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valentinavon · 7 years
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Eroina, di nuovo
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Valentina Avon per Repubblica.it 28 settembre 2017
Così si è riaperto il dibattito italiano sull’eroina:
Nel 2016 ci sono stati 266 morti. Ora a Ferrara tre casi in pochi giorni e uno fatale. A Mestre dieci morti in tre mesi. Una strage silenziosa contro la quale si battono i centri per le tossicodipendenze. L'esperta: "Le nuove vittime sono giovani, spesso consumatori occasionali"
Nota: cliccando il testo qui sopra si va alla pagina di Repubblica, invece continuando a leggere, cliccando qui sotto, si accede al pezzo, più lungo e ricco di informazioni, così come era stato scritto senza ancora sapere le esigenze redazionali. Il pezzo è stato apertura del quotidiano ed è poi stato ripreso da diverse testate, a partire dai titoli del Tg1.
Tre ragazzi che vanno in overdose da eroina in meno di una settimana Ferrara non li aveva mai visti, non in anni recenti. Una ventina di giorni prima, il 26 agosto, l'eroina aveva ucciso un ragazzo di vent'anni. Delle tre overdose che sono seguite, pochi giorni fa, una è stata fatale, per un venticinquenne, altri due ragazzi di 18 e 20 anni sono stati presi per i capelli dai sanitari, che li hanno salvati da morte certa. A Mestre l'eroina ha ucciso dieci persone in tre mesi. Nelle Marche nelle cronache locali non è raro trovare notizia di interventi salvavita dei sanitari o di altri decessi. Storicamente, le morti per sovradosaggio di oppiacei, che in Italia e Europa continua a significare eroina, accadono nel Centro e Nord Italia.
Dietro ogni overdose fatale se ne nascondono altre che invece non lo sono. Perché dalla fine degli anni Novanta è disponibile un farmaco salvavita, il naloxone, di facile uso e capace di annullare all'istante gli effetti dell'eroina. L'Italia è uno dei Paesi europei in cui è offerto dai servizi sulle dipendenze, agli stessi tossicodipendenti, perché ne abbiano sempre con sé. Ed è l'unico a offrire la possibilità di acquistarlo in farmacia senza ricetta, costa circa 7 euro, anche se non tutte le farmacie, pur dovendo, lo hanno in magazzino. Nel 2016 l'Italia ha registrato 266 decessi. Si conteggiano i morti, non le overdose, che sono molte di più, e che senza farmaco sarebbero fatali.
Il naloxone è ovviamente presente sulle ambulanze, ma nessuno conta gli interventi. "Tutte le morti da overdose sono evitabili", sottolineano all'Osservatorio dipendenze di Bologna, unico a contare almeno gli accessi al pronto soccorso, "ma servono prevenzione e servizi in grado di aggiornarsi anche a seconda dei dati raccolti". Con i tagli degli ultimi anni, è sempre più dura. "E tutto viene delegato alle forze dell'ordine", completa il ragionamento Salvatore Giancane, che nei servizi bolognesi lavora da molti anni ed è autore di un monumentale "Eroina" per le edizioni del Gruppo Abele. "Uno dei risultati è che nell'emergenza si fa fatica anche a chiamare l'ambulanza, per paura delle conseguenze di legge, in assenza di norme di tutela come ce ne sono altrove, come la cosiddetta legge del buon samaritano, che protegge chi chiede aiuto".
"L'eroina non è tornata, dato che non se ne è mai andata, e non esiste alcuna eroina killer, esiste l'eroina. Chiamarla killer significa creare un'emergenza che non ci riguarda, invece ci riguarda eccome", Luisa Garofani è al Sert di Ferrara da decenni ormai, e sa come il consumo sia cambiato. "Sono spesso consumatori occasionali, ai quali nessuno spiega più le sostanze, la loro pericolosità e come proteggersi. Sono nelle mani dei soli spacciatori, che non sono più neppure consumatori, e che, sbagliando, vengono individuati come unici responsabili. E quando arrivano qui è perché li manda la prefettura, o il carcere. E arrivano sempre più tardi, sempre troppo tardi. Per una diminuita percezione dei rischi, per la diffusione di moltissime sostanze, per la normalizzazione del policonsumo, e per lo sfaldarsi di un tessuto di protezione sociale e sanitario. Restiamo noi, che invecchiamo coi nostri pazienti".
Giampietro Frison, tossicologo forense dell'Azienda sanitaria di Venezia, conferma la presenza di eroina con un'alta percentuale di principio attivo, dal 30 fino al 50 per cento, che è stata messa in relazione con il picco di decessi a Mestre. Ma anche per lui non è una novità assoluta. Di eroina “forte” si parla da tempo, e diversi “avvisi” sono stati diramati in passato dal Sistema di allerta precoce, sistema nato alcuni anni fa nel Dipartimento Antidroga della Presidenza del Consiglio e ora passato all'Istituto Superiore di Sanità, per diverse aree in Italia. La purezza della sostanza è uno dei fattori di rischio overdose, ma non è l'unico.
Dell'eroina negli anni sono cambiate le modalità di assunzione. Oggi perlopiù si inala, ovvero la si brucia su un pezzo di stagnola e se ne aspirano i vapori. Una pratica che non è a rischio overdose. Queste morti, che coinvolgono anche giovanissimi, sono quindi la punta di un sommerso molto più vasto, e comunque a rischio. E mostrano che le siringhe sono ancora in circolazione. "Spesso sono giovani che frequentano le feste e la ketamina, e con questa la siringa già l'hanno conosciuta" spiegano gli operatori veneziani. Che a fronte di una buona relazione con le forze di polizia sul territorio raccontano però di dovergli spiegare che se in tasca a qualcuno trovano il naloxone sequestrarglielo non è una buona idea.
Sul piano mondiale l'Afghanistan continua a essere il primo produttore mondiale, con il recente riaffacciarsi sulla scena del Myanmar, che produce oggi il 20 per cento dell'oppio, come racconta la relazione sul traffico globale degli stupefacenti dell'Onu. Il canale del narcotraffico più importante continua a essere la rotta balcanica, spiega la Direzione per i servizi Antidroga della Polizia, ma aumenta l'importanza della rotta meridionale, che passa per l'Africa, mentre si consolida la rotta settentrionale, che attraversa la Russia, ed emerge un nuovo canale di importazione che attraversa l'area caucasica e punta dritta verso i mercati europei. Gli attori principali sono le mafie albanesi e nigeriane (quest'ultima sotto accusa a Mestre), spesso viaggia in piccole confezioni ingerite in grande quantità dagli "ovulatori". L'eroina varia per aspetto e purezza e arriva a ondate, soprattutto dalle coste adriatiche. In aree dalle quali poi si espande a macchia d'olio.
“In Italia, fra il 2008 ed il 2014, i dati hanno confermato un aumento dell’uso della sostanza. Inoltre, nel 2015 le Autorità sanitarie hanno osservato segnali di un crescente uso di eroina fra i consumatori in giovanissima età (15 anni)”, scrive sempre la Direzione Antidroga. All'Osservatorio di Bologna confermano: “sono numeri ancora piccoli, ma l'aumento dell'uso di eroina fra i minori è un trend”. E dove le overdose aumentano, non è solo perché aumenta la purezza, “ma soprattutto perché aumenta la quantità in circolazione”, puntualizza Giancane, con lui concordano anche nei Sert delle altre città: “Questa interpretazione, del resto, è coerente con la geografia del fenomeno, che segue le nuove mappe del narcotraffico in Italia, dalle coste dell’Adriatico verso l'interno”. Il medico bolognese ricorda quando la mortalità era alta, negli anni Ottanta e Novanta, ma il principio attivo era basso e aggiunge: “L’eroina uccide in quanto tale, e l'overdose dipende anche dalla quantità circolante e dalle condizioni e dalla tolleranza della persona. È in gran parte prevenibile, e la corretta informazione ha un ruolo essenziale”.
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valentinavon · 7 years
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Bike Watchers
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Valentina Avon per Repubblica.it 11 settembre 2017
A Bologna la bici rubata finisce online. E spesso viene ritrovata. 
Si potrebbe chiamare “riciclismo”. Compri una bici, te la rubano, vai all'angolo della piazza dove i ladri le rivendono, te ne compri un'altra. Per venti, trenta euro: se di nuovo te la rubano, non è un gran danno. Se sei fortunato, ti porti via una signora bicicletta a meno di quanto spendi per un lucchetto appena decente. Se sei sfortunato, vieni beccato dal suo vero proprietario o da un “bike watcher” e di conseguenza dalla polizia, segue denuncia per ricettazione.
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valentinavon · 7 years
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La borsa e la vita
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Fare acquisti in un negozio e partecipare a un concorso è una cosa normale. Meno usuale è che il premio in palio sia uno stage di lavoro. L'iniziativa è di Carpisa, nota azienda che produce borse e valigie, ed è rivolta a persone che hanno  fra i 20 e i 30 anni e un progetto di comunicazione da sottoporre all'azienda. E che abbiano prima acquistato una borsa della nuova collezione.
Quello di Carpisa non è infatti solo un concorso di idee, come ce ne sono tanti: per poter partecipare, e inviare il proprio progetto, è necessario avere un codice, che si trova stampato sullo scontrino di acquisto. Fra i progetti che arriveranno entro il 6 settembre, termine per la partecipazione, ne verranno selezionati dieci, e il primo classificato si aggiudicherà il premio in palio: uno stage nella sede di Kuvera, proprietaria del marchio Carpisa, a Nola, provincia di Napoli. Un mese di lavoro nel settore marketing e comunicazione, per 500 euro di rimborso spese. Il 6 ottobre ci sarà la proclamazione del vincitore, scelto per "qualità del progetto presentato e coerenza del profilo del candidato con il ruolo richiesto". Si può partecipare con un solo progetto a testa: comprare più borse non darà diritto a mandare più progetti.
“Questa è una frontiera che si va misurando, verso la svalorizzazione del lavoro, della formazione e di un'intera generazione, già abbastanza impoverita”, il giudizio di Tania Sacchetti, Cgil, è netto. Nel sito di Carpisa dedicato al concorso, che contiene il form di registrazione per gli acquirenti aspiranti stagisti, l'obiettivo dell'iniziativa è esplicitato bene: “Il presente concorso viene effettuato con l’intento di aumentare la visibilità dei marchi promozionati e, in particolare, di incentivare le vendite dei prodotti dei capi Donna collezione autunno/inverno 2017/2018”. Affermazione che per Sacchetti “rende incoerente dire che una tale operazione possa valorizzare delle risorse”.
Anche per Eleonora Voltolina, a capo di La Repubblica degli stagisti, quella di Carpisa è solo un'operazione di marketing: “Un tema sempre più attuale, quello di fare campagne per i giovani fra pubblicità e recruiting”. Voltolina non si stupisce, del resto esistono dei precedenti. Negli anni scorsi il lavoro, precario, è stato un premio in palio fra i clienti di diverse catene di supermercati (Sigma, OnePrice, Tigros). Ma qui, sottolinea, si va anche oltre, finendo per “svilire lo status di stagista e snaturare la natura stessa dello stage, che è addestramento al lavoro, un passo importante della vita professionale, non un gioco o un premietto, per di più subordinato a un acquisto. Poi, intendiamoci: è legale, ma non per questo è opportuna”.
Da Carpisa sottolineano che l'iniziativa è la prima di tre in programma, legata a altrettante testimonial. La prima, ora in corso, “è rappresentata dalla scrittrice e giornalista Rula Jebreal, perciò il premio è l'opportunità di vivere un'esperienza, un'opportunità, nel campo della comunicazione”. Altre seguiranno, con una modella, e il premio sarà vivere una giornata sul set della campagna pubblicitaria, e con una food blogger, per vincere un'esperienza legata al cibo.
Il concorso però appare piuttosto esigente, sempre a leggere quanto dichiarato nell'apposito sito: "I partecipanti dovranno elaborare un piano di comunicazione per il lancio sul mercato della capsule collection Carpisa firmata da Penelope e Monica Cruz 2018 che includa: definizione dei punti di forza e il messaggio del prodotto; analisi del posizionamento del brand; evidenza degli obiettivi del lancio; definizione del target di riferimento; definizione del budget; dettaglio delle tattiche ed elenco delle azioni di comunicazione”. E tutti i progetti presentati, che vincano o meno, resteranno di proprietà esclusiva di Carpisa. Ai creativi partecipanti resterà comunque la valigia. Che potrà sempre essere utile in caso di viaggi, sopratutto all'estero.
Nota: questo pezzo è stato scritto giorni fa, ma le redazioni hanno ragioni che noi non sappiamo e per un concatenarsi di sfighe non è uscito, amen, succede, quindi oggi sta qua.
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valentinavon · 7 years
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Slogan di cemento
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La strategia comunicativa di Casa Pound: scritta sui new jersey e comunicato ai giornali. Funziona! Lo stato dell'arte, da Nord a Sud, da Est a Ovest.
Sempre la stessa scritta: "Invece delle strade chiudiamo le frontiere". L'ultima è spuntata ieri davanti alla Reggia di Caserta, pochi giorni fa è toccata a Torino, ma quella frase, come un mantra, sta spuntando ovunque ci sia un new jersey. Sempre la stessa firma: Casa Pound.
Se c'è una barriera di cemento a proteggere le strade, come dettato dal Viminale, che sia in una via del centro città o per la sagra paesana, arriva un militante con bomboletta o pennello a riprodurre quello che Casa Pound scrive anche sui propri striscioni in manifestazione. Il terrorismo come prodotto delle migrazioni, lo straniero come nemico. Ogni barriera diventa la tela dove segnare la propria presenza e additare il nemico e la soluzione: tutti fuori.
A Palermo è arrivata come risposta al sindaco Leoluca Orlando che aveva invitato artisti e writers a decorare le grigie protezioni, con tanto di comunicato stampa, gli hanno dato dell'"immigrazionista". Comunicato stampa anche a Napoli. Rivendicazione a mezzo stampa a Terni. A Imperia c'è stato uno slancio di fantasia, per lo slogan, "E se fosse l’attesa dell’attentato l’attentato stesso?" e per la nota stampa: "Nonostante sia stata finora risparmiata sul suo territorio dalla furia assassina dell’odio jihadista, anche l’Italia ha chinato il capo al volere del califfo".
A Pescara dopo aver pitturato il cemento ne hanno pure criticato il posizionamento "non sono neanche bullonate alla pavimentazione". A Orvieto niente barriere, l'amministrazione ha optato per le fioriere, data la difficoltà a pitturare sulle piante Casa Pound ha optato per dei manifesti, solito slogan ma ben stampato, con tanto di marchio, la solita tartaruga. Anche qui, segue comunicato. 
Ormai è una strategia comunicativa, la battaglia di visibilità si fa sui new jersey e sulla stampa locale, capillare, organizzata: secchio e pennello, post su Facebook e mail ai giornali.
C'è solo da sperare che vista la diffusione smettano di essere una notizia. Nel frattempo potrebbero fare così anche gli altri, antifascisti in testa: scritta sul muro e comunicato stampa. Chissà che invece di una denuncia arrivi un articolo con gallery.
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valentinavon · 7 years
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Via Altura, 1998
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A Roma hanno sgomberato da un palazzo le famiglie eritree che ci abitavano. Poi le hanno sgomberate dalle strade, cacciate con gli idranti, inseguite e manganellate. Uomini, donne e bambini. Vent'anni fa a Bologna andò in scena una vicenda non tanto diversa.
[Questo post l'ho scritto su Facebook, neanche io so perché. Poi l'ha ripreso Giap, il blog dei Wu Ming, arricchendolo di foto e parole preziose, lo trovate qui]
Il prossimo anno saranno venti. Era il 1998 infatti quando a Bologna scoppiò il caso "via Altura". Riassumendo velocemente: reduci da un'occupazione malfatta e malgestita (da comitati autonomi per la casa) e maldipinta dalle cronache locali, decine di famiglie di immigrati senza tante alternative si infilarono in San Petronio. Erano musulmani, il caso finì alle cronache nazionali, e pur di uscirne alla svelta il Comune offrì una sistemazione alternativa, in quello che oggi è l'albergo popolare di via del Pallone.
Dopo un mese (o poco più, scusate, vado a memoria) anche da lì furono sgomberati. Polizia, casini, donne e bambini in strada sotto la neve, era inverno e faceva un freddo cane. Via Irnerio chiusa, di nuovo cronache nazionali, arrivò anche il Gabibbo, alla fine già che era lì fu il TPO di allora, Teatro Polivalente Occupato, stava nel teatro dell'Accademia, ad aprire loro le porte, interrompendo ogni programmazione e prendendosi la responsabilità dell'accoglienza. Per dire il clima: nel retro del TPO c'erano pure un cammello e un dromedario, ospiti della compagnia Raffaello Sanzio, che qualche giorno prima avevano sfilato nella prima Street Parade che si ricordi in città, quella di 2001 Odissea negli spazi, inedita confluenza di tutti i centri sociali della città.
Il sindaco era Walter Vitali, l'ultimo PD prima dell'era Guazzaloca, memorabile fu il suo commento: il teatro è del ministero delle Finanze, per noi il caso è chiuso. Giuro, disse proprio così. Insopportabile il TPO, insopportabili i migranti, pensò di essersi cavato dai piedi entrambi, sperando di vederli collassare uno sull'altro in una sorta di reciproco annientamento. Le cose andarono diversamente.
Erano uomini e donne e bambini, uomini che lavoravano, bambini che andavano a scuola, si accamparono sul palco del teatro e effettivamente dopo alcune settimane la situazione si fece davvero difficile (per l'indifferenza istituzionale più che altro). Le persone che informalmente ma seriamente avevano deciso di farsene carico furono costrette a cercare una qualsiasi soluzione. Lì si scoprì "via Altura", un immenso edificio, completamente vuoto, dietro il Bellaria, verso San Lazzaro. Fu occupato dai "bianchi occidentali", alla conferenza stampa chi si aspettava di trovare degli squatter rimase deluso: ormai un bel pezzo della Bologna civile si era mobilitata.
L'edificio di via Altura era una roba colossale, costruita per diventare alloggi per anziani contravveniva una norma regionale (sulle dimensioni) che chissà perché qualcuno s'era dimenticato di modificare, nel complesso gioco fra amministratori e costruttori. I migranti entrarono dopo un po': l'assessora alle Politiche sociali di allora, Lalla Golfarelli, aveva infatti dichiarato che agli stranieri se occupanti sarebbero stati tolti i figli, meglio non rischiare. Passarono alcune notti in un ghiaccio mai visto, madonna che freddo c'era, poi gli occupanti fecero entrare le famiglie. Con censimento allegato: a ogni assemblea e a ogni ora del giorno e della notte arrivava qualcuno, accogliere tutti non era pensabile in quelle condizioni: intere famiglie che dormivano in macchina, molti sfrattati per inevitabile morosità visti i canoni cittadini, quasi sempre persone, come i nuclei di via del Pallone, che pur avendo lavoro e tutto una volta fatto il ricongiungimento familiare dovevano affrontare un collasso economico. Gli occupanti erano la punta di un iceberg grande come mezza città.
Andò avanti per un po', neppure mi ricordo per quanto, settimane, mesi. Durante le quali ci fu il tempo per una partecipazione di occupanti e militanti all'allora Moby Dick di Michele Santoro: una memorabile gita a Roma in pullman con mamme e bimbi, che però arrivati nella Capitale si scoprì non avrebbero (ovviamente) potuto partecipare alla trasmissione, nonostante fossero stati appositamente convocati. Passarono una bellissima serata con la schiuma nella vasca da bagno delle camere d'albergo, come ci fu poi riferito, a noi che da Santoro ci prendemmo il microfono, grazie anche a quel gran giornalista che è Riccardo Iacona.
Intanto in Comune facevano sapere di avere soluzioni alternative: ospitalità per qualche settimana in strutture per lo più religiose, e solo per mamme e figli, o case con affitti assurdi nei comuni dell'Appennino. Nulla di accettabile, esattamente come successo giorni fa a Roma, per quanto tendessero a far passare sulla stampa cittadina l'idea che gli occupanti "se la tiravano". La realtà era che negli uffici comunali non avevano altri interlocutori che le agenzie immobiliari, che ovviamente tendevano a fare il loro mestiere. La bolla non era ancora esplosa e gli affitti richiesti erano indecenti, prima ancora che inaffrontabili.
Finì grazie all'intervento del Gruppo Lupo. Oggi si può raccontare, allora fu chiesto il silenzio, dagli stessi benefattori. Che sganciarono 50 milioni di lire sull'unghia, al costituito Comitato di via Altura, permettendo così di avviare la locazione di appartamenti per una buona parte degli occupanti. Il Gruppo Lupo era: Stefano Benni, Antonio Ricci, Fabrizio De Andrè, e, incredibile ma vero, Beppe Grillo. De Andrè morì in quei giorni, chi c'era ricorda le lacrime e il dolore di Benni, inconsolabile. Non ci fu una sistemazione ottimale per tutti, ma insomma in qualche maniera se ne uscì.
Io so solo che dopo un paio d'anni incontrai in via Indipendenza uno dei signori che con tutta la famiglia stava a via Altura, e che incontrai anche Kadisha un pomeriggio, lei che durante i giorni del Tpo aveva perso il bambino, era sposata con quel gigante di Mohamed, e sempre sono stati baci e abbracci, e la gioia di sapere che le cose andavano avanti, i bimbi crescevano, la città era meno ostile, i ricatti su casa e lavoro più gestibili.
Poi sono successe tante altre cose, e quei giorni non sono sempre stati gloriosi, avere a che fare con persone che hanno costumi e tradizioni diversi dai tuoi non è una passeggiata per nessuno.
Ma se anche solo un bambino o una bambina di allora, che oggi potrebbe avere una famiglia a sua volta, guardandosi indietro trovasse un ricordo fatto di solidarietà e sorrisi e giochi e non solo di miseria e manganelli e divise, beh basterebbe per dire che ne valeva la pena.
La mia personale solidarietà agli sgomberati di piazza Indipendenza a Roma, e a chiunque sia loro accanto.
[le foto sono di Gianluca Perticoni, Eikon]
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valentinavon · 7 years
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Pestizidtirol
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Valentina Avon per Repubblica.it 12 agosto 2017
Da Monaco campagna contro l'Alto Adige: troppi pesticidi. Ira di Bolzano: li denunciamo
Manifesti giganti di una organizzazione ambientalista nella città bavarese, anche in metropolitana. E la provincia altoatesina insorge: "Nella tutela del territorio siamo all'avanguardia"
Il pezzo si legge qui
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valentinavon · 7 years
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Grandina sul bagnato
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Valentina Avon per Repubblica.it 11 agosto 2017
Trentino: grandine 'killer', in Val di Non mele distrutte e produzione dimezzata
Dopo le tardive gelate di aprile, due violente scariche di ghiaccio hanno messo in ginocchio piante e frutti, ormai pronti per la raccolta. In alcuni comuni la stima dei tecnici arriva alla perdita del 100 per cento. Con conseguenze anche sull'occupazione. La provincia autonoma, che ha chiesto lo stato di calamità naturale, ancora non ha quantificato i danni
Il reportage si legge qui [mie anche le foto]
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valentinavon · 7 years
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Hamburger
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Valentina Avon per Repubblica.it 30 luglio 2017
Amburgo, ancora in carcere sei italiani arrestati durante il G20
Interrogazioni al ministro Alfano per i ragazzi detenuti dal 7 luglio. I fermati tedeschi e gli altri stranieri sono stati tutti rilasciati. Ma ai nostri connazionali non è stato concesso di potere uscire neppure su cauzione
Nella foto Fabio Vettorel, 18 anni compiuti in galera
L’articolo si legge qui
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valentinavon · 7 years
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Viva la Scozia
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Valentina Avon per il blog di Betty&Books 18 luglio 2017
The Homeless Period, quando il costo degli assorbenti è un problema. 
Nella città di Aberdeen, in Scozia, le istituzioni si sono fatte carico di questa difficoltà. Primi in Europa, hanno fatto partire un progetto che per sei mesi, a un costo di 10mila sterline, poco più di 11mila euro, regalerà assorbenti igienici a mille donne in povertà e ragazze delle scuole superiori (Aberdeen ha 200mila abitanti). Progetto per ora sperimentale, serve per definire le politiche future della Scozia sulla salute sessuale delle donne.
Il difficile accesso agli assorbenti è un problema igienico, oltre che di dignità. Le donne più povere ricorrono a espedienti, il primo dei quali è cercare di confezionarli con carta igienica o di giornale, o con stracci. E anche quando riescono a trovarli tendono a usarli con parsimonia, quindi per più tempo del dovuto, con le immaginabili conseguenze sul piano della salute (specialmente nel caso degli assorbenti interni). Le pubblicità mostrano con atlete testimonial che si può essere “libere anche in quei giorni” ma per molte donne quei giorni possono diventare un vero incubo. Ogni mese.
Unico precedente simile alla decisione scozzese è quello della Città di New York, che un anno fa ha deciso per la distribuzione gratuita di assorbenti igienici nelle scuole pubbliche superiori, nelle carceri e nelle strutture di assistenza per senzatetto. Ma il problema è sentito e rivendicato in tutto il mondo. A Londra tre ragazze hanno lanciato due anni fa il bel progetto “The Homeless Period” per sensibilizzare le autorità e raccogliere fondi.
Nel Regno Unito il problema è molto sentito e non è un caso che il regista Ken Loach abbia inserito nel suo film “Io, Daniel Blake” una giovane donna che gli assorbenti li ruba.
Il costo degli assorbenti e dei tamponi è un problema insormontabile per le donne più povere, ma tutte le donne lo vivono come un’ingiustizia. Il sito di petizioni Change ha riunito in una pagina alcune campagne che chiedono la detassazione degli assorbenti, la cosiddetta Tampon Tax: in Germania è ancora in corso, in Inghilterra, Francia e Canada hanno avuto successo e questi governi negli ultimi due anni hanno riconosciuto gli assorbenti come prodotti essenziali e non accessori.
In Francia ora le attiviste stanno chiedendo che siano disponibili gratuitamente nelle scuole. In Nuova Zelanda la richiesta è che venga tolta l’attuale imposta del 15 per cento. Ce ne sono decine, di petizioni, per ogni angolo di mondo.
In Italia un anno fa le 35mila firme raccolte produssero una proposta di legge di Possibile, per chiedere l’Iva al 4 per cento, che però è naufragata. L’Iva sugli assorbenti in Italia resta quindi al 22 per cento (come del resto quella sui preservativi), e per ogni donna ogni mese resta una spesa che va dai 5 ai 10 euro. Le mestruazioni restano un lusso che tutte devono concedersi ma che non tutte possono permettersi.
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valentinavon · 7 years
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Che orario fai?
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Valentina Avon per Repubblica.it 7 luglio 2017
L'azienda che ha abolito gli orari di lavoro: il successo con l'auto-organizzazione dei dipendenti
In un piccolo paese vicino a Pordenone, la Graphistudio confeziona album fotografici per i matrimoni. Duecento dipendenti, settanta su cento donne, niente sindacati. I team rispettano le scadenze, la vita personale funziona meglio e il prodotto spopola nel mondo
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valentinavon · 7 years
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Un selfie ad Auschwitz
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Ancora selfie ad Auschwitz. Questa volta non si tratta di adolescenti in gita, bensì di un congressman repubblicano della Lousiana, già noto negli Stati Uniti per le sue intemperanze. Clay Higgins, grande sostenitore e sodale di Donald Trump, contravvenendo a ogni regola si è ripreso nel campo di sterminio tedesco in Polonia, camere a gas incluse, per un messaggio video in occasione del 4 luglio, Indipendence Day. Confezionando uno spot per la sicurezza nazionale, spiegando perché "l'esercito americano deve essere invincibile". Higgins, che il giorno dopo gli attentati di Londra aveva esortato all’omicidio dei sospetti fiancheggiatori del terrorismo islamista, su Twitter è stato aspramente rimproverato dall'Auschwitz Memorial: "Tutti hanno diritto a riflessioni personali. Ma in una camera a gas ci dovrebbe essere un rispettoso silenzio. Non è un palcoscenico". 
This is what all visitors see at the entrance to the building where first homicidal gas chambers of Auschwitz was created by the SS. pic.twitter.com/6Mm5gTkfSl
— Auschwitz Memorial (@AuschwitzMuseum)
4 luglio 2017
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valentinavon · 7 years
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Quando la banca blocca il nazi
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PayPal ha interrotto la raccolta fondi e congelato il denaro fin qui raggranellato (gli organizzatori parlano di oltre 65mila euro). Le proteste sono state molto forti in Francia, dove è partito il tam tam sui social con l'hashtag #StopDefendEuropePaypal, e una volta ottenuto lo stop di PayPal sono continuate rivolte a Crédit Mutuel, che a sua volta ha chiuso il conto di Génération Identitaire, e bloccato il flusso di donazioni. Grande disappunto anche nella filiale italiana, Generazione Identitaria, autrice del video di lancio dell’operazione. 
Su Repubblica.it, si legge qui
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valentinavon · 7 years
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Tu te la ricordi Cristina Mazzotti?
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È giovedì sera, in una strada della provincia di Como si portano via Cristina Mazzotti, che qualche giorno prima ha compiuto 18 anni. Era il 26 giugno del 1975. Fu pagato un riscatto di oltre un miliardo di lire, venne ritrovata cadavere poco più di un mese dopo, il primo di settembre, in una discarica. Erano anni in cui i rapimenti erano frequenti sulle prime pagine dei giornali, ma quella vicenda scosse a fondo l'Italia. Eppure oggi per Cristina Mazzotti non c'è neppure una pagina su Wikipedia. O, meglio, c'è solo nella Wikipedia in lingua sarda. 
Qualche giorno fa Alessandra Berardi ha scritto un duro post per ricordare il rapimento in Sardegna del 20 giugno 1987 di sua sorella Cristina. Che tornò a casa, liberata quattro mesi dopo dalla Catturandi in perlustrazione nell'Ogliastra, i rapitori non sono mai stati processati. Alessandra ricorda la sorella con parole severe per chi invece sembra averla dimenticata: "in Sardegna, neanche una strada - a quel che mi risulta - è intitolata alle "Vittime dei sequestri di persona" (i sequestrati, le loro famiglie, la comunità). Non una lapide con i nomi delle persone sequestrate e mai ritornate, morte per gli stenti o uccise durante la prigionia. Dovremmo invece ricordare una per una tutte quelle persone, vittime innocenti di una pratica terribile". 
Fu una lunga stagione, quella dei sequestri di persona. Sequestri politici, da anni di piombo, prove di forza nella relazione con le istituzioni, e sequestri estorsivi. Quello di Cristina Mazzotti rivelò uno squallido intreccio fra criminalità locale, lombarda, eversione di destra e criminalità organizzata calabrese. 
La 'ndrangheta ci ha costruito un impero con i sequestri di persona, in Calabria ce ne furono di clamorosi già negli anni Sessanta, prima che la pratica fosse esportata a Nord: il primo fu l'industriale Pietro Torielli, nel 1972, sequestrato a Vigevano. Il 9 luglio 1973 da piazza Farnese a Roma scomparve il sedicenne Paul Getty, fu rilasciato a dicembre dello stesso anno, i rapitori gli mozzarono un orecchio. Fu pagato un riscatto di un miliardo e 700 milioni di lire, un record. La 'ndrangheta custodiva i rapiti in Calabria, dove pure venivano reinvestiti i soldi dei riscatti: a Bovalino sorse un intero quartiere popolarmente chiamato "Paul Getty". In quella regione furono infilati in un buco per terra Cesare Casella, rapito nel 1988 a Pavia, che ci rimase per 743 giorni, e Carlo Celadon, rapito a Vigevano anche lui nel 1988, il sequestro più lungo di tutti: ben 831 giorni. 
Dal 1969 al 1998 i sequestri estorsivi in Italia furono quasi 700, e 81 vittime non hanno più fatto ritorno a casa: di 28 è stato trovato il cadavere, di 53 non si è saputo più nulla. L'anno nero fu il 1977, con un picco di 79 sequestri, ma per un decennio la media è stata di 40/50 sequestri l'anno. Di questi la grande maggioranza, circa 400, furono gestiti dalla 'ndrangheta, circa 150 dall'Anonima Sarda, che ha operato quasi sempre sull'isola. E che, a differenza della 'ndrangheta che ha mostrato spesso connessioni con l'eversione di destra, è risultata comunicante con l'eversione di sinistra. 
Nel luglio del 1979 vennero rapiti dalla loro casa nelle campagne di Tempio Pausania Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi, vennero rilasciati a dicembre, dopo il pagamento di un riscatto di mezzo miliardo. Il piccolo Farouk Kassam scomparve a 7 anni da Porto Cervo nel gennaio 1992, fu liberato a luglio, i rapitori chiesero 10 miliardi, ne furono pagati forse uno, forse due, la sua vicenda resta in parte misteriosa. Anche a lui fu tagliato un pezzo d'orecchio, da Matteo Boe, rilasciato giusto ieri. 
Quello dei rapimenti è stato un trentennio feroce, con centinaia di persone sottratte alla vita, alcune per sempre, e un flusso di tanti miliardi di lire. Fino agli anni Novanta, quando hanno cominciato a calare bruscamente. Per la disapprovazione sociale sempre più forte, la preparazione sempre migliore delle forze dell'ordine e l'introduzione, nel 1991, della "legge del blocco dei beni nella disponibilità del sequestrato o del suo nucleo familiare". 
Oggi le vittime vengono ricordate, assieme a tante altre, nella Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie, che Libera celebra dal 1996 e che da marzo di quest'anno è diventata legge dello Stato. Ma non le vittime dei rapimenti dell’Anonima Sarda, o della criminalità comune. Come ha scritto Alessandra Berardi per la sorella Cristina e tutti gli altri: "Dovremmo ricordare ad alta voce quelle stagioni efferate, quel mezzo secolo crudele che ha sparso lacrime, sangue e fango per la nostra terra bellissima. Ricordiamo, raccontiamo, intitoliamo strade, incidiamo lapidi, e pronunciamo i nomi delle vittime dimenticate".
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valentinavon · 7 years
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Bambini che giocano
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Puoi anche lasciare la città e cambiare mestiere o quasi, ma se sei giornalista inside quando vedi una notizia è come trovare un porcino, mica puoi lasciarla lì. E quelle ti seguono ovunque vai, pure sul cucuzzolo. Quindi prendi la notizia e la confezioni per Repubblica.it che la mette in home e fai 30mila condivisioni in un giorno ( più radio, tv, tg, testate on e off line, locali e nazionali, che l'hanno ripresa) cioè il botto. Una notiziola, nulla più, ma forse era scritta bene. E sicuramente, pur nella sua ciccipuneria, ha toccato un nervo scoperto.
Sta tutto qui (cliccateci sopra)
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valentinavon · 7 years
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E’ sempre Vermicino
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#Rigopiano Volevo dire grazie alla radio, alla quale mi sono attaccata in questi giorni passati per il resto offline. La diretta fa sempre impressione. E ogni volta ripenso a questo. Un ragionamento prezioso sui fatti e sulla loro cronaca. Questo che disse Enrico Ghezzi nel suo asincrono in un fuoriorario di molti anni fa. Parlava di Vermicino ma per chi c'era da allora ogni volta è Vermicino.
Non c'è buona visione stasera: abbiamo discusso a lungo con Ciro Giorgini, curatore del montaggio di momenti tratti dalla lunghissima diretta e dai telegiornali che seguirono Vermicino, la tragedia mediologica. Vermicino, dieci anni fa esattamente, dieci anni fa. Stavo per dire "a Vermicino" appunto, ma "in televisione", quello fu l'unico luogo: Vermicino è un paese a pochi chilometri da Roma, vicino alla Capitale. Cosi simbolica questa vicinanza, e il nome, che faceva pensare a una fiaba, a una mela, con dentro annidato il verme, piccolo, dell'informazione.
Dicevo. Ci è parso giusto, alla fine, dare, ridare, queste immagini, più che per ricordare per far ricordare, non tanto questo anniversario - di solito fuoriorario tiene fede al suo titolo, ed è fuori dalle ricorrenze, anche perché sappiamo che tutto ricorre ogni momento, e non ogni quindici, vent'anni, cento. Oggi l'abbiamo voluto fare anche perché ci ha colpito l'assenza Vermicino dai titoli dei giornali, forse persi dietro al referendum o dietro ad altro, ma, insomma l'assenza di questo fatto, che aveva scatenato una tensione immediata fortissima, che aveva unito tutti i pubblici, tutte le pietà, tutti i cinismi... insomma, al di là del misto, ripeto, di fiaba, poi di circo, di errori, e la cialtroneria...
Soprattutto queste dicevo non sono immagini, non sono immagini perché non si vede nulla. C'era già la guerra nel Golfo, a Vermicino, c'era un quartier generale all'opera, e in più c'eravamo tutti noi, vicinissimi, al quartier generale, Italia, Roma, tutti senza poter fare nulla, neanche li si è potuto fare nulla... C'era questo bambino, questo corpo, questa voce all'inizio, a pochi metri sottoterra, dentro questo buco nero che si inghiottita tutto, perché avevamo l'inizio delle ammissioni, dei tentativi, ma non le emissioni, no? Era una continua reazione, molto Kafka, sembrava arrivare da lontanissimo, anche se era tutto lì.
Era tutto dentro di noi e insieme lontanissimo, quindi, con una fortissima partecipazione emotiva, ricordo veramente l'Italia piazza in quelle sere d'estate, calde, l'Italia mobilitata, ferma anche nei ristoranti, a chiedersi,a vedere, con l'illusione di partecipare ad un atto di - come dice un giornalista alla fine - un atto di vita che si rivela un atto di morte - come poi è sempre, qualunque vita si rivela essere un atto di morte, infine. E anche qualunque diretta: sì è sicuramente immorale rimandare una diretta, una diretta che ha avuto dentro questa flagranza, invisibile peraltro, e insostenibile, di morte.
Eppure l'avremmo voluta rimandare tutta, potendo. Chiedere, non so, alle reti di mandare un riquadro piccolissimo, in un angolo, con tutta questa diretta, su qualunque altra immagine, in modo che questa immagine ci guardasse, come il ritorno di qualcosa che è stato veramente rimosso, in modo terribile. O in modo salvifico, per salvarsi, forse, per continuare a guardare la televisione, o a guardarsi in faccia o solo allo specchio, e che questa immagine ci guardasse davvero come noi l'abbiamo guardata, con la stessa fascinazione e la stessa pietà. Di noi, verso di noi, perché, insomma, non credo che siamo mai preparati alla diretta, non credo che siamo mai in diretta, non credo che siamo preparati neanche a una diretta-differita come quella di stasera, dove è quasi impossibile non piangere, sapendo e ricordando.
E insomma la televisione si rivela in questa diretta, anche in questi brandelli che ne diamo, qualcosa di cosi violentemente 'adatta' a far seguire la realtà e cosi incapace a ridare il reale, il reale della vita, della morte, dell'amore. Per questo la diciamo, perché queste immagini non documentano nessuna diretta, sono solo un appiglio perché noi ricordiamo il nostro modo di vedere, l'unica cosa che può ri-documentare: un'immagine non può essere documento, neanche di se stessa, neanche delle stesse immagini che avevamo visto dieci anni fa.
Enrico Ghezzi, 13 giugno 1991
[Vermicino, 10/13 giugno 1981, il corpo di Alfredo Rampi fu recuperato l'11 luglio]
Nota. Nel 1991 ero giovinetta e facevo cose strane, per esempio passare la notte a registrare col vhs fuoriorario, oppure trascrivere le cose interessanti che sentivo dire. Studiavo anche così. Il vhs è andato perduto, la carta, peraltro battuta a macchina, è ancora qui.
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valentinavon · 7 years
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#ArchivioUnità Come è andata a finire, anche se non è ancora finita
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L'Archivio dell'Unità è salvo e tornerà più bello che pria, state tranquilli! Prendere quello che è stato detto sulla sua scomparsa dal web, improvvisa e senza spiegazioni, come allarmismo fuoriluogo e infantile, vivendo come un fastidio il dover dare spiegazioni, peraltro fornite privatamente via mail o con due righe sul proprio blog, dice molto sulla attuale considerazione dei lettori, oltre che dei giornalisti e dei sostenitori tutti, in certi corridoi.
Il giornalismo, insegnano finanche nelle scuole, deve essere innanzitutto al servizio dei lettori. Interrompere un servizio molto usato, e stimato, senza una parola di spiegazione, e reagire con un "pat pat" alle giuste rimostranze racconta una storia contraria.
Di giornalismo si parla fin troppo ultimamente. Per accusarlo o rivendicarlo, in un assurdo dibattito pseudofilosofico (o post-filosofico, chissà) su cosa sia la verità e come far sì che trionfi sempre. Ma la verità, come la giustizia, presuppone innanzitutto il rispetto. Deontologico, ma anche umano: proprio il rispetto delle persone, e della loro identità, e storia.
Sicuramente l'Archivio dell'Unità è salvo, e tornerà anche disponibile. Di questo nessuno ha mai dubitato. Il punto è che l'#ArchivioUnità (che è anche un enorme e prezioso archivio fotografico) è una ricchezza per molte più persone di quelle che ne detengono proprietà e diritti. La storia recente dell'Unità è imbarazzante. Lo dico con rispetto dei colleghi, non è di loro che si parla. Che anche la sua storia debba conoscere identico destino è roba che fa prudere le mani.
Almeno a me ha fatto questo effetto. Quando ho visto che l'archivio era scomparso, ho aspettato 24 ore prima di scriverne. E quando l'ho fatto, nessuno ancora aveva detto alcunché. Se n'è accorto immediatamente dopo anche Pietro Spataro, credo l'unico che ha deciso di spenderci dell'inchiostro con una certa ostinazione. Ma questo non significa che la comunità dei lettori sia rimasta indifferente. Ho chiesto, senza saperli ottenere, quali fossero i dati di accesso all'Archivio prima della sua scomparsa, credo fossero piuttosto consistenti.
La scomparsa dell'Archivio dell'Unità non è la scomparsa di un blog, è la scomparsa di quasi cent'anni di storia. Del giornalismo, della politica, della sinistra, della vita di una nazione e dei suoi cittadini, non solo quelli iscritti al PCI. Non è roba che si può rottamare con un'alzata di spalle. Per poi magari scrivere illuminati editoriali sulla scomparsa della memoria fra "i giovani". La storia non ci deve opprimere e non ci deve impedire di guardare al futuro, sono la prima a sostenerlo (non credo neppure che sia "maestra di vita"), ma resta un patrimonio collettivo.
L'Archivio dell'Unità tornerà sicuramente disponibile, almeno lo spero, e spero presto (sarebbe bello sapere quando, ma tant'è). Non sono sicura che altrettanto destino avranno il rispetto per i lettori e per il valore di ciò che è stato finora fatto e vissuto. La noncuranza e la maleducazione che hanno accompagnato la vicenda certo non rassicurano, ma proprio il fatto che se ne sia parlato potrebbe spingere ad averne in futuro maggiore cura.
Per ora basta così (e scusate la noia).
Qui, per chi voglia saperne di più, c'è il riassunto:
⚡️ “L'#ArchivioUnità scomparso dall'Internet”https://t.co/I2tVBe7dRL
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valentinavon · 7 years
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L’Archivio scomparso dell’Unità
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C'era tutto, dall'Unità del 12 febbraio 1924 in poi. Tutto sparito, improvvisamente e senza spiegazioni. Ho scritto pure io per l'Unità. Per cinque anni, molti anni fa. Con passione (quando ti pagano poco si dice così, ma non è che pagasse meno degli altri). Questa faccenda dell'Archivio scomparso mi brucia assai, per un sacco di motivi e non solo personali: sono andata a vedere cosa sta succedendo. Buona lettura.
L'archivio storico dell'Unità è un patrimonio pubblico di proprietà privata, in quanto tale è stato sottratto alla pubblica consultazione e al momento non è dato sapere con certezza che fine farà. Completamente digitalizzato, da dicembre è scomparso dall'Internet, al suo posto non c'è neppure un messaggio. C'è il nulla.
L'Unità è patrimonio pubblico perché racchiude 93 anni di storia del giornale e delle persone che l'hanno fatto. Che vanno da editori e direttori, passando per i giornalisti e i commentatori, fino all'ultimo rivoltatore di salamelle alle Feste, appunto, dell'Unità. Che è anche la storia della Sinistra d'Italia da Gramsci ai giorni nostri.
La spiegazione più accreditata di questa assurda situazione è che a dicembre sono scaduti i contratti con Tiscali, la proprietà della testata ha optato per un nuovo gestore e nel frattempo tutto (tutto quello che era unita.it) è stato oscurato. Quella online infatti è l'unita.tv, che non è un sito, è praticamente un blog. Registrato da una persona singola, per conto di youdem ma praticamente a titolo personale, mentre unita.it era registrata come Unità Srl.
Oggi Unità Srl è il costruttore Pessina, con una quota, inferiore al 20 per cento, in capo al PD (ovvero alla Fondazione Eyu, che invece è unità.tv). L'archivio è asset aziendale, quindi Pessina ne fa quel che vuole. Dicono che la volontà sia quella di rimettere tutto on line. Ma quando? Sempre che l'Unità continui a esistere (e non è detto), comunque fino a che non ci sarà un nuovo sito internet non se ne parla. Tecnicamente sarebbe anche tutto pronto, server piattaforma eccetera, ma il nuovo sito internet è in discussione da oltre un anno, sta in mezzo a una questione politico aziendale ancora apertissima. Che qui interessa poco.
Qui interessa capire come un tale patrimonio possa essere sottratto alla collettività, argomento che meriterebbe almeno un'interrogazione parlamentare se qualcuno avesse voglia di farla. Può anche non essere in discussione la proprietà dell'archivio, ma la sua disponibilità sicuramente sì.
E' anche una questione di soldi, tenere l'archivio on line è una spesa: pare che l'editore abbia anche cercato di trovare qualcuno che fosse disposto a tenerlo on line gratuitamente. La cifra necessaria, a spanne ma verosimile, potrebbe andare dai 50 ai 100mila euro. Una cifra ridicola, rispetto al valore dell'Archivio, ma che può diventare enorme se inserita nell'attuale situazione patrimoniale della testata.
Perlomeno, sarebbe gradita una presa di posizione di chi ancora all'Unità ci lavora, o meglio la dirige, o di chi ne è ancora azionista, ovvero il PD. Giusto per rispetto dei lettori, di ieri e di oggi, e di tutti quelli che in 93 anni hanno sostenuto la testata. Contributi pubblici all'editoria compresi.
NOTA La vicenda s’è sviluppata, per seguirla si va qui:
L'#ArchivioUnità scomparso dall'Internet
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