Tumgik
#scrittori russi del '900
queerographies · 2 years
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[Viaggi immaginari][Michail Kuzmin]
"Viaggi immaginari" raccoglie due raffinati giochi letterari del poeta acmeista Michail Kuzmin, che sperimenta sul canovaccio del romanzo d'avventure settecentesco e del romanzo di viaggio inglese evidenziandone i temi erotici da lui rivisitati in chiave
Due romanzi brevi del più dandy e scandaloso fra gli scrittori russi del primo ’900. Nelle Avventure di Aimé Leboeuf l’ambientazione francese assicura peripezie amorose, pratiche stregonesche, scambi d’identità e continue sorprese. Il Viaggio di sir John Fairfax offre al lettore peregrinazioni mirabolanti, arrembaggi di pirati e incontri con improbabili spasimanti. Il divertimento è comunque…
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gregor-samsung · 2 years
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“ Adesso Serge e Andrej erano entrambi nella prima classe. Serge era alla sezione "principale" e Andrej alla "parallela". Avevano in comune le lezioni di catechismo, e allora si sedevano accanto. Una volta Andrej disegnò una vignetta durante l'ora di catechismo. Si chiamava Vogliate favorire, miei cari ospiti. La Karmanova la vide e ne fu molto scontenta. "Tutte queste pasquinate," prese a dire disgustata. "Solo chi è perfetto può permettersi di criticare." Ordinò a Serge di cambiare banco. Avevamo già festeggiato l'onomastico dell'erede e avevamo partecipato alla liturgia nell'anniversario della "salvezza a Borki"¹. L'indomani, non so in che posto molto vicino, una bomba esplose all'improvviso e fece un boato spaventoso, proprio mentre suonava la campanella e l'insegnante entrava lisciandosi la barba e facendosi il segno della croce davanti all'immagine, mentre il supplente aveva cominciato a recitare il Beatissimo. Quel giorno la scuola fu chiusa a tempo indeterminato. Mentre pranzavamo, nelle officine all'improvviso le sirene risuonarono in un modo particolare. Dopo un po' udimmo degli spari. Sul far della notte Evgenija andò a informarsi per noi e venne a sapere che quattro uomini erano stati fucilati. I rivoltosi li avevano presi e li portavano per la strada al lume delle fiaccole per sollevare il popolo. Andammo a vedere la sepoltura. I preti avanzavano con visi solenni. "Ecco quelle canaglie," disse la Karmanova e ci spiegò che secondo la religione sarebbero tenuti a stare per il governo, ma loro odiano la Russia e sono pronti a tutto pur di farci carognate. Dietro le tombe suonavano le orchestre delle officine e dei pompieri. Bandiere e stendardi con scritte avanzarono oscillando per quasi un'ora intera davanti alle nostre finestre e alla fine perdemmo interesse. Più tardi venimmo a sapere che al cimitero c'era stata una sparatoria durante la quale Vasja Strižkin era stato ferito da una scheggia. Poveretto, fino alla guarigione non poté né stare sdraiato sulla schiena, né mettersi a sedere. Perché non chiacchierassi, maman mi ordinò di leggere Opere di Turgenev. Le lessi con zelo, ma non mi piacquero più di tanto. Ricominciammo le lezioni più volte per poi rismettere. Cominciammo a usare parole come "meeting", "Centuria nera", "arancia",² "speck". Una volta, quando di nuovo ci fu sciopero, Serge e Andrej vennero da me e mi dissero che avevano appena sgominato la scuola tedesca. Si erano appropriati del giornale di classe. Il "Registro" iniziava così: "Anòchina, Bòldyreva"³. Mi misi a ridere, ma verso sera mi rattristai. Pensai che facevano tutti qualcosa di interessante, mentre a me invece non veniva mai nulla in mente. Anche dove lavorava maman c'erano ogni tanto degli scioperi. Lei era "di destra", ma scioperava volentieri. Una volta mi raccontò che il suo capufficio era stato a un meeting ma aveva deciso di non andarci più, perché mentre si trovava lì s'era accorto di condividere opinioni inammissibili. Lo lodammo. Anche Jampol'skij e Livšic davano dei talloncini con l'indicazione della somma spesa a ogni acquisto, e chi poteva esibirne per dieci rubli riceveva qualcosa. L'allievo Martinkevič, che su incarico del padre aveva comprato gli accessori di cancelleria, ricevette da Jampol'skij un album per versi. Quando noi eravamo a scuola a studiare lui esigeva che gliene scrivessimo. Io lo tenni a lungo quel piccolo album, mi tormentavo perché non sapevo che scriverci. C'erano dei versi intitolati Decotto di salvezza. Cominciavano così: Prendete un'oncia di mitezza aggiungetene due di pazienza. ed erano firmati "Con la mia benedizione, ieromonaco Gavriil". Risultò che il monaco della chiesa di fronte casa nostra era parente di Martinkevič. “
¹Il 17 ottobre 1888 a Borki, una stazione sulla linea ferroviaria Kursk-Charkov-Sevastopol', il treno su cui viaggiava Alessandro III fu colpito da una bomba dei terroristi di Narodnaja volja, ma lo zar e la sua famiglia restarono illesi; in ricordo vi fu fondato un monastero [N.d.C.]. ²Le “Centurie nere” erano organizzazioni antisemite che perseguitavano gli ebrei e organizzavano pogrom; le bombe artigianali fatte dai terroristi erano soprannominate "arance" [N.d.C.]. ³Ossia dei normalissimi cognomi russi [N.d.C.].
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Leonid Dobyčin, La città di enne, traduzione e postfazione di Pia Pera, Feltrinelli (collana I Narratori), 1995¹; pp. 70-72.
[Edizione originale: Город Эн, Krasnaya Nov editore, Mosca, 1934]
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pangeanews · 6 years
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“Quello lascialo sempre entrare”: Pasternak il poeta fondamentale del ’900. Intervista alla traduttrice del “Dottor Živago”
Boris Pasternak è l’artista centrale del Novecento. Lo è per l’opera, ovviamente. Pasternak è tra i poeti più grandi del secolo – basti leggere il poemetto Le onde – e uno dei prosatori più delicati. Il salvacondotto e soprattutto Il dottor Živago si sono impresse come opere indelebili, per quanto imperfette, perché ci sembra che, dal cuore della narrazione, ci sia svelato il segreto ultimo del vivere. Pubblicato, attraverso un escamotage da ‘spionaggio’ editoriale, da Feltrinelli nel novembre del 1957 – la vicenda è ricostruita dettagliatamente da Paolo Mancosu in Živago nella tempesta, Feltrinelli, 2015 – “Živago” va ben al di là del romanzo, come ha ricordato proprio Feltrinelli a Pasternak in una lettera rivelativa: “Živago ha impartito una lezione indimenticabile. Ora so che ogni volta che non saprò come andare avanti potrò tornare a Živago e imparare da lui la più grande lezione di vita. Živago sarà sempre accanto a me quando queste cose mi sembreranno perse per sempre, per aiutarmi a ritrovare i valori semplici e profondi della vita” (5 settembre 1958). Boris Pasternak non è il poeta più grande del Novecento – non c’è gerarchia nell’assoluto, ma più vasti di lui sono Saint-John Perse, Thomas S. Eliot, Rainer Maria Rilke – e non è il più grande romanziere – sono insormontabili James Joyce, Marcel Proust, Franz Kafka, Thomas Mann, William Faulkner. Eppure, è l’artista decisivo del Novecento, il più emblematico. Pasternak, che è stato nel cuore della Storia fino a udirne l’ossessivo rimbombo, incarna il poeta che evade dalla Storia, che è ben al di là delle cronologie e delle grammatiche del tempo. Come scrive Angelo Maria Ripellino – che riteneva, con una certa giustizia, che le poesie fossero la quintessenza di Pasternak e lo ‘Živago’ un’opera ‘minore’ – il massimo interprete di Pasternak in Italia, “Pasternak si ritrasse sin dagli inizi in una sua gelosa solitudine… e negli anni tumultuosi della rivoluzione si tenne ancora in disparte, diffidando dei temi politici e di quella poesia tribunizia in cui s’era invece tuffato Majakovskij con tutta l’anima. […] Egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo”. Falciato dalla Storia, ma invitto – nel 1958, dopo aver ricevuto il Nobel per la letteratura, che rifiuterà, accusato di “tradimento nei confronti del popolo sovietico”, scrive, con candida fermezza, all’Unione degli scrittori, “mi potete fucilare o deportare, potete fare quello che volete, vi perdono in anticipo” – Pasternak attraversa tradizioni e uomini – allievo di Aleksandr Skrjabin, amico di Rilke, passò la Seconda guerra a difendere l’Occidente traducendo Shakespeare e Goethe – con la pazienza di un geniale testimone, costellato da versi memorabili (“frequentando il futuro nella vita di ogni giorno/ non si può non incorrere, infine, come in un’eresia/ in un’incredibile semplicità”), consapevole che il tempo e le oscurità passano, falangi di falene impazzite, ma la poesia resta, “sempre eguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d’altezza celebrata”, come disse, sonnambulo, a Parigi, nel 1935, “essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’uomo”. Ora, 60 anni dopo, abbiamo, finalmente, una nuova traduzione, definitiva, del Dottor Živago (Feltrinelli 2017, pp.632, euro 19,00), quella compiuta da Serena Prina – già uscita in una ‘edizione speciale’ del cinquantesimo, nel 2007 – straordinaria traduttrice di Dosteovskij, di Lev Tolstoj, di Michail Bulgakov, di Nikolaj Gogol’, insomma, tra le grandi interpreti dei classici russi in Italia. Per me, da par mio, è ‘la neve di Pasternak’, vezzeggiativo che le ho affibbiato quando l’ho invitata al dialogo.
Parto in quarta. Angelo Maria Ripellino ritiene ‘Živago’ l’opera meno riuscita di Pasternak. Il vero Pasternak è nelle poesie (alcune delle quali, come si sa, per altro, stanno in appendice al romanzo). Lei concorda con questa opinione? Come si colloca ‘Živago’ nella grande tradizione del romanzo russo, quali i modelli principali?
“Parto dall’ultima di queste sue domande, per ricordare come l’inizio di Živago sia una diretta citazione dell’incipit della Guardia Bianca: il figlio (in Bulgakov i figli) al funerale della madre, con tutte le implicazione che quest’immagine potente poteva avere nella Russia di fine secolo (per Pasternak) e di una Russia al cospetto della rivoluzione (per Bulgakov). Živago si inserisce dunque prepotentemente, e consapevolmente, in quella tradizione di romanzi che si interrogano su ‘Dove va la Russia?’, tra i quali non posso non citare Le anime morte di Gogol’. E questa domanda a proposito di ‘dove va la Russia?’ per Pasternak, grande poeta, si fonde con il suo interrogarsi su ‘dove va la lingua russa?’. A parer mio Živago rappresenta il contributo, in prosa, a un ragionamento sul destino della poesia nel ’900”.
Poi. Che tipo di cambiamenti sostanziali ha operato rispetto alla ‘canonica’ traduzione di Zveteremich? Che linguaggio è quello del Pasternak prosatore?
“Quando Zveteremich, con grande coraggio e intuizione, insistette con l’editore Feltrinelli e contribuì in modo sostanziale alla decisione di pubblicare Živago, si trovò ad affrontare la traduzione di un’opera estrememente complessa con pochissimo tempo a disposizione. Le vicende che seguirono sono note. La primissima traduzione venne revisionata dalla Olsufieva e da Socrate, al quale si deve la traduzione delle poesie di Živago, e solo successivamente, negli anni ’90, Zveteremich poté ritornare sul testo in occasione della pubblicazione del romanzo nei ‘Meridiani’ Mondadori. Ciascuna di queste fasi fu naturalmente accompagnata da un ‘passaggio’ redazionale, e tra il testo originario e il lettore si sono progressivamente interposte varie voci: il risultato è un testo ‘perfetto’, levigato e scorrevole ma, almeno in qualche punto, non del tutto coincidente con lo spezzettarsi della frase pasternakiana (soprattutto nella seconda parte del romanzo), dove il testimone della rivoluzione quasi non trova più parole. Per quel che mi riguarda, ho avuto dalla mia il tempo (e quindi la possibilità di affrontare anche la traduzione dell’ultimo capitolo del romanzo, dove sono raccolte le poesie di Živago) e una redattrice di grande sensibilità, Annalisa Agrati. Tra il testo russo e il lettore c’è dunque una sola voce e la possibilità di cogliere il variare delle sue intonazioni senza subire interventi esterni. E di intonazioni, in Živago, ce ne sono davvero tante”.
Tra la prosa del Salvacondotto e quella di ‘Živago’ pare esserci, davvero, in mezzo, un mondo, una rivoluzione. Come influisce, a suo avviso, la storia nella scrittura di Pasternak?
“In Živago c’è la grande Storia, che si intreccia alla storia dei suoi personaggi, all’incrociarsi e allo smarrirsi dei destini in un’epoca inquieta. Ma, come ho accennato, c’è anche la storia di una lingua, soprattutto letteraria.
Leonid Pasternak, ‘Boris Pasternak mentre scrive’, 1919
Si parte dalla lingua anticorussa del canto funebre che apre il romanzo, si passa attraverso pagine gogoliane, a citazioni dirette di Puškin, Tolstoj, Tjutčev, Blok, si approda all’impatto con la nuova lingua sovietica, fatta di acronimi e apparente dinamismo, si sprofonda nell’afasia di un poeta che sembra non trovare più parole. Il tutto si intreccia alla lingua della natura e dell’amore tra Jurij e Lara, nella quale si manifestano le immagini caratteristiche della poesia pasternakiana. L’ipotesi finale proposta da Pasternak è quella di un ritorno a una lingua primigenia, conservatasi nel profondo della Russia e della quale nel romanzo è portatrice la figlia abbandonata di Lara e Živago. Il poeta non poteva certo immaginare cosa sarebbe invece successo alla lingua russa nel giro di pochi decenni”.
Nella Nota lei definisce Živago uno “jurodivyj che in silenzio attraversa mezza Russia, e che poi in silenzio siede in disparte nei salotti”. Lo jurodivyj è una figura canonizzata dalla letteratura russa: ce la spieghi.
“Il protagonista si chiama Jurij Andreevič e il romanzo ha inizio alla vigilia della festa del Pokrov, dell’Intercessione della Vergine, che si celebrava il primo (14) ottobre per festeggiare la comparsa della Madre di Dio al beato Andrej Jurodivyj. È Pasternak stesso, quindi, a sottolineare con forza il collegamento profondo tra il suo protagonista e, appunto lo jurodivyj, il cosiddetto ‘folle in Cristo’, colui che rinunciava a un ruolo sociale integrato in cambio della possibilità di denunciare gli abusi e le ipocrisie della società”.
Divago. Qual è il russo che le ha dato più gioia tradurre? Perché? E poi: perché la letteratura russa?
“Quando si parla di gioia nel tradurre si esclude Dostoevskij (il più amato), perchè lì c’è solo passione e tormento e fatica. Quindi direi Gogol’, con il suo genio assoluto, l’umorismo travolgente, il suo riso tra le lacrime. Perché il russo? Forse perchè un mio vicino di casa, un pianista russo emigrato, Il’ja Grinshtein, veniva a sentir musica con mio padre, e per ricambiare si offrì di insegnare il russo ‘alla bambina’. Così mi insegnò l’alfabeto, ogni pomeriggio salivo al piano di sopra, leggevo La signora col cagnolino e non capivo una parola, ma lui si beava della mia lettura, mentre la vecchia zia preparava il tè col samovar e la Russia mi entrava nel sangue. O forse perché una volta i ragazzini avevano il tempo di leggere, e quando si comincia a leggere i russi, non si può più smettere”.
Ultima. Che valore ha, oggi, la testimonianza poetica di un autore come Pasternak?
“Le risponderò raccontando un episodio forse poco noto su Pasternak e Bulgakov. Quando quest’ultimo, malatissimo e quasi morente, accettò di incontrare il poeta, i due rimasero a lungo a conversare, da soli. Poi Pasternak se ne andò, e la moglie di Bulgakov ricorda che Michail Afanasevič le disse: ‘A quello, lascialo sempre entrare’. Non ci fu un secondo incontro, pochi giorni dopo Bulgakov morì. Ma Pasternak è rimasto davvero un autore che bisogna sempre ‘lasciar entrare’”.
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gregor-samsung · 4 years
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“ «Hai mai letto qualche racconto di Isaak Babel'?» chiede Pavel. «Sì, certo.» Semën tace per un momento. «Una volta l'ho sentito leggere i suoi lavori, sai, forse undici anni fa, a un ricevimento letterario. Era uscita una mia recensione su una rivista che aveva pubblicato anche un racconto di Babel'. Quando ancora la sua stella era in ascesa. E la mia pure. All'università, certo. Dunque una stella molto, molto meno luminosa.» Da un altro tavolo proviene uno scoppio di risa. Il cameriere porta il tè e torna ad appoggiarsi allo stipite della porta. «Che cosa ne pensavi?» chiede Pavel. «Dell'uomo o dei suoi racconti?» «Dei racconti.» «Penso che siano preziosissimi. Prendi un racconto come Risveglio o La mia prima oca. Prendi Di Grasso. Quasi perfetti in ogni riga, non hanno niente da invidiare alle cose migliori che ho letto. Vale a dire che a mio parere alcuni meritano di essere annoverati tra i grandi racconti della letteratura.» «E Babel'? Com'era?» «Divertente. Molto divertente, a dire il vero. Sono rimasto sorpreso perché invece me l'ero immaginato serio. Serio e piuttosto triste come i suoi racconti, anche se un po' dell'umorismo che quella sera ho notato in lui di tanto in tanto traspare nelle sue opere. È un vero peccato che non pubblicasse di più» continua, «l'ho sempre pensato. Ma immagino avesse le sue buone ragioni.» Abbassa la voce. «Che sciocchezze passano per letteratura, al giorno d'oggi» osserva con amarezza. «Il realismo socialista: tutto socialismo e niente realtà. Fiabe per adulti che dovrebbero saperla abbastanza lunga da non cascarci. A volte mi domando come ci considereranno le generazioni future. Una manica di fannulloni idioti che sfilano in parata gridando quanto sono felici.» «E chi ti dice che ci prenderanno in considerazione?» ribatte Pavel dopo una pausa. «Forse non meritiamo nemmeno di essere ricordati.» «Sciocchezze. Io, se permetti, insisto per essere ricordato. Altrimenti che motivo avrei di essere tanto importuno?» «Allora magari ricorderanno solo te.» «Bene.» Semën sorride. «È già un inizio.» “
Travis Holland, Storia di un archivista, Guanda (traduzione di Elisa Banfi; collana Narratori della Fenice), 2008; pp. 164-65.
[ Edizione originale: The Archivist's Tale, The Dial Press, New York City, USA, 2007 ]
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gregor-samsung · 5 years
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Che cosa ci fosse per colazione, lei non lo diceva, ma era facile indovinarlo: patate lesse o minestra di patate o cascia d'orzo (altre granaglie non si potevano trovare, quell'anno, a Torfoprodukt, ma anche l'orzo si faceva fatica a procurarselo perché era il cibo più a buon mercato per i maiali e la gente lo comperava a sacchi). Non sempre la cascia era salata a dovere, spesso era bruciata e, dopo il pasto, sul palato e sulle gengive restava una patina e lo stomaco bruciava. Ma la colpa non era di Matrjona: a Torfoprodukt non c'era il burro, la margarina andava a ruba, e liberamente vendevano soltanto grasso artificiale. E poi la stufa russa, come mi accorsi, non è adatta a preparare il cibo: la roba cuoce nascosta alla cuciniera e il calore giunge alla pentola da varie parti in modo diseguale. Ma ai nostri antenati s'è tramandata dall'età della pietra perché, una volta ben accesa di primo mattino, mantiene in sé caldi per tutta la giornata il foraggio e il beverone per le bestie, il cibo e l'acqua per l'uomo. E sopra ci si dorme in un bel tepore. Io mangiavo docilmente tutto quello che m'era stato preparato, mettevo da parte con pazienza quel che mi capitava di trovare nel cibo: un capello, un pezzetto di torba, la zampina d'uno scarafaggio. Non mi bastava l'animo di rimproverare Matrjona. In fondo lei mi aveva avvertito: — Se non so far niente, neppure da mangiare, come ti contento? — Grazie, dicevo io con assoluta sincerità. — Di che? Della roba vostra? — mi disarmava lei con un sorriso radioso. E guardandomi ingenuamente coi suoi occhi d'un azzurro slavato, chiedeva: — E per la sera che cosa vi preparo? Mangiavo due volte al giorno, come al fronte. Che cosa potevo ordinare per la sera? Sempre lo stesso: patate o minestra di patate. Mi ero rassegnato a questo, perché la vita mi aveva insegnato a non trovare nel cibo il senso dell'esistenza quotidiana. Mi era piú caro quel sorriso del suo volto tondeggiante che, quando potei finalmente comperarmi una macchina fotografica, cercai invano di afferrare. Vedendo su di sé il freddo occhio dell'obiettivo, Matrjona assumeva un'espressione forzata o insolitamente severa. Soltanto una volta la fotografai mentre sorrideva, guardandomi dalla finestra nella via.
Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič - La casa di Matrjona - Alla stazione, (traduzioni di Raffaello Uboldi, Vittorio Strada, Clara Coïsson; collana Gli struzzi, n°17), Einaudi, 1971; pp. 182-84. 
[ Edizione originale: Матрёнин двор, Novy Mir, 1963 ]
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gregor-samsung · 2 years
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“ Ponendo l’interrogativo della durata possibile del regime è interessante tracciare alcuni paralleli storici. Alcune delle condizioni che hanno provocato la prima e la seconda rivoluzione russa esistono forse anche oggi: gruppi di caste inamovibili; sclerosi di un sistema statale entrato nettamente in conflitto con le esigenze dello sviluppo economico; burocratizzazione del sistema e, quindi, creazione di una classe privilegiata; contraddizioni nazionali in seno ad uno Stato plurinazionale e situazione privilegiata di alcune nazioni. Eppure, se il regime zarista si fosse protratto più a lungo, avrebbe forse resistito ad una pacifica modernizzazione, a patto che il gruppo dirigente non avesse valutato fantasticamente la situazione generale e le proprie forze e non avesse svolto all’esterno una politica espansionista che provocò un eccesso di tensione. In effetti, se il governo di Nicola II non avesse iniziato la guerra contro il Giappone, non avremmo avuto la rivoluzione del 1905-1907 e, se non fosse stata dichiarata la guerra alla Germania, la rivoluzione del 1917 non sarebbe scoppiata*. Perché qualsiasi indebolimento interno va sempre di pari passo con eccessive ambizioni di politica estera? Non so rispondere. Forse si cerca nelle crisi esterne uno sfogo delle contraddizioni interne. Forse, al contrario, la facilità con la quale viene soffocata qualsiasi opposizione interna crea l’illusione di una potenza illimitata. Forse l’esigenza di avere un nemico al di fuori, nutrita dagli obbiettivi di politica interna, crea una tale inerzia, che è impossibile fermarsi, tanto più che tutti i regimi totalitari si logorano fino all’estinzione senza accorgersene. Perché Nicola I ebbe bisogno della guerra di Crimea che mandò in rovina il regime da lui costituito? Perché Nicola II ebbe bisogno della guerra contro il Giappone e contro la Germania? Il regime di oggi compendia in sé in modo curioso aspetti dei regni di Nicola I e di Nicola II ed in politica interna, direi anche di quello di Alessandro III. Ma è ancora meglio paragonarlo al regime bonapartista di Napoleone III. Se questo paragone è valido, il Medio Oriente sarà il suo Messico, la Cecoslovacchia i suoi Stati Pontifìci e la Cina il suo Impero Germanico. “
*Rigorosamente parlando, non è lui che ha cominciato queste due guerre, ma ha fatto di tutto perché scoppiassero.
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Andrej Amalrik, Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?, introduzione di Carlo Bo, traduzione dal russo di Caterina Darin, Coines edizioni spa, Roma, 1970¹; pp. 57-59.
[1ª Edizione originale: Просуществует ли Советский Союз до 1984 года?, Alexander Herzen Foundation, Amsterdam, 1970]
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gregor-samsung · 4 years
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Oltre Matrjona e me nell'isba vivevano anche un gatto, i topi e gli scarafaggi. Il gatto era vecchio e, cosa piú importante, zoppo. Matrjona lo aveva raccolto per pietà e la bestia s'era assuefatta. Camminava sulle quattro zampe, ma zoppicava assai: aveva riguardo d'una zampa che era malata. Quando saltava dalla stufa sul pavimento, il rumore non era soffice come quello d'ogni gatto, ma un forte colpo simultaneo di tre zampe: tup!, un colpo cosi forte che non mi ci abituai subito e mi faceva sussultare. Era il gatto che posava in una volta tre zampe per preservare la quarta. Ma nell'isba c'erano i topi non perché il gatto zoppo non riuscisse ad averne ragione: come un lampo esso balzava nell'angolo, alla caccia, e ne usciva reggendoli tra i denti. I topi erano inaccessibili al gatto perché una volta, ai bei tempi, l'isba di Matrjona era stata tappezzata di una rugosa carta verdastra, e non d'uno strato solo ma di cinque. I fogli s'erano incollati bene tra di loro, ma in molti punti s'erano staccati dalla parete, formando una sorta di pelle interna all'isba. Fra le travi dell'isba e la pelle della tappezzeria i topi avevano costruito i loro passaggi e frusciavano insolenti, correndo lungo di essi e sotto il soffitto. Il gatto seguiva con rabbia quel loro fruscio, ma non poteva farci niente. A volte il gatto mangiava anche gli scarafaggi, ma poi stava male. L'unica cosa che gli scarafaggi rispettassero era la linea del tramezzo che divideva la bocca della stufa russa e la cucina dalla parte buona dell'isba. Fin lí non arrivavano. Però nella cucina di notte brulicavano e se, a sera tarda, andando a ber dell'acqua, accendevo la luce, il pavimento e la panca grande e persino la parete erano quasi interamente bruni e si muovevano. Nel gabinetto di chimica presi una volta del borace e, mescolatolo con della pasta, spargemmo quel veleno. Gli scarafaggi diminuirono, ma Matrjona temeva d'attossicare anche il gatto. Smettemmo di spargere il veleno e gli scarafaggi si moltiplicarono di nuovo. Di notte, quando Matrjona oramai dormiva ed io lavoravo seduto al mio tavolo, il rado rapido fru fru dei topi sotto la tappezzeria era coperto dal fruscio compatto, unito, ininterrotto, come il rumore lontano d'un oceano, degli scarafaggi oltre il tramezzo. Ma io mi abituai perché in esso non c'era alcunché di malvagio, non c'era menzogna. Quel loro fruscio era la loro vita. Mi abituai anche alla bella ragazza grossolana del manifesto che dalla parete mi tendeva eternamente Belinskij, Panfjorov e una pila d'altri libri, ma taceva. Mi abituai a tutto ciò che c'era nell'isba di Matrjona.
Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič - La casa di Matrjona - Alla stazione, (traduzioni di Raffaello Uboldi, Vittorio Strada, Clara Coïsson; collana Gli struzzi, n°17), Einaudi, 1971; pp. 180-81.
[ Edizione originale: Матрёнин двор, Novy Mir, 1963 ]
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