Tumgik
bouvetetpecuchard · 13 years
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troppo caldo
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''Mi chiamo Mattia, e fra due giorni avrò sei anni.''
C'è Carrino, in questo Calore.
C'è in Mattia e nel suo mondo rinchiuso, nelle sue fughe sui tetti e nei voli dei suoi aeroplanini, nelle forchette che fa cadere e nel suo sorriso segreto che ferma i calci a mezz'aria.  In quel bimbo che vuole la sua mamma, ad ogni costo.
E poi c'è Gigio, che è come se fosse partito dal ricordo delle fantasie di adozione e del pensiero magico dell'infanzia e ci avesse costruito intorno un gioco, tra Matrix e Kill Bill.    E in quel gioco avesse lasciato da parte il sé adulto.    Essere un grande scrittore evidentemente pesa.
Ha un suo fascino, questa cosa.
Soprattutto pensando a quanto ci si deve essere divertito, a scriverla.
Si è preso una mezza vacanza, l'uomo. E credo se la sia goduta tutta.
Ne siamo felici per lui.
Luigi Romolo Carrino, ''Calore'', Senzapatria editore, 2010
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bouvetetpecuchard · 13 years
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gris
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C'erano una volta storie di castelli e biblioteche di mogano, storie di the avvelenati e assassini in tweed che si cambiavano per la cena, di passioni dirompenti celate da educati sorrisi. Storie rassicuranti di mondi distanti, con cattivi che escono di scena con infamia e classe e il bene che trionfa sempre.
Poi arrivarono storie di metropoli buie, di donne scure e uomini armati. Puzzavano di alcol e sigarette, e potevano essere combattuti solamente da loro simili, altrettanto puzzolenti. Erano comunque fiabe che parlavano di altre esistenze, e il lettore ne usciva pulito.
Ci furono poliziotti piccoloborghesi e disincantati, investigatori violenti come criminali, magistrati tormentati e inquieti, anatomopatologi empatici e disturbati, il tutto equamente distribuito tra la visione di destra e quella di sinistra. Come Star Wars e Star Trek, per intenderci. Il Bene e il Male per la prima, l'occhio empatico attento alle sfumature per la seconda.
Dal giallo al noir, passando per l'hard boiled e il polar: è stato un processo lungo e rivoluzionario, a suo modo. C'era una sottile ma dirompente vena sovversiva nel blues delle vittime che il noir cantava: il blues degli ultimi, di quelli che beati non saranno mai e il discorso della montagna è un falso ideologico.
La realtà fa male. Non c'è lieto fine prima dei titoli di coda. E poi c'è solo il buio della sala vuota.
E allora che si fa?
Si smonta e rimonta, si seminano certezze, si trovano spiegazioni. I turbamenti esistenziali devono avere una catarsi nelle soluzioni più rassicuranti: il male è altrove, lontano comunque, nelle menti arzigogolate di assassini complessi e motivati.
E la vittima vera è una sola: il noir stesso. Privato del suo senso, sfruttato, replicato all'infinito.
Sfinito.
Finito.
È morto, il noir.
E Bernardi gli fa il funerale.
Raccontando storie di male stanco, di poliziotti squallidi, di una magistrata inquirente stanchissima pure lei, efficiente senza voli non richiesti, sola e disillusa, dall'equilibrio privato precario, che trova una parvenza di serenità solo tra farmaci e psicoterapia.
Storie tristi di debolezze senza pensiero, senza mistero; storie di disagio quotidiano non gestito, di realtà che sfugge a qualunque tipo di spiegazione.
Di un mondo in cui non c'è spazio per sdolcinatezze, un mondo di teste di cazzo, in cui alle volte l'innocenza di una vita può venir spazzata via dalla colpevolezza di un attimo, o in cui l'assassino vede troppi telefilm americani.
Sono racconti dalla scrittura scarna e secca come la vita che narrano.
Racconti disillusi e apparentemente cinici come Antonia Monanni.
Addolorati, in fondo.
Ma, tanto, non c'è niente da capire.
.
Luigi Bernardi,  ''Niente da capire'', Perdisapop, 2011
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bouvetetpecuchard · 13 years
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intervallo
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Valerio Evangelisti, Luigi Bernardi, Christian Raimo, Elia Spallanzani, Giuseppe Genna, Marco Philopat, Sandrone Dazieri, Domenico De Simone, Lello Voce, Tiziano Scarpa, Enrico Remmert, Gianfranco Manfredi, Nanni Balestrini, Nicola Baldoni, Cristina Brambilla, Dario Voltolini, Alessandro Bertante, Stefano Tassinari, Giovanni Zucca, Alessandro Mazzina, Giorgio Agmben, Massimo Carlotto, Luca Masali, Rossano Astremo, Ray Luberti, Pino Cacucci, Simone P. Barillari, Monica Mazzitelli, Biagio M. Catalano, Michele Monina, Mauro Smocovich, Girolamo de Michele, Antonio Moresco, Enzo Fileno Carabba, Vittorio Catani, Gabriella Fuschini, Fausto Giudice, Massimiliano Governi, Giovanni De Caro, Laura Grimaldi, Roberto Saporito, Francesco Cirillo, Tommaso Pincio (Marco Colapietro).
questa è la lista (ufficiale ma parziale, pare che i signori abbiano delle difficoltà nel riconoscere gli scrittori se non esplicitamente dichiarati) degli autori ritenuti ''persona non grata'' in provincia di Venezia, e i cui libri di conseguenza vanno banditi dalle biblioteche pubbliche. Per tacere delle presentazioni o conferenze, eh.
al di là delle opinioni sull' affaire battisti, che riteniamo essere meramente strumentali, questo blog si schiera chiaramente e senza dubbi contro un'inaccettabile censura. Fascista, nel senso vero del termine.
vi invita a leggere qui, ad aderire e fare quello che potete.
inoltre vi invita a leggere gli autori presenti nella lista suddetta, e in generale i firmatari dell'appello visibili qui.
così.
per principio.
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bouvetetpecuchard · 13 years
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z
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È lo spreco che uccide.
Una scrittura splendida, efficace, puntuale; un'idea geniale nella sua follia, svolta per due terzi con mano sicura e grande abilità.
E un precipitare a valanga nel nulla raffazzonato di un finale inutilmente pieno di parole.
E pure un bel po' irritante, con tante piccole furbate che non riesco a perdonargli.
È un ottimo scrittore, Veronesi, e mi sta pure simpatico.
Diciamo che avrei preferito che questo suo libro, così ambizioso, rimanesse in un cassetto, per poi magari uscire postumo tra cinquant'anni, che so. Annotato e arrotato. A far felici critici e studenti universitari che avrebbero potuto risalire alle fonti di ispirazione e rimpiangere che non fosse stato mai rimaneggiato come meritava e poi pubblicato.
Una grande occasione persa.
Sandro Veronesi, ''XY'', Fandango, 2010
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bouvetetpecuchard · 13 years
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under my skin
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È un uomo scialbo, l'avvocato G.
Scialbo, sradicato e insicuro. Alto alto, con la fronte lucida e sfuggente, la faccia rosa senza zigomi né mento, cadente come i fianchi di un’anziana mucca magra , senza stile, con due occhi marroni tristi e soli.
Un uomo a cui la moglie ha tagliato le palle. Un uomo che non è un uomo, ma un marito figlio padre mancato, brillante professionista e disastro di infelicità repressa.
Un uomo che non rispetta le regole della seduzione perché non le conosce.
Un uomo pericoloso, quindi, sia come oggetto di passione che di amore.
Pericoloso per sé e gli altri.
Le altre.
È la pelle la protagonista di questa storia: pelle chiara, delicata, che si arrossa e infiamma facilmente. Pelle sensibile e sensuale, pelle che si irrita e brucia, pelle da curare e assaggiare.
A fior di pelle, sotto la pelle.
Sgaggio ha una capacità rara di raccontare con voce roca e suadente insieme.
Rendere affascinante la mediocrità, l'infelicità, la passività aggressiva, è veramente un'impresa.
Beh, lei ci è riuscita.
Chapeau.
Federica Sgaggio, ''L'avvocato G.'', Senzapatria editore, 2010
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bouvetetpecuchard · 13 years
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B.I. n. 26, dicembre ’10.
- E poi c’è la storia del ragazzino. Che è uno dei pochi pezzi che non è un’intervista. Ce l’hai presente? Proprio all’inizio del libro, sì. C’è questo ragazzino tutto ossa e niente peli ed è il suo compleanno, è proprio quel giorno lì, quando ti svegli e né più né meno finisci per avere tredici anni e non capisci ancora se è un bene o un male esserci arrivato. O meglio, prima di quel giorno lì, prima di sentirti dentro e intorno e addosso i tuoi tredici anni, lo dai per scontato che da lì in poi il peggio è passato, la vita sarà una scala in discesa, un percorso di liberazione e via zaczac tutte le catene, a te la libera scelta, a te il libero arbitrio, a te una schiena da uomo per coprirti le spalle e via dicendo. Poi arriva quella mattina lì, gli occhi si aprono e si chiudono con guizzi di una paura sovraeccitata, corri davanti allo specchio, ci spruzzi sopra i tuoi brufoli da adolescente con la faccia bianco latte e inizi a guardarti. A guardarti fisso, intendo. A trapassarti con lo sguardo, per dirla tutta. E succede qualcosa, è questione di secondi, sai, succede qualcosa per cui cominci a crescere da fuori, a crescere spropositatamente di fronte ai tuoi occhi, a visualizzare un gigantografia di te che non potrebbe essere più distante da quello che sei. Voglio dire, qualcosa dentro si blocca, interrompe le comunicazioni, è lì, isolato da frane e smottamenti e ha staccato tutti i collegamenti col mondo intorno, quel qualcosa ti ha incastrato in uno dei momenti più importanti della tua vita, quello in cui decidi se sei disposto a saltare o no. A raggiungere quell’immagine di te, che è la proiezione di un improbabile te futuro o a rimanere dove sei. E c’è questo ragazzino, alla sua festa in piscina con tanto di tartine sdraio a bordo vasca bagnini distratti e madri addormentate dietro gli occhiali da sole, che sale sul trampolino, decide di mettersi in fila, minuto dopo minuto, fino a quando arriva il suo turno e deve saltare la voragine blu che si trova sotto ai piedi, capisci? Non ha altro modo di scamparla, la direzione è una sola, non può per niente al mondo tornare indietro. E tutto il racconto non è altro che lo srotolarsi in progressione del fotogramma sospeso di questo ragazzino che ora ha tredici anni e deve capire se vuole continuare ad averli o meno. Se riuscirà a buttarsi, voglio dire, o resterà per sempre lassù.
- Sì, David Foster Wallace è uno scrittore assolutamente perverso.
- Ma non si tratta solo di perversione sessuale. La perversione sessuale è uno strumento, un canale, un argomento di conversazione da seduta psicanalitica. Credo che limitare tutto a questo sarebbe estremamente riduttivo. La perversione è, come dire, finalizzata a raccontare tutta l’alienazione del mondo. E i buffi tragicomici espedienti a cui la gente ricorre per disperarsi.
- Il ridicolo egoismo della depressione, per esempio. Ne “La persona depressa” non c’è altro che questa donna, la quale trascorre le sue giornate a telefonare ai membri del suo sistema di supporto per raccontare loro quanto grave sia il suo esaurimento nervoso. Lo fa alle ore più impensate della notte. Tiene incollata alla cornetta un’amica leucemica in fin di vita puntando i riflettori sulla sua disperazione. Il fatto più bello è che non se ne rende conto. Di quanto comico sia tutto questo. Non ti viene da ridere?
- Ok, prendi le interviste, per dire. Questo meccanismo di oscurare la domanda e lasciare solo la risposta del sociopatico. Io trovo che sia una cosa dannatamente perversa. C’è questa donna, questa intervistatrice e tu non sai niente di lei, giusto? Perché è così che vuole Wallace. Vuole farti intuire le domande, vuole farti percepire che c’è una donna dietro tutto questo a cui è stato fatto qualcosa di terribile, la cui vita è stata spezzata irrimediabilmente. Ma tu non sai, non saprai mai cosa. E non puoi scoprire perché stia intervistando questa massa di schizofrenici, sessuomani, psicopatici e depressomani. La sola cosa che puoi fare è ascoltare la nevrosi. Metterti lì e entrare nelle voci.
- Un sacco di gente semplicemente non l’accetta. Se ne sta lì a parlare di femminismo e di diritti delle donne e a riempirsi la bocca di condanne alla misoginia e di battaglie per la parità dei sessi, senza riuscire a scrollarsi di dosso questa boriosa sequela di stereotipi sociali. Non riescono a far luce in tutto il sistema di sovrastrutture ideologiche che gli irrigidisce ogni capacità di elaborazione e si adeguano a prodotti già opportunamente pensati per loro. Prendi l’intervista n. 46, luglio ’97.
- Quella dello stupro, sì.
- C’è questo sociopatico che immagina lo stupro di una donna. Non è che se ne stia lì a esaltare gli stupratori, ovvio, ma tutto quello che vuole dire è che idealmente tutti sappiamo cosa comporti essere trascinati in uno scantinato e subire uno stupro per dodici ore di seguito. Tutti lo sappiamo, ma nessuno di noi lo sa con esattezza. Solo chi l’ha provato sulla sua pelle può affermare con certezza di saperlo veramente. L’ha subito, è sopravvissuto e ora sa. Conosce un lato di se stesso che altrimenti non sarebbe mai venuto fuori. E’ entrato veramente in contatto con il lato oscuro.
- La paura irrazionale è la risposta. “Mondo adulto I e II” sono degli esperimenti di vivisezione estremamente interessanti sul rapporto coniugale. E da cosa parte tutto? Dalla paura di una giovane moglie di “bistrattare l’uccello del marito” durante il rapporto sessuale. E’ un dettaglio, capisci, un dettaglio minimo che può assumere dimensioni di una portata gigantesca e trascinare una relazione a picco. Lo può fare.
- Parodia della metafiction. E non facciamo altro che tornare all’alienazione. Della scrittura questa volta. “Ottetto” è uno dei pezzi più cerebrali della storia della letteratura americana. E’ cervellotico fino a farti venire il mal di testa. La riflessione dello scrittore che prende coscienza dell’incompiutezza del suo saggio nel suo stesso svolgersi e tenta ogni strategia per salvare quanto possibile, continuando ad aggiungere note di esplicazione e giustificazione per il lettore di quanto sta facendo, avvolgendosi in una narrazione della metanarrazione che non serve ad altro che a dimostrare la natura estremamente fallimentare del tentativo, oltre che la pochezza dello scrittore di per sé.
- Divertente questa chiacchierata. Davvero buffa, sì.
D. F. Wallace, “Brevi interviste con uomini schifosi”, Einaudi Stile Libero, 2000.
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bouvetetpecuchard · 13 years
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scura (non più chiara, cioè)
Perché Bassini è Bassini.
E scrive benissimo: la sua è una voce molto personale, una lingua che scorre morbida e aspra senza farsi sfuggire nulla.
Le sue sono storie che sanno di nebbia e di chiuso, di orizzonti ristretti in cui tutto necessariamente è concentrato e amplificato dal rimbombo che solo dei muri sanno creare.
A tratti fa pensare a ''La maschera della morte rossa'' di Poe, questo libro.
La solita provincia che fu di Chiara e ora è sua, di Bassini intendo, che si crogiola nell'illusione di avere vita propria, tra perbenismo ipocrita e pettegolezzi piccoli nella loro ferocia, ma le cui barricate sono permeabili al mondo di fuori, e ai suoi orrori.
Orrori strutturati, quelli esterni, che si aggiungono all'umano schifo endogeno che è di ovunque.
È la globalizzazione, baby.
E chi ci vive, di orrore, e chi lo copre, l'orrore, fa parte di una lobby che non ha più confini ormai.
Non più solo i maggiorenti locali, no. Ci sono interessi che vanno oltre.
Don Rodrigo non è più solo, don Abbondio sbrocca, l'Innominato è un mito inventato per far stare buona la gente.
Tutti sono soli, alla fine.
Soli coi propri fantasmi, soli che neanche l'amore dei figli basta, soli con la loro umanità e le loro paure e i loro rimorsi.
Soli che alla fine la morte è quasi un sollievo.
È un gran bel libro, questo.
Tutto Bassini lo è. Tutto da leggere, più o meno. Lo metterei secondo nella mia personale classifica, dopo ''Il quaderno delle voci rubate'' che ho amato incondizionatamente di un amore assoluto e molto vetero.
Gusti.
Remo Bassini, ''Bastardo posto'', Perdisapop, 2010
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bouvetetpecuchard · 13 years
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A forest.
Endimione: Compagno uomo, sai cos'è l'orrore del bosco quando vi si apre una radura notturna? [...] Hai mai guardato con spavento e con voglia la natura di una lupa, di una daina, di una serpe? Straniero:  Intendi, il sesso della belva viva? Endimione: Sì, ma non basta. Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in una, le portasse con sè, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei racchiudesse infinite cose della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze e un'altra terra e un altro cielo che non ti è dato possedere? [C. Pavese, Dialoghi con Leucò]
Diana è l'amore. E' l'ossessione che si infila sotto alle palpebre di notte e le fa tutte un tremito di voci, lava la pelle di sudore e lascia la realtà a sgocciolare frasi del sogno. Diana è la parola del mito, che si prende ogni spazio e frammenta ogni tempo. E' madre che sbrana e accarezza, è sangue di dea che si mescola alla terra e si fa umano, è un bacio tenero d'amante che stringe e poi abbandona. Diana vive tra i battiti di ciglia di Atteone, dei suoi occhi che reclamano il sonno per poter reincontrare amore. Senza riuscire mai a toccarlo, perché amore è cosa immortale, è un pensiero distante, è il tutto che nelle mani di un uomo finisce per diventare niente. Diana è la radura, e la luce quando scalpita selvatica e il buio quando smette di essere morto e diventa nervo pulsante.
Diana è la luna che allaga il cielo di un alone sfocato che si inghiotte il bosco e scortica cortecce e fa ululare radici. Diana è il fiore che spalanca le fauci sull'orrore. Diana è un corpo nudo, senza sesso, femmina e maschio allo stesso tempo è il mondo prima dell'uomo e della donna, prima del bene e del male, prima dell'inizio del tempo, quando crescere significava solo scorrere e non trapassare. Diana ha la faccia di una bambina e uno sguardo che è un richiamo d'amore, che è un avvertimento di morte. Diana è la gemella di Atteone, è il tassello mancante, la simmetria persa. Diana è il passato che Atteone non ricorda, perché è favola mitica, è un mosaico di immagini sparpagliate senza connessione, attraverso cui impara a riconoscere il mondo e a dargli un nome. Diana è Atteone che fotografa se stesso, in un'altra vita che non gli apparterrà mai, perché è vita eterna, di chi non ha un destino da uomo, di chi non conosce la morte.
Questo è l'amore che nasce nel simbolo e al simbolo ritorna. E' amore che si risolve nel rito sacrificale, nel sangue dell'uomo che dà nuova forza alla dea, nella carne che si lacera e diventa essenza, colore, rumore della foresta. E' amore che perde i connotati umani per assumere i tratti del disumano, di quella materia grezza in cui si ritrova l'asimmetria del mito.
Gianluca Chierici ha scelto di raccontare l'amore, l'unico amore possibile, rivisitando in chiave moderna il mito di Diana, signora delle selve e protettrice delle bestie selvatiche, e Atteone. Lo ha fatto dando voce agli alberi, alla terra che si scuote dal sonno e si divora, ai fiori che sono grumi d'ombra, all'acqua di un lago che è vetro spezzato nel riflesso della luna. Così che anche la lingua diventi simbolo e dalla dimensione mitica si possa recuperare la componente poetica necessaria ad evocare l'amore e a suggerire l'angoscia senza che siano le parole a spiegare la foresta.
Gianluca Chierici, Hanno amore, Perdisa pop, 2010.
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bouvetetpecuchard · 13 years
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holden k.
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Brutta bestia, l'adolescenza.
Brutto periodo, i '70.
Un anno nella vita di Franz Krauspenhaar, ragazzino biondo e minuto, intelligente ma che non si applica. Un anno che si dipana tra noia e paranoia declinando tifo calcistico e politica vissuta come ribellione al rassegnato conformismo borghese, nemico in comune con gli esecrati avversari.
Ormoni in subbuglio e pulsioni terroristiche, mera teoria che si scontra con una realtà da quindicenni e trova sfogo in assidue frequentazioni di giornaletti porno e birrerie.
Bisogno di appartenenza e rifiuto di omologarsi, la scuola come incidente mattutino a cui opporre resistenza passiva, eskimo e mocassini, speranza e terrore, Amore e sesso.
Poche letture, già molta scrittura. Il progressive. Filosofia e cinemini di terza visione, e, ogni tanto, un'epifania.
Su tutto, inquietante, ancora incompresa ma vagamente temuta in quanto percepita come destabilizzante, l'ombra di Pasolini, il cui omicidio chiuderà un anno simbolico nella sua confusione.
È indimenticabile, questo librino (ino per dimensioni, sia chiaro), dalla scrittura fulminante e travolgente. Una scrittura che parla di televisione e fumetti neri, di idee e dubbi, di amicizia e solitudine estrema. Di salti mentali da Buzzanca a Ulrike Meinhof.
E, una volta finito, ci si ritrova a non riuscire più a pensare alla linea Oder-Neisse senza associarla indissolubilmente alle cabine telefoniche.
Franz Krauspenhaar, ''1975'', Caratterimobili, 2010.
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bouvetetpecuchard · 13 years
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ti riconoscerò, un giorno, nel volo dei gabbiani.
Un foglio di carta che si strappa è una storia che inizia, che viene fuori con un sorriso un po' prepotente da tutto quel grumo di storie disordinate, arruffate, ferme a metà, finite ma mai scritte, scritte ma sospese, tutte incastrate in un gioco di scatole cinesi l'una nell'altra. E quando viene fuori, quando tocca l'aria, disperde stormi di parole anestetizzate, intrappolate sotto tutto quel bianco, che riprendono coscienza, sangue e polmoni. Una storia che inizia è un nodo che si scioglie, un dolore che si incancrenisce nella carne, un ricordo che prende a sgambettarti nella pancia, perché vuole avere uno spazio tutto suo, finalmente, uno spazio che non sia più solo un'intuizione, uno spazio che abbia anche un luogo, un tempo, una faccia prima di tutto. Uno spazio che sia anche una voce.
La voce di Davì, per come l'hanno ascoltata le mie mani, è quella delle tenerezza. E di una giovinezza che non sa d'essere giovane. Una giovinezza ingenua, senza la pretesa di trasformarsi in qualcosa di definito, senza il bisogno d'avere un nome, una terra, delle radici. Una giovinezza che ancora crede che sia la solitudine la chiave, il non accorciare mai troppo le distanze emotive, quelle che ti permettono di camminare lungo la tua strada, incrociando di tanto in tanto le impronte degli altri senza mai rischiare di sovrapporle alle tue. Una giovinezza, quella di Davì, che ha gambe abbastanza forti da non fermarsi mai, perché non c'è ragione per smettere di correre, per rimanere fermi in un punto, per costruire una casa che non abbia un cielo stellato come soffitto. Davì non ce l'ha dentro, questa ragione. Ha diciannove anni e si è ritrovato così, quasi per caso, a mettere un passo dietro l'altro senza farsi domande, senza guardarsi troppo indietro. E' fuggito dal silenzio, di questo è sicuro. Il silenzio tutto rimorsi e sensi di colpa che aveva fatto scappare sua madre tanti anni prima, lo stesso silenzio che si era mangiato vivo suo padre, lasciandolo affondare in una poltrona a cambiare canale davanti alla televisione, con lo sguardo di chi vorrebbe essere altrove, ma un altrove ha solo avuto il coraggio di immaginarlo.
La voce di Davì è anche quella della libertà. Di una libertà che non è mai vera, in fin dei conti, che ti obbliga sempre a qualche rinuncia. Davì è giovane e non ha legami. Soltanto questo gli offre la certezza di poter abbandonare tutto da un momento all'altro senza dolore. Ma è in quest'assenza di dolore che puntano i piedi, arrabbiati, gli occhi di Nicla. Arrivano per caso, due spilli di paura, come di chi non ha visto la luce per tanto tempo e fatica a farci di nuovo l'abitudine. Nicla è l'amore, l'amore giovane, fiero, testardo, l'amore che non vuole dare confidenza ma finisce per invadere ogni spazio, per diventare, in definitiva, la voce di questa storia. E' quel desiderio di proteggere che priva della libertà, ma come contropartita dà una spinta in più alle gambe di Davì, gli ridisegna attorno agli occhi orizzonti nuovi, di posti lontanissimi, dove le nuvole sono sempre bucate dai gabbiani. Dove, nonostante tutto, non è detto che Davì si fermerà.
Questo libriccino di Barbara Garlaschelli, già edito da edizioni EL, ripubblicato in questi mesi da SenzaPatria editore per la collana "On the road", ha le tonalità di una favola moderna. Una di quelle storie scritte, ma sospese, che poi ci devi pensare tu a immaginarti il resto. E a me, che la maggior parte delle volte se non ci sono risvolti apocalittici di mezzo non m'accontento, è scappato un sorriso storto. Forse più testardo del solito.
Forse, c'è da non crederci, più giovane del solito.
Barbara Garlaschelli, Davì, Senzapatria editore, 2010.
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bouvetetpecuchard · 13 years
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un tocco di rosso
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Farenheit 2372.
Altina come temperatura, sì. Necessaria per bruciare bene. I cadaveri, ad esempio. E i cani inselvatichiti, e i mostri generati dal sonno della ragione. E edifici, e città intere. Fare un bel fuoco, bisogna, a fiamma rossa rossa. Un botto, prima, e poi il fuoco.
Rosso, deve essere: quello blu non basta, è freddo e triste e poco convinto.
E quello giallo è ancora troppo poco, è un sospetto di invidia, di voler solo spaventare.
Rosso, è il colore.
Il colore della rivolta consapevole, della passione come unica pulsione valida, il colore della vita.
Il colore dell'unica redenzione possibile, del fuoco che pulisce dentro e fuori, che distrugge il nero profondo di un mondo alla deriva che forse solo dalle proprie ceneri potrà risorgere, a patto di essersi consumato fino in fondo.
Sono cinquanta pagine, queste. Densissime.
Cinquanta pagine per la fine del mondo as we know it.
Cinquanta pagine di apocalisse.
In un 2037 possibile e metaforicamente probabile, la storia di un nuovo messia venuto a portare la spada, e stavolta senza ripensamenti e perdono. Un messia politicamente scorretto, figlio dell'undici settembre e dell'odore di esplosivi e carne bruciata. Un messia da antico testamento.
Un uomo, alla fine, solo un uomo.
Un uomo che vede nella distruzione totale l'unica chance per un pianeta ormai in rovina, una sorta di eutanasia della specie per ridare spazio alla vita.
Un uomo lucido, cinico, pronto a tutto.
Un uomo senza illusioni di alcun tipo, immerso in un nero totale. Nero che più nero non si può.
Ma con un punto di rosso.
Il rosso della passione per la sua donna, istinto animale profondo più forte dell'impossibilità di provare ormai sentimenti, che è l'unico barlume di futuro che riesce a concepire.
Il rosso delle fiamme che, bruciando gli ostacoli, verso quel futuro devono spianare la strada.
Il rosso della vita che è sangue che scorre e anela a tornare al mare da dove è iniziata e dove forse potrebbe ricominciare.
Luigi Bernardi, "Fuoco sui miei passi", Senzapatria editore, 2010
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bouvetetpecuchard · 13 years
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non c'è solo un modo per salvarsi.
E' uno scricchiolio leggero, all'inizio. Il brivido di una terra che ruota ad alta velocità, ma non si riscalda. Una scossa elettrica appena percepibile che fa perdere l'equilibrio, rallenta i riflessi, fa franare le gambe, impaurisce gli occhi. E' il corto circuito della quotidianità, lo smottamento delle certezze, il crollo di ogni copertura, l'imprevisto che fa da detonatore nel regolare susseguirsi delle cose, è la sottrazione improvvisa del controllo, la perdita delle proprie coordinate, è il nero che imbavaglia i corpi,  è il tempo che si frattura in più punti e non si ricompone. Come un braccio rotto tutto in fuori, deformato dall'orrore. Il tempo si dilata, mentre la vita continua ad accadere in verticale. E crolla, fra pezzi di realtà scorticati che non combaceranno più.
E' un mostro a tre teste, la palazzina che viene giù con un rombo sordo, come se i soffitti, le travi, le mattonelle rimbalzassero tra superfici di gomma piuma. E' una morte d'ovatta, la sua. In un testa a testa con un cielo squarciato sputa cassetti, lettere d'amore, materassi, scarpe logore, frulla pianoforti, trita armadi, trincia giocattoli, vomita romanzi lasciati a metà, storie raggomitolate agli angoli delle stanze, rovescia pentole, piega tubature, allaga ossigeno incontaminato di acqua stagnante. Ha tre paia d'occhi, la palazzina, raggrumati di terrore. Ha tre paia di gambe, inebetite dall'indecisione. Ha tre bocche, che guaiscono in silenzio, che si aggrappano alla vita per poi mollare la presa.
La palazzina si guarda diventare macerie, assiste alla propria rovina senza compassione, al suo farsi passato, al suo morire fulmineo di un infarto improvviso, che ha rotto l'ordine costituito e le ha intorpidito le braccia. La palazzina si ripiega su se stessa, è come un abbraccio, sì, pare proprio un abbraccio così stretto da soffocare i vasi sanguigni, da bucare le arterie, da interrompere i battiti. Si mangia Barabba, quello scrittore di mezza età, in crisi creativa, tutto perso tra dettagli irrilevanti in confronto al terremoto che lo inghiotte; Elisa, che ha solo quindici anni, perchè si può morire anche a quindici anni e non bisogna mai dare per scontato il contrario, che poi bestemmiare quanto sia ingiusto non servirà a niente; e quel bambino prodigio, quella palla di lardo a cui Elisa faceva da babysitter, con quelle ridicole mutande addosso, quelle e nient'altro, ridotto a gattoni sulla terra che gli cede sotto le mani, mentre la pelle gli si impiastra di intonaco e di polveri, quel bradipo lentissimo che esce fuori dalla bocca del mostro per poi decidere di fermarsi proprio lì, sotto alla pancia sgangherata di quella che fino a pochi minuti prima era la sua casa.
Non è la prima volta che Antonio Paolacci sperimenta una tecnica del genere. Dare vita a un oggetto inanimato, dargli degli occhi con cui osservare e una voce con cui poter raccontare il mondo che gli si sfilaccia tutt'intorno. Già in "Salto d'ottava" (Perdisa pop, 2010) il vero protagonista, il cervello monitorante dell'azione non era altro che la fabbrica abbandonata del Rottame, il centro di convergenza dei dei due personaggi Matteo e Met, sovrapposti l'uno all'altro, da cui la storia aveva inizio e a cui finiva inevitabilmente per fare ritorno. Allo stesso modo "Accelerazione di gravità" punta i riflettori su quest'ambientazione in esterni e i personaggi, i personaggi in carne ed ossa, sono i prolungamenti pensanti e pensati di questa palazzina di sei piani che implode rovesciando sequenze di realtà instabili su altre realtà ormai ben fissate, annoiate, in agonia. Attraverso una scrittura del dettaglio, in cui è la catena sequenziale di pixel singoli a costruire poi l'immagine finale, Paolacci ci offre una prospettiva diversa, in cui non è la salvezza in senso convenzionalmente inteso l'unica scelta possibile per un futuro eventuale, ma il rifiuto consapevole della salvezza stessa e la conseguente scelta di qualcosa di differente. Qualcosa che abbia il coraggio di finire, senza dover rinascere per forza.
Antonio Paolacci, "Accelerazione di gravità", Senzapatria editore, 2010.
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bouvetetpecuchard · 13 years
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o'keef
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Non ti aspetti scrittura da un mito che narra di sé.
Non ti aspetti nemmeno verità, se è per questo.
Forse in fin dei conti nemmeno lo sai, che ti aspetti. Certezze, pettegolezzi, brividi, resoconti puntuali e soggettivi di avvenimenti favoleggiati a lungo, probabilmente ripuliti e ammantati di leggenda.
Beh, il vecchio Keef ci ha fregati ancora: è riuscito a metter su cinquecento pagine di vita e varia umanità viste da un pazzo, e non un pazzo qualunque. Uno che coniuga la svergognata sincerità dell'aneddotica, anche la più difficile da ammettere persino per qualcuno che come lui ha sempre fatto bandiera della trasgressione al cosiddetto ordine costituito, a un profondo pudore delle emozioni e dei sentimenti.Traspaiono, sì, ma fra le righe. Ci sono, sì, ma non vengono mai usati come alibi o come scusa. Ci sono, e pesano, ma solo se vuoi capire.
Sono cinquecento pagine che volerebbero, come sono volati questi quasi cinquant'anni, se solo.
Se solo l'italiano della traduzione non fosse così improbabile.
Non grammaticalmente o sintatticamente, no... ci mancherebbe pure. Come struttura del linguaggio. La traduzione si fa pesantemente sentire: nessun italiano costruisce pensieri e lingua in questo modo. È faticoso da seguire, per renderlo scorrevole devi continuamente far ricorso alle sinapsi anglofone, ci son momenti nei quali devi fermarti e tornare indietro per capire. Ed è abbastanza chiaro che il problema è di trasposizione.
Devo assolutamente procurarmi l'originale.
E poi se ne riparla, perché mi rifiuto di buttar via con stizza un libro che inizia a Fordyce, Arkansas, e finisce con due accordi di Malaguena.
Keith Richards, "life", Feltrinelli, 2010
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bouvetetpecuchard · 13 years
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saltare
Matteo qualcosa e il vuoto che ognuno riempie, o meglio si fa riempire, come può, come sa.
Matteo qualcosa e il salto di ottava che non cambia la sequenza di note, angosciosa ma sempre meno di quello che c'è oltre.
Matteo qualcosa e la vita, che ti compare davanti facendo bum o urlando.
E puzza, ed è sporca, e ti può rovinare i fottuti piani.
Matteo qualcosa e la dignità, che è delle puttane e dei maiali sgozzati.
È un gran bel libro, questo. Intriso di odori e suoni e segreti, che parla di maschere e indifferenza sfuggente, di paura e di scelte che hanno una loro logica drogata, non solo di roba chimica.
Come forse tutte le scelte.
Antonio Paolacci, "Salto d'ottava", Perdisa Pop, 2010
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bouvetetpecuchard · 13 years
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che naspini i noir dez ce li aveva nel destino.
Sacha Naspini è un ragazzo che ha fame. Che scrive perché ha fame. Che è sempre uno dei migliori motivi per scrivere. Soprattutto sa che la fame serve a non finire dentro le riserve, tra gli animali in estinzione, ingozzati di steroidi e di pesticidi chimici in porzioni monouso. Sa che mangiare fino a scoppiare non sempre vuol dire riempirsi lo stomaco. Tutto dipende da quello che ci butti dentro. E da quello di cui ha bisogno la tua pancia per smettere di ruggire quei miagolii da gatto spelacchiato. Perché mica per tutti è lo stesso. Sa che non si deve perdere l'istinto per non perdere il controllo. Senza istinto non c'è fame, né spinta alla vita, né curiosità di viverla. Muore il predatore e si diventa prede. Muore il produttore e ci si incastra come ingranaggi maldestri di una catena di montaggio. Si finisce per essere consumatori di prodotti in saldo, per di più di serie zeta. Si dimentica di dare ascolto alla pancia, di fare a pugni con la terra, di dichiararsi guerra giorno dopo giorno, di prendere una donna e di farsi carne, sangue e sperma assieme a lei, contro la pace nera della notte. Si dimentica di essere animali liberi e ci si ingabbia dentro uno zoo a farsi lanciare le patatine. Ecco. Sacha Naspini ce ne aveva già parlato di tutta questa roba qua. Dentro quella storia che iniziava in un buco nella terra e finiva per rintanarcisi di nuovo. Roba che, penserete voi, non può mica averci niente a che fare con i noir désir. Lo pensavo anch'io, all'inizio. Ma non è proprio così. Il suo nuovo libro"Noir Désir, Né vincitori, né vinti" (Perdisa pop, ottobre 2010) si spaccia per un saggio, o almeno così dicono. Ma, a conti fatti, più che a un manuale di istruzioni per l'uso sembra proprio di trovarsi davanti a una ballata d'amore, un amore incondizionato, buttato nero su bianco da un ragazzo in corsa attraverso gli anni. Questo libro, in realtà, è un romanzo doppio. Due romanzi di formazione che corrono parallelamente in tempi e luoghi diversi e giocano a rincorrersi, a  entrare in collisione, a scambiarsi i personaggi e a precipitarsi nel destino, senza che si possa fare niente per cambiare le cose. Due romanzi scritti di getto, vissuti sempre con la fame alle calcagna. Il romanzo di un Sacha ragazzo, che si guarda crescere da lontano nella lente acquosa del tempo, tra le campagne della provincia toscana, le estati in cui la pelle era bruciata dalla noia, tra i pomeriggi nelle sale giochi e gli anni ottanta che esplodevano nei jukebox, mentre una turista francese si lascia dietro i ricordi del suo presente, che per quel ragazzo finiranno per diventare un improbabile futuro. E' il romanzo di un Sacha ormai uomo che rimette assieme i pezzi della sua favola mitica privata, affondando nelle radici della sua infanzia e adolescenza, in quel substrato primitivo, di scoperta prima e di riconoscimento poi, a cui si guarda con una nostalgia distante, mentre il dolore dello strappo da quel sè ormai così diverso sconquassa ogni fibra. E poi c'è il romanzo di Bertrand Cantat e dei suoi Noir Désir che diventano uomini insieme, che insieme coltivano la fame l'uno dell'altro per vent'anni, impegnati a schierarsi, a prendere posizioni, a dimostrare ai ragazzi della loro generazione quanto sia importante intraprendere un percorso, a costo di deragliare, di sbagliare binario, di salire su un treno a caso e divorarsi il mondo. Per saziare la fame, ma mai abbastanza per interrompere il viaggio, per far stare zitta la pancia, per far morire la rabbia, per continuare a macchiare di rosso la terra. La fame, l'ho ritrovata qui, in un'affermazione rilasciata da un Cantat degli inizi, ancora alle prese con quello storico disco da sei tracce, che tra le altre cose includeva anche quella canzone, "Lola", il punto di partenza del ragazzo Sacha, il momento dell'epifania in un piccolo pub di Amiens e l'inizio del percorso di (ri)scoperta dei Noir Dez. Più di un percorso, appunto, una lunga ballata d'amore che ha tagliato gli anni, senza sbavature. "La scrittura era per me un terreno vergine, avevo tutto da scoprire. Un bisogno viscerale di esprimermi, e un'incredibile pretesa: credere di portare qualcosa di nuovo, qualcosa che non esisteva già". Eccola, la fame di Cantat. Ecco il punto di incontro tra il ragazzo Sacha e il giovane Bertrand. Dare un messaggio onesto,cercando di creare qualcosa al di là del conosciuto, del già visto, dell'immaginato. In sottofondo sempre la stessa musica tra infinite variazioni di tono. Ma la voce non cambia mai, la rabbia è sempre la stessa, rossa del sangue di una terra che si ribella, che ingoia grida che sono abissi, nutriti da sogni sepolti nelle viscere, annodati dalla voglia di spezzare e poi ricostruire a modo proprio. O semplicemente di perdersi, per qualche istante, smarrire le coordinate senza sapere se si tornerà indietro. Sacha Naspini ha saputo scrivere di un personaggio difficile. Un uomo che era diventato un fatto di cronaca nera. Che dal palco era precipitato dentro una gabbia su cui era calato il sipario. E' stato complicato sdoppiare la testa e separare le due cose: Cantat uomo e musicista. Ma c'è riuscito, Sacha. Lo ha fatto mettendo i giudizi al margine, come doveva essere. Perché si può parlare di Bertrand Cantat. Si deve continuare ad ascoltare i Noir Désir. Non voglio più sentirmi rispondere che è immorale farlo, che come minimo, sia necessario essere rosi dal senso di colpa. Quello che è successo a Vilnius è affare di Cantat, non vostro. Non mettetevi a fare gli obiettori di coscienza. Cercate di scavare più a fondo, soprattutto, così come il ragazzo e l'uomo Sacha hanno saputo fare. Lasciate perdere le chiacchiere da salotto e mettete su un disco. Magari mentre avete tra le mani questo libro qua, perché Naspini è riuscito bene ad alternare il piano della sua esperienza privata con quello dell'analisi tecnica, canzone dopo canzone, analizzando con una buona competenza critica (ma mai mettendo da parte la pancia) gran parte della discografia dei Noir Dez. Ha disegnato i riff contro tutto quel bianco doloroso, ha fatto risuonare la carta delle parole di Cantat, dei pugni arrabbiati di Ninì e del disincanto romantico degli assoli di Serge.  Mentre il sangue riemerge in superficie, la ferita si sta richiudendo. Ora bisogna riaprirne un'altra. Bisogna tornare a cantare. Perché "la ferita è tutto".
Sacha Naspini, "Noir Désir, nè vincitori nè vinti", Perdisa Pop, 2010.
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bouvetetpecuchard · 13 years
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bouvetetpecuchard · 13 years
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"per non saper né leggere né scrivere"
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