Tumgik
#Servirsi citazioni
princessofmistake · 1 year
Quote
Avevo il corpo teso, dolorante di consapevolezza per quel rispecchiamento, un dolore simile a quello che provavo guardando una foto di me adolescente. La tentazione di dimenticare la bruttezza della metamorfosi, l’amarezza di ricordarla.
10 notes · View notes
Quote
Provavo per lui la stessa dolcezza che si ha verso una stanza in cui si ha il permesso di stare soli.
Lillian Fishman, Servirsi
175 notes · View notes
carmenvicinanza · 1 year
Text
Espérance Hakuzwimana
https://www.unadonnalgiorno.it/esperance-hakuzwimana-ripanti/
Tumblr media
È da tutta la vita che sono una persona nera. Non l’ho scelto ma so benissimo cosa vuol dire. Spesso però sono gli altri a non saperlo, a dimenticarlo. Sono nera, italiana, donna, e scrivo.
Espérance Hakuzwimana Ripanti, scrittrice e attivista che usa la narrazione come strumento per portare avanti la sua lotta di donna nera in paese che le ricorda il colore della sua pelle da quando ci ha messo piede.
Fa parte di Razzismo brutta storia, movimento che lavora con giovani, associazioni, scuole, carceri e biblioteche per smontare gli stereotipi alla base di tutte le discriminazioni. Ha un programma che parla di libri e attualità a Radio Beckwith Evangelica.
Nata in Ruanda il 9 settembre 1991, negli anni del genocidio, ha vissuto in un orfanotrofio per tre anni prima di essere portata in un centro di accoglienza improvvisato nella provincia di Brescia da dove è stata poi adottata da una famiglia italiana.
Nel percorso di crescita e ricerca della sua identità, sin da bambina, i libri sono stati il suo rifugio e conforto. Le parole il suo mezzo espressivo, il bisogno e il dovere di raccontare.
Ha studiato Scienze Politiche all’Università di Trento e nel 2015 si è trasferita a Torino per frequentare la Scuola Holden dove si è specializzata in giornalismo, media e comunicazione.
Dopo una vita trascorsa a rispondere a domande e curiosità altrui, sulle sue origini, sulla sua pelle, sulle sue opinioni, ha iniziato a servirsi della scrittura come strumento per riappropriarsi del suo spazio ed esporsi, rivelarsi, a modo suo, nei suoi termini, alle sue condizioni.
Il suo debutto letterario è stato col racconto Lamiere nell’antologia curata da Igiaba Scego dal titolo Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, del 2019. La narrazione di undici donne italiane afrodiscendenti che raccontano il loro passato per creare un legame con il futuro.
Nello stesso anno è uscito il suo primo libro E poi basta. Manifesto di una donna nera, edito da People, che racconta i passaggi che l’hanno portata a scoprire chi è e chi può essere.
Racconta di come ha vissuto sul proprio corpo le conseguenze del razzismo, di come è stata dissuasa a prendere parola e impegnarsi pubblicamente, di come ha scoperto che cosa significhi essere donna e nera in Italia, attraverso episodi minuti, quotidiani, usando prosa, lettere, citazioni, pezzi di diario, elenchi, attraverso le frasi che si è sentita ripetere in ogni luogo e attraverso i libri di altri e altre. Un saggio, una biografia, una ballata, un manifesto: la storia della sua lotta contro i pregiudizi e la ricerca di soluzioni, tra il buio e la luce del sole.
È del 2022 il suo secondo romanzo, Tutta intera, edito da Einaudi. Storie d’identità, paura del diverso e desiderio di appartenenza. Di discendenze lontane e di un domani che si esige nelle proprie mani. Raccontate da Sara, un’insegnante che credeva di vedersi tutta intera, invece si accorge di dover ancora mettere insieme molti pezzi. Uno sguardo sul mondo completamente nuovo e urgente.
Espérance Hakuzwimana ha una scrittura fluida, coinvolgente, necessaria e una dialettica virtuosa, sa dosare le parole giuste per comunicare e raccontarsi, come stilettate che costringono a bagni di realtà. Una piccola grande donna, minuta e potente che, parafrasando una sua affermazione, non rappresenta i nuovi cittadini, ma i prossimi.
0 notes
pezziv · 3 years
Photo
Tumblr media
È vero che servirsi di Dio come risposta alla domanda sull’origine delle leggi, equivale semplicemente a sostituire un mistero con un altro... perché dovremmo farlo? 🤷‍♂️🤔 #verità #emozioni #felicità #pensierodelgiorno #citazioni #riflessioni #sentimenti #pensieri #pensiero #aforismi https://www.instagram.com/p/CNjyVw_nzqM/?igshid=12wvyv4o3s1mu
0 notes
apatiap0rtamivia · 4 years
Note
Vossia, vi chiedo venia. Non volevo offendere la sua persona, semplicemente mi rammarica esser scambiato con altre persone sol perchè adoperano un linguaggio più "aulico" in anonimo ma che quando poi si ritrovano a confrontarsi con qualcuno di persona non riescono nemmeno a servirsi dei congiuntivi dignitosamente. Niente contro di te. Dovresti soltanto evitare di avvalerti di citazioni palesemente ricercate sul momento e che suppongo non appartengano nemmeno alla tua quotidianità. -Leonardo🌌
Leo basta dai, la colpa è mia, lui non ha fatto niente di male
0 notes
Photo
Tumblr media
Nuovo post su https://is.gd/odYrAt
Quando Brindisi salutò il nuovo Cesare (parte prima)
di Nazareno Valente
  Se è scontato che tutte le strade portano a Roma, è anche vero che in antichità quelle che andavano, o venivano, dall’Oriente passavano immancabilmente per Brindisi.
A quei tempi la nostra città aveva poche uguali ed era celebrata da letterati, poeti e storici tanto è vero che, se a qualcuno venisse la briga di censire i testi antichi, scoprirebbe che, a parte Roma, nessuna metropoli dell’Occidente romano vanta un così consistente numero di citazioni. Sono infatti rari gli avvenimenti d’un certo significato storico, in particolare se accaduti sul Mediterraneo, da cui Brindisi fu esclusa, non solo per la sua importanza strategica, ma anche in virtù del suo peso economico. E questo si verificava in maniera puntuale nei momenti di evidente tensione sociale, come accaduto nel I secolo a.C. quando l’Urbe attraversò un periodo assai agitato, lacerata com’era da violenti dispute interne.
Abbiamo già visto come la nostra città abbia fatto da scenario al primo significativo scontro della guerra civile, che permise poi a Cesare di avere il sopravvento su Pompeo (11 e 12 ottobre 2017). Al termine della contesa, il vincitore debellò l’avversario dando al contempo pure la spallata conclusiva alle istituzioni repubblicane, che avevano già mostrato palesi crepe nelle lotte cittadine precedenti. Sebbene Cesare non fosse divenuto formalmente un re, lo era nondimeno nella sostanza, essendosi sostituito al Senato ed al popolo nell’esercizio dei principali poteri statali. Era di fatto lui che decideva sulla pace e sulla guerra; aveva facoltà di servirsi degli eserciti; disponeva delle finanze; proponeva gran parte dei magistrati; stabiliva i governatori provinciali ed aveva finanche il potere di creare nuovi patrizi. E tutto ciò lo faceva in forza di quelli che lo storico Svetonio chiamava gli «onori eccessivi» («nimios honores») che gli erano stati di volta in volta conferiti. Vale a dire, il consolato a vita, la dittatura perpetua, il soprannome di “padre della Patria” e la «sacrosanctitas», che lo rendeva inviolabile prevedendo addirittura la pena capitale per chi gli avesse arrecato danno.
Per andare dietro a tutto, il dittatore s’era creato un gruppo composto da persone di sua fiducia, scelti dalla nobiltà provinciale ma pure da suoi liberti e servi personali. A sentire Svetonio, Cesare aveva affidato il Tesoro statale e la cura della finanza pubblica a suoi schiavi; il comando delle tre legioni di stanza ad Alessandria al figlio d’un suo liberto e la gestione amministrativa delle province a magistrati di sua esclusiva nomina. E, pure quand’era assente, non mancava di gestire il governo dell’Urbe tramite suoi uomini di fiducia che firmavano i decreti a suo nome, dopo aver ricevuto istruzioni con lettere che facevano uso di un codice segreto basato su errori grammaticali inseriti di proposito nello scritto.
Non c’è quindi da sorprendersi se c’erano velati mugugni dovuti anche al fatto che, da un punto di vista formale, le istituzioni repubblicane sussistevano ancora, per quanto del tutto svuotate delle loro peculiari caratteristiche. Sebbene lo spirito repubblicano s’andava spegnendo sempre più, c’era comunque chi rimaneva ancorato agli ideali passati e viveva con sofferenza l’affermarsi d’un potere personale eccessivamente opprimente. Ed è su questi idealisti che l’oligarchia senatoria fece leva per modificare la situazione politica, non tanto perché desiderosa di tornare alle antiche virtù repubblicane, quanto piuttosto per riappropriarsi del potere perduto.
La congiura unì nemici a persone che avevano ottenuto da Cesare onori e cariche e si compì alle idi di marzo (15 marzo) del 44 a.C. all’apertura della riunione del Senato. Mentre Antonio, ritenuto il braccio destro del dittatore, veniva tenuto lontano dalla scena da Trebonio, un altro cospiratore, Servilio Casca, sferrava la prima delle ventitré pugnalate che uccisero Cesare. Ironia della sorte, sia Trebonio, sia Casca avevano beneficiato dei favori e della clemenza di chi stavano pugnalando. Ma non erano gli unici che avevano un debito di riconoscenza con lui, sicché non destò meraviglia che, nel corso del funerale del dittatore, un cantore, impersonando il morto, gridasse agli astanti: li ho quindi salvati perché divenissero i miei carnefici? («men servasse, ut essent qui me perderent?»).
Era questo un verso d’una famosa tragedia (“Il giudizio delle armi”) composta da un nostro illustre concittadino, Marco Pacuvio, che concorse ad alimentare lo sdegno dei presenti.
Il 18 marzo, due giorni prima del funerale, il Senato aveva aderito alla richiesta di Pisone Cesonino di dare esecuzione al testamento che Cesare aveva consegnato in custodia alle Vestali. L’apertura del documento riservò più d’una sorpresa: i nove dodicesimi dell’asse ereditario andavano al pronipote Gaio Ottavio, il futuro Augusto, che in aggiunta veniva adottato dal dittatore. L’erede, poco più che diciottenne, si trovava in quel momento ad Apollonia (una città a sud di Durazzo) mandatovi proprio da Cesare per fargli fare esperienza di vita militare al suo seguito nella programmata spedizione contro i Parti. Ed è qui che Ottavio riceve il messaggio, mandatogli in tutta fretta dalla madre Azia, che gli annuncia unicamente l’uccisione di Cesare.
Dopo essersi consultato con Vipsanio Agrippa e Salvidieno Rufo, i suoi amici più fidati, il giovane decide di rientrare in Italia: ignora cos’era avvenuto dopo il cesaricidio e, soprattutto d’essere stato adottato dal dittatore, nonostante ciò preferisce attraversare lo Ionio evitando di fare rotta per Brindisi, nel timore che i congiurati abbiano preso il sopravvento e che possano aver predisposto qualche trappola a suo danno. Approda così, per prudenza, in una località a sud della nostra città per poi dirigersi “fuori della via battuta” verso “Lupie” (Lecce). Qui fa base, sino a quando non gli arrivano informazioni più precise sugli avvenimenti e non riceve copia del testamento. Solo allora, dopo aver per altro appurato che i cesaricidi non stanno tramando nulla contro di lui, si convince infine di avviarsi verso Brindisi.
Questa la narrazione di Nicolao di Damasco e di Appiano che, però, lascia spazio ad una banale domanda: se non sapeva d’essere stato adottato da Cesare, che motivo aveva Ottavio per temere che i congiurati potessero avercela con lui? Di conseguenza appare del tutto ingiustificata la circospezione che l’aveva indotto a preferire un tragitto più tortuoso e lungo rispetto a quello che l’avrebbe condotto a Brindisi. S’aggiunga inoltre che i mezzi di locomozione d’allora non consentivano di spostarsi in tempi neppure lontanamente comparabili con quelli attuali: un tratto — ad esempio, da Roma a Brindisi — per il quale noi sprechiamo poche ore, veniva comunemente fatto in un paio di settimane, per cui anche la minima deviazione comportava un aggravio ed una grossa perdita di tempo. Quel tempo che in effetti il futuro Augusto non sembra d’aver perso in inutili esitazioni nel suo viaggio di avvicinamento a Roma, se Cicerone, in una lettera ad Attico, lo dà per arrivato in Campania già alla metà di aprile. Il che rende improbabile, pure in base ai tempi di percorrenza, il tortuoso cammino prospettato dai due storici. Quella di Nicolao e di Appiano sembra pertanto la classica ricostruzione compiuta con il senno del poi, magari condizionata dalla propaganda augustea intesa ovviamente a valorizzare le doti strategiche possedute già in età giovanile da Ottavio ed a far credere che, sin dal suo esordio politico, incuteva rispetto e timore nei suoi avversari.
Per questo, appare di gran lunga più attendibile la versione di Cassio Dione che, proprio basandosi sul fatto che i contenuti del testamento di Cesare erano ancora ignoti, dava per scontato che Ottavio si fosse diretto subito verso Brindisi, senza quindi ritenere necessaria la prudenziale tappa intermedia di Lecce. In tale ipotesi, è quindi nella nostra città che Ottavio riceve copia del testamento, venendo così a conoscenza d’essere stato adottato dal dittatore.
Comunque sia andata, su un punto, invece, i tre storici antichi si trovano d’accordo: fu a Brindisi che Ottavio abbandonò il suo nome e assunse quello del padre adottivo, facendosi chiamare da allora in poi Cesare. I suoi avversari politici, ma anche ad esempio Cicerone, continuarono almeno per il momento a chiamarlo Ottavio, e non solo per un aspetto formale: la procedura per l’adozione, che prevedeva l’accettazione dinanzi al pretore urbano e l’approvazione dei comizi tributi, non era stata neppure avviata. Per i patrizi romani era un modo spocchioso per distinguersi dai parvenu, in genere incuranti delle antiche tradizioni repubblicane.
E, nella prossima puntata, vedremo meglio perché.
(1 – continua)
0 notes
pangeanews · 4 years
Text
“Il ripudio della lingua”. Sulla grandezza ineffabile di Hugo von Hofmannsthal
Quell’uomo, così cristallino da sembrare senza tempo – troppo lontano, ineffabile, levigato. Ecco. Una pantera di ceramica, frenata nell’assalto, aureo. La brutalità sottomessa al sotterfugio della forma. Hugo von Hofmannsthal è il genio dell’epoca ammazzata, in una spirale di nebbie da sembrare inaudita: la Vienna dei primi del Novecento, incrocio di personalità affascinanti e fugaci – per dire: Freud, Klimt, Broch, Canetti – che hanno segnato il tempo, certo, ma su lacca, e ci resta una perla, un mausoleo, qualcosa da ammirare.
*
Ipnotizzava per talento, von Hoffmannsthal; gli riusciva tutto, il rapporto con Richard Strauss è emblema – Elettra, Il cavaliere della rosa, Arianna a Nasso. Era un conferenziere impeccabile, eppure nella Lettera di Lord Chandos, superbo apocrifo – pubblica nel 1902, secondo la fiction è inviata a Francis Bacon il 22 agosto 1603 – decreta il termine del linguaggio, l’inutile del pensare per categorie di muffa, l’avvilimento in vipera del verbo (“Ho perduto del tutto la facoltà di pensare o parlare coerentemente su qualsiasi argomento… mi divenne a poco a poco impossibile trattare un tema elevato o comune servendomi di quelle parole di cui pure tutti gli uomini usano servirsi correntemente senza pensarci. Provavo un inesplicabile disagio solo a pronunciare le parole ‘spirito’, ‘anima’ o ‘corpo’”), la potenza delle “cose mute” sul reggimento della grammatica, della ragione.
*
Nei momenti dispari, in una serie di saggi straordinari (ricomposti da Aragno in La letteratura come spazio spirituale della nazione, 2019), edifica l’idea di Europa, l’acuto di una speranza, piuttosto. “L’Antichità rappresenta il nostro stesso pensiero; quel che ha forgiato l’intelletto europeo. È il fondamento assoluto della Chiesa, e impossibile da isolare dal cristianesimo; senza Platone e Aristotele non potremmo avere Agostino né Tommaso. È anche la lingua della politica, la sua sostanza spirituale, grazie al quale le sue cangianti forme, che sempre si ripropongono, possono penetrare nella nostra vita spirituale. Rappresenta il mito della nostra ragion d’essere europea, la creazione del nostro mondo spirituale, il trionfo del cosmo sul caos, che racchiude eroe e vittima, ordine e trasformazione, misura e iniziazione. Non rappresenta l’accumulo di una riserva, che rischia di invecchiare, bensì un mondo spirituale che in noi arde di vita: il nostro più autentico oriente interiore, il nostro mistero più puro e solido è manifesto. È un tutto straordinario: fiume che ci conduce e origine che fluisce sempre pura. Nulla in questo tutto che sia vecchio a tal punto da non poter rinascere domani rinnovato, colmo di giovinezza”.
*
L’idea, appunto, dell’insondabile, dell’intoccato, purezza inflessibile. Tra tutti, il più segreto è Il libro degli amici, fascio di citazioni, di aforismi, dove la lingua, senza mezzi, immedicabile, è maschera d’oro. Sempre maschera. Si sente pulsare il buco nero sotto la coltre del rigore, ma si sta lì, in una beatitudine d’abisso. “Vero amore per la lingua non è possibile senza ripudio della lingua”; “Solo chi crea le cose più delicate può creare le più forti”; “Ogni nuova conoscenza determina scomposizione e reintegrazione”. Von Hofmannsthal sembra percepire che tutto è baratro, è barrito sul nulla. Ma difende la forma, lo spettacolo dell’incomunicabile, la danza senza alfabeto.
*
Arrivo a von Hofmannsthal attraverso Saint-John Perse: tentò di tradurre Anabasi, decretando che “un’opera di questo genere è pressoché intraducibile”. Scrisse alcune pagine introduttive per la versione di Walter Benjamin. “Si indovina un’opera ricca di bellezza e di forza – un’opera dello spirito d’oggi, dello spirito eroico e tenero”. Aveva già scritto a Rainer Maria Rilke (“mi appare in modo certo come lei sia arrivato lontano nella sua arte, come mai prima era accaduto, e veramente abbia reso possibile l’impossibile”): mi figurai questo trio di titani – Hugo, Rainer, Saint-John Perse – ciascuno che a proprio modo pratica l’abbandono, l’inafferrabile. Preferendo una sequela oscura per eccesso di luce.
*
In una conferenza, Il poeta e il nostro tempo (pubblicata nella raccolta di saggi L’ignoto che appare, Adelphi, 1991), HvH cerca di custodire le contraddizioni. Che il poeta sia vilipeso dall’era non è il “segno del tempo” ma il sigillo di un destino, inesorabile, esaudito. “È in grazia della lingua che il poeta occultamente governa un mondo i cui singoli membri possono rinnegarlo, possono aver dimenticato la sua esistenza. E tuttavia è lui che riunisce i loro pensieri o li separa, domina e regge la loro fantasia… Codesta muta magia agisce spietata come tutte le vere potenze. Tutto quello che in una lingua è scritto, e, osiamo pure dire, pensato, discende dai prodotti di quei pochi che una volta hanno avuto con quella lingua rapporti creativi… Il poeta è là dove non sembra si trovi, e si trova sempre in un luogo diverso da quello in cui lo si pensa. Stranamente egli abita nella casa del tempo, sotto la scala, là dove tutti gli debbono passare davanti, e nessuno lo nota… gli è imposto di non darsi a riconoscere, e così vive non riconosciuto sotto la scala della propria casa”. L’irriconoscenza è segno di riconoscimento: il poeta va scovato nei sottoscala. In lui rivivono i morti – “Il suo cervello è l’unico luogo dove i morti possono, per un atomo di tempo, ancora vivere, e ove essi, riotti forse in agghiacciate solitudini, accada di partecipare alla sconfinata felicità dei viventi: s’incontrarsi con tutto quello che vive” – egli “non può respingere nulla… è il luogo in cui le forze del tempo tendono a equilibrarsi”.
*
In un articolo stringato e convincente (in: Elogio dell’intellettuale, Morcelliana, 2013), Alessandro Spina coglie il punto: “Dei grandi del Novecento Hugo von Hofmannsthal è quello in Italia più trascurato, forse perché estraneo al gusto della chiacchiera”. C’era – c’è – in effetti, qualcosa di duro, di inflessibile nella sua intelligenza. Spina racconta che von Hofmannsthal gli fu ‘donato’ da Cristina Campo. Spina le ricordava l’eleganza australe di HvH; lui fu colpito da alcune poesie di HvH tradotte dalla Campo. La Ballata della vita apparente comincia così:
E crescono i bambini, con i profondi occhi che nulla sanno, crescono e poi muoiono, ed ogni uomo va per la sua via.
E in dolci frutti mutano gli acerbi e nella notte cadono come uccelli e in pochi giorni giacciono corrotti.
*
Al termine dell’articolo, Spina cita una lettera di HvH raccolta da Carl Jacob Burckhardt in Ricordi di Hofmannsthal (era il 1948, pubblicava Cederna, per la traduzione di Ervino Pocar), datata 14 settembre 1929. “Ieri nel pomeriggio una grande sciagura si è abbattuta sulla casa di Rodaun. Durante un violento e cupo temporale il nostro povero Franz si è tolto la vita con un colpo alla tempia. La causa di questo grave fatto sta in una profondità infinita: negli abissi del carattere e del destino. Avevamo fatto colazione insieme – in pace e armonia. C’è qualcosa di infinitamente triste e di infinitamente nobile nel modo in cui il ragazzo ha lasciato la vita. Non aveva mai saputo comunicare se stesso agli altri. Anche la sua dipartita è stata silenziosa…”. Franz era il figlio di von Hofmannsthal; il padre ne parla con distante precisione, come fosse, chessò, un quadro. Che atroce stoicismo. La chiosa di Spina narra, coi tratti del grande scrittore, la fine di HvH, a scandire un destino. “Il figlio insanguinato, insepolto, in casa. Ma era la fine. Il giorno successivo, il 15, quello della sepoltura, il poeta disse che aveva fatto uno strano sogno: cercava di prendere dall’attaccapanni il suo cappello e non ci riusciva. Venne l’ora del funerale. Hofmannsthal è alla porta di casa, allunga la mano per prendere il cappello, si disse, e stramazza al suolo: la fine. Il 18, alla presenza di migliaia di persone, è sepolto accanto al figlio, nel cimitero di Kalksburg”. La lastra d’oro su cui ha danzato HvH si spezza in tuono; la pantera di ceramica, con compostezza, si sbriciola, mostrando di ogni splendore la ferita. (d.b.)
  L'articolo “Il ripudio della lingua”. Sulla grandezza ineffabile di Hugo von Hofmannsthal proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/3bHFGNg
0 notes
princessofmistake · 1 year
Quote
Tutto, in lei, chiedeva protezione. Eppure ero affascinata dalla temeraria sregolatezza che scorgevo sotto la superficie, evidente nella sua ossessione per Nathan – o, se non proprio sregolatezza, qualche altro desiderio disperato che la spingeva fino al limite.
10 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Photo
Tumblr media
Provavo per lui la stessa dolcezza che si ha verso una stanza in cui si ha il permesso di stare soli. Sapevo che sarei stata felice sia non vedendolo più, sia incontrandolo un attimo dopo, e mi chiedevo come fosse possibile. In quella sensazione non c’era nulla di razionale, ma ogni volta che pensavo di agire razionalmente stavo soltanto cercando di giustificare un desiderio confuso. Sì, quella sensazione non aveva nulla di razionale, ma era la più generosa di cui avessi memoria. 
Amiamo ciò che ci turba, se ci sceglie e ci dice quanto siamo importanti. Non ci piace forse un assegno appena incassato, un passaporto, la stretta di mano di un presidente, benché ognuno di questi piaceri si fondi su una crudeltà che è soltanto nascosta alla vista? Il dito indica, inequivocabilmente, noi, e ci meravigliamo di essere scelti.
4 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Text
So che posso essere un po’ aggressiva. 
È vero, disse Nathan. Ma sai anche quanto mi piaci. 
La sensazione che provai sentendolo pronunciare quelle parole fu diversa da ogni altra provata prima – o meglio, fu come innamorarsi ancora e ancora, senza mai abituarsi a quella vertigine. In bocca a chiunque altro sarebbe stata un’affermazione blanda, insufficiente. Eppure ogni volta che me la rigiravo in testa era più scioccante della precedente. Tutti i termini in base ai quali pensavo di piacergli erano stati esauriti: il modo in cui facevo sesso non era più una sorpresa, né il mio corpo una novità. Ma per qualche motivo la mia bellezza gli sembrava così raffinata da continuare a incantarlo. O, se non era la mia bellezza ad accendere il suo desiderio, aveva trovato in me qualcosa da ammirare.
4 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Photo
Tumblr media
La sera sentivo l’assenza di Romi come una fitta lancinante ai muscoli di petto e braccia. Forse non era tanto l’assenza di Romi a farmi male, quanto l’assenza della convinzione che un giorno sarei potuta diventare, come lei, premurosa e devota. Si può nutrire un amore che non sia autoreferenziale? E in che fase della vita si è capaci di un sentimento del genere? In assenza di Romi, ogni riparo era stato abbattuto, non solo quelli in cui già vivevo ma ogni rifugio in lungo e in largo, ogni possibile stanza calda e accogliente del mio mondo, e nessuno di quei ripari sarebbe più stato ricostruito sino alla fine dei miei giorni. Romi mi aveva lasciata perché ero egoista – incapace di amare con generosità. Ennesima prova: volevo che le capitasse qualcosa di brutto, ma non troppo brutto. Che la metropolitana che prendeva per andare al lavoro avesse ogni giorno un’ora di ritardo bloccandosi in una galleria sotto il fiume. E anche ammesso che Romi non fosse così buona come avevo pensato, che fosse fallibile come tutti noi, questo in che modo poteva consolarmi? Rappresentava soltanto la fine di un sogno avuto un tempo, un sogno di un amore altruista e disinteressato.
4 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Quote
So che mi ami, disse Romi. O credi di amarmi. Ma penso che a piacerti sia l’idea che ti sei fatta di me – come se fossi perfetta. Non è giusto. Ho sempre paura di deluderti.
4 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Photo
Tumblr media
Non voglio parlare dei miei dipinti, disse. E non lo farò. 
Perché no? 
Non lo farò nel modo più assoluto, disse Olivia rivolta a me. Non ho la minima intenzione di discuterne con te. Non voglio parlare con te del mio lavoro. Non voglio mostrartelo. Non voglio che tu abbia niente a che fare coi miei dipinti. Sono qualcosa di personale. E quello che mi fa davvero infuriare, disse, gli occhi sgranati, la bocca irrigidita, quello che mi fa davvero infuriare è che tu pensi di poterne essere parte, pensi di meritare una risposta da me. Pensi di poterti permettere di guardare il mio lavoro e ti aspetti pure che ti risponda quando decidi di parlarne. Come se tu c’entrassi qualcosa. 
[...] mi chiesi come Olivia fosse stata capace di pronunciare quelle parole: Quello che mi fa davvero infuriare è che tu pensi di meritare una risposta da me. Di fronte a un complimento, a me era mai passato per la testa di provare qualcosa di diverso dalla gratitudine, di sottrarmi agli obblighi sociali che comportava? Avevo passato un’infinità di tempo a cercare di capire se c’era qualcosa che apparteneva a Olivia e basta, un nucleo profondo che proteggeva persino da Nathan: e nell’istante in cui l’avevo trovato non ne avevo avuto rispetto. Avevo preteso che lei rinunciasse del tutto alla sua privacy.
4 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Text
A volte, avanzando a fatica nel caos delle mie emozioni, mi chiedevo se, in assenza di Romi, non avessi trovato niente di meglio di Nathan in cui riporre il mio amore per lei. Poi, però, ricordavo la sicurezza che Romi aveva rappresentato per me – l’ardore con cui avevo desiderato diventare una degna abitante del suo mondo di dedizione e lealtà. Il sentimento che avevo provato per Romi non era paragonabile a quello che nutrivo per Nathan. Più che un eccesso di emozione, il mio amore per Romi era stato un eccesso di aspirazione.
6 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Quote
La sua presenza era come un formicolio o un’incombenza che avevo dimenticato talmente a lungo, per mesi e mesi, da diventare gigantesca e accusatoria.
3 notes · View notes
princessofmistake · 1 year
Quote
Avvertii il fascino assoluto di Olivia sulla scia della sua irritazione, le guance arrossate, il sorriso provocante. Riconobbi una delle espressioni che rivolgeva spesso a Nathan. Non aveva nulla della noncuranza di lui – il fascino di Olivia si incarnava in un’accelerazione delle parole, in quella tenacia improvvisa.
3 notes · View notes