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#politiche securitarie
gregor-samsung · 8 months
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" A Gaza la scrittura della Storia inizia a essere possibile attraverso un "archivio della distruzione". Un archivio che, in seguito all'operazione "Piombo fuso", il ministero dei Lavori Pubblici e dell'Edilizia ha intitolato "Verifica della distruzione di edifici provocata dagli attacchi israeliani durante l'occupazione". Gaza, la roccaforte di Hamas evacuata unilateralmente dagli israeliani nel 2005, è da tempo interamente circondata da una barriera, come Varsavia [durante l'occupazione nazista] ma con il triplo degli abitanti, stritolati in una gabbia nella quale — come rivela un documento militare intitolato Linee Rosse —, tra le altre cose, i militari israeliani calcolano lo "spazio di respiro", cioè il tempo che rimane prima che le persone inizino a morire di fame. Tutto questo mentre imprese come la Elbit Systems fanno affari d'oro: nel 2014, ad esempio, in un solo mese di attacco a Gaza i suoi profitti sono aumentati del 6 per cento. "I check-point e i terminal del muro," scrive [Eyal] Weizman [in “Architettura dell'occupazione”], "funzionano come valvole e interruttori", la soglia di sopportazione del milione e mezzo di abitanti della Striscia è "costantemente sottoposta a sollecitazione" e il Muro è una vera e propria "strategia di guerra". Quindi va documentata, per gli storici del futuro. "Gaza è un laboratorio in molti sensi," prosegue Weizman, "una zona chiusa ermeticamente, in cui ogni accesso è controllato da Israele", ad eccezione del varco egiziano, un laboratorio in cui viene sperimentato "ogni tipo di tecnologia di controllo, munizioni, strumenti legali e umanitari, tecniche di guerra. Viene cioè sperimentata la capacità di controllare un'ampia popolazione, per poi rivendere queste tecnologie sul mercato internazionale". E questo nel nome della "guerra al terrore'', come nel caso dell'operazione "Piombo fuso", appunto, durante la quale le case lungo il perimetro della barriera erano state distrutte perché i veicoli militari si potessero muovere con più agilità. "
Carlo Greppi, L'età dei muri, Feltrinelli (collana Varia), 2019; pp. 237-38.
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raffaeleitlodeo · 1 year
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La questione del reato di tortura è  molto più grave e seria delle parole di Meloni sulle fosse Ardeatine. Non voglio stilare graduatorie,  sia chiaro, e nemmeno minimizzare. Penso però che sulla questione antifascista non vi è nulla che si possa ottenere e ancor meno che su questo si possa indebolire Meloni. La questione arresto-detenzione-carcere-torture è invece primaria. È vitale per la nostra democrazia. È qui che si misurera' se il rapporto tra cittadini e Stato, tra tutela del corpo e politiche securitarie, possono inceppare l'azione delle destre italiane. Detto in altre parole, se l'Italia può stare in Europa o se invece il suo sistema giudiziario e di polizia si avvicina sempre di più a quello della Russia di Putin - un Paese che oltre che esecrabile è per molti una tentazione.
Peter Freeman, Facebook
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paoloxl · 3 years
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Padova risponde all’aggressione poliziesca subita da un giovane di origine africana: “No Justice No Peace!” | Global Project
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Padova – in pieno giorno e nella centralissima via Roma – succede che tre agenti della polizia municipale fermino un ragazzo di origine africana, gli stringano il collo, lo scaraventino a terra e lo blocchino per diversi minuti comprimendogli il torace. Una scena purtroppo vista tante volte in giro per il mondo, che immediatamente rimanda a quanto accaduto poco meno di un anno fa a Minneapolis, a quel “I can’t breathe” disperato urlato da George Floyd in fin di vita, a quell’uccisione che ha rotto gli argini di secoli di razzismo e privilegio bianco. L'unica "colpa" del ragazzo sarebbe stata quella di aver pedalato in pista ciclabile contromano.
Padova non è Minneapolis, per fortuna in questo caso. Ma l’episodio poteva avere conseguenze molto più gravi se non ci fossero stati le proteste dei passanti e le riprese fatte da un ragazzo con il suo smartphone e diffuse sui social network. Le scene fanno il giro del web e suscitano immediatamente un moto spontaneo e collettivo di indignazione, tanto più che l’episodio accade il 25 aprile, in una città che ancora ricorda l’eroismo della Resistenza al nazifascismo e che vanta di avere un ateneo – l’unico in Italia – che ha ricevuto la medaglia d’oro al valor militare.
Ma non occorre andare troppo indietro con gli anni per ricordare quanto Padova sia poco incline a subire inerme episodi di sopraffazione simili e in particolare contro gli abusi in divisa. Basti ricordare la partecipazione di massa in sostegno a Black Lives Matter, culminata nel grande murales colorato che fiancheggia corso Milano per denunciare proprio la morte per soffocamento di George Floyd.
In poche ore è stato lanciato un presidio sotto la sede del Corpo di Polizia Municipale, in via Gozzi, che ha richiamato tantissime persone. Nel corso del presidio è stato affisso sulla sede uno striscione con la scritta “No Justice No Peace”, che richiama le mobilitazioni globali contro gli abusi di polizia. Numerosi interventi al microfono, molti dei quali fatti da persone di origine non europea e da seconde generazioni, hanno denunciato il carattere sistemico di questi episodi, soprattutto quando commessi ai danni di soggetti razzializzati.
Sono state raccontate le paure e le angosce delle persone non bianche nel circolare nella città in cui vivono, gli sguardi sempre minacciosi da parte delle forze dell’ordine, la costante aria di intimidazione sociale che si è aggravata con le misure per contenere il Covid. È stato inoltre chiesto a gran voce l’istituzione immediata di strumenti per “controllare i controllori”, come ad esempio il numero identificativo per le forze dell’ordine, e la destinazione di risorse utilizzate per l’ordine pubblico a sanità e welfare. E infine sono state indicate le responsabilità politiche di chi governa la città, che troppo spesso si trincera dietro proclami di giustizia e integrazione, ma che non ha mai fatto realmente passi in avanti per uscire dalle classiche logiche securitarie.
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Sono in molti, facebook compreso, ad essere convinti che oggi sia la festa della donna. Peccato che da festeggiare non ci sia proprio nulla. 
Dall’inizio dell’anno sono state uccise già 22 donne. Il corpo delle donne continua a non essere rispettato e ad essere utilizzato per giustificare politiche securitarie e razziste, mentre chi lavora per prevenire gli stupri e le violenze viene costantemente ostacolato. Il precariato e la disoccupazione minano l’autonomia rendendo ancora più difficile uscire dalla violenza, per chi ne è vittima, e costringendo tante a rinunciare alla maternità, o a viverla come castrante. La L. 194 sul diritto all’aborto è sempre più svuotata, con un numero di obiettori che non accenna a diminuire, con l’obiezione che, senza alcun fondamento giuridico, dilaga anche nelle farmacie e con un governo che nega il problema ma poi sanziona le donne che ricorrono all’aborto illegale. 
 No, questa non è affatto una festa. 
L’otto marzo è la Giornata della Donna: un momento importante in cui sarebbe giusto ricordare le lotte delle donne per la faticosa conquista di diritti che diamo per scontati ma che sono un’acquisizione recentissima. Quest’anno, una parte di questa storia ce la ricorda un film, Suffragette, che ripercorre le lotte delle donne inglesi per l’accesso al diritto di voto. 
In Italia le donne hanno votato per la prima volta nel 1946. Prima di quella data, stando alla legge, non erano abbastanza intelligenti per avere voce in capitolo in merito alle vicende dello stato. Prima del 1975, in virtù della potestà maritale, le donne erano, per legge, sottomesse al marito. Prima del ‘71 non avevano diritto ad utilizzare degli anticoncezionali, prima del ‘78 ad abortire, prima del 1996 non avevano diritto a vedere riconosciuto lo stupro come crimine contro la persona, ma solo contro la morale pubblica. 
Per secoli, le donne sono state il “secondo sesso”, inferiori e sottoposte a tutela. La lotta e il sacrificio di tante hanno garantito alla generazione contemporanea un presente diverso. Partigiane, femministe, filosofe, scrittrici, giuriste e semplici donne, come Franca Viola, che hanno scritto pagine di storia con il loro esempio di coraggio, hanno contribuito a disegnare un mondo diverso.
L’otto marzo bisognerebbe ricordarle tutte e ricordare, con loro, la loro forza e la loro capacità di lottare per conquistare da sole i propri diritti. 
Questa data è stata progressivamente svuotata di significato. La storia, mai verificata, della strage delle operaie chiuse in una fabbrica per uno sciopero e morte in seguito ad un incendio, ha riempito questa giornata di paternalismo da un lato e vittimismo dall’altro. L’ha scritto molto bene Chiara Lalli su Internazionale l’anno scorso: “Non c’è dubbio, le donne bruciate in una fabbrica funzionano come mito fondativo. Ma non è che funzionano troppo? Perché un’origine passiva ha avuto la meglio su una di ostinazione e ribellione (che, in questo caso, era pure la versione vera)? È come se invece di Rosa Parks che rifiuta di sedere “al posto dei negri” sull’autobus ricordassimo la sua estromissione da quell’autobus. Una caduta invece di una rivendicazione lucida e intenzionale.”
Ecco, oggi si celebra la lotta prima che l’oppressione. 
E per questo oggi il pensiero va, prima di tutto a Berta Cáceres, la militante ambientalista onduregna che si è opposta per anni al modello di sviluppo neoliberista, uccisa il tre marzo scorso. Gabriele Crescente su Internazionale l’ha descritta così: “Berta Cáceres non era un’ambientalista, com’è stata descritta negli ultimi giorni dai mezzi d’informazione. Se avesse dovuto scegliere un termine, probabilmente si sarebbe definita una luchadora, una lottatrice. La lotta che ha combattuto per oltre vent’anni non era solo in difesa dell’ambiente: era prima di tutto una lotta politica, esistenziale. Era una lotta per la vita o la morte.”
Un altro pensiero va alle militanti curde impegnate in una lotta durissima contro l’Isis e oggetto della repressione turca e a tutte le migranti che affrontano rischi e sacrifici enormi per garantire un futuro migliore a se stesse e alle loro famiglie.
Tornando in Italia, oggi è il giorno in cui una mimosa andrebbe regalata (la presidente dell’UDI, Vittoria Tola ha dichiarato all’ansa che “regalare una mimosa ha il suo vero senso solo se il regalo avviene fra donna e donna per ricordare lotte comuni”) a tutte le donne che si battono contro la violenza con un lavoro quotidiano, costante, infaticabile e, spesso, frustrante.  
Alle operatrici dei centri antiviolenza che offrono assistenza psicologica e legale, forniscono accoglienza in luoghi sicuri e un aiuto concreto per ripartire da zero, il tutto con le difficoltà per la mancanza di fondi e con la minaccia costante dello sgombero, nel caso dei centri antiviolenza dei posti occupati.
Alle donne che combattono la battaglia culturale affinché venga estirpato il seme stesso della violenza. A tutte quelle che lottano contro gli stereotipi perché nessuno venga più lasciato indietro e perché s’impari fin da piccoli il rispetto reciproco e la parità. Alle donne che lottano contro i pregiudizi, le visioni oscurantiste e le minacce a cui spesso sono sottoposte per il loro impegno. 
A tutte le donne che combattono la loro privata battaglia contro la violenza, contro il precariato, contro le discriminazioni.
A tutte quelle che lottano perché il diritto all’aborto non venga svuotato di significato, che si battono contro l’obiezione di coscienza negli ospedali e nelle farmacie.
A tutte quelle che lottano perché la maternità non significhi esclusione dal mercato del lavoro, non sia sinonimo di dimissioni in bianco, precariato a vita e salari più bassi.
A tutte le donne che portano avanti, quotidianamente, la lotta per i diritti di tutti e per un mondo più equo e sostenibile.
L’ultima mimosa va agli uomini, a quelli che hanno fatto un passo indietro abbandonando gli atteggiamenti paternalistici e i miti del principe azzurro e dell’eroe salvatore, in favore di un’assunzione di responsabilità e di un’autoanalisi profonda, volta all’individuazione dei meccanismi della violenza e alla loro soppressione.
Che per tutte e tutti loro sia un buon otto marzo. 
8/3/2016 [Blog Pensieri DeGenerati - NewsTown]
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corallorosso · 3 years
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La riforma dei Decreti Sicurezza segna alcuni timidi passi in avanti. Tuttavia, per far fronte al razzismo odierno – che si manifesta tanto nel discorso pubblico, quanto nella pratica istituzionale – servirebbe molto di più. (...) L’ultima riforma dei Decreti sicurezza, pur se con qualche luce, rientra all’interno della lunga tradizione di leggi securitarie e repressive che hanno disciplinato le migrazioni. Come specificato da Lamorgese, la «sicurezza» rimane il contraltare con cui bilanciare le timide aperture su alcuni fronti. (...) Con la riforma, rispetto ai Decreti di Salvini, non scompaiono le sanzioni alle Ong – che diventano penali e non più amministrative – e aumenta la criminalizzazione di chi si ribella nei Cpr. Il Daspo urbano per selezionare e disciplinare la popolazione viene rafforzato. Rimangono le procedure accelerate di valutazione delle domande d’asilo, secondo l’approccio hotspot proposto dal Patto sull’immigrazione e l’asilo. Così come rimane la norma sulla revocabilità della cittadinanza.(...) In definitiva, questa riforma, pur introducendo alcune norme positive, non interviene sul razzismo strutturale. Le milizie e le forze di sicurezza libiche continuano a venire pagate per trattenere parte della popolazione “in eccesso” a distanza. Chi arriva in Italia via mare – su navi spesso tenute fuori dai porti anche sotto il governo Conte II -, con il pretesto della pandemia, continuerà a venir rinchiuso in navi-lazzaretto, per poi esser messo nei Cpr senza poter fare domanda d’asilo, pronto per l’espulsione. I confini della “Fortezza Europa” sono porosi e le persone non smetteranno di attraversarli ma l’accesso deve rimanere pericoloso e la detenzione e il rischio di venir deportati, devono continuare a segnare l’esperienza di chi accede allo spazio europeo. L’esclusione dai diritti fondamentali, per via legale o de facto da parte della amministrazione o della polizia, dei non-cittadini rimane. D’altronde, la cittadinanza nazionale istituisce una discriminazione legale, che può esser radicalizzata – dietro alla apparente naturalità della differenza nazionale – per via normativa e amministrativa. In quello che sempre più si configura come un apartheid europeo – come lo hanno chiamato Étienne Balibar e Sandro Mezzadra – le discriminazioni e la retorica dello scontro di civiltà non servono tanto ad impedire l’ingresso dei migranti, quanto piuttosto ad inserirli in una posizione subalterna nelle società europee. Non a caso, anche dopo questa riforma, a resistere è il nesso tra politiche migratorie, di sicurezza e del lavoro. Si vuole, da un lato, produrre forza lavoro precaria e vulnerabile, espellibile all’occorrenza e regolarizzabile nelle emergenze – come con la parziale sanatoria di maggio. Dall’altro, si intende riprodurre un’identità nazionale altrimenti fragile e esposta alla sua contingenza. (...) C’è infine l’esigenza di tranquillizzare la popolazione nazionale sulla persistenza del potere sovrano a fronte dei fenomeni di erosione e trasformazione dello stesso. Si crea così un circuito di reciproca legittimazione tra illegalizzazione, discriminazioni a mezzo di legge e violenza nella società. Per interrompere questa spirale servirebbe una politica dell’eguaglianza radicale, ma si preferisce mantenere lo status quo. Bruno Montesano per "Il Manifesto"
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soldan56 · 5 years
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È in corso da anni una guerra, combattuta tra le strade delle città, contro poveri, migranti, movimenti di protesta e marginalità sociali. Le sue armi sono decoro e sicurezza, categorie diventate centrali nella politica ma fatte della sostanza di cui son fatti i miti: Furio Jesi chiamava idee senza parole gli artifici retorici di questo tipo, con cui la cultura di destra vagheggia fantomatici «bei tempi andati» di una società armoniosa. Lo scopo è cancellare ogni riferimento di classe per delimitare un dentro e un fuori, in cui il conflitto non è tra sfruttati e sfruttatori ma tra noi e loro, gli esclusi, che nel neoliberismo competitivo da vittime diventano colpevoli: povero è chi non si è meritato la ricchezza. Il mendicante che chiede l’elemosina, il lavavetri ai semafori, il venditore ambulante, il rovistatore di cassonetti, dipinti come minacce al quieto vivere. I dati smentiscono ogni affermazione ma non importa, la percezione conta più dei fatti: facendo appello a emozioni forti, come la paura, o semplificazioni estreme, come il «non ci sono i soldi» per le politiche sociali, lo scopo delle campagne securitarie diventa suscitare misure repressive per instillare paure e senso di minaccia. A essere perseguita non è la sicurezza sociale, di welfare e diritti, ma quella che dietro la sacra retorica del decoro assicura solo la difesa del privilegio. Sotto la maschera del bello vi è il ghigno della messa a reddito: garantire profitti e rendite tramite gentrificazione, turistificazione, cementificazione, foodificazione. Wolf Bukowski ripercorre come l’adesione della sinistra a questi dogmi ha spalancato le porte all’egemonia della destra. Una perlustrazione dell’«abisso in cui, nel nome del decoro e di una versione pervertita della sicurezza, ci sono fioriere che contano come, e forse più, delle vite umane».
Perché sdraiarsi su una panchina sarebbe indecoroso e incivile? Perché una persona civilizzata non lo farebbe. Perché una persona civilizzata non lo farebbe? Perché è indecoroso e incivile. Tutte le apparenti spiegazioni si alimentano (e quindi si annullano) a vicenda, e il residuo che lasciano è solo la sagoma del noi che si arroga il diritto di scacciare loro, gli altri.
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pollicinor · 6 years
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E' un grandioso paradosso come il Movimento 5 Stelle, giunto al potere, stia seguendo le orme e perfino lo stile dell'odiato nemico, il Pd di Renzi. Una strategia nota come "suicidio politico in tre sole mosse". Prima mossa, raccogliere un enorme consenso popolare sbandierando temi sociali, la rottamazione delle classi dirigenti, la giustizia sociale, la lotta alla povertà. Seconda mossa, conquistato il potere ecco la Grande Svolta a Destra, dalla solidarietà al darwinismo sociale: recupero di vecchi arnesi di classe dirigente di destra (Savona, Moavero Milanesi, Tria e così via), un premier che pare la versione provinciale di Mario Monti, politiche securitarie, la riverenza per i nuovi oligarchi, da Trump a Macron, la lotta alla povertà riconvertita in guerra ai poveri. Il tutto benedetto e rivendicato con orgoglio da un giovane leader affamato di potere, Luigi Di Maio, per il quale l'importante è andare a comandare, presto, comunque e con chiunque, rinunciando da subito a qualsiasi velleità progressista. Poi si potrà sempre rivendersi come cambiamento uno spregiudicato e famelico spoil system. Anche qui, ci ricorda qualcuno? La terza mossa sarà il suicidio elettorale, che s'intravvede già ora, in piena luna di miele con l'elettorato, nel tracollo di voti a destra in favore dell'originale (Salvini) e a sinistra verso l'astensionismo
Dall’articolo "Il suicidio politico del M5s in tre sole mosse" di Curzio Maltese
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novalistream · 4 years
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LE NOSTRE CITTÀ SONO MILITARIZZATE COME ZONE DI GUERRA MA DEFINIAMO VIOLENZA L’USO DI UNA MASCHERINA (...) Nel suo articolo “Città come campi di battaglia: il nuovo urbanismo militare, pubblicato sulla rivista City e diventato un punto di riferimento per gli studi urbani, il professor Stephen Graham dell’Università di Newcastle, nota una costante militarizzazione della vita civile, basata sull’entusiasmo per quanto offrono le nuove tecnologie di controllo. Queste sono in grado di sfruttare la rete di consumo e mobilità già esistente nelle città, e l’accesso ai database di sorveglianza, per identificare cittadini classificabili come potenziali minacce alla sicurezza. L’idea è quella di applicare alla città il modello di controlli tipico di un aeroporto tramite l’uso di tecnologie come la videosorveglianza, il tracciamento biometrico e i droni equipaggiati con nuove piattaforme satellitari, recentemente sperimentati a Torino. Inoltre, vengono implementate tutta una serie di tattiche già in uso in zone urbane militarizzate come Baghdad o Gaza: dalla creazione di aree di protezione fortificate intorno ai centri finanziari o politici all’uso di armi non letali per il controllo dell’ordine pubblico durante le manifestazioni. In contesti di applicazione del diritto civile viene già ora eseguita un’identificazione sociale delle persone, spiega Graham, affiancata, quando non sostituita, dalla distinzione dei civili in possibili “bersagli”. La militarizzazione urbana non si limita all’uso di tecnologie innovative. Nella trasformazione della città in un campo di battaglia, sono utilizzati anche strumenti culturali e linguistici che riverberano il contesto militare, nei discorsi politici e sulle pagine dei giornali. Questo è visibile soprattutto quando si parla di periferia, che diventa teatro di “guerra tra poveri”, “guerra allo spaccio”, e “guerra” tra istituzioni e criminalità o fondamentalismo religioso (quest’ultimo specialmente dopo gli attentati in Francia tra il 2015 e 2016). Anche in Italia le politiche sulla sicurezza nelle città stanno avendo un ruolo sempre più importante nel dibattito pubblico e destano un rinnovato interesse nelle amministrazioni. Il “Paese dei mille campanili”, sebbene a fasi alterne, non è infatti esente dalla spinta centripeta verso agglomerati urbani sempre più vasti. In una realtà come quella italiana, i cittadini urbani sono il 36% del totale, circa 22 milioni secondo l’Istat, e la città è al centro dei flussi globali di persone e merci, generando la maggior parte della ricchezza prodotta sul territorio nazionale. Per capire come gestire questa nuova dimensione urbana dal peso sempre maggiore, è stata istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie nel 2016. Il report presentato dalla Commissione dipinge un quadro alquanto sconfortante. La periferia emerge come area in cui vive la maggior parte dei cittadini urbani (l’83% secondo i dati dell’Eurostat), ma anche quella in in cui si riscontrano maggiori fenomeni di illegalità. Teatro di “conflitto sociale tra ceti deboli, fra italiani impoveriti e migranti senza certa collocazione”, recita la relazione, e in cui il degrado ambientale e abitativo e la mancanza di servizi pubblici e presidi istituzionali lasciano ampio margine di azione alla criminalità organizzata e all’abusivismo. Le linee d’azione indicate dalla Commissione sono state essenzialmente due: la rigenerazione urbana (di cui un esempio è l’abbattimento delle Vele di Scampia) e il rafforzamento del controllo sul territorio con l’implementazione delle politiche sulla sicurezza. In quest’ultimo ambito il dossier fa riferimento alla celebre “teoria delle finestre rotte” brevettata nella New York di Rudy Giuliani per combattere il degrado, identificato come uno dei maggiori elementi che danno una percezione di insicurezza anche nelle periferie italiane, dove pure si registra un calo significativo dei principali reati (tranne dei femminicidi). La Commissione raccomanda l’“utilizzo di tutte le forme di sicurezza passiva” anche attraverso la tecnologia. In questo senso, un mezzo su cui si è fatto leva è quello della videosorveglianza, per la cui installazione, con il decreto legge del 20 febbraio 2017, si sono erogati milioni di euro in finanziamenti per i comuni che ne facevano richiesta. In particolare, nel triennio 2017-2019 sono stati stanziati 37 milioni di euro per l’installazione di “piattaforme di videosorveglianza 2.0 che prevedono anche la partecipazione di soggetti privati”. (...) Il problema è che spesso questo si traduce in una profilazione etnica, in cui ancora una volta sono le minoranze a essere penalizzate. Il rischio è un aumento di controlli verso zone considerate disagiate o residenti stranieri che le abitano, aumentando i preconcetti già esistenti verso queste due categorie e la loro marginalizzazione. (...) La maggiore presenza delle forze dell’ordine sul territorio è stata ulteriormente rafforzata dall’operazione “Strade Sicure”, in cui un contingente militare “agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza”. L’operazione, la più pesante in termini di risorse impiegate per l’esercito, è stata prorogata ininterrottamente dal 2008 generando una percezione costante di città “blindata”, in cui personale armato presidia i luoghi di aggregazione, diventando sfondo della nostra socialità. (...) Alla richiesta dei cittadini di una maggiore presenza dello Stato nei quartieri più a rischio, si è risposto con un aumento del controllo, sfumando i confini tra civile e militare, pubblico e privato. Controllo che si ramifica in ogni aspetto della vita del quotidiano, compresi gli spazi virtuali, che forniscono quei dati indispensabili al funzionamento della macchina. Le ricadute sociali di queste politiche securitarie, se non accompagnate da un impegno altrettanto intenso per quanto riguarda politiche di sviluppo, abitative e di integrazione, sono per il momento solo un’ulteriore emarginazione degli spazi periferici e dei suoi abitanti, una ghettizzazione altamente tecnologica di interi quartieri e la profilazione delle persone che ci vivono. DI ANASTASIA LATINI per The Vision
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untitled42566 · 5 years
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In nome del decoro, a Senigallia la presentazione del libro di Wolk Bukowski
In nome del decoro, a Senigallia la presentazione del libro di Wolk Bukowski
In nome del decoro, a Senigallia la presentazione del libro di Wolk Bukowski
SENIGALLIA – “Sicurezza”,“decoro”,“degrado”, sono le parole chiavi che in questi anni hanno scandito le politiche securitarie nelle città, siano esse grandi metropoli o centri di provincia. In realtà sono l’espressione di una vera e propria guerra, combattuta tra le strade, contro poveri, migranti, movimenti di protesta…
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ecomy · 5 years
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Spagna, politiche di welfare e niente larghe intese: il “segreto” di Sànchez che la sinistra Ue ha abbandonato. Perdendo
Spagna, politiche di welfare e niente larghe intese: il “segreto” di Sànchez che la sinistra Ue ha abbandonato. Perdendo
La Spagna chiede più politiche sociali e riconferma il Partito Socialista come prima forza nazionale, “nonostante” quasi un anno di governo. In un clima europeo in cui le sinistre puntano sull’allargamento al centro, ampie coalizioni o rincorse a destra in economia o con politiche securitarie, il capo del governo Pedro Sánchezè passato all’incasso grazie alla salda fedeltà alla tradizione. E’…
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gregor-samsung · 5 years
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Alla fine del 2003, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite chiede alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja di esprimersi sul Muro israeliano, che l'anno successivo viene condannato dal parere consultivo — dunque non vincolante — espresso dalla Corte. L'intero progetto, costruito su terre occupate, vìola le norme del diritto internazionale e non è per nulla pensato — si sostiene — in funzione difensiva ma per annettere di fatto intere zone della Palestina, minando a «spezzettare» il territorio sul quale i palestinesi dovrebbero poter esercitare il loro diritto all'autodeterminazione. Quattordici giudici su quindici sostengono che Israele sia «obbligato a porre termine alle violazioni del diritto internazionale di cui è l'autore», «tenuto a cessare immediatamente i lavori di costruzione del muro che sta costruendo sul territorio palestinese occupato», e a «smantellare immediatamente l'opera», e tredici di loro aggiungeranno che «tutti gli Stati sono obbligati a non riconoscere la situazione illecita derivante dalla costruzione del muro e di non prestare aiuto o assistenza al mantenimento della situazione creata da questa costruzione» e a «far rispettare da Israele il diritto internazionale umanitario incorporato in questa convenzione». Ma il verdetto non sposta di una virgola la questione, perché «la natura elastica del muro, la sua capacità di auto-modificarsi in risposta alle forze in campo e alle negoziazioni», gli permette di assorbire anche le numerose cause che verranno intentate dai palestinesi, così ha notato Eyal Weizman [autore del saggio “Architettura dell'occupazione”, Bruno Mondadori, 2009] raccontando di come un avvocato palestinese — Wuhammad Dahla — abbia partecipato alla causa dell'Aja e, in contemporanea, abbia fatto ricorso contro Israele in una causa tenutasi a Gerusalemme presso la Corte Suprema israeliana. L'avvocato Dahla continuerà a lottare «contro l'illegalità dell'intero muro» e allo stesso tempo «contro i dettagli della sua realizzazione», contribuendo a ridefinire il tracciato per realizzare quello che Weizman definirà provocatoriamente «il migliore dei muri possibili», scrivendo che «chi chiede giustizia nel nome della legge deve essere cosciente della sua ambiguità».
Carlo Greppi, L'età dei muri, Feltrinelli (collana Varia), 2019; pp. 215-16.
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gregor-samsung · 5 years
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Dopo aver creato sette centri ad hoc per il monitoraggio dei confini terrestri, aerei e marini, il Consiglio dell'Unione Europea decide di andare oltre: ed è così che il 26 ottobre del 2004 nasce un ente dal nome altisonante, l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione Europea, in una parola, Frontex. "Pur considerando che la responsabilità del controllo e della sorveglianza delle frontiere esterne spetta agli Stati membri, l'Agenzia facilita e rende più efficace l'applicazione delle misure comunitarie esistenti e future relative alla gestione delle frontiere esterne. Lo fa garantendo il coordinamento delle azioni degli Stati membri nell'attuazione di tali misure, contribuendo così a un livello efficiente, elevato e uniforme di controllo delle persone e alla sorveglianza delle frontiere esterne degli Stati membri." Nelle undici pagine pubblicate sulla "Gazzetta Ufficiale" dell'Unione Europea naturalmente — e come può stupirci — non compare mai la parola "muro", né uno dei tanti sinonimi (barriera, rete, sistema di protezione) che esistono da decenni e che avrebbero spopolato negli anni a venire. La sede, per l'ironia tragica della Storia, si trova a Varsavia, a duecento metri scarsi in linea d'aria dal Muro dentro il quale era stata imprigionata una comunità immensa [=il ghetto ebraico creato dagli occupanti nazisti nel quale, al momento della sua recinzione nell'ottobre 1940, vi fu imprigionato quasi mezzo milione di persone, quasi tutte uccise in pochi anni dalla fame, dalle deportazioni e nei campi di sterminio – Nota di gregor-samsung].
Carlo Greppi, L'età dei muri, Feltrinelli (collana Varia), 2019; p. 219-20.
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gregor-samsung · 5 years
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Con il nome orwelliano di Alphaville, sulla "frontiera urbana" di San Paolo, la nascita del nuovo esperimento a macchia di leopardo su due municipalità realizzato dalla Construtora Albuquerque Takaoka con un muro di cinta alto quasi quattro metri è strettamente intrecciata con le strategie economiche e sociali della dittatura militare che tiene in pugno il Brasile all'inizio degli anni settanta, e che spalancheranno la strada alle imprese di costruzione private, aziende ampiamente sovvenzionate da fondi pubblici. In parallelo allo sviluppo di rapide arterie che collegano l'area alla città, rendendo l'esperienza altamente desiderabile, si capisce subito che se questo esperimento funzionerà bisognerà costruire muri più alti: se le città come San Paolo diventeranno delle city of walls, i ricchi e i poveri vivranno troppo vicini. Ma intanto si inverte il processo migratorio: la classe media comincia ad abbandonare in massa il centro, per andare a blindarsi in periferia dietro mura controllate dai vigilantes giorno e notte.
Carlo Greppi, L'età dei muri, Feltrinelli (collana Varia), 2019; p. 149.
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gregor-samsung · 5 years
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A Gaza la scrittura della Storia inizia a essere possibile attraverso un "archivio della distruzione". Un archivio che, in seguito all'operazione "Piombo fuso", il ministero dei Lavori Pubblici e dell'Edilizia ha intitolato "Verifica della distruzione di edifici provocata dagli attacchi israeliani durante l'occupazione". Gaza, la roccaforte di Hamas evacuata unilateralmente dagli israeliani nel 2005, è da tempo interamente circondata da una barriera, come Varsavia [durante l'occupazione nazista] ma con il triplo degli abitanti, stritolati in una gabbia nella quale — come rivela un documento militare intitolato Linee Rosse —, tra le altre cose, i militari israeliani calcolano lo "spazio di respiro", cioè il tempo che rimane prima che le persone inizino a morire di fame. Tutto questo mentre imprese come la Elbit Systems fanno affari d'oro: nel 2014, ad esempio, in un solo mese di attacco a Gaza i suoi profitti sono aumentati del 6 per cento. "I check-point e i terminal del muro," scrive [Eyal] Weizman [in “Architettura dell'occupazione”], "funzionano come valvole e interruttori", la soglia di sopportazione del milione e mezzo di abitanti della Striscia è "costantemente sottoposta a sollecitazione" e il Muro è una vera e propria "strategia di guerra". Quindi va documentata, per gli storici del futuro. "Gaza è un laboratorio in molti sensi," prosegue Weizman, "una zona chiusa ermeticamente, in cui ogni accesso è controllato da Israele", ad eccezione del varco egiziano, un laboratorio in cui viene sperimentato "ogni tipo di tecnologia di controllo, munizioni, strumenti legali e umanitari, tecniche di guerra. Viene cioè sperimentata la capacità di controllare un'ampia popolazione, per poi rivendere queste tecnologie sul mercato internazionale". E questo nel nome della "guerra al terrore'', come nel caso dell'operazione "Piombo fuso", appunto, durante la quale le case lungo il perimetro della barriera erano state distrutte perché i veicoli militari si potessero muovere con più agilità.
Carlo Greppi, L'età dei muri, Feltrinelli (collana Varia), 2019; pp. 237-38.
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paoloxl · 4 years
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Riprendiamo dal portale del CUA di Bologna questa ricostruzione di quanto avvenuto al CPR di Gradisca. Parliamo della morte di Vakhtang Enukidze, avvenuta nel silenzio mediatico ma riconducibile al sistema di vessazione e sfruttamento che sono i nuovi lager dei nostri territori. Vakhtang è l'ennesima vittima di un'organizzazione carceraria assolutamente bipartisan a cui mettere fine prima possibile. I CPR vanno chiusi!
Vakhtang Enukidze, morto al CPR di Gradisca, è morto di Stato!
Vakhtang Enukidze aveva 37 anni, veniva dalla Georgia e si trovava rinchiuso dentro il CPR di Gradisca. Vakhtang Enukidze è morto lo scorso sabato nell’iniziale silenzio di media e istituzioni.
Inizialmente si parla di un coinvolgimento di Vakhtang in un “pestaggio tra migranti del CPR avvenuto il 14 Gennaio” ma a seguito della diffusione di alcune testimonianze , provenienti da dentro il CPR, viene aperto un fascicolo verso ignoti per omicidio volontario.
Appena si comincia a parlare dell’inizio delle indagini il procuratore capo di Gorizia, Massimo Lia, riferendosi alle testimonianze dei detenuti, dichiara che “al momento sono mere illazioni. Stiamo infatti facendo indagini per verificare se c’ è stato qualcosa del genere o meno”.
Lunedì, a seguito di un sopralluogo nel CPR del Garante dei detenuti Mauro Palma, accompagnato dalla deputata Debora Serracchiani e dalla sindaca Linda Tomasinsig, lo stesso Garante annuncia la sua volontà di costituirsi parte civile nel processo.
Ieri (martedì) – riferiscono da dentro – durante la notte alle 4:00 di mattina tre ragazzi egiziani che avevano parlato con gli avvocati sulla morte di Vakhtang, sono stati prelevati dalle loro celle e rimpatriati. Erano i suoi compagni di cella. Pare inoltre che abbiano sequestrato i telefoni e che ci sia una paura latente tra tutti i detenuti di essere rimpatriati.
Nelle testimonianze dei prigionieri di Gradisca pare invece che non sia la prima volta che le FdO si comportano in maniera violenta con loro. Ci raccontano che a volte vengano fatti uscire in cortile da soli e poi picchiati, portati via e fatti ritornare una volta guariti. Una situazione che, come ben sappiamo, fin dalla loro riapertura (dei CPR) grazie all’ex-ministro degli interni Marco Minniti, richiama immediatamente a quella dei lager e della segregazione razziale, in nome di una legalità reazionaria e sovranista che, invece, ha trovato nuovamente ampio respiro nelle politiche securitarie promosse e propagandate da personaggi come Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
Come si apprende dalla pagina Mai più lagher – Nè in Emilia Romagna né altrove “sono ormai diversi mesi che gli ex Cie (ora CPR) stanno riprendendo a funzionare sul territorio italiano. A rompere il silenzio intorno a questi moderni campi di concentramento sono le continue rivolte ed evasioni che accompagnano queste aperture.
Da Bari a Torino fino al CPR di Gradisca si susseguono in questi giorni le proteste di reclusi e solidali mentre sono già due le vittime di queste strutture dall’inizio dell’anno: Aymen Mekni, ucciso dallo Stato nel lager di Pian del Lago a Caltanissetta il 12 gennaio 2020 e Vakhtang Enukidze, ucciso dallo Stato nel lager di Gradisca d’Isonzo il 18 gennaio 2020 (riaperto appena un mese fa).”
È notizia proprio di lunedì dell’apertura di uno dei tre CPR (a Modena a Milano e in Sardegna) la cui apertura era diventata uno dei cavalli di battaglia del PD con Minniti. La struttura di cui parliamo è quella dell’ex (molto poco “ex”) carcere di Macomer, nella provincia storica del Marghine in Sardegna. Una struttura che dovrebbe ospitare fino a 100 persone una volta terminata, la cui riapertura è stata accompagnata da una campagna di legittimazione proponendo nuovi posti di lavoro in favore di una presunta ricaduta economica per la cittadina che ospita il nuovo lager. Proposte di lavoro neanche troppo allettanti (non che se al contrario lo fossero cambierebbe qualcosa) a quanto già si può notare dalla pagina NoCpr Macomer, che comprendono contratti da neanche 8 euro netti all’ora e contratti fatti firmare all’ultimo momento senza possibilità di poterli consultare in anticipo.
D’altra parte non sono mancate le polemiche di un altro comitato cittadino “contro” l’apertura del centro, nato non perchè effettivamente contro il CPR in quanto lager dei giorni nostri, ma bensì dalla preoccupazione di una presunta invasione di barbari dalla pelle nera in città, ovviamente (secondo loro) delinquenti e ovviamente portatori di degrado. Rassicura subito la vicesindaca Rossana Ledda “”Abbiamo ottenuto tutte le rassicurazioni necessarie dalla Prefettura – dichiara la vicesindaca – ci è stato garantito il massimo dell’attenzione, mettendo a disposizione su questo fronte Carabinieri, Polizia e una vigilanza esterna alla struttura da parte dei militari della Brigata Sassari” (che culo!); e allo stesso tempo gioisce: “il Comune ha lavorato tanto negli ultimi anni per arrivare all’apertura del centro e fare in modo che ci fosse una ricaduta economica favorevole per la città. C’è una società che si è aggiudicata il bando di gara per i servizi interni: mensa, lavanderia, pulizie, infermeria. Tutto questo genera nuovi posti di lavoro e restituisce vitalità”. Lasciamo i commenti di queste dichiarazioni all’immaginazione di chi le legge.
“Per quanto riguarda la struttura modenese – si legge ancora sulla pagina “Mai più lager – Nè in Emilia Romagna né altrove” – di via Lamarmora, chiusa definitivamente dopo le numerose rivolte dei detenuti che l’avevano resa in gran parte inagibile e gli scandali della gestione in appalto al consorzio oasi, la gara di appalto e la riapertura, caldeggiata dai ministri degli interni (da Minniti, passando da Salvini fino all’attuale Lamorgese) continuano a slittare.”
Dall’autunno del 2019 si è ricominciato a parlare anche della possibile – o prossima – riapertura del CPR milanese.
Tornando a quanto accaduto a Vakhtang Enukidze nel Cpr di Gradisca, pensiamo che a prescindere dall’esatta o meno ricostruzione dei fatti, la sua morte è da considerare come l’ennesima morte di Stato. Perchè Vakhtang è morto dentro un CPR! Perchè i CPR sono luoghi di tortura, vessazione e annullamento delle persone e morte. Perchè la vita dentro i CPR prevede l’annichilimento di chi si trova rinchius@ in quei posti! Perchè chi ne ha ordinato la riapertura queste cose le sapeva benissimo ed è esattamente quello che voleva: una discarica sociale dove buttare dentro gli e le “irregolari”. E perchè sempre di Stato si parla quando si tratta dei Decreti Sicurezza del successore di Minniti, Matteo Salvini, che – per esempio – incrementano i tempi di permanenza in questi centri prima del rimpatrio forzato e abbassano le probabilità per cui si possono ricevere i permessi di soggiorno provocando così un aumento di probabili detenut@.
Dal canto nostro non possiamo che esprimere tutta la nostra rabbia per quest’altra vita spezzata e agire di conseguenza. È legittimo e doveroso pretendere che venga fatta verità e giustizia per Vakhtang Enukidze e per tutte le morti nelle prigioni di Stato, e per questo dobbiamo spenderci collettivamente affinchè si parli di quanto accaduto, ostacolando gli evidenti tentativi di insabbiare le ricostruzioni; pretendere la chiusura (e la non riapertura) di questi centri di morte e pretendere l’abolizione dei Decreti Sicurezza.
No ai Cpr! Mai più lager!
Anche questa volta sappiamo chi è Stato!
[ A questo link si può trovare l’audio e la sbobinatura delle testimonianze giunte da dentro il CPR di Gradisca ]
 
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soldan56 · 5 years
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Non è stato un caso che le due giornate abbiano trovato ospitalità nei due spazi minacciati dall’imminente rischio di sgombero: l’occupazione abitativa in Via del Caravaggio, il cui sgombero era stato appena sospeso e proprio domenica è stato ricalendarizzato per fine ottobre; e la casa delle donne Lucha Y Siesta.
Doveva essere proprio domenica 15 settembre, infatti, il giorno programmato per il distacco delle utenze e il conseguente sgombero della Casa delle Donne Lucha Y Siesta, uno spazio di resistenza femminista che in quasi dodici anni di attività ha dato accoglienza e sostegno a 1200 donne. La campagna Lucha alla città lanciata lo scorso 7 settembre ha saputo parlare molti linguaggi e mobilitare intorno a sé una pluralità di soggetti, attraverso la costituzione di un Comitato di Difesa – presieduto dalla docente femminista Federica Giardini – e il lancio dell’azionariato popolare per l’acquisto dello stabile, compreso nel concordato preventivo di Atac. L’attivazione immediata e trasversale per Lucha Y Siesta è riuscita per il momento a rimandare il distacco.
Alcune centinaia di attivisti e attiviste provenienti da ogni parte d’Italia si sono confrontati in due assemblee plenarie e sette tavoli tematici, che spaziavano dalla libertà di movimento al contrasto delle frontiere interne ed esterne, dalla condizione giovanile a quella lavorativa, dagli spazi sociali al diritto alla città, dalle lotte sul lavoro alle problematiche legate al reddito e al salario minimo, dalle politiche di welfare a quelle sull’abitare, fino alla lotta ai cambiamenti climatici.
L’ampiezza dei temi su cui si è discusso durante la giornata di sabato hanno poi trovato precipitazione nel corso dell’assemblea plenaria conclusiva, con la condivisione di un programma di mobilitazioni e rivendicazioni puntuali per il prossimo autunno.
Al centro della discussione, il ruolo dei movimenti sociali nel nuovo scenario politico italiano che vede al governo il Partito Democratico insieme al Movimento Cinque Stelle. Più che come il mero cambio di colore della formazione governativa, la “svolta” italiana è stata interpretata da più interventi come l’indicatore di un riassetto complessivo degli equilibri politici in Europa e come il tentativo in extremis di trovare una nuova forma di stabilizzazione e legittimazione alle politiche neoliberali europee, di fronte alla crescita dei neo-sovranismi in molti paesi e alla minaccia di una prossima e probabile recessione globale. La sbandierata volontà delle istituzioni europee di rivedere le politiche di austerity costituirà un nuovo terreno dove ridislocare l’azione dei movimenti sociali. Lanciata mesi fa, quando ancora era in carica il governo giallo-verde, la due-giorni romana si è dunque interrogata su come ridefinire l’iniziativa politica dei movimenti.
Oltre al rilancio degli appuntamenti già presenti nell’agenda (il 12 ottobre a Milano per la protesta contro il Cpr, il Centro per i Rimpatri, la manifestazione che si terrà il 18 ottobre a Roma al Ministero delle Infrastrutture per “il diritto all’abitare e le mobilitazione di Friday for future che porteranno allo sciopero globale per il clima del prossimo 27 settembre) l’assemblea plenaria ha lanciato una mobilitazione nazionale per l’abrogazione immediata dei due Decreti Sicurezza, con l’ipotesi di una manifestazione nazionale a Roma tra le fine di ottobre e l’inizio del mese di novembre.
Proprio lo stesso giorno in cui a Pontida Matteo Salvini prometteva battaglia e minacciava il ricorso a un referendum popolare contro i tentativi di modifica delle due leggi, a Roma si elaborava l’avvio di una campagna politica di mobilitazione sui territori per la loro completa cancellazione. Già dai report dei tavoli (di prossima pubblicazione) emerge chiaramente come la stretta securitaria contenuta nelle due leggi non sia affatto circoscritta alla limitazione del diritto alla protezione internazionale dei migranti e alla criminalizzazione delle forme della solidarietà in mare ma tagli trasversalmente tutti i temi sollevati: ad essere in gioco sono gli stessi spazi di agibilità democratica per i movimenti sociali, una forma di repressione preventiva che dal diritto alla mobilità per i migranti arriva fino alle nuove forme di lotta e allo stesso diritto al dissenso. Inoltre, se da più parti è stata ribadita la necessità di rimuovere i lasciti più reazionari dell’ultimo governo, d’altra parte forte è stata l’intenzione di superare i confini stretti dell’”anti-salvinismo: la torsione autoritaria che attraversa oggi l’Europa non si limita affatto ai governi a esplicita vocazione sovranista (basti vedere il neoliberalismo autoritario messo in campo da Macron in Francia, l’”anti-sovranista” per eccellenza), così come nel nostro stesso paese le politiche securitarie e di restrizione della libertà vantano una storia ben più lunga della parentesi salviniana e rischiano di prolungarsi e ratificarsi anche nel prossimo futuro.
Oggi i movimenti sociali hanno scelto di ripartire da qui, dalla messa in discussione radicale dei dispositivi di legge che sotto l’ombrello della “sicurezza” stanno minando le nostre libertà fondamentali, senza tuttavia limitarsi a questo: l’idea, è quella di convocare nuovamente a dicembre l’appuntamento assembleare per dare continuità a quell’elaborazione collettiva di analisi e rivendicazioni politiche su cui la due-giorni appena trascorsa ha solo posto le basi. Nuove campagne che si snoderanno a partire da molteplici campi di intervento: dal salario, al reddito, al welfare e al diritto all’abitare, fino a investire la questione ecologica, le politiche urbane e quelle migratorie.
Si tratta dunque di dotarsi di strumenti e proposte per aggredire una nuova fase politica fatta di contraddizioni del tutto aperte. Perché se è vero, com’è stato più volte rimarcato negli interventi, che la galassia dei movimenti sociali italiani non ha “governi amici” è anche vero che le diverse congiunture politiche devono aprire strade nuove e nuovi modi di attraversarle. La scala è gettata verso l’autunno.
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