[Sfighe e privilegi: Paolo Cattaneo su Non mi posso lamentare](https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/ "https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/")
Una premessa veramente sincera.
Compilo questa specie di testamento scrivendo sul cell, seduto su una comodissima poltrona in velluto marron di un treno veloce giapponese, a 500km/h, durante un viaggio nel Sud del paese, che ha delle regole molto precise, ma che purtroppo non posso elencarvi qui.
Questo significa che sarò particolarmente sensibile, probabilmente prolisso e quasi sicuramente sconclusionato, abbiate la pietà e la pazienza di leggerle come se fossero il diario segreto di una fricchettona rimasta incinta durante una vacanza nel terzo mondo.
Mi sarò indulgente, permettendomi deviazioni e sincerismi, perché credo in modo speciale nelle persone che hanno messo su questa stamberga (Le Fauci, mi hanno detto che si chiama, e che sono il primo a saperlo).
Credo soprattutto nel grande bisogno di occhi acuti, laser attenti che scrutino il panorama della narrazione a fumetti come uno spietato rapace scruta il fumo di un incendio, in attesa che i topini, fuggendo dalle fiamme, abbandonino i loro nascondigli, per avventarvicisi sopra, ad artigli sguainati.
Questa che segue sarà la più sincera testimonianza che concederò per iscritto a internet, grazie per l’attenzione che vorrete forse concedermi, ciao.
Il Ponte di Brooklyn italiano.
Non mi posso lamentare (da qui in avanti NMPL) è ambientato nella periferia dove sono cresciuto, il quartiere di Coronata (GE).
Coronata è un quartiere con un passato contadino, prima che i vigneti degenerassero in boschi di rovi, preservativi e ceres lanciate. Vi si faceva un vino bianco che sa di zolfo (viene citato anche dal videogioco The Witcher 3, quindi è famoso).
Poi sono arrivati i palazzi dell’INA-Casa e il presente popolare, i meridionali per lavorare nelle acciaierie del porto industriale che ha cancellato le spiagge, la collina è stata sventrata dalle gallerie dell’Autostrada, hanno costruito l’ex Ponte Morandi di fronte alle finestre dei miei, il panorama delle nostre adolescenze di periferia: coi culi dell’Adidas seduti sulla sella di un SR 50, una Punto GT con le portiere aperte e il pianale che spara Franchino.
Come sempre nei miei fumetti, ho inserito i luoghi e le cose che conosco bene, ma ho comunque dovuto fare delle perlustrazioni apposta in motorino (quando pioveva invece con Maps) perché volevo sentirmi un Danilo e perché quel tipo di esplorazione marcia che fa lui nella storia è una delle MIE attività preferite, che svolgo regolarmente e con gusto. Queste volte però ho provato a guardare i MIEI luoghi della MIA vita, con i SUOI occhi (azzurri) e ho provato a immaginarli come SUOI luoghi della SUA vita.
Il quartiere di Coronata con l’Ilva sullo sfondoUn mio compare (uno che c’aveva l’Aprilia SR bordeaux metallizzato) mi faceva notare che:
Danilo è un romantico, come Paolo, guarda su internet i nomi dei fiori, come Paolo, celebra i modelli dei motorini, come Paolo, apprezza esageratamente la propria automobile, come Paolo. Siamo pure coetanei.
Io gli ho risposto che forse è la prassi normale, quando nasce un personaggio, che ci finisca dentro un po’ di chi lo inventa.
Sempre lo stesso compare mi diceva che i veri Danili non sono poeti, che i veri Danili se ne extra-sbattono dei fiori e delle prugne sugli alberi.
Invece io credo che sì, o meglio credo nella possibilità di cambiare punto di vista in qualsiasi momento, ma serve un motivo, nel caso di Danilo è la questione di voler lasciare qualcosa qui, al mondo dei vivi, i suoi quaderni con dentro lui e i suoi ricordi e i suoi amici e le cose che gli piacciono. Allora Danilo accende finalmente il macchinario impolverato della sua immaginazione, forse per la prima volta nei suoi quasi 38 anni e dunque sì, in quel momento un po’ poeta lo diventa pure lui.
Anzi, la fantasia prende proprio il sopravvento, modificando la realtà in modo tangibile, anche salvandolo un po’, mettendo a posto quelle cose che un posto non ce l’hanno, a meno che non te lo inventi.
Per la prima volta ho voluto scrivere una storia ambientata nel Presente, oggi, e non nei ‘90 o nei primi 2000, e metterci dentro il nuovo iPhone, l’ultima edizione di FIFA, CR7 alla Juventus, YouTube, Wikipedia, Google Maps e quelle cose mi che rendono il presente -a tratti- quasi accettabile.
Una pagina dello storyboard di NMPLDanilo rimane comunque un ragazzo ben fermo nel ‘900, e i suoi racconti sono sempre lì, piantati orgogliosamente in quello squallido periodo tra il primo e il secondo millennio, come i miei, appunto.
Raccontare il Presente mi ha aiutato ad uscire da quella ricetta nostalgica che nei miei fumetti ormai preparavo con una certa dose di maniera.
Infatti mi ci sono gasato, e siccome non mi piace la retromarcia, sto pensando di teletrasportare una storia (su cui sto facendo finta di lavorare da almeno 5 anni) ambientata nel 1998 nell’Adesso: con gli smartphone invece che i 3310, con le macchine brutte di ora, invece che le Alfa 33 o le Tipo, per capirci, con i motorini nuovi, deprimenti, a ruota alta tipo l’Honda SH o quelli nerboruti come il T-Max.
Rimango comunque convinto che un motivo ci sia se la Nike ha rifatto proprio le nostre di scarpe, e la Adidas ha rifatto persino i pantaloni coi bottoni di lato, no?
La Classe Operaia fuma di merda.
C’è un mio vecchio amico (adesso non ci becchiamo più tanto, ma ci siamo beccati di brutto prima), lui lavora in fabbrica, veramente di notte, da praticamente sempre, ovvero da quando avevamo meno di 20 anni, e in fabbrica ci lavorava pure suo padre, che era venuto apposta a Genova da giù, per lavorarci, perché forse ci lavorava già suo fratello, o qualche altro parente, sempre da giù.
Nel suo capannone fanno palette per turbine, cose giganti che servono per delle cose importanti.
Un altro dei miei amici più cari (amico anche di quello sopra) ha dovuto prendere il posto in una fabbrica di pezzi di motori per navi quando il suo patrigno è morto, e ha lasciato la scuola per andare a lavorare, così, mentre noi eravamo ancora lì a disegnarci i bambulè sugli astucci.
Poi ha lavorato sulle autostrade, a pulire i catarifrangenti con uno spruzzo, per più di 10 anni, di notte pure lui, con una tuta evidenziatore, a schivare i TIR per tirare su i birilli tra le carreggiate, insieme al suo collega Xavier e a qualche marocchino.
Negli anni, ci siamo sempre beccati per giocare a tutti i videogames e a fumare e guardarci le cose da ridere sul computer e ordinare dei McNuggets, le cose normali degli amici.
Gli interni della Panda di DaniloOvviamente gli ho fatto centomila domande sui loro lavori, e mi hanno sempre risposto, forse divertiti, forse infastiditi, senza capire perché mi interessasse scendere così a fondo nei dettagli del funzionamento delle mense, degli scherzi, delle battute sui froci, degli stipendi e dei buoni pasto.
Ho ascoltato ottimi aneddoti sui colleghi, figure mitologiche e di riferimento, storie da ridere ma dopo diventare subito anche preoccupati.
Loro due (e altri, ma loro due proprio da vicino e durevolmente) mi hanno insegnato delle cose senza manco spiegarmele, avendo la cortesia di non sputarmi in faccia quasi mai e di ascoltare con pazienza (e la giusta ironia) ogni mia cazzata controcorrente di ragazzino e poi di adulto.
Loro andavano a dormire alle 7 del mattino, dopo il turno, io mi svegliavo ore più tardi, dopo la serata, per andare in Accademia a pitturare delle tette; anche se vengo da una famiglia operaia, in un quartiere di periferia, che si affaccia da una parte sull’ILVA e dall’altra sull’Ansaldo, confrontarmi direttamente con il dovere dei coetanei mi ha fatto provare un pochino più di vergogna ai vernissage, dove ho sempre cercato di fottere almeno una bottiglia, per una questione di rispetto e di estrazione sociale.
E mi sono accorto, mentre lo scrivevo, che Danilo è un po’ me, ma forse è soprattutto loro.
Una pagina dello storyboard di NMPLNaturalmente non ho avuto tra le mie frequentazioni solo eroi del proletariato, ho bazzicato anche della gente che poteva comprarsi lo scitto più buono con i soldini di mammà.
I più lungimiranti ci caricavano la piastra da spacciare, pregio da 10 euro al grammo, erba dalla Svizzera, da Milano, non dalla Calabria o dall’Albania come eravamo abituati noi della Val Polcevera.
Persone che quando ci andavi in casa a comprargli due canne, dovevi suonare ad un citofono di avvocato e salire con l’ascensore all’ultimo piano, dove si vedeva il mare e il tramonto sul porto.
Ma poi sono sempre tornato a fumarmi il ciocco di merda coi miei, quello che ti fa solamente venire quel misto di sonno e mal di testa, con la vista sul ponte della ferrovia di ferro marcio, nello stesso palazzo che ho messo in “Manuelone” e ogni tanto magari portavo due cannine di quell’erba super dei ricchi.
Ora: dato che tengo molto a non fare la figura del Piccolo Lord con la paghetta dello zio schiavista, che si dedica allo studio delle arti mentre gli altri intorno a lui si sgobbano il salario, vi accenno che nella mia esistenza ho avuto (e avrò) delle sfortune del cazzo, ma che fortunatamente queste sfortune del cazzo mi hanno causato dei privilegi benedetti, questi privilegi benedetti mi hanno permesso di non lavorare tanto come gli altri, permettendomi per esempio di dedicarmi ai romanzi a fumetti, cosa che, come ben saprete, altrimenti sarebbe economicamente insostenibile, senza avere gli attici a reddito.
Sfighe e privilegi che scambierei con chiunque di voi, adesso, se esistesse la magia nera (o quella grigia), capiamoci, nulla di vagamente invidiabile.
Questo non significa che mi conceda di lavorare a gratis, anzi, il mio tariffario è da pochissimo triplicato dopo che sono stato pubblicato in Francia e che “L’Etè Dernier” è entrato nella Sélection Officielle di Angoulême.
Mi pare sia logico che giusto, no?
Le mani dell’Artista.
Dei precedenti lavori mi sono portato dietro solo la consapevolezza degli errori fatti e la voglia di non ripeterli, infatti ho deciso di cambiare tutto, tranne quello che non sono proprio riuscito, neanche volendo.
In questo è stata NECESSARIA la fiducia delle persone che hanno lavorato al libro con me: Simone Romani, Pasquale La Forgia, e Roberto La Forgia.
Ovvero la La Paziente Triade che mi ha sostenuto come si fa con un ubriaco che non riesce a camminare e che si è vomitato tutti i pantaloni e forse se li è anche pisciati.
Scrivere per me è una cosa veramente seria, giuro che ogni giorno mi guardo allo specchio e mi dico: ”ma che momento storico deprimente è se tu, che sei un pirla, con quella faccia da pirla, scrivi delle storie che alcune persone si prendono il tempo di leggere? Tu, arrogante coglionazzo, come ti permetti? Io adesso vengo di là e ti spacco il culo!”.
Anche stamattina, nello specchio di un hotel di merda, a Sukumo.
Ecco, giuro che io alla mia riflessione non ho il coraggio di rispondere.
So che questa cosa ha un nome che c’entra con l’inadeguatezza, ne ho parlato una volta con Tonetto, forse la stessa notte che abbiamo litigato per colpa di Cavazzano lungo i viali deserti di Torino.
Quella stessa volta in un locale una signora scalza ci aveva leccato i palmi delle mani perché le nostre (diceva) erano mani d’artista, non so chi le avesse spifferato questa cavolata, forse fu colpa di Tonetto che faceva i suoi disegnini ingarbugliati sui tovagliolini di carta, forse di Cavazzano, che purtroppo non era presente, ma fu un elogio vischioso ed indimenticabile.
Quindi, nonostante i miei turbamenti da Sirenetto, le persone che sono dietro a questo libro mi hanno sostenuto e mi hanno portato a casa a spalle, anche se gli ho vomitato tutti i sedili.
Ho l’idea che NMPL debba essere un fumetto di apertura ad un pubblico più ampio, un lavoro meno ostico da fruire, semplice in senso positivo: la storia di un genitore (o quasi) che lascia qualcosa a un figlio non l’ho inventata di certo io, anzi.
Ma proprio per questo è una storia che parla ai più, non servono troppi requisiti o un palato troppo raffinato per entrarci, almeno spero, era il mio obiettivo: riuscire a tirare dentro sia i fissati (come me) di certi elementi che sono sempre stati nei miei lavori, sia quelli che legittimamente se ne stra-sbattono della poesia dei motorini e dei citofoni bruciati e vogliono godersi una bella storia, emozionarsi, piangere, ridere e magari ricordarsela per un pochino.
Non mi posso lamentare.
Cambiare editore è stata per me una scommessa, sia per legami personali, sia per visione, per patemi e altre menate, ma è stato anche un grande stimolo che mi ha dato le forze per fare un salto nel buio e cambiare registro il più possibile.
Ripeto che le persone di Rizzoli Lizard che hanno lavorato con me hanno avuto totale fiducia nel mio racconto, più di me a tratti.
Il digitale è una figata, e per digitale non intendo stare a casa davanti al mega-computer a fare il goblin nelle segrete, intendo l’iPad con la matita magica, che ficchi nello zaino e ti porti dove vuoi, intendo Procreate, che ha mille limiti ma è facile da usare anche per uno come me che non ha voglia di impararlo.
Questo fumetto l’ho disegnato in tanti posti diversi: prati, aerei, Puglie, Milano, bar marci, spiagge irlandesi, frutteti, fiumi, biblioteche, case di altri, metro, studi di altri. E per me questa è stata una cosa meravigliante e divertente, che ha alleggerito (e di molto) il compito di compilazione lungo ed esasperante che ogni tavola di qualsiasi fumetto richiede.
Ovviamente all’inizio ho avuto le mie paure, pensavo se le persone che seguono il mio lavoro di ex-matitinista si sarebbero sentite in qualche modo tradite o altre stupidaggini, ma ho subito deciso di sbattermene, e credo giustamente, dato che purtroppo non sono abbastanza popolare da temere un risvolto alla “Misery”.
Tutti si sono accorti dell’abbandono della matita (e del b/n), ma sono certo che i più attenti avranno notato anche l’abbandono della mia gabbia, ovvero quella griglia un poco variabile, a volte monca, che ho sempre usato per scandire sulla pagina lo scorrere del tempo nelle mie narrazioni.
Ho deciso di accantonarla in modo naturale: questa storia infatti aveva necessità diverse (le grandi didascalie testuali del diario hanno bisogno di tanto spazio sulla pagina) e il digitale che avevo in mente era spudorato, come quello del Super Nintendo, coi pixel che si vedono.
Ho quindi rinunciato a mimetizzare il segno ed ho creato un pennello pixeloso che non imitasse nulla di reale (inchiostro o matita), poi ho lavorato usando solo 3 dimensioni fisse di punta e una palette di colori ridottissima (32), per non perdermi nel mondo delle infinite possibilità (e conseguenti dubbi eterni) proprio del mio nuovo mezzo.
Un altro fattore rilevante è stata la mia voglia di raccontare attraverso i COLORI.
A me il b/n mica mi piace, anzi, ogni volta che vedo del bianco e nero patisco perché non è a colori. Vado su Facebook a guardarmi gli album di foto storiche ricolorate, per capire meglio; da piccolo quando guardavamo le foto con mia nonna le chiedevo sempre di che colore erano i vestiti che indossava.
Ho sempre lavorato in toni di grigio solo per una questione di tempi. Sono visceralmente contro il bianco e nero, è un pacco e basta, come il bianco delle statue dell’Antica Grecia, che poi, guarda un po’, invece adesso sappiamo tutti che erano belle colorate, con gli occhioni con la pupilla dipinta per benino. Dovrebbero esistere delle associazioni di volontari appassionati che colorano i fumetti in bianco e nero: Associazione Volontaria Coloristi Bravi Fumetti Belli, magari potrebbero anche organizzare delle raccolte fondi per convincere l’autore a colorarlo, o per pagarsi i propri stipendi di coloristi.
Ovviamente ci sono delle eccezioni in cui il b/n funziona molto meglio del colore, ma non me ne viene in mente nemmeno una.
La banda dei ranocchi.
Solo l’uso del mio caro sfumatino marcio che avevo sempre utilizzato finora mi è mancato un pochino, specialmente nella gestione del rossore guanceo, ma fa parte del processo di abbandono proprio di ogni cambiamento.
Sul mio stile (per usare una parola che non mi piace affatto, di solito dico sintesi, ma non vorrei sembrare un genoano) è in corso una ricerca di soluzioni che va avanti da sempre e che non è ancora lontana dalla meta, se mai esiste.
Faccio un esempio: nel mio stile degli inizi la mia missione segreta era quella di ottenere una via di mezzo tra la raffigurazione di certe sculture in pietra medievali e un certo manga descrittivo alla Tsukasa Hōjō (City Hunter) o Taniguchi (con le dita spezzate, ovviamente).
Nel tempo il mio modo di inventare e disegnare le fisionomie personaggi è diventato più cartoonesco (meno realistico), questo mi è servito a differenziare i personaggi il più possibile, in modo che chi legge, e specialmente i non addetti (quella piccolissima porzione di “massa” che legge, della quale una piccolissima porzione legge anche i fumetti, della quale una piccolissima porzione legge pure i miei), almeno non debba fare fatica a riconoscere chi è chi.
Ora i personaggi si possono riconoscere anche sono dalla silhouette: hanno piedoni a forma di fagiolo, nasi a palloncino, dentoni che non esistono, teste triangolari o quadrate, alcuni sono alti più delle porte, altri larghi più di un divano, altri sono invece piccolissimi, questo credo arrivi da un crescente interesse per il manga comico (Doraemon, Shin-chan, Dash Kappei, Kochikame), anche se Tonetto dice che in NMPL c’è anche del Tom & Jerry e da quando me l’ha detto ce lo vedo pure io: Danilo somiglia a Tom il gatto mischiato con Demetan.
Ovviamente, seppur radicale, non è stato un cambiamento TOTALE, credo che ci siano ancora gli elementi per attribuire tutti i miei lavori alla stessa (mia) mano.
Nei fondali invece evidentemente l’arte medievale (la pittura in questo caso) è ancora un riferimento obbligatorio: in assenza di ambienti prospettici coerenti, continuo a preferire una sghemba assonometria, ma il mio riferimento sono ancora Giotto e certi pittori naif, Ligabue su tutti.
Poi Procreate ha un sistema di assistenza robotica per le linee dritte che mi sarei sentito fesso a non usare, ce l’ha anche per la prospettiva giusta ovviamente, l’Assistente Robo-Prospettico.
In generale trovo l’utilizzo della prospettiva molto inibente per me.
Le pagine di NMPL avevano bisogno di una dose di spazialità astratta anche, fatto di geometrie semplicissimi, aberrati e spesso bidimensionali.
Ammiro molto chi riesce a districarsi tra gli affilatissimi rovi della perspective propriis, i veri samurai del fumetto (come ad esempio Bacilieri e Filosa) ma al momento io mi sento più un ronin marcissimo che usa la sua katana come riesce, giusto per pararsi il culo contro i cani randagi di notte, sul sentiero per la mia baracca di merda dove tengo i miei 4 sacchetti di roba da lavare, un giaciglio di fieno e una piccola stufa rattoppata. Per adesso ci sto alla grande, ho pure rubato due mandarini e un daikon da un orto.
I clienti del Bar Miki.
Il lavoro di Michelangelo Setola è il vero motivo per il quale ho finalmente posato la matita.
Cerco di vendicarmi tempestandogli il cell di foto di buone pietanze a base di pesci crudi da qui. Gli ho appena mandato un video del brodo di miso con degli occhi grossi di orata grossa che ho mangiato in provincia di Kagoshima. Sembravano delle piccole prugne gelatinose. Ci ha patito, di invidia intendo.
Quando ho visto per la prima volta i lavori suoi (e quelli di Amanda Vähämäki) per me è stata una bella sberla, la prima di una lunga serie che non finisce mai. Le ultime me le hanno date Shin’ichi Abe, Italo e ho appena porto l’altra guancia proprio a Michelangelo Setola con il suo ultimo e grande: “Gli Sprecati”; Setola dovrebbe stare nei musei, mica nelle librerie.
Infatti ogni volta che lo incontro cerco di imparare da lui delle ricette di pietanze e anche la ricetta più difficile: quella della distanza dal proprio lavoro, una distanza precisissima regolata in modo da non diventare mai lontananza, molto simile ad una flemma soprannaturale tipo quella di Toki della Divina Scuola di Hokuto, il fratello adottivo di Kenshiro.
Ho il grandissimo privilegio di conoscere e frequentare praticamente tutti miei autori italiani di graphic novel preferiti, che sono pochissimi ma giganti e di poter parlare con loro di cibi o auto o videogames, come si fa tra veri colleghi e cercare di imparare sempre da ognuno qualcosa.
Una pagina dello storyboard di NMPLDa Tonetto sto imparando l’importanza di un pranzo o una cena dignitosa, in compagnia di persone molto selezionate, poche possibilmente, seguita magari da una fotografia di gruppo con il ristoratore e magari anche da un soggiorno in un albergo in quota, dove godere del fresco e poter parlare liberamente.
Da Filosa sto imparando il Bushido del fumetto, la temperanza e l’ostinazione che trasformano un fumettista in un autore ed un autore in una voce, oltre all’orgoglio di fare una cosa fighissima come i fumetti senza lagnarsi di quanto si deve stare seduti al tavolo da disegno (o appresso ad un iPad).
Da Mazzetti sto imparando che le idee chiare sono uno strumento micidiale per raggiungere i propri obiettivi, che si può essere disordinati e ordinati allo stesso tempo e una bella serie di canali YouTube decongestionanti, tipo uno di una giapponese che cucina e va a fare la spesa.
Da De Franco sto imparando la fame pazza di fare tutte le cose insieme e a cercare di trovare quella chiavina per riaprire la gabbia dell’immaginazione, che poi è anche quella delle possibilità.
Potrei continuare la lista dei talenti degli altri visti da me, ma non lo faccio.
Berto è ancora vivo.
Che io conosca solo la MIA di normalità è una cosa ovvia:
il bar-tabacchi a Coronata è un posto normale, con dentro la gente normale, che prende il 62/, che è un autobus normale, che si arrampica su per le curve di un quartiere di palazzi normali, dove le persone fanno dei lavori normali, scendendo giù dalle curve con delle macchine normali e che comprano ai figli motorini normali, vestiti normali e che quando si incontrano si dicono delle cose normali.
Adesso per esempio sono in Giappone e sto cercando di scoprire un Giappone più normale, cioè il corrispondente giapponese di Coronata: vado ai giardinetti, seguo un fiume, guardo bene la roba stesa nei poggioli, vado dietro all’ombra di un palazzo a vedere il parcheggio, e però mi sembra tutto straordinario lo stesso, perché, per fortuna, la normalità dicono che non esista più appena ci si sposta, anche di poco, anche non fisicamente.
“Umile” è un aggettivo che ho sempre affibbiato al ricordo di mio nonno, che era un Maradona in tutto, specialmente, dopo la pensione (Ansaldo), nella rapallizzazione del suo giardino a suon di colate di cemento, ma preferiva parlare di come facevano bene le cose gli altri.
Ricordo gli elogi alle fave che metteva Berto (quello dell’orto di fronte), come gli venivano bene a lui a nessun altro.
Senza autocommiserarsi (riguardo le proprie di fave), anzi, con sincera meraviglia e apprezzamento, immagino di aver ereditato da lui la curiosità per le questionucce delle altre persone, e che è anche lo scheletro del mondo che racconto e del modo in cui lo racconto.
Berto era anche quello che accoppava i ricci con la vanga perché una volta, a suo dire, spappolandosi sotto il peso della sua Ape 50 azzurra, gli avevano fatto lo sgarbo di forarne il pneumatico.
Sempre Berto aveva motosegato un pruno secolare che faceva delle prugne d’oro, perché, cadendo, creavano un pantano di marmellata d’oro che faceva slittare i sempre preziosi pneumatici dell’Ape 50. Berto era versione cattiva di Gargamella, però faceva le fave migliori
Come un ritardato.
La morbosità per il dettaglio è una mia peculiarità biografica, nel senso che sono il tipo (e non sono l’unico, anzi) che si fissa a fissare le storie.
Alla nostra categoria di persone capita di dover fingere (male, nel mio caso) di ascoltare il proprio interlocutore, in realtà tentando super-captare quei due tipi pazzeschi appoggiati al bancone che parlano del nuovo allenatore della Samp.
Ci succede anche di chiedere indicazioni e non ascoltarle perché subito rapiti dal ponte odontoiatrico della tizia che si sta prodigando per indicare dove sta il Postamat più vicino.
Ricordo che mia madre mi dava i coppini sul 62/ perché fissavo la gente, ma non ho smesso, guardo fisso ancora le persone come un ritardato.
Immagino che esistano dei medicinali per tamponare queste deviazioni dell’attenzione.
Non assumendoli, archivio la realtà in questo modo, osservandone le cesellature e questa passione entra nelle mie storie forzando la serratura.
Infatti ho sempre fatto un sacco di foto col cell di gente, di palazzi, di veicoli, di scritte negli ascensori, di cassette delle lettere nei portoni, di piante da appartamento fuori dagli appartamenti, di adesivi sui caschi, di lampioni rotti, di piante nei muri, di serrande, di tabaccai, di banconi di bar, di panini, di tramezzini, di pizzette, di vomiti sui marciapiedi, di scarpe, di merde, di fogli di giornale appallottolati, di cessi della stazione, di panchine, di sedie di plastica al circolo, di stoviglie belle, di cespugli, di posti ok e di cani. Già da quando era ancora strano fare le foto col cell io le facevo di brutto (ultimamente però faccio video col cell, che metto su Instagram: @audio_on_please).
Nell’ultimo anno invece ci sono molto sotto con Google Lens: sto imparando un sacco di piante nuove, vedo un’anatra strana, un frutto mai visto e vado subito a Lensarmelo, qui in Giappone per esempio ho scoperto che quegli affari rossi scuro, secchiti, appesi alle finestre in cordicine di spago precise, sono una varietà di caco particolarmente apprezzabile se essiccata, perché dentro rimane morbida ed effettivamente deliziosa. Secondo me Lens è la cosa più figa del mondo insieme a Maps a Wikipedia e ai cachi secchi, veramente, non mi viene in mente tanto di meglio.
L’utilizzo del dettaglio rimane uno strumento prettamente descrittivo, di solito faccio questo esempio: se un personaggio sta bevendo una birra generica è solo uno che beve una birra, se invece sta bevendo una Moretti, una Peroni o ancora di più una Ceres o una Tennent’s cambia tutto. Questo si applica ad ogni cosa, anche a come uno va in motorino: il modo di tenere il casco in testa, di aprire o chiudere le ginocchia secondo un certo codice posturale, l’angolazione della schiena e la posizione dei piedi, con la punta in dentro o all’infuori sono racconti di un carattere o di un atteggiamento specifico.
Ogni mio tentativo di narrazione parte dalla voglia di ricreare delle immagini molto specifiche coerenti con un immaginario mooolto specifico, e con delle atmosfere mooolto specifiche,
Di solito scrivo una storia intorno a qualche immagine chiave che mi piace: dei bidoni della spazzatura in fiamme, un palazzo illuminato dai lampioni arancioni, una strada vista dall’alto, nottetempo, una navata dorata di una chiesa barocca durante una messa; intorno a questo rammendo le faccende che cooperano per costruire la storia.
Quindi ho bisogno di ricorrere all’aiuto dei dettagli, per raggiungere quella precisa specificità che mi permette di ricostruire una scenografia credibile e coerente, come si fa in un film in costume. Credo che abbiano anche un ruolo ritmico nel tempo di lettura, ma quello non lo so spiegare bene, ci vorrebbe un intellettuale.
Nel caso di NMPL è stato un po’ diverso perché avevo l’aiuto della voce narrante di Danilo, certe cose le raccontava lui con le SUE parole e io potevo essere un po’ più a margine e meno insistente nello spiegare proprio tutto-tutto con le immagini. Questo mi ha concesso di provare soluzioni grafiche (per me) nuove e divertenti, deviando un pochino da quel realismo marcio che finora aveva (secondo me) caratterizzato i miei fumetti.
La ricetta per la felicità.
Questo fumetto nasce con entusiasmo e gioia, nonostante le vicende di Danilo.
Era una storia che avevo annotato su un post-it e subito dopo perso in fondo alla tasca di una giacca, c’era finita anche se mi piaceva, chissà perché; poi, quando Pasquale mi ha chiesto una storia dove venisse fuori “la mia scrittura” mi è ritornata in mente quella che all’epoca avevo in mente che fosse una versione truce de “L’uomo che cammina” di Taniguchi (una grande rottura di palle ma poeticissima), allora sono andato a ripescarmela.
Ho scovato quell’appuntino tutto accartocciato, insieme a una banconota da 5 euro, ho stirato per bene entrambi i foglietti con le dita, e da lì ho iniziato a scrivere veramente, era Novembre.
La storia definitiva l’ho scritta in pochissimo tempo, e sono stato abbastanza rapido a disegnarla (grazie all’iPad) da riuscire a non avere il tempo di annoiarmi.
Durante la realizzazione il numero delle pagine previste è quasi raddoppiato (da 160 a 245), proprio perché il racconto si è preso gli spazi che gli parevano.
È stata una bella discesa, con dei salti, dei giri della morte, e degli ostacoli divertenti, tanto che avrei fatto ancora altre 100 pagine; un po’ Danilo mi manca, mi piaceva pensare come lui, inventarmi le sue storielle del cacchio e provare a disegnare come avrebbe disegnato.
In questo viaggio nel Giappone normale ho imparato che è praticamente quasi impossibile rimanere delusi se si cerca di non aspettarsi molto (meglio ancora niente), per esempio se hai fame di brutto e sai che nello zainetto hai solo una polpetta di riso ma aspetti di avere ancora più fame di mangiare, allora diventa buona di brutto anche quella polpetta di riso con un’alga intorno e manco niente dentro, e le cose buone fanno essere contenti.
Se per esempio è tutto il giorno che cammini lungo un fiume in secca, e dopo ore di terra impolverata e sassi, svolti un’ansa del fiume aspettandoti un’altra distesa di terra e pietre e invece c’è un gruppo di garzette bianche che pucciano le piume in un punto dove c’è finalmente dell’acqua, e allora, anche se ti fanno male le gambe, ti fai ancora due ore lungo la riva solo per godere dei riflessi degli alberi sull’acqua, che dopo tutti quei sassi sono fighissimi, e le piante che sono più verdi invece che gialle e puoi contare gli uccelli acquatici e un fiume nel niente diventa una cosa bella, e le cose belle fanno essere contenti.
Forse non me l’ha nemmeno insegnato il Giappone normale, forse me l’ha insegnato Danilo, anzi, forse lo sapevo già.
È la ricetta per la felicità più marcia che mi viene in mente e non funziona nemmeno sempre.
Grazie, ciao,
Paolo.
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Intervista a cura di Angelo D. Ascani
Editing di Matteo Contin
Fotografie e gif di Paolo Cattaneo
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