Tumgik
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cara nonna,
sono diversi giorni che il vento di questa città fa risuonare nelle mie orecchie il tuo nome, e non trovo il coraggio di scriverti, come se fossi qui. penso che, se tu fossi ancora viva, ti spedirei davvero questa lettera, immaginandomi il tuo sorriso quando l’avresti vista nella posta, raccogliendo quel brandello di carta, parlando da sola, scartandola con la voracità di sapere tutto che ti contraddistingueva. invece scrivo al computer indirizzando le mie parole alla matassa di internet, sperando che la connessione via caso riesca a sciogliere un po’ i nodi dei miei pensieri, sperando che in qualche modo metafisico, i tasti che scricchiolano sotto le mie dita possano arrivare fino al tuo orecchio, che tu apra il computer di Dio e rimanga appesa all’altro capo, leggendomi come sulla carta da lettera coi fiori che usavo solo per scrivere a te. mi manca, in effetti, affidarti me stessa tramite le parole: era un nostro momento intimo, quando ti scrivevo qualcosa, un attimo solo tra me e te, una specie di parentesi che ci ritagliavamo occasionalmente, ma che ci dava un po’ di pace. a me, a dire la verità, svuotava l’anima del tutto, come se vomitandoti addosso la mia anima, potessi davvero sentire il mondo un po’ meno sulle spalle. ed ore che, invece, non posso più farlo, sento che mi va tutto un po’ più stretto, che non ho modo di poter comunicare, anche solo con carta e penna, il mondo che mi lascia appiccicato il suo dolore. te ne sei andata quattro mesi fa, più o meno, e questa foto l’ho scattata in preda al terrore che te ne andassi senza salutarmi: un atto egoistico, per avere un’immagine del nostro amore sullo schermo del telefono. come se tutto ciò che ci rappresentava potesse essere ridotto a questi minimi termini, quattro pixel di un telefono che congela istanti, ma che non può riportarli indietro. l’ultimo ricordo che ho di te, le labbra violacee, gli occhi sbarrati, senza forza negli occhi grigi che ti rendevano le palpebre stanche un po’ meno spente, mi sta balzando in testa proprio adesso, ricordandomi quando ho schiacciato quel pallino bianco sullo schermo, per averti con me anche virtualmente. tornassi indietro, lancerei il telefono giù dalla finestra di quello stanzone disinfettato e ti stringerei la mano, forte come se potesse staccare andarsene via per i fatti suoi, e poi mi accoccolerei accanto a te, piangendo silenziosamente, ma sentendo il tuo cuore battere ancora. invece ho avuto paura di te, nonna, di quello che eri diventata, del tuo viso irriconoscibilmente sofferente, della morte che sceglieva i vestiti nel tuo armadio. maledettamente codarda, ecco come mi definisco, perché mi sono rinchiusa dietro a uno schermo per difendermi dal dolore: non capivo che quello sarebbe arrivato comunque, dopo, e avrebbe martellato la mia coscienza brandendo la stessa arma che credevo fosse un porto sicuro. eccomi qui, col mio macabro trofeo, a brandire l’immagine che dovrebbe rappresentare un’aere così grande e che invece rimane solo un insieme di colori scuri, indefiniti, di due arti incrociati, lembi di pelle definiti dalla paura di non tornare più. mi manchi, nonna, tanto. ecco cosa voglio dirti, che senza te il corso del Brembo non è più lo stesso, che la tua casa ha perso colore, che la mamma sembra triste, che nessuno parla più del vaso con le ceneri del nonno, che il massimo che si possa fare è andare al cimitero e lasciarti un fiore accanto alla foto che avevo accuratamente scelto, in modo da poter gestire la tua vita anche dopo morta. ecco, era parte di te, come lo è di me, questa mania malsana di dover gestire tutto dall’alto, come un faraone che. non delega nulla, e sorveglia tutto: l’ho anch’io nel sangue, questo capriccio autodistruttivo. senza di te nemmeno programmare ha più lo stesso sapore: è insipido, avere la capacità di aver poter aleggiare sopra ogni cosa, se non c’è chi lo fa meglio di te. eri la migliore, nonna, a controllare maniacalmente che il mondo andasse nella direzione che volevi tu: battevi la strada al caso con veemenza, in modo tale che non potesse accadere il contrario. purtroppo hai tenuto duro fino alla fine, quando hai mollato la presa e ti sei abbandonata all’idea che c’era solo una cosa che non era in tuo potere: la tua fine. hai interrotto quella tua programmatica esistenza solo quando la tua vita ha finito te, nonna, e non hai potuto fare a meno di accettarlo. accettare che la vita faccia il suo corso era del tutto fuori discussione, prima di quel momento; poi hai capito che non avevi più forza di deviarla, ed allora sei rimasta inerme ad osservarti mentre ti dileguavi. l’hai fatto senza cerimonie, tra le braccia di un’infermiera: non volevi mostrarti incapace di gestirti, dovevi fare questa cosa lontano dagli occhi di chi ti aveva sempre guardata con ammirazione mista a incertezza. le tue figlie, i tuoi nipoti, chiunque conoscesse la vera te, sapeva come eri fatta, ed un fiume in piena fa paura, ma rimane uno spettacolo mozzafiato. eri un torrente straripante, e quando hai iniziato a soffrire la siccità, gli argini si sono alzati fino a nasconderti completamente. io sento di essermi adagiata lì, in quel limbo tra te e la donna che stava distesa sul letto automaticamente reclinabile del ricovero: una nicchia sul confine tra il ricordo di te e l’idea di perderti. una specie di embargo emotivo mai sciolto, come se fosse possibile, in qualche modo, filtrare gli attimi di vita vissuta sedendosi al bordo della vasca degli eventi, pescandoli a piacere. mi manchi, nonna, lo sai, vero? ovunque tu sia ora, vorrei che ti arrivasse questa roba che sto scrivendo. o forse vorrei che non ci fosse nemmeno bisogno di scriverla, e che tu potessi vedermi ed abbracciarmi: ti avrei di sicuro fatto una sorpresa tra una decina di giorni, dopo gli esami sarei di sicuro tornata a casa e sarei venuta da te senza avvisarti, suonando il campanello per sentire la tua voce squillare “Streghetta, sei qui!”, dall’altro capo del citofono, aspettando impaziente di raccontarti la mia nuova vita. mi avresti schioccato un bacio sulla guancia rimproverandomi di essere un po’ troppo magra, ma poi mi avresti subito fatto i complimenti per qualcos’altro, e poi una battuta su altro ancora. imprevedibile, nell’affetto, al contrario che nella vita: un fiume straripante, ma senza un colore ben preciso, perché il fondale sassoso ne mascherava il letto. 
mi manchi, nonna, mi manchi tantissimo.
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Sono sgusciato dalla tua pienezza senza lasciarti vuota perché il vuoto l’ho portato con me.
Museo del ‘900, Milano, didascalia sotto ad un’opera.
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Y’all know the feeling?
I really miss being able to eat what I want, I miss being able to eat out with my friends without thinking about gaining, I miss being at home, chilling with my family each Friday, watching movies, and eat all the goods my mom brings us. I miss having normal eating habits, I feel terrible every time I eat, and I feel terrible every time I don’t. It doesn’t make sense, but that’s how I feel, and it’s honestly terrible.
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“Io soffoco per la mia stessa intensità.”
— Margaret Mazzantini, Manola (1998)
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“Comunque un bel giorno capii che il mondo non mi amava, e io smisi d'amare il mondo.”
— Margaret Mazzantini.
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* Devi trovare un luogo dentro di te, intorno a te. Un luogo che ti corrisponda almeno in parte .
Margaret Mazzantini, Mare al mattino
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“Lo so solo io quello che avevo dentro. Sai che ti stai perdendo pezzi per strada, che qualcosa si è rotto e non puoi più riaggiustarlo. Sai che ti sta scivolando via dalle mani e non riesci a trattenerlo e vorresti che tutto tornasse come prima.”
— Mazzantini, Nessuno si salva da solo
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• Splendore
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La sua mano sulla mia era già un corpo nudo.
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"Mi era rimasta addosso una strana malinconia. Mi sono stretta al mio corpo solitario e, passo dopo passo, diventavo sempre più triste. Sapevo il motivo di quella tristezza. Avevo voglia di amore anch'io, di carezze furtive, di un cuore in subbuglio."
Margaret Mazzantini
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Splendore
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“Manola”, Margaret Mazzantini
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“But in that moment I understood what they say about nostalgia, that no matter if you're thinking of something good or bad, it always leaves you a little emptier afterwards.”
— John Corey Whaley; Noggin
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“Just imagine becoming the way you used to be as a very young child, before you understood the meaning of any word, before opinions took over your mind. The real you is loving, joyful, and free. The real you is just like a flower, just like the wind, just like the ocean, just like the sun.”
— don Miguel Ruiz
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“Do poets really suffer more than other people?”
— Margaret Atwood, from The Collected Poems of M. A.; “The Words Continue Their Journey,”
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Purple Rain // Prince
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