Tumgik
#Eratijarijaka
Elias Canetti, nel ‘92 -l’anno in cui sono nata- scriveva “La tortura delle mosche”. Un passaggio recita: Eratijarijaka: un'arcaica espressione poetica che nella lingua degli Aranda significa «anelando con tutto il cuore a qualcosa che è andato perduto». È una parola complicata da pronunciare, ma molto bella. Con una sola parola si esprime un mondo intero di emozioni. Anelare. Desiderare ardentemente. Con tutto il cuore. Completamente, in maniera appassionata. Qualcosa. Qualche cosa, con valore indefinito, ma non del tutto perchè non si tratta di una cosa qualsiasi. Che è andato perduto. Che si è perso, non si ha più. Sei il mio Eratijarijaka, tu. Non so se lo sai, ma lo sei. Sei quel qualcosa che prima avevo -o quantomeno mi sono illusa di possedere per un po’-, ma che poi ho perso, chissà come, chissà quando, chissà perchè. Ed il mio cuore, il mio intero cuore, anela di riaverti indietro. Di poterti stringere di nuovo, ancora, senza doverti mai più lasciare andare. Torna indietro. Torna qui, da me. Con me. La strada non è impossibile da percorrere; ti ho lasciato briciole di pane sul percorso, puoi ritrovarmi, se vuoi.  Ma è proprio questo il problema: devi volerlo. Lo vuoi? Pensi di poterlo volere, prima o poi? Di volermi? Io dei miei sentimenti sono sicura, devi diventarlo anche tu. Ti aspetto. Non lo farò per sempre, ma per un po’ sì. Ho iniziato ad aspettarti dal momento in cui hai voltato le spalle; in fondo, sono quella paziente e comprensiva dei due, no? Perciò, coraggio! Raccogli i cocci della tua anima, gettali alla rinfusa in un sacco e portamelo; vedrai che insieme aggiusteremo tutto. Te. Me. Noi. Devi solo tornare.  Torna indietro. Torna qui, da me. Con me.
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