Tumgik
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Lettera di Persefone, dea degli inferi:
Sono forse foglie quelle che vedo scendere davanti ai miei occhi? Magari sono piume, nere come il catrame o rosso intenso come sangue. Perché non entrambi? I miei piedi… I miei piedi sono immersi nella nebbia. Sento le mie mani leggere e il mio corpo vuoto e pieno nello stesso momento. E se fossero pietre quelle che sento abbattersi al suolo nel mio cuore? Vorrebbe, forse, dire che esso batte ancora? Vi prego, aiutatemi, c’è qualcuno che mi sta ascoltando? La mia voce è stata tramutata in brezza gelata? Avvertite qualcosa di molto freddo carezzarvi l’attaccatura dei cappelli sulla nuca? Non respingete i vostri sentimenti, sono qui. Anche se, qui, non so dove sia, ma vi osservo mentre trattenete il respiro, mentre vi stringete a voi stessi, con le braccia, a trattenere un brivido. Mi manca sentire la pelle di un altro corpo che scivola sotto le mie mani, mi manca poter solo vedere e mai accarezzare. Strano, non avrei mai pensato, prima, che potessi avvertire una sensazione in maniera così netta. Non volevo più sentire nulla, non mi interessava quando lui non era vicino a me. Ogni cosa aveva la stessa consistenza della polvere, cenere di fornace, non argenteo pulviscolo di luna. Poco più che sabbia vetrificata erano diventate le mie lacrime. Se voi foste me, avreste accettato qualsiasi cosa purché quel supplizio terminasse.Meglio la morte che una vita inesistente di inerzia forzata, non credete? Mi bastava solo un tocco, un unico sfiorarsi di indici. Questo sarebbe stato sufficiente.
Ho chiesto troppo all’acqua scrosciante sul tetto di quella casupola dove vivevo. Mura che dividevo con mia madre. Lei mi amava ma l’affetto materno, a volte, quando vorresti essere accarezzata dalla tempesta, è solo poco più di una brezza leggera: non basta per destare il cuore, la pelle e la passione. Anelavo l’Amore, per una sola volta, anche se sapevo di non meritarlo, anche se sapevo che altri ne bisognavano più di me. Lo volevo nel mio cuore, tra le mie braccia, nella mia testa e tra le mie lenzuola. Non ero come la donna che chiamavo madre, non era il dono ad appassionarmi, volevo ardere, volevo comprendere per quale motivo io esistessi. Volevo conoscere la follia e l’ansia delle mie domande. Io, figlia delle messi e dei boccioli di primavera, potevo fare simili domande? Se bastasse scrivere sui muri della grotta di Ade, se lui ascoltasse la mia preghiera sommessa forse potrebbe aiutarmi. In fondo, ho chiesto alla pioggia e lei rifugge dal suolo nascondendosi tra i meandri della terra, potrebbe essergli giunta una goccia a sussurrargli la mia voce. Lo chiamarono rapimento, non era quello il termine esatto. Io lo avevo chiamato ed era bastato uno sguardo, nulla più di quello. Due mani si erano congiunte, poi le braccia, infine eravamo un intreccio di corpi. La morte che si insinua nella vita. La vita che si insinua nella morte. Due mondi lontani, appartenenti l’uno all’altra. Ade, conosciuto per essere un sinistro sussurro nella voce delle caverne stregate, un oscuro abitante dell’esistenza. Mentre io, Persefone, ero l’emblema dell’esatto contrario. Ci siamo rapiti, questo è più esatto. Due corpi sulla soglia di due mondi, uno nell’altro, stretti e lontani, deliranti e doloranti, persi in un supplizio che sa di sole e terra, che sgorga in un sangue aspro e dolce. Volevo avere l’altra parte di me stessa ma quello che mi è stato dato è il seme dell’uomo che conosce solo la fine di ogni inizio. Finalmente mi sentivo viva ma non mi appartenevo più: esistevo nella morte e lei esisteva in me. Risalire la china della conoscenza, dopo un amplesso così folle e profondo, è inspiegabile. Nei nostri incontri, scontri, sudori e baci, ho scoperto che ero io il tramite: siamo, in realtà, tutti vivi ma anche il contrario, diventeremo rugiada e sangue, cos’altro potrebbe essere l’esistenza se non un flusso? Com’è avaro colui che non ha pazienza. Nella contemplazione di noi stessi avevamo perso la nozione del tempo. Ordinarono di restituirmi alla terra a cui appartenevo, dissero che non ero un suo diritto. Gli chiesero di rinunciare a me, come se mi avesse costretta. Solo un’anima, avrebbe dovuto rinunciare solo a quella. Cosa sarebbe mai cambiato nel suo regno a causa della mancanza di una sola presenza? Una voce mancante nell’eco dell’eternità, forse? Cedere un’anima non è poca cosa se hai timore del vuoto, non siamo così dissimili. Non ho mai pensato che laggiù potesse avere paura di qualcosa, di una dissonanza nel silenzio infinito di mille saggezze che avevano terminato il loro tempo. Anche io ho paura del silenzio, ne ho sempre temuto la risonanza. Lui aveva paura di perdere me, io non volevo perdere lui. Per questo rubai il frutto dell’eternità e lo legammo alla mia anima: ci avrebbero separato, solo per poco. Si paga per un pegno d’amore, sapete? Si vive in una continua bolla di vuoto, sospesi tra l’abisso e la terra, con un piede sul ciglio e un altro sullo strappo di un cuore spezzato che urla. Ne odo la voce in continuazione, è questa la mia pena: la stessa per entrambi. Una coercizione, se volete. Quando siamo separati, siamo condannati da noi stessi, a sentire, in ogni accezione del termine, il nostro cuore che cede, crolla e non smette di provare dolore pur anelando la fine di tanto bruciore. E ancora non cessa di battere. Ero morta in vita e chiesi, pregando, la mia anima. Come ho detto, la chiesi implorando alle gocce d’acqua tempestose e supplicai sul fiume di sangue di cui sono stata sorgente e foce nel richiamo dell’antica volontà del dio custode di ogni esistenza. Ho avuto molto più di quello che desideravo.
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