Tumgik
Ti insegnano che devi lottare, che niente ti viene regalato; al contrario, bisogna sempre sudarselo. Che in amore vince chi fugge o chi riesce a farsi rincorrere. Che anche quando le cose vanno male, bisogna stringere i denti, tenere duro, resistere.
Ti insegnano che esiste il dolore, che è giusto sopportarne un po' e che se non si soffre, se qualcosa è troppo facile o troppo semplice, allora probabilmente è banale, di scarso valore e puoi avere di meglio.
Sono mesi quindi che mi interrogo su che tipo di relazione e amore io stia vivendo.
È la prima volta che mi capita, nella vita, di non dovermi sforzare, impegnare particolarmente per far andare bene le cose.
Non ci sono grossi angoli appuntiti da smussare, nessun incastro forzato, niente di sofferto.
È tutto talmente naturale e semplice, che mi preoccupa e spaventa. Perché è questo che siamo stati abituati a fare: preoccuparci in anticipo. "Meglio prevenire che curare"; non farsi cogliere impreparati, ma cercare di attutire i colpi che arriveranno.
Perché arriveranno. È un dato di fatto.
Costantemente, mi domando se quando giungerà il primo ostacolo saremo in grado di affrontarlo, insieme, poichè non ci siamo preparati adeguatamente. Non abbiamo forgiato il nostro rapporto nel dolore, quindi saremo in grado di sopravvivere alle avversità?
Poi lo guardo dormire sereno ogni notte, lui che è stato insonne tutta la vita, e mi dico che forse ciò che ci insegnano è sbagliato.
O, quantomeno, non si applica ad ogni cosa. Che esistono le persone che sanno semplificarti, migliorarti le giornate e la vita, invece di fare l'opposto, solo che non sempre le riconosciamo a colpo d'occhio e magari ci sfuggono fra le dita, quando dovremo invece tenerle strette.
Occorre spesso più di un incontro, più di uno sguardo, il giusto momento... però succede.
E allora, pensando questo, chiudo gli occhi anch'io e lascio che il suo respiro mi culli, chè tanto se anche mi perdessi in brutti sogni dovuti a pensieri negativi, la sua mano calda mi riporterebbe alla realtà.
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"Non posso restituirti ciò che hai perso con l'incidente. Posso però regalarti cose nuove e bei ricordi, per bilanciare. Vorrei solo che tu fossi felice e che lo fossi con me. Sempre."
Ti amo.
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"Ecco, questo mi rimarrà" Lo ha detto mentre eravamo seduti su un muretto al limitare della piccola cittadina medievale, sotto l'arco della porta romana. Dietro di noi musica e canti; davanti un paesaggio sconfinato e scuro, appena rischiarato da un tramonto morente, color pesca. Abbiamo inspirato a pieni polmoni l'aria fresca, frizzante, della sera e perso lo sguardo in lontananza. Ho fotografato con la mente quel momento, quelle sensazioni, quei colori, suoni e profumi. Ma soprattutto lui, sereno e forse tiepidamente felice. Ed è quello che rimarrà a me. Più del tramonto condiviso, più del buon cibo, dei posti meravigliosi visti e vissuti insieme. Lui, con me, in quell'attimo di benessere e felicità.
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È tutto nuovo, tutto troppo recente e fresco per affermare con indissolubile certezza che rimarrà esattamente come è, eppure vorrei fosse possibile. Vorrei poter congelare la perfezione di questi giorni insieme, spesi in una rassicurante e mai banale quotidianità, e rimirarli a distanza di tempo, sorprendendomi ancora, e di nuovo, della loro semplicità e bellezza. Ieri abbiamo parlato di come qualsiasi cosa sia destinata a cambiare -luoghi, situazioni, persone, sentimenti-; una verità assoluta, purtroppo: niente resta mai com'è. Gli inizi non sono come la parte nel mezzo o la fine. Ma per la prima volta nella mia vita, penso davvero che io e lui potremmo riuscire nell'impresa di tenerci. Tenerci l'un l'altra, per mano. Penso davvero che potremmo adattarci ai cambiamenti, senza cambiare davvero. Penso davvero che potremmo continuare ad abituarci alla condivisione, alla dolcezza, agli scherni, alla passione pur vedendola mutare col tempo. Che continuerò a vedere i suoi appunti o i suoi abiti sparpagliati su ogni superficie disponibile, il frigo stipato di thè e caffè freddo, il posacenere sempre pieno e il tabacco sparso ovunque, i suoi boxer nerd stesi accanto ai miei pigiami con i cartoni animati; che continueremo a discutere su chi debba lavare i piatti, che dovremo sempre tirare bene il lenzuolo sul materasso. Sono certa che continueremo a dormire senza cuscini ma abbracciati, a farci i grattini sulla pelle per conciliare il sonno, a parlarci con vocine sciocche, ad avere lo stesso profumo, a darci baci giocosi al rientro a casa. Penso che, in qualche modo, riusciremo ad essere resilienti, inossidabili all'incuria del tempo. Invece che alla paura del cambiamento, che mi ha sempre accompagnato da chè ho memoria, decido stavolta di affidarmi alla fiducia più totale. In me stessa, nei miei sentimenti, in lui. In noi.
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È pieno di cicatrici, lui. Visibili a primo impatto, sul viso. Un po' più nascoste, alla base della schiena. E interne, sul cuore. Io vorrei accarezzargliele, baciargliele tutte; una ad una. E vorrei riuscire a fargli capire che non sono segni di cui vergognarsi; nel bene o nel male ci rendono ciò che siamo. Ed essendo ciò che siamo, ci siamo trovati.
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La prima reazione, istintiva, che ho nei momenti difficili o di confronto con gli altri è mettere in dubbio me stessa. E anche sabato sera è stato così. Mi sono raggomitolata nel mio lato del letto, chiedendomi cosa, dove avessi sbagliato. Piangevo in silenzio ma tu mi hai sentito; hai acceso la luce, voluto che parlassi ma è stato come lanciare un sassolino che, invece di farsi strada sull'acqua con dei rimbalzi, è affondato senza creare nemmeno uno spruzzo. Mi hai guardato, trincerato dietro un silenzio di piombo, hai spento nuovamente la luce e hai visto bene di girarti di schiena, a filo del bordo del materasso, lontano da me. Ho preso sonno dopo parecchio, troppo intenta a rianalizzare, setacciare, sviscerare, soppesare ogni parola detta e, maggiormente, tutte quelle taciute, trattenute tra i denti. Il senso di inadeguatezza, quella notte, si è gonfiato a dismisura. L'insicurezza cronica è tornata a fare capolino fra le vertebre, facendomi ripiegare su me stessa e tacere la pretesa di spiegazioni, troppo timorosa di sentirti solamente dire che non era il caso di andare avanti; non insieme. Ma alla prima reazione istintiva, ne segue una, ora, più razionale: dopo due giorni di vuoto e gelo da parte tua, adesso in me c'è rabbia. Rabbia perchè questo tuo gioco dell'escludermi, del tagliarmi fuori non può proseguire ancora a lungo, usando sempre la scusante che la tua testa fa voli pindarici e poi cade in picchiata. Lo fa anche la mia. E se tu hai dovuto convivere con il veleno della tua stessa mente per due giorni interi, combattendo quasi una lotta contro te stesso, io ho convissuto invece con la tua freddezza e con i miei pensieri, nocivi forse più dei tuoi, che sono finiti alla deriva. Sono arenati in un pantano di paure dentro le quali non voglio affondare le mani. Non piacerebbe a nessuno dei due ciò che ne emergerebbe. Forse è la fine. Forse no. Ma l'attesa rende il tutto insopportabile. Meglio sapere con certezza che il boia calerà la lama, piuttosto che vederlo indeciso valutare pro e contro sul momento.
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Non lo so com'è successo di preciso. Quando è successo di preciso. Eppure questa casetta -questo cuore- si è riempita. Di lamentele e affanni per tutti i gradini che bisogna fare per arrivarci. Di odore di sigarette mai fumate accanto alle finestre. Di pranzi improvvisati. Di melodie canticchiate a squarciagola sotto la doccia. Di infradito troppo piccole, strusciate a terra. Di carezze sulla pelle fino a far venire la pelle d'oca. Di baci del buongiorno, baci della buonanotte, baci tra una sigaretta e l'altra, baci al sapore di collutorio o di guanciale croccante. Di cuscini tirati alla rinfusa ai piedi del letto. Di film messi come solo rumore di sottofondo. Di cappelli stravaganti indossati come accessori fashion. Di premure, massaggi, sesso, risate, complicità.
Non lo so com'è successo... ma è successo.
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Ho avuto un blackout oggi. Un blackout emotivo. Mi sono svegliata con un macigno sullo stomaco, che poi è risalito ai polmoni e infine si è poggiato sul cuore dove è rimasto tutto il giorno. Lui soffriva. Io soffrivo. Aveva relegato il suo stato d'animo e le sue condizioni di salute in fondo, ultima preoccupazione fra altre questioni gravose. Per me, invece, lui era il primo fra i pensieri. Ho dovuto condividere il petto con l'ansia per tutta la giornata; in silenzio, a distanza. Per questo il blackout. C'è stato un momento, in macchina, nel parcheggio del centro commerciale in cui l'impotenza e l'angoscia mi hanno soverchiato e mandato in corto circuito non solo il cervello, ma qualsiasi organo del corpo. Sono rimasta in quelle condizioni di malessere per ore, sobbalzando ad ogni messaggio, che non si rivelava mai essere suo. Ero logorata dentro al pensiero di non poter constatare con i miei occhi le sue condizioni, non potergli fare nemmeno una carezza, non essere lì quando sarebbe tornato a casa, distrutto. E poi, inaspettatamente, ci siamo visti. Ho potuto accarezzarlo. E abbracciarlo. E baciarlo. In quel momento ho ripreso a respirare bene -ossigenando a dovere i polmoni- ed anche il battito si è regolarizzato. Era a pezzi, ma non mi ha respinto. Era a pezzi, ma si è lasciato stringere e coccolare sebbene sentisse di non meritarlo. Ho avuto in mente un unico pensiero, tutto il tempo che ho passato con lui. E non sono certa sia rimasto tale o gli abbia dato corpo a voce alta, ma non sono spaventata all'idea di averglielo detto; ha la mia fiducia più totale. "Lasciamelo fare per sempre; prendermi cura di te."
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Ho paura. Davvero tanta, tanta paura. Sono spaventata da lui, dalla dolcezza, passione, premura che mi dimostra. Cose belle. Di più: meravigliose, eppure io ne sono terrorizzata. Non oso abituarmici. Perché tutte le cose belle hanno una fine. E io stavolta ne resterei annientata. Ieri sera gli ho raccontato di questi demoni che un po' mi rosicchiano la pelle intorno al cuore e lui mi ha stretta più forte, baciato le tempie e le lacrime e rassicurato. Senza parlare, ma non servivano parole. Le sue braccia che mi cercavano nel letto, stanotte, ogni qualvolta mi allontanavo, quel nomignolo con cui mi chiama prima di cercare le mie labbra persino davanti ai suoi amici e i sorrisi che mi regala, sono ben più forti di qualsiasi vuota e inutile promessa. Rendono opache le mie paure e vividi i contorni delle mie speranze.
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A malapena coperto da un plaid di Serpeverde, lui dorme accanto a me indossando dei boxer con i pappagalli e i calzini di braccio di ferro, mentre io lavoro. Il suo respiro è sincronizzato col mio e la pioggia batte placida sul tetto di legno di casa mia. Per la prima volta dopo un tempo lunghissimo, che non saprei nemmeno quantificare, mi sento esattamente nel posto in cui dovrei essere, con una persona che desidero fortemente e che non solo mi reputa bella, ma riesce a farmi sentire trasparente tanto mi legge dentro. Se non si chiama felicità, questa... beh, è qualcosa che ci si avvicina davvero tanto.
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Non so bene cosa scrivere, come scriverlo. So solo che vorrei dipingere questa giornata o renderla musica, così da poterla rivivere, riguardare, riascoltare. Basta anche solo uno schizzo di colore, una qualche nota appuntata su un pezzo di carta qualunque, purché resti. So che ero tesa, in ansia, che la pelle formicolava e le guance erano rosse. E che mi sentivo viva. So che guardavo cicatrici e le reputavo bellezza, io che ne ho diverse e che le ho sempre considerate difetti, segni di un corpo traditore che non ha mai esternato adeguatamente come mi sentissi dentro. So che il cuore mi batteva nel petto e non facevo che ripetermi che il solo tepore, mio malgrado, devo lasciarlo a chi sa farselo bastare. Non fa per me. Io voglio, devo bruciare, altrimenti non ne vale la pena.
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Le riconosco sulla pelle le giornate grigie. Quelle di piombo; intorpidite, stanche, pesanti. Cominciano con gli occhi arrossati, che pizzicano per averli strofinati troppo prima di riuscire a spegnere la terza sveglia. Proseguono con l'affacciarsi alla finestra e vedere la pioggia bagnare la collina dietro casa. Con un caffè troppo amaro, mandato giù d'un sorso, con la notifica del traffico già congestionato. Una sequela di notizie e fatti non particolarmente brutti, ma senza i quali -diciamocelo onestamente-, si vivrebbe meglio. Sono giornate fastidiose, che serpeggiano sulla pelle come ad avvisarti che il peggio è alle porte; che da grigia, la giornata può diventare nera in un battito di ciglia. E poi, d'improvviso, un fievole raggio di sole. Lì, sulla sinistra, nascosto dalle nuvole. Mi guarda passando veloce, mi sorride da sotto la mascherina e quelli sulla pelle si trasformano in brividi. Formicolii. La pelle ha una memoria tutta sua. La mia, oltre ad esser costellata di cicatrici, nei ed altre imperfezioni, ricorda ogni tocco. La prima, come anche -e soprattutto- l'ultima volta che il sole -quel sole- l'ha sfiorata. Era notte fonda, eppure c'era così tanta luce nell'abitacolo della macchina, che mi sono domandata come potessero altri non notarla. Era notte fonda, ma sembrava mezzogiorno. Mi ha anche baciata, il sole, quella sera. Lo fa spesso... meno di quanto dovrebbe. Di quanto vorrebbe. Non si rende conto dell'effetto che ha su di me. Mi sono sempre reputata un animale notturno, eppure mi trovo, mio malgrado, a non saper fare a meno di questo sole primaverile. Così imprevisto, inatteso, inaspettato, travolgente, caldo. Mi rendo conto ora, solo ora, di quanto in realtà io, ultimamente, viva rassegnata, collezionando giorni grigi, in attesa della luce del suo sorriso.
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Bisognerebbe, di tanto in tanto, potersi vedere con occhi altrui. Farebbe bene all'autostima, all'amor proprio, al senso di inadeguatezza, al cuore. Avrei voluto sapermi vedere con i suoi occhi, domenica. Occhi che mi guardavano meravigliati, che mi descrivevano come un qualcosa di delicato e puro. Così non mi ci sono mai vista, ma nelle sue braccia mi ci sono sentita, per la prima volta dopo tanto tempo.
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Vorrei poter dire che ti ho dimenticato, che le ferite che mi ha inferto il tuo rifiuto non sanguinano più, ma sono piena di punti che continuano a strapparsi e di cicatrici rimarginate male. E il cuore ha una memoria tutta sua, capace di conservare ogni carezza, ogni bacio, ogni risata per mostrarmela dietro le palpebre degli occhi chiusi ad ogni battito di ciglia. Vorrei poterti dire che ho imparato ad ascoltare le canzoni di Marco Mengoni senza riconoscere un po’ di noi in ogni strofa, che ho cancellato le poche foto che ho di te dal cellulare, ma non ne ho avuto la forza: sarebbe equivalso al cestinare un anno intero della mia vita, una vita che speravo prima o poi di poter condividere con te. Vorrei poterti dire che non piango più, pensandoti. Anzi, che il tuo pensiero non mi sfiora più. Mentirei. In realtà l’unica cosa che so che ti direi, se decidessi di ricomparire oggi, sarebbe solo “ti stavo aspettando”. Perchè è questo che sto facendo da settimane, ormai: aspetto il tuo ritorno, sperando che tu non ci metta troppo a renderti conto che siamo sempre stati perfetti l’uno per l’altra. Aspetto il tuo ritorno, mentre continuo a vivere. Aspetto il tuo ritorno, cercando di non farlo, ma augurandomi che non avvenga quando sarà troppo tardi.
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Ti ho trovato negli occhi di un ragazzo, stamattina. E nel suo taglio di capelli, nella postura e nella risata coperta dalla mascherina. Mi sono bloccata nel bel mezzo del corridoio ed ho smesso di respirare. Mi sono sforzata così tanto di non dedicarti più di qualche pensiero sporadico durante il giorno che guardare quel ragazzo mi ha fatto temere di essere impazzita. È stato come veder materializzare tutti insieme i miei desideri inespressi. Reggeva un pacco grande fra le mani e ricambiava i miei sguardi: se per altrettanta curiosità nei miei confronti o per capire se avessi qualche problema vista la mia assoluta incapacità di rispondere all’infermiera, difficile dirlo. Razionalmente so che non succederà mai d’incontrarci per caso, così come oggi è successo con quel ragazzo, ma confesso che è stato difficile farlo capire al mio cuore. È lui - sussurrava speranzoso. Non può essere lui. Lascia perdere - rispondevo io, disillusa, ma cercando dettagli su quel viso che mi smentissero. Quando sono uscita dalla stanza delle visite, nutrivo la speranza di incontrare nuovamente lo sconosciuto che indossava i tuoi occhi e poterci scambiare qualche parola, ma era già andato via. Tu, invece, dopo più di un mese di assenza e silenzi, ancora resti, ombra che segue ogni mio passo e quando il sole è alto si mostra con prepotenza. Ti porto sempre con me, che lo voglia oppure no.
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Sei ancora qui. Non sei andato via del tutto. Forse non andrai mai via del tutto, tatuaggio sbiadito nelle pareti interne del mio cuore. Riemergi sporadicamente durante il giorno; in maniera prepotente di notte prima che chiuda gli occhi e sogni di vederti tornare da me. Nel frattempo, io proseguo. La mia vita prosegue. Frenetica, piena, stressante, vivace. Non avevo bisogno di condividerla con te, ma avrei voluto farlo. E tra un bisogno e un desiderio c'è una differenza abissale, profonda tanto quanto il crepaccio apertosi sotto i nostri piedi d'improvviso che alla fine ci ha diviso. Sei ancora qui. E anch'io sono ancora lì, fingendo indifferenza ma segretamente sperando.
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È un anno che corro. Ed io odio correre. Mi manca il fiato, divento subito rossa in viso e muscoli e milza protestano dal dolore. Dopo pochi passi, arranco, reggendomi il fianco e cercando di incanalare quanta più aria possibile. E non è una semplice questione di allenamento. È proprio che fisicamente non sono portata per la corsa. Eppure... eppure è un anno che ti corro dietro. Il chè ha dell’incredibile. Lo faccio nella vana speranza di raggiungerti e poterti camminare al fianco, tenendoti per mano. Ci sono state volte in cui tu hai rallentato il passo, permettendomi di affiancarti, ma un attimo dopo hai di nuovo accelerato e mi hai lasciato indietro, esausta, stremata. La cosa più difficile di tutte da affrontare è l’illusione. Credere costantemente di potercela fare, di riuscire prima o poi ad arrivare a te e al tuo cuore, ma sai... inizio ad essere davvero stanca. Il fisico non regge il ritmo del mio animo romantico e speranzoso. È una corsa inutile, la mia. Tu non ti stai nemmeno più voltando indietro a vedere se ti sto ancora inseguendo. Prosegui per la tua strada, imperterrito, e di me non ti curi. Non mi vuoi accanto. E io non me lo merito. Così come tu, quasi certamente, non meritavi tutti i miei sforzi, le fatiche, i battiti accelerati, il fiato perso. Sto ancora correndo, lo so. Ma ho iniziato a rallentare, finalmente. A non chiederti, inutilmente, di aspettarmi. Tanto la direzione non è mai stata la stessa. Mi auguro di riuscire a fermarmi presto e di incontrare, per strada, camminando, qualcuno che abbia voglia di prendermi per mano e incamminarsi lentamente insieme a me verso un tramonto al mare.
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