento a tre categorie, che contraddistinguono “il fotografico”[3]: categorie che possiamo riconoscere nei diversi periodi della storia della fotografia, a partire dalle invenzioni di Daguerre e Talbot per arrivare fino ai giorni nostri: il pittorialismo, il documentarismo e il concettualismo.
Il pensiero di Bate si basa sul presupposto che “l’essenza della fotografia d’arte” non è produrre somiglianze, cioè mostrare il mondo così com’è, ma piuttosto creare “dissimiglianze”. Il termine è preso a prestito dal filosofo francese Jaques Rancière[4], utilizzato per sostenere che il principale obiettivo dell’arte contemporanea è quello appunto di produrre dissimiglianze.
Non è questa la sede per approfondire la sua personale costruzione narrativa: più semplicemente, prenderemo spunto da alcune sue riflessioni per indagare quel periodo della storia della fotografia a cavallo fra Ottocento e Novecento, che inizia con la prima immagine fotografica realizzata da Niépce nel 1826/27[5] e si conclude nel 1917 con la chiusura della rivista Camera Work, fondata da Alfred Stieglitz. E’ il periodo durante il quale si afferma il pittorialismo, termine con il quale si individua la tendenza della fotografia a imitare canoni estetici propri della pittura, con lo scopo dichiarato di conferire dignità artistica alle immagini.
Nel capitolo del suo libro “La svolta del pittorialismo”, David Bate mette in luce interessanti aspetti di quella pratica fotografica, che individua con l’espressione “primo pittorialismo” (per distinguerlo dal neo-pittorialismo degli anni Ottanta); nato nella Gran Bretagna del tardo Ottocento, in breve tempo si diffonderà su scala mondiale, diventando “il primo movimento artistico realmente internazionale nell’ambito della fotografia” e contribuirà a promuovere la fotografia come autonoma espressione artistica; il suo declino inizierà negli anni Dieci del Novecento, quando la sua visione del mondo sarà definitivamente scalzata dalle idee delle avanguardie, ma resisterà ancora per decenni in diverse nazioni dove si era progressivamente affermato. E conclude, infine, constatando che quel periodo al giorno d’oggi è poco apprezzato e per lo più viene “considerato in termini negativi  e non è al centro di alcuna discussione critica (con pochissime eccezioni)”[6].
Alle origini del pittorialismo: la reciproca influenza fra pittura e fotografia
Dopo la fase pionieristica caratterizzata dalle invenzioni di Daguerre (il dagherrotipo, esemplare positivo unico su lamina di metallo, presentato nel 1839 all’Accademia delle Scienze di Parigi) e Talbot (la calotipoia, processo brevettato nel 1841 e basato su un negativo, dal quale ricavare più copie di una medesima immagine), la fotografia nei decenni successivi trova una vasta diffusione sia in ambito amatoriale che professionale, affrontando tematiche che spaziano dai “panorami” ai ritratti.
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        L. Daguerre, Boulevard du Temple, 1838 -  H. F. Talbot, Il fienile, 1842
La fotografia si afferma anche grazie alle Esposizioni Universali del XIX secolo: sia a Londra nel 1851 che a Parigi nel 1855 viene presentata una grande varietà di immagini proveniente da diverse nazioni (ma soprattutto Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti), realizzate a fini scientifici, industriali, artistici e commerciali, che consentono ai diversi fautori della fotografia di iniziare “a pronunciarsi sul valore espressivo e intrinseco del nuovo strumento”[7].
Il progresso della fotografia è senza dubbio correlato all’affermarsi del pensiero positivista e all’impetuoso avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecnologiche tipiche della seconda Rivoluzione Industriale, che gli storici collocano nel periodo compreso tra gli anni ‘50 dell’Ottocento e il 1914, con l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Soprattutto grazie all’evoluzione dei dispositivi di ripresa e al continuo aggiornamento dei procedimenti di sviluppo e stampa (collodio umido, fotoincisione, gomma bicromata, gelatina d’argento) la fotografia è in grado di proporsi come una pratica innovativa, alla ricerca di una propria identità, condividendo forme di sapere a cavallo fra sperimentazioni tecnico-scientifiche ed esperienza artistica.
Ed è proprio il confronto con le tradizionali arti figurative e in particolare con la pittura che accende la discussione tra fotografi, artisti, letterati e critici d’arte sul ruolo che la fotografia deve svolgere all’interno della nascente società industriale. Il nodo cruciale da sciogliere è se debba rimanere circoscritta nell’ambito della sfera tecnica come riproduzione del visibile o se possa aspirare a uno spazio autonomo all’interno del variegato mondo della produzione artistica. In altri termini, la fotografia è soltanto un mero processo meccanico e chimico di rappresentazione del mondo, che la relega inevitabilmente alla funzione di “sorella minore dell’arte” o può acquisire anche quella capacità interpretativa della realtà e della “natura”, che le consente di ottenere un proprio riconoscimento e statuto all’interno delle arti maggiori?
Tra i critici più radicali c’è Baudelaire che definisce la fotografia un rifugio per pittori falliti, “troppo vicina alla natura e troppo lontana dall’immaginazione umana”, mentre altri considerano la fotografia come un’eterna “ancella” della pittura. Resta il fatto che in quel periodo si crea un’inevitabile e proficua interazione fra pittura e fotografia: i pittori, per creare i propri quadri, possono utilizzare le riproduzioni fotografiche, accanto o in sostituzione delle impegnative riprese dal vero, mentre la fotografia può arricchirsi apprendendo le tecniche compositive e stilistiche della pittura nei suoi diversi generi (le vedute e i paesaggi, le nature morte, l’arte del ritratto e del nudo). Non va peraltro dimenticato che molti fotografi sono anche pittori e che molti pittori nel corso della loro carriera si avvicineranno alla pratica fotografica.
La fotografia di ispirazione pittorica: la diatriba fra H. P. Robinson e P. H. Emerson
In questo contesto si afferma la cosiddetta “fotografia di ispirazione pittorica”, anche grazie alla divulgazione di libri come quello di Henry Peach Robinson, L’effetto pittorico in fotografia (1869), che illustra una serie di tecniche e metodi costituiti da “un intreccio tra arte, natura, verità e bellezza e una giusta dose di inganno in camera oscura”[8], mediante i quali creare fotografie “artistiche”.
Sempre nel capitolo “La svolta del pittorialismo”, Bate analizza la famosa fotografia di Robinson, Spegnersi (Fading Away), del 1858, costruita grazie al montaggio di cinque diversi negativi (stampa combinata), con un procedimento che è molto simile a quello del fotomontaggio novecentesco e alle recenti tecniche presenti in tutti gli attuali programmi di manipolazione digitale delle immagini.
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        H. P. Robinson, Spegnersi, 1858
 La fotografia descrive gli ultimi istanti di vita di una giovane donna vegliata dalla madre e dalla sorella, con la figura del padre in secondo piano che volge le spalle e guarda dalla finestra il mondo esterno. La posa delle persone accuratamente studiata contribuisce a creare una “composizione armoniosa”, che vuole rappresentare “una morte dolce e bella”.
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                                       H. P. Robinson, Cappuccetto rosso, 1858
 Se da un lato sono state avanzate molte critiche in riferimento alla costruzione artificiale dell’immagine (pensata come una scena teatrale) e quindi alla creazione di una falsa realtà fotografica, dall’altro non dobbiamo dimenticare - come ci ricorda David Bate - che “tali obiezioni si basano però su un fraintendimento degli ideali di bellezza che sono all’origine di questa pratica”. Ma ancor di più: con questo procedimento si legittima “la manipolazione di immagine”, addirittura la si postula “come necessaria al raggiungimento dell’effetto pittorico ideale, come lo definiva Robinson”[9].
Su posizioni antitetiche, in aperta polemica con Robinson, troviamo Peter Henry Emerson, che nel 1889 pubblica il manuale Naturalistic Photography, ben presto paragonato a una “bomba lanciata in una sala da tè”. Medico con una solida formazione scientifica e di idee progressiste, è convinto che il mezzo fotografico in quanto tale sia in grado di produrre opere di grande bellezza ed espressività, senza la necessità di interventi manipolatori. Da questo punto di vista, la sua concezione - che la scienza sia l’autentico fondamento dell'arte e della fotografia – si allinea perfettamente con quella “positivista” dello scrittore e polemista francese Émile Zola, di convinzioni repubblicane, che in modo analogo propugna l’adozione del metodo scientifico in letteratura. Diversamente dal “conservatore” Robinson che scatta fotografie con una nitidezza uniforme su tutto il campo dell’immagine, Emerson arriva a elaborare un'estetica della visione basata sulla "messa a fuoco selettiva, al pari dell’occhio umano, per rispecchiare la visione soggettiva dell’individuo”[10]. Nella sua opera Life and Landscape on the Norfolk Broads (Vita e paesaggi nei Norfolk Broads) del 1886 fotografa le condizioni e lo stile di vita dei lavoratori della terra, con un approccio naturalista che risente dell’influenza impressionista dei nuovi pittori en plain air.
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        P. H. Emerson, Raccolta del fieno in palude, 1885 circa
Se riprendiamo l’interrogativo che precedentemente ci eravamo posti, possiamo rilevare come le posizioni di Robinson ed Emerson rappresentino le due polarità (effetto pittorico vs. fotografia naturale) attorno alle quali ruota l’approccio pittorialista: l’artificialità dell’immagine costruita in studio opposta alla rappresentazione della terra e del lavoro, il montaggio fotografico antitetico alla “vera osservazione della natura”, fondata su presupposti scientifici, la nitidezza uniforme della fotografia che contraddice la messa a fuoco selettiva. Questi due opposti punti di vista, che rinviano all’eterno dilemma su quale valore attribuire alla fotografia, intesa come “costruzione di un significato ideale” oppure come documento oggettivo del reale, restano dialetticamente irrisolti: il movimento pittorialista non ha mai dato una risposta definitiva – afferma David Bate – e la tendenza prevalente è stata quella di “fondere e mescolare le due alternative in vari modi”[11].
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        Fotografie di Peter Henry Emerson
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[1]- I francesi Niépce e Daguerre.
[2]- Roberta Valtorta, “Dissimiglianza vs. somiglianza: un concetto in flashback”,  recensione del libro di Bate in rivista di studi di fotografia, n.8, 2018.
[3]- David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi 2018, p.5 e 19. Con “fotografico” Bate intende “un valore visivo che precede l’invenzione stessa della fotografia” e che possiamo ritrovare, ad esempio, nei quadri dell’olandese Vermeer, ai quali “viene retrospettivamente riconosciuta una qualità visiva eminentemente fotografica”.
[4]- Il termine viene usato da Racière durante una conferenza del 2002 al Centro nazionale della fotografia di Parigi.
[5]- Vista dalla finestra a le Gras.
[6]- Bate, op. cit., p.46-47.
[7]- Juliet Hacking (a cura di), Fotografia la storia completa, Atlante 2013, p.67.
[8]- Ivi, p.160.
[9]- Bate, op. cit., p.49-50.
[10]- Ivi, p.53.
[11]- Ivi, p.54.
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fotopadova · 4 years
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À toi appartient le regard…uno sguardo critico su 4 continenti: Africa, Asia, Oceania, Americhe
di Lorenzo Ranzato
-- Dal 20 giugno al 1° novembre 2020, il museo parigino Quai Branly-Jacques Chirac presenta la Mostra "A te appartiene lo sguardo e (...) l'infinita connessione tra le cose". È una Mostra su larga scala, che per una serie di ragioni potremmo definire stra-ordinaria, cioè fuori dell’ordinario.
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     Sixsixsix di Manuel Fosso, Ph©Lorenzo Ranzato,
Innanzitutto, per la presenza di ben 26 autori, tutti di provenienza extra-europea, ma con profili artistici e percorsi culturali molto diversi: giovani ed emergenti, poco conosciuti in Francia e in Europa, come Gosette Lubondo (DRC), Lek Kiatsirikajorn (Tailandia) o José Luis Cuevas (Messico), ma anche molti personaggi famosi, già affermati nel panorama internazionale, come Samuel Fosso (Camerun), Dinh Q. Lê (Vietnam) e Sammy Baloji (Repubblica Democratica del Congo).
In secondo luogo, per la pluralità e complessità dei temi trattati che si concentrano su tre aspetti della realtà contemporanea, molto spesso intrecciati tra loro. Temi che coniugano la percezione di sé e del proprio mondo con il recupero dell’identità storica del proprio passato e del proprio territorio, che proveremo brevemente a illustrare, a partire dalle opere di alcuni autori, noti e meno noti, presenti in Mostra:
- il rapporto con la percezione del mondo e la rappresentazione di sé stessi (Autoportrait Serie Sixsixsix  e African Spirits di Manuel Fosso, Imaginary Trip II  di Gosette Lubondo e The Black Photo Album/Look at me: 1880-1950 del sudafricano Santu Mofokeng);
- il rapporto tra l’uomo e il paesaggio e il territorio nei continenti extra-europei, presente con declinazioni diverse nelle opere di Lek Kiatsirikajorn, del fotografo e poeta cubano Carlos Garaicoa e del fotografo congolese Sammy Baloji;
- il recupero del passato, attraverso la riappropriazione della narrazione storica e politica, per lo più legata alle vicende trascorse di guerra e di colonizzazione (Crossing the Farther Shore del vietnamita Dinh Q. Lê e The Indian Project: Rebuilding History del messicano Yoshua Okón).
Infine, per le differenti modalità con cui vengono “trattate” le diverse forme dell'immagine contemporanea: entrando negli spazi espositivi, lo spettatore viene catturato all’interno di un caleidoscopio di immagini, costituite da fotografie tradizionali, video, diaporama, installazioni multimediali e fotografie elaborate con tecniche miste.
La percezione del mondo e la rappresentazione di sé
La visita si snoda lungo un percorso molto articolato ed esteso, che si apre sulla spettacolare opera di Samuel Fosso: Autoportrait Serie Sixsixsix, (666 autoritratti realizzati a Parigi nel 2015 con una Polaroid grande formato), che - come dice Christine Barthe Commissario della Mostra - “placent le visiteur dans un face-à-face actif qui ne livre pas une clé de signification immédiate”.
In realtà, in quest’opera Fosso vuole rappresentare la vita in tutte le sue manifestazioni negative, attraverso le emozioni, nel tentativo di esorcizzare il proprio risentimento di fronte alle sventure del mondo, che peraltro ha dovuto subire durante la sua infanzia e adolescenza, prima di diventare un artista affermato. Dello stesso autore va segnalata anche l’opera African Spirits, a cavallo fra la percezione del mondo a cui si appartiene e la rappresentazione delle icone che hanno fatto “la storia dei neri”: opera che appunto presenta i ritratti di tutti i principali personaggi che hanno militato per i diritti civili o l’indipendenza coloniale.
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     African Spirits, ph©Manuel Fosso e The Black Photo Album, ph©Santu Mokofeng.
Ancora sul tema della percezione di sé e del proprio mondo, va segnalato il diaporama The Black Photo Album/Look at me, omaggio a Santu Mofokeng, recentemente scomparso, famoso fotogiornalista dell’ aparttheid life sudafricana, È costituito dalla collezione di 80 ritratti di famiglie nere sud-africane, raccolti dal fotografo e pubblicati nel 2013: fotografie private, commissionate tra il 1890-1950 da famiglie di lavoratori neri urbani e della classe media, che vogliono rappresentarsi, aspirando a un riconoscimento sociale in tempi di dominio coloniale, che verrà inesorabilmente cancellato dall’apartheid.
Sullo stesso tema della rappresentazione del mondo, Gosette Lubondo con la serie Imaginary Trip II, mescolando realtà e finzione, mette in scena diversi personaggi che sembrano muoversi come fantasmi, immersi in ambienti abbandonati e pervasi da atmosfere misteriose.
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     ph©Gosette Lubondo
Il rapporto tra l’uomo e il paesaggio e il territorio nei paesi extraeuropei
Molti artisti si sono cimentati su questo tema, affrontandolo da punti di vista diversi, ma sempre con lo spirito critico teso a denunciare le pesanti trasformazioni urbane e ambientali dei territori, dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe.
Ad esempio, l’opera del congolese Sammy Baloji, Essay on urban planning, denuncia gli interventi urbani e industriali del periodo coloniale in Congo, mediante una contaminazione metaforica di fotografie aeree e pannelli di insetti di provenienza museale.
Analogamente, Lek Kiatsirikajorn con la serie Lost in Paradise volge il suo sguardo critico sulle trasformazioni urbanistiche della Tailandia, causate dallo sviluppo economico deciso dal governo nel corso degli anni ’80.
Diversamente, il cubano Carlos Garaicoa con la serie Frases, riprende una sua precedente opera e contamina la fotografia con la parola, inserendo propri commenti sopra le fotografie dei grandi magazzini della capitale Avana.
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      Ph©Sammy Baloji
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      Ph©Lek Kiatsirikajorn e Ph©Carlos Garaicoa  
Il recupero della storia e dell’identità perduta
Tema particolarmente significativo, che ricerca le identità perdute con lo sguardo rivolto al passato.
Il messicano Yoshua Okòn con il suo video The Indian Project: Rebuilding History, realizzato nel 2015 a Showhegan negli Stati Uniti, va alla riscoperta di questa minoranza che rivendica una amerindian identity.
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     dal video The Indian Project, ©Yoshua Okòn
Mentre con l’opera Crossing the Farther Shore, il vietnamita Dinh Q. Lê vuole far rivivere coloro che la storia ha dimenticato. A questo scopo ha realizzato un’ imponente e suggestiva istallazione, costituita da molti volumi che assomigliano a zanzariere, dove appende un’enorme quantità di foto di piccolo formato appartenenti a famiglie anonime degli anni 1920-1970, che ha raccolto come unica testimonianza e traccia di quello che il governo vietnamita nella sua feroce repressione non ha potuto cancellare.
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     Installazione Crossing the Farter Shore di Dinh Q. Lé (Ph©Lorenzo Ranzato)    
À toi appartient le regard et (...) la liaison infinie entre les choses: che dire di questa Mostra così vasta e complessa, difficile da descrivere e raccontare, che obbliga lo sguardo del visitatore a piegarsi e riflettere dentro sé stesso, per dare un proprio senso a ciò che vede e percepisce nei racconti e nelle storie che mostrano non tanto una realtà oggettiva, quanto il punto di vista del singolo artista, cioè il suo sguardo sul mondo, sempre in bilico tra poesia e denuncia, tra passato e presente, tra realtà e finzione…
È una Mostra indubbiamente aperta, potremmo azzardare rizomatica – scomodando i filosofi francesi - senza gerarchie interne, per alcuni versi anche disorientante, nonostante lo sforzo di sistematizzarla dentro uno schema interpretativo composto da 5 sezioni…Certamente una Mostra che richiede al visitatore-spettatore un impegno non indifferente di analisi e riflessione…un impegno pari almeno a quello di chi visita l’altrettanto poderosa collezione delle Civiltà di Africa, Asia, Oceania e Americhe, voluta da Jaques Chirac con la realizzazione del museo Quai Branly.
Informazioni aggiuntive
Il link del museo è: http://www.quaibranly.fr/fr/expositions-evenements/ dove si possono trovare le schede di tutti gli artisti presenti in mostra e una serie di immagini delle loro opere.
Al seguente indirizzo è possibile vedere un video di 5 min. che racconta la Mostra: https://www.youtube.com/watch?time_continue=44&v=6GqHrz0B8gQ
Infine, si segnala il Catalogo della Mostra, acquistabile direttamente sul sito del museo.
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fotopadova · 4 years
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Adolfo Kaminsky:  falsario e fotografo (prima parte)
di Lorenzo Ranzato
-- Si è tenuta a Parigi dal 23 maggio all’8 dicembre 2019 la mostra “Adolfo Kaminsky, Faussaire et photographe”, presso il Museo d’arte e storia dell’ebraismo (mahJ), dove sono esposti cimeli della sua attività di falsificatore di documenti al servizio della Resistenza durante la seconda guerra mondiale e una selezione di stampe fotografiche che testimoniano la sua attività di fotografo-artista, una fra le molte attività che hanno caratterizzato la sua poliedrica esistenza.
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La vita
Adolfo Kaminsky è conosciuto soprattutto per la sua attività di militante clandestino e brillante falsario, che ha trascorso trent’anni della sua vita a produrre documenti d'identità contraffatti per salvare vite umane, soprattutto di ebrei in fuga dalla Francia.
Nato in una famiglia di emigrati ebrei russi a Buenos Aires nel 1925 e trasferitosi con tutta la famiglia in Francia nel 1932, impara da giovane i rudimenti della chimica, come apprendista e a soli diciassette anni si unisce alla Resistenza, usando le sue conoscenze di chimica per diventare un esperto contraffattore di documenti.
Personaggio fuori dall’ordinario, con una vita decisamente romanzesca, lavora per la Resistenza ebraica, poi per i servizi segreti francesi fino al 1945 e dopo la guerra per l'Haganah, per facilitare l'emigrazione clandestina in Palestina. Successivamente collabora con le reti del Fronte di liberazione nazionale algerino in Francia, con i movimenti di liberazione del Terzo mondo e gli oppositori delle dittature in Spagna, Portogallo e Grecia, mettendo spesso a repentaglio la propria vita e facendo numerosi sacrifici per sostenere queste cause.
Una vita al tempo stesso avventurosa e discreta, che soltanto da poco più di un decennio viene alla luce e prende forma, soprattutto grazie al prezioso lavoro della figlia Sarah Kaminsky, che ha raccontato la vita del padre in un’avvincente biografia pubblicata nel 2009: Adolfo Kaminsky. Une vie de faussaire (edizione italiana, 2011 Colla Editore).
Ed è proprio grazie a questa attività segreta di falsario che Adolfo impara a conoscere la fotografia e la camera oscura, per riprodurre timbri e documenti. Dopo la fine della guerra si specializza in fotografia industriale, che trasforma in un vero e proprio lavoro, realizzando immagini di grande formato o scenografie per il cinema, così come illustrazioni per cartoline o riproduzioni di opere d’arte.
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     Adolfo Kaminsky nel suo laboratorio
Ma accanto al lavoro professionale, coltiva anche la passione per la fotografia “artistica”, con il desiderio di “transcrire le monde en images”: Come ricorda sua figlia Sarah:
“Et il fait plein de photographies artistiques pour lui-même dont il développe la pellicule et dont il ne tire jamais les photos. Donc il a gardé comme des boîtes, des boîtes et des boîtes remplies de pellicules développées mais de photos non tirées que personne n’a jamais vues, qu’il ne pouvait pas exposer parce qu’il ne pouvait pas être à la fois dans l’ombre et dans la lumière...”
Inizia nel 1944, fotografando la Parigi di notte: sviluppa i negativi, ma non stampa mai le foto. Fotografa molto e accumula negli anni scatole su scatole di negativi, che vanno a costituire un grande archivio che resta nascosto, come la sua attività di falsario che continuerà ad esercitare fino al 1971, aiutando gli altri a sfuggire alle ingiustizie e alle atrocità in tutto il mondo.
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    Frontespizio dei 2 libri su Kaminsky: della figlia Sarah 2009 e quello del 2019
La mostra
La mostra del mahJ rende omaggio alla figura di Kaminsky fotografo-artista, presentando una selezione di 70 stampe, in bianco e nero, molte delle quali sono contenute nel libro realizzato per l’occasione, che ha un titolo particolarmente intrigante: Adolfo Kaminsky, Changer la donne (2019), con prefazione di Paul Salmona, direttore del mahJ.
Changer la donne significa letteralmente cambiare le carte in tavola, con un chiaro significato che allude alla falsificazione di documenti, ma vuol dire anche modificare la situazione, vale a dire poter modificare il destino di una persona che grazie a una nuova identità può sfuggire alla deportazione e salvarsi.
Grazie a questa iniziativa il pubblico ha potuto finalmente apprezzare le fotografie esposte, che Kaminsky ha scattato soprattutto con la mitica Rolleiflex, nel corso di un trentennio che va dalla metà degli anni ‘40 fino alla seconda metà degli anni ‘70. Accanto agli autoritratti ci sono le numerose stampe che raccontano la vita di Parigi del dopoguerra, per passare poi alle fotografie dei migranti in partenza per Israele che si imbarcano dal porto di Marsiglia, per finire con le immagini degli anni ‘70, realizzate durante il decennio che Kaminsky trascorre in Algeria.
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    Autoritratti © Adolfo Kaminsky
Dalla lettura di questa selezione di immagini tratte dal suo archivio, che immaginiamo sia ancora in gran parte da esplorare, si comprende come la fotografia di Kaminsky presenti, sia dal punto di vista formale che contenutistico, molti tratti tipici della fotografia umanista, cioè di quella corrente fotografica che si è affermata in Europa e poi in America dopo la fine del secondo conflitto mondiale, ma che già nella prima metà del ‘900 ha trovato proprio a Parigi la sua capitale e il suo centro di elaborazione e propagazione culturale.
Come afferma Nicolas Feuillie, commissario della mostra,”Adolfo Kaminsky réalise des images à l’esthétique humaniste proche de maîtres tels Willy Ronis”, uno dei principali esponenti della cosiddetta tendenza umanista, diversa dal filone del fotogiornalismo che si afferma negli stessi anni. Ma un attento critico potrebbe riconoscere assonanze con il precursore Atget (https://www.fotopadova.org/post/156348591473), photographe de Paris (Mac Orlan, 1930) o Brassaï, Boubat, Izis, Sabine Weiss (https://www.fotopadova.org/post/162157452798), solo per citarne alcuni…
Dunque, a dieci anni dalla pubblicazione del libro sulla sua vita di falsario, Adolfo Kaminsky a 94 anni - con questa mostra e il libro Changer la donne - riesce ancora a stupirci, questa volta rimescolando le carte della storia della fotografia, ottenendo così un dovuto riconoscimento e una giusta collocazione all’interno della composita famiglia dei fotografi umanisti.
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Lo sguardo di Kaminsky ci restituisce un mondo in chiaroscuro. Come dice il fotografo e critico Amaury da Cunha nel libro sopracitato, Adolfo ci racconta “une histoire du jour et de la nuit”, una storia che emerge plasticamente dalle sue immagini che interpretano, con l’occhio del fotografo umanista, la Parigi popolare del dopoguerra, alla quale dedicheremo prossimamente uno specifico articolo.
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    Panoramica della mostra © Lorenzo Ranzato
Per saperne di più su Adolfo Kaminsky si segnala, oltre ai 2 libri citati, il link al Museo d’arte e storia dell’ebraismo di Parigi, dove è possibile vedere il video The forger, sull’attività di Kaminsky contraffatore di documenti e scaricare un  ottimo Dossier de presse Exposition Adolfo Kaminsky, da cui sono state tratte le fotografie a corredo di questo articolo.
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fotopadova · 5 years
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Parigi val bene una fiera (fotografica)
di Paolo Felletti Spadazzi, Lorenzo Ranzato
 -- Si è tenuta al Grand Palais di Parigi, dal 7 al 10 novembre, Paris Photo, una delle fiere di fotografia più importanti del mondo, che espone il meglio del mercato fotografico, con la presenza di 213 espositori provenienti da 31 paesi del mondo e con un afflusso di circa 68.000 visitatori. A questa ha fatto da cornice un ricco programma di incontri e conversazioni e la proiezione di film. La visita è senza dubbio coinvolgente: una full immersion nel cosiddetto mondo della “fotografia artistica”, che consente piani di lettura e livelli interpretativi differenziati.
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                                             © ph. Paolo Felletti Spadazzi
 1.   Innanzitutto, Paris Photo fornisce uno spaccato aggiornato del mercato della fotografia su scala globale, di cui la fiera stessa è espressione: questa 23a edizione ha raccolto 33 editori, grandi e piccoli, e comprende ben 180 gallerie, già famose o emergenti, che presentano una varietà sterminata di autori e temi, in grado di trasmettere ai visitatori l’importanza e il valore di questo settore, anche in relazione al più vasto e poliedrico mercato dell’arte mondiale;
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                                           © Ayana V. Jackson, Sea Lion, 2019
 2.   in secondo luogo, come in ogni fiera che si rispetti, si possono cogliere le tendenze emergenti, che consentono di scoprire o riscoprire autori à la page, che - come ci ricorda in un’intervista al The Art Newspaper il direttore artistico Christoph Wiesner - trattano temi di grande attualità, quali l’ambiente e l’ecologia (ad esempio le foto di Roberto Huarcaya, fotografo peruviano, presentate da Rolf Art di Buenos Aires) oppure si orientano su tematiche più specifiche, ma altrettanto attuali, come l’approccio identitario, che guarda ad esempio alle relazioni fra Occidente e Africa o alla storia coloniale (le foto di Ayana V. Jackson della galleria Mariane Ibrahim di Chicago) o ancora alla presenza degli Afro-americani negli Stati Uniti (le opere della fotografa afro-americana Ming Smith, presentate dalla galleria Jenkins Johnson);
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      © Roberto Huarcaya, Amazogramas 2018
 3.   infine - e questo vale soprattutto per il grande pubblico dei fotoamatori – Paris Photo può essere letta come una grande mostra della fotografia di tutti i tempi, che si dipana fra gli oltre 200 stand della fiera ed offre la possibilità di ripercorrere, attraverso gli innumerevoli spazi espositivi, la storia della fotografia, a partire dalle sue origini sino ai grandi maestri del primo e secondo ‘900, per finire con i fotografi emergenti del 21° secolo.
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      © Ming Smith, Sun Ra space II, New York 1978
 Va subito detto che l’atmosfera non è esattamente quella di un museo della fotografia. Gli stand sono molto affollati e gli allestimenti rispondono più a criteri commerciali che a principi orientati a una meditata e corretta visione delle opere esposte.
Peraltro, non dobbiamo dimenticare che Parigi – riconosciuta come una delle capitali mondiali della fotografia - è in grado di offrire accanto alla fiera-mercato un’ampia scelta di mostre fotografiche, organizzate in contemporanea con l’evento di Paris Photo. Su tutte, valga come esempio la straordinaria mostra Henry Cartier Bresson, Chine 1948-49/1958, presso l’omonima Fondazione, che documenta in modo esemplare le trasformazioni di un paese in un momento di cambiamento epocale, prima con l’insediamento delle forze maoiste, poi con la rivoluzione socio-economica della Repubblica popolare cinese, avviata da Mao nel decennio successivo.
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      © Yanning Hedel, L’arc de lumière 2000
 Dunque, Paris Photo è prima di tutto una grande fiera-mercato, “à l’image du monde”, che fra l’altro dal 2 al 5 aprile 2020 si trasferirà a New York, per soddisfare gli altrettanto importanti interessi presenti nel continente americano. Per noi, improvvisati flaneur parigini, la visita è stata anche l’occasione per riflettere sul crescente ruolo che la fotografia d’autore sta assumendo a livello mondiale e per discutere più in generale sul significato e sul senso del fotografare.
Fotografare è un modo di comunicare, di far passare informazioni e emozioni tra un emittente e un ricevente. Certo, emittente e ricevente possono coincidere. Alcuni in effetti fanno fotografie soltanto per raccoglierle in un proprio album personale e anche importanti fotografi come Vivian Maier o Henry Lartigue, prima di essere conosciuti dal grande pubblico, hanno fotografato solo per sé stessi o per una ristretta cerchia di amici. Tuttavia, resta il fatto incontestabile che, in un modo o in un altro, per esistere, una fotografia deve essere comunicata. E per avere la certezza che l’informazione venga efficacemente trasmessa dall’emittente al ricevente, essa deve essere seguita da una informazione di ritorno, dal ricevente all’emittente. Deve essere “scambiata”, o, in altri termini “riconosciuta”.
D’altro canto, nel mondo fotoamatoriale questo compito viene svolto dalle mostre, dai concorsi e dalle letture di portfolio, che diventano le modalità principali attraverso le quali un autore riceve visibilità. Anche nel mondo dei social media l’ultrainflazionato like e le sue banali varianti rientrano in questo schema, anche se il livello di feedback è per lo più pari a zero.
Se però entriamo nella logica del mercato, ecco che il riconoscimento si trasforma in valore: la fotografia “scambiata” deve essere “venduta”. Le sedi deputate dove avviene il contatto tra l’offerta e la domanda di artefatti fotografici, ovvero tra fotografi/galleristi e collezionisti/appassionati, sono la galleria, la casa d’aste e soprattutto la fiera, che diventa il luogo per promuovere l’incontro tra i diversi soggetti che operano nel mercato.
Questo sembra essere l’approccio privilegiato, con cui la fotografia d’autore reagisce di fronte all’inarrestabile marea di immagini che inonda il pianeta e il motivo del crescente successo di molte gallerie che stanno proliferando in tutto il mondo: la Fotografia con la F maiuscola vuole cercare nuove opportunità per “vendersi”, per ritagliarsi uno spazio sempre maggiore nell’ambito del vasto mercato dell’arte. Ed ecco proliferare le stampe su carte pregiate in un numero limitato di esemplari, o le riproduzioni su libri fotografici di qualità, o i cofanetti che contengono un portfolio di un famoso maestro della fotografia oppure un selezionato numero di foto singole di un giovane fotografo emergente sul quale investire.
In tale contesto, con l’acquisto, si stabilisce il valore di mercato del prodotto fotografico. Indubbiamente il prezzo pagato per una fotografia potrà scendere o salire, anche in modo vertiginoso, e comunque non potrà costituire l’unico parametro per quantificarne il valore. Tuttavia, il prezzo rimane un indicatore concreto e di facile utilizzo per comprendere la posizione di un artista nel mercato e confrontarla con quella di altri, almeno in quel dato momento e in quel contesto particolare. Come direbbe un gallerista americano: questo è il mercato...bellezza!
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      La Galleria Kahmaann con le foto di Bastiaan Woudt - © ph. L. Ranzato.
 A questo proposito, ci sembra utile citare un caso esemplare che può far capire come funziona il mercato fotografico: il gallerista olandese Kahmann ha presentato nel suo stand le fotografie e il libro del fotografo trentaduenne Bastiaan Woudt che ha iniziato a fotografare solo cinque anni fa, senza precedenti esperienze tecniche o formazioni artistiche. Ha costruito la sua professionalità divorando libri fotografici e visitando musei e fiere. Le sue foto appaiono straordinariamente contemporanee e classiche al tempo stesso. Il suo lancio è stato supportato dalla rivista GUP di Amsterdam, anch’essa presente in fiera. Tramite la pubblicazione di “Fresh Eyes”, GUP porta ogni anno all’attenzione di gallerie, musei, editori e collezionisti, quelli che ritiene siano i 100 talenti emergenti nell’ambito della fotografia europea. Grazie a questa pubblicazione, il “valore” di Woudt è stato presto riconosciuto e ora ogni sua fotografia viene valutata circa 15.000 Euro…
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      Veduta d’insieme di Paris Photo - © ph. P. Felletti Spadazzi
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redazionefotopadova · 3 years
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La fotografia come forma d’arte (quarta parte)
 di Lorenzo Ranzato
I territori del “fotografico”: pittorialismo, documentarismo, concettualismo
Il riconoscimento della fotografia pittorialista come forma d’arte
La rapida carrellata storica che abbiamo compiuto, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento sino alla chiusura della rivista Camera Work nel 1917, ci ha consentito di tracciare una panoramica del pittorialismo europeo e statunitense, ma soprattutto di conoscere metodi e stili di alcuni dei suoi più autorevoli rappresentanti, i cosiddetti artisti-fotografi. In questo modo, abbiamo potuto comprendere come il pittorialismo sia stato non solo “un’insieme piuttosto eterogeneo di idee su ciò che rende buona una fotografia d’arte”[i], ma sia diventato anche il primo vasto movimento fotografico internazionale, che si è guadagnato un proprio spazio di autonomia fra le arti maggiori.
A questo successo hanno contribuito senza dubbio le esperienze dei pittorialisti europei, ma un impulso determinante è stato dato dal movimento Photo-Secession (Edward Steichen, Clearence White, Käsebier, Frank Eugene, F. Holland Day e Alvin Langdon Coburn) e soprattutto dal loro più autorevole rappresentante, Alfred Stieglitz. Lo stanno a confermare le iniziative portate avanti dallo stesso Stieglitz, sia con la pubblicazione di Camera Work, sia con le diverse mostre realizzate, fra le quali spicca l’International Exhibition of Pictorial photography tenuta a Buffalo nel 1910, che segna il punto più alto dell’esperienza pittorialista europea e statunitense.
Negli anni successivi alla mostra di Buffalo il movimento Photo-Secession perde coesione, anche a causa dei modi autoritari di Stieglitz e - complice anche l’avvento della Prima Guerra Mondiale - conclude la sua parabola nel 1917, quando Stieglitz scioglie il movimento e chiude la rivista Camera Work.
 Purismo fotografico vs. pittorialismo
Il riconoscimento artistico della fotografia pittorialista rappresenta indubbiamente il più grande risultato ottenuto da Stieglitz e dal suo gruppo, ma all’interno di questo variegato movimento internazionale restano ancora molte questioni aperte, che ruotano prevalentemente attorno all’irrisolto rapporto fra pittura e fotografia, che ora bisognerà nuovamente affrontare.
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 Paul Strand, Astraction-porch shadows, Connecticut, 1916
 Dobbiamo fare riferimento ancora alla figura di Stieglitz che, attratto dal nuovo linguaggio fotografico di Paul Strand che incarna i nuovi principi della “fotografia pura”, pubblica le sue fotografie negli ultimi due numeri di Camera Work: nelle opere di Strand vede “una versione fotografica dell’astrazione pittorica” tipica dei dipinti di Picasso e che ora ritrova “nella sua prima passione, la fotografia”[ii]. Non dimentichiamo che sarà lo stesso Stieglitz a ospitare e a far conoscere le nuove tendenze dell’avanguardia artistica europea proprio a New York presso la Galleria 291, con mostre dedicate a Matisse, Cézanne, Picasso, Rodin.
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 Alfred Stieglitz, The Steerage, Il ponte di terza classe, 1907-1911
 Già da queste brevi considerazioni, possiamo intuire come nei primi decenni del Novecento si radicalizzi una nuova contrapposizione fra linguaggi fotografici che - come ci racconta Luigi Marra nel suo libro, più volte citato Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre) - sembrano apparentemente diversi: da un lato il purismo della cosiddetta “fotografia diretta” (straight photography), dall’altro il consolidato filone del pittorialismo fotografico, che in diversi modi continua a imitare la pittura impressionista.
Per rappresentare questo cambiamento di linguaggio inaugurato da Strand, si ricorre anche alla fotografia più emblematica di Stieglitz, La terza classe, considerata da molti critici il punto di passaggio “da uno stile pittorico a uno stile documentaristico”[iii]: è un unico scatto realizzato durante la traversata verso l’Europa, con una portatile Auto Graflex nel 1907, ma viene pubblicato su Camera Work solo nel 1911, quando Alfred è del tutto convinto che questa fotografia sia la sua prima opera modernista.
L’equivoco della contrapposizione tra pittorialismo fotografico e straight photography
In realtà, se seguiamo il ragionamento di Marra, il passaggio dal pittorialismo alle fotografia diretta (o purismo fotografico), considerato da molti critici come l’affrancamento della fotografia dalla pittura è una questione mal posta. In effetti, “sotto le apparenze di un rinnovamento linguistico capace di far emergere la tanto invocata specificità fotografica” sembrano emergere ancora forme di “un pittoricismo ben più potente e subdolo”[iv].
Ma dove sta l’equivoco?
Marra sostiene che ci troviamo di fronte a un evidente “errore metodologico”: “si è attribuita una categoria generale (il pittorialismo, cioè l’essere simile alla pittura) a una particolare interpretazione della pittura, l’Impressionismo appunto”, nella convinzione che la fotografia pittorialista sia stata un fenomeno circoscritto soltanto ai due o tre decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Questo “limite temporale ma soprattutto stilistico indurrebbe a credere che “la fotografia possa essere definita pittorica solo quando imita l’Impressionismo e non altre scuole” [v].
Seguendo l’interpretazione critica di David Bate, che abbiamo già brevemente illustrato nella prima puntata, appare del tutto evidente che il pittorialismo, assieme al documentarismo e al concettualismo, siano le tre categorie del fotografico[vi] “entro le quali racchiudere i comportamenti della fotografia nel tempo e fino alla contemporaneità”[vii], comportamenti che assumeranno di volta in volta una propria specificità linguistica e poetica.
Ne consegue che “il pittorialismo fotografico non è un fenomeno limitabile a un determinato periodo storico e a una particolare scuola”, ma si ripresenta ogni volta che “la fotografia segue la logica complessiva della pittura”[viii].
Possiamo dunque riconoscere nel linguaggio della straight photography nuove forme di pittorialismo fotografico, che ovviamente si distinguono dalle più tradizionali soluzioni proposte dal “pittorialismo storico”, ispirato dall’accademismo e basato sui metodi di manipolazione dell’immagine (due nomi per tutti: l’inglese Robinson e il francese Demachy).
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 Paul Strand, Vedute di New York, 1915 e 1916
 Sotto questo profilo, esemplare è l’opera di Paul Strand che, alla ricerca di un’autonomia della fotografia, rifiuta il linguaggio del pittorialismo storico e disprezza i cosiddetti “fotopittori”. Ma in questo modo ricade in una nuova forma di “pittorialismo forse inconsapevole ma potentissimo”[ix] che riprende le modalità stilistiche delle avanguardie e risente delle influenze del cubismo e dell’astrattismo. Quando afferma che lo specifico fotografico va identificato con “le forme degli oggetti, le tonalità di colore relative, le strutture e le linee”, in realtà sta descrivendo quello che costituisce “lo specifico trasversale di tutta la pittura”[x], peraltro ancora rintracciabile in molta fotografia contemporanea.
Tutto ciò vale anche per la fotografia di altri autori come ad esempio Clarence White, Coburn e Stieglitz, quando il loro linguaggio fotografico si allontana dal “gusto” impressionista e si avvicina a quello delle nuove correnti artistiche del primo Novecento.
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 Clarence White, Drop of rain, 1908
 Possiamo dunque concludere con Marra che con l’avvento della straight photography il filone pittorialista non si esaurisce, ma piuttosto si aggiorna, con “un passaggio di tutela dall’area impressionista a quella “neoplastica-costruttivista”[xi].
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 Alvin Langdon Coburn, Vortografia, 1917
 Peraltro, il concetto di neopittorialismo introdotto da Marra e anche da Bate, con sfumature diverse, per definire questi nuovi orientamenti fotografici, può diventare un’utile chiave interpretativa, per affinare il nostro “occhio critico”, ogni volta che andremo a indagare tipi di fotografia che in qualche modo fanno uso di linguaggi riconducibili a qualche tendenza pittorica, sia essa figurativa o astratta. Ciò vale ad esempio, per la fotografia astratta di Làslò Moholy-Nagy o per le composizioni alla maniera di Malevič o Modrian della newyorkese Florence Henri – commentate da Marra -, oppure in epoca più vicina a noi, per i tableaux del canadese Jeff Wall – che David Bate accosta a quelli ottocenteschi di Robinson – o infine per le grandi composizioni di David La Chappelle, dalla quali emerge prorompente lo scontro “tra artificio e natura”.
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              Alfred Stieglitz, Fofografie di Georgia O'Keeffe, 1917-1918
Oltre il pittoricismo: “l’arte del documento” e la fotografia concettuale
Per ricercare l’autonomia della fotografia dalla pittura dovremo esplorare altri territori del “fotografico”, dove si consumerà lo scontro dialettico tra pittoricità ed extrapittoricità[xii]. E le prime avvisaglie di un autentico sforzo antipittorialista potremmo rintracciarle in quel tipo di fotografia che “entra in relazione con le ricerche extrapittoriche sviluppate in area dadaista-surrealista”[xiii].
Ad ogni modo, come afferma Walter Benjamin, a incarnare la nuova forma d’arte dell’epoca moderna è il documento fotografico[xiv], che trova negli album fotografici della Parigi di Eugéne Atget l’esempio storico più significativo. Rilevanti esponenti della fotografia documentaristica saranno i fotografi della Farm Security Administration in America e August Sander ed Henri Cartier-Bresson in Europa, solo per fare alcuni nomi.
L’affrancamento definitivo dalla cultura del pittoricismo avverrà soltanto con l’affermazione della fotografia concettuale[xv], che nascerà sulla scia delle esperienze artistiche del concettualismo: performance, body art, land art, narrative art… Solo allora la fotografia potrà acquisire in modo completo quella specifica identità extrapittorica, che, come sappiamo, trova origine nella poetica del dadaismo e nella teoria del ready-made di Marcel Duchamp[xvi]. A titolo esemplificativo, seguendo le indicazioni di David Bate sul tema dell’assenza della presenza, possiamo ricordare Richard Long e Victor Burgin, o la sequenza Autoseppellimento di Keith Arnatt (1969); oppure, seguendo il racconto di Claudio Marra, l’opera di Francesca Woodman sul tema del corpo, o le opere narrative di Franco Vaccari e Duane Michals “maestro della narrazione pseudotriller di gusto cinematografico”, o ancora i lavori di Cindy Sherman, in bilico tra finzione e realtà, per arrivare alla fotografia italiana del “pensiero debole”, rappresentata da Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Mimmo Jodice e Guido Guidi.
Da questo punto in avanti, grazie anche ai nuovi scenari aperti dalla moda e dalla pubblicità - con la contaminazione fra ricerca artistica e industria culturale -, per il medium fotografico si schiudono nuovi orizzonti, che lo portano ad acquisire progressivamente una rilevante centralità in tutti i processi di produzione artistica contemporanea, sia nelle arti dello “spazio” (pittura, scultura, installazioni), sia nelle arti del “tempo” (video, media digitali e performance)”[xvii].
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 Fontana di Marcel Duchamp, fotografata da Alfred Stieglitz, 1917[xviii]
 Dunque, non ci resta che concludere condividendo la tesi di David Bate: riconoscere che è tramontato il tempo della fotografia come arte e pensare piuttosto di essere entrati nella nuova epoca dell’arte come fotografia.
[i]               David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p.45.
[ii]                   Alfred Stieglitz, Camera Work-The Complete Photographs 1903-1917, Tachen, 2018, p.213.
[iii]              Juliet Hacking (a cura di), Fotografia la storia completa, Atlante, 2013, p.183.
[iv]             Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Mondadori, 2012, p.120.
[v]              Ivi, p.121.
[vi]             David Bate, op. cit. p.9.
[vii]            Roberta Valtorta, “Dissimiglianza vs. somiglianza: un concetto in flashback”, in rivista di studi di fotografia rfs, n.8, 2018.
[viii]            Claudio Marra, op. cit. p.121.
[ix]             Ivi, p.125.
[x]              Ibid.
[xi]             Ivi, p.131.
[xii]            Ivi, p.120 e 122.
[xiii]            Ivi, p.131.
[xiv]           David Bate, op. cit. p.102. Per una conoscenza più approfondita del documento come forma d’arte, si consiglia la lettura di parte del cap. 3 “L’arte del documento”: pp. 83-112.
[xv]            Si veda al proposito la parte iniziale del cap. 4 “Il concettualismo e la fotografia d’arte”, in David Bate, op.cit., e in particolare le pagine dedicate al ready-made Fontana, di Duchamp: pp140-143.
[xvi]           Con il ready-made Duchamp attua una rivoluzione epocale, negando l’arte come attività manuale. In altri termini, l’artista non è più tale per l’abilità di manipolare la materia, ma per la capacità di creare nuovi significati.
[xvii]                David Bate, op.cit. p.3.
[xviii]               Anche in questo caso torniamo a incrociare l’onnipresente Alfred Stieglitz, quando nel 1917 Duchamp scandalizza l’ambiente artistico di New York, proponendo il ready-made Fontana, costituito da un orinale bianco firmato con lo pseudonimo “R. Matt”, che viene rifiutato alla mostra della Società degli artisti indipendenti, ma trova spazio in un’altra mostra organizzata dallo stesso Stieglitz che fotografa l’opera e l’importante riproduzione viene pubblicata sempre nel 1917 sul giornale dadaista The Blind Man. Fontana può essere considerata “un prototipo concettualista” (Bate, op. cit. p.141) ed è l’opera d’arte più dissacrante e influente del XX secolo: la geniale operazione dadaista, che postula il rifiuto dell’arte tradizionalmente intesa, consiste nell’estrapolare dal contesto un oggetto comune - in questo caso l’orinatoio -, che grazie a questa selezione eseguita dall’artista, diventa esso stesso opera d’arte.
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