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#leopardi e la filosofia
popolodipekino · 6 months
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sei come la mia moto una ginestra
[...] io vengo da una città dominata da un vulcano, che è Catania, e il vulcano attivo è l'Etna. Sin da piccoli ci insegnano che la ginestra è la pianta pioniera, che non solo resiste, ma spacca la lava. Dopo una grande eruzione da noi ci sono quegli scenari biblici [...]. La ginestra, spaccando la lava, prepara il terreno per le conifere che verranno dopo, quindi è una pianta magnanima, generosa. Da noi è un complimento dire a una persona : "sei come una ginestra". Nella mia visione della ginestra c'è un disegno intelligente della natura, perché la natura aiuta altra natura a crescere, rendendo accogliente la terra. [...] da R. Bodei, Leopardi e l'immaginazione, in Leopardi e la filosofia
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valentina-lauricella · 3 months
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F. Montefredini (1881) su La ginestra
Leopardi rinnega tutto, finanche la filosofia propriamente detta, perchè non crede che il nostro pensiere abbia il potere di scoprire i veri universali, ma soltanto di scrutare a posteriori ciò che si attiene più strettamente all'esser nostro, escluso lo scopo finale che ci è chiuso; di cercar non le cause, ma gli effetti della nostra esistenza; e nonpertanto, nel suo modo di vedere tutto sperimentale e pessimista, ammettendo la coscienza e l'intelligenza del nostro misero stato, ne deduce la conseguenza del dovere che hanno gli uomini di stringersi e amare fra loro. Il trionfo di questo sentimento è tanto più intero in quanto sopravvive solo in lui alla morte d'ogni altro sentimento e d'ogni altra credenza.
Tutte le credenze son fole per lui, sia che le annunzii un profeta, sia un filosofo.
La filosofia, quella che discorre per le generali e pretende varcare i limiti dell'esperienza de' fatti, è tanto vana per lui quanto la religione. Il nostro pensiero deve arrestarsi innanzi al mistero universale, non cercare di trovarne la causa nè la spiegazione. Unico conforto, unico bene è l'amore e la carità. Così torna là ond'era partito, facendo del sentimento il solo bene e solo vero consolante dell'esistenza, il sentimento elevato alla sua più pura altezza della carità.
Ma dubito che questa nuova religione della carità elevata a legge generale possa mettere salde radici; dubito che per i più possa aver forza di religione una verità che, se bene tanto evidente, pure è priva del carattere e di una sanzione che gli uomini credono divina, priva sopratutto dell'esca di un premio eterno e del terrore, che è più efficace, d'una eterna pena. Le verità naturali, i magnanimi sentimenti sono stati sempre patrimonio di pochi. Resta il problema se nell'avvenire possano divenire il patrimonio de' più. Ma di questo avvenire non appare ancora indizio. Oggi si vive a un di presso come si è sempre vissuto.
Si fanno anch'oggi guerre atroci come e più che nel passato.
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moonyvali · 2 years
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La cultura è inutile? E allora chiudiamo una buona volta le facoltà di lettere e filosofia.
È questa la provocazione che lancia la professoressa Federica Ricci Garotti su Repubblica. E non ha tutti i torti. Si perché è inutile prenderci in giro: le facoltà umanistiche vengono disprezzate, il pensiero viene continuamente snobbato in una società che ha fatto dell’ignoranza un vanto, della presunzione una virtù, una società che si eccita e va in visibilio davanti alle affermazioni di una Chiara Ferragni, che freme per scoprire quale concorrente del Grande Fratello vincerà la prossima edizione, che sa a malapena chi sia Leopardi, che crede che Moravia sia il nome di qualche strana malattia e che è convinta che Dostoevskij abbia combattuto durante la prima guerra mondiale.
Del resto chi ha la cattiva abitudine di leggere e pensare, non si presta a obbedire senza porre domande, a omologarsi quando dovrebbe, ad assentire quando gli viene richiesto. Lavorare, comprare, consumare, a questo deve ridursi l’uomo. La cultura è un impedimento a ciò, non soltanto è superflua ma perfino contro producente. Naturale che non venga incoraggiata. «E allora chiudiamole,»dice l’insegnante, «queste fabbriche delle illusioni che sono le nostre facoltà, che formano sì persone competenti, ma disoccupate, sotto occupate o emigranti questuanti come furono i nostri nonni negli anni Cinquanta».
Sì perché i giovani delle belle parole e delle vuote promesse non sanno che farsene. È inutile dire loro che la cultura è importante, quando i programmi di Maria di Filippi e Barbara d’Urso sono i più seguiti in Italia. Quando guardo la televisione sento una voragine che mi si apre nel petto, perché se trasmettono questa roba è perché la gente la guarda. Forse è il caso che le istituzioni e la sinistra si diano davvero una smossa e facciano qualcosa in favore della scuola e della cultura. Lo facciano ora o smettano di parlarne. E forse, dico forse, qualcosa anche noi possiamo farla.
Non regalate ai bambini smartphone e tablet ma un bel libro, non parcheggiateli il sabato pomeriggio davanti alla televisione, ma portateli a visitare un museo, una galleria, una mostra d’arte. Leggete loro fiabe e libri per l’infanzia, fateli appassionare insomma, fate delle loro menti “non dei vasi da riempire ma delle fiaccole da accendere”.
G.Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X #cultura #scuola #istruzione
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SENSI DELL’ARTE - di Gianpiero Menniti
LA FRAGILE CIVILTÀ
Il teatro naturale dell’orrore esiste. Il sistema delle Rift Valley africane, quel vasto territorio considerato la culla dell’umanità, ne è lo sfondo: lì, si vive per la morte. Il mondo animale è talmente estremo, nel suo ciclo quotidiano e nel succedersi delle stagioni, da rendere improvvisamente veridica la filosofia di Schopenhauer: la specie prevale sull’individuo. E quella di Leopardi sulla vita:
«Il più solido piacere di questa vita è il piacere vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale state ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.»
Le illusioni necessarie hanno costituito uno dei fondamenti dell’arte. Quella che racconta la lunga e faticosa evoluzione sentimentale dell’umanità: un sistema di convivenza in antitesi al cinico, insensato modello imposto dalla natura. Tuttavia, la violazione delle norme poste a difesa della vita cosciente, talvolta emerge e sommerge. La violenza della guerra diviene una fatalità che muta gli equilibri e impone un nuovo impegno. Chi ha imbracciato le armi, più di altri, conosce quel tragico destino. Come Vasily Vasilyevich Vereshchagin (1842 - 1904), artista russo vissuto nell’età di Lev Tolstoj e di Fëdor Dostoevskij, l’età di una profonda svolta culturale in quel lontano e affascinante oriente europeo. Così, Vereshchagin seppe rappresentare l’anima di una civiltà in bilico tra la maturità dello spirito e le pulsioni viscerali della violenza ubriaca di retorica nazionalista: dramma assai diffuso nel mondo. Ci riuscì, in particolare con un dipinto: “L'apoteosi della guerra” (1871) conservato nella Galleria Statale Tret'jakov, a Mosca. Crudo. Efficace. Definitivo. Costruito come un cumulo artificiale dell’orrore ancestrale. Eppure, più vero dell’illusione. E più abissale e dissennato di ogni legge di natura. Tragicamente più forte della fragile civiltà.
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lapolani · 11 months
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“L’Infinito” di Giacomo Leopardi Idillio introdotto, letto e commentato da Lapo Lani
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Museo Casa Rurale di Carcente
Comune di San Siro (CO)
Sabato 1 luglio, ore 21:00
(In caso di maltempo la lettura verrà rinviata a sabato 8 luglio, ore 21:00)
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«Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso» [1]. Il linguaggio della poesia si muove attraverso l’immaginazione [2], esprimendosi con un linguaggio vago, incerto, indeterminato, servendosi di metafore, metonimie, paragoni, catacresi, figure di dizione. Il poeta fa fatica a esprimere la bellezza e la forza della natura, e non può farlo se non con parole quasi accidentali. Il 18 luglio del 1821, Leopardi scrive nei “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura” [3]: «Il principio delle cose, e Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo» [4]. Solo l’immaginazione, portando il pensiero dell’uomo verso l’indeterminato e l’infinito, dà conforto e sollievo. «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio, apre il cuore e ravviva» [5]. Credere che le cose siano nulla, significa credere che il divenire, ovvero ciò che appare esistente, sia niente. Questo pensiero – fondamento del nichilismo, l’essenza della modernità – segna il confine più estremo mai raggiunto dalla filosofia dell’Occidente. Leopardi apre la strada che verrà percorsa dalla cultura contemporanea nell’ultimo suo atto. La scienza e la tecnica sono i due maggiori interpreti di questo orizzonte, in cui il divenire è un processo che esclude la relazione tra le cause e gli effetti degli accadimenti: ogni cosa nasce dal nulla e ritorna nel nulla. La tecnica ha come scopo l’incremento indefinito degli scopi, senza poterli prevedere né conoscere; la scienza procede con metodi statistici, probabilistici, considerando presunto e ipotetico l’evento che accadrà. In ambedue i casi si opera all’interno del concetto di soggettività, profondamente radicato nel pensiero moderno: il “sistema” [6] delle cose che noi conosciamo è la loro relazione, il loro co-esistere. Questa convinzione ha sostituito quella per cui il sistema delle cose che noi conosciamo è epistème [7], ovvero lo scenario in cui è possibile giudicare e conoscere le cose al di là del puro fatto reale. L’epistème è la conoscenza “vera” di ciò che sta sopra l’accadimento dei fatti. Per un lungo periodo l’oggetto dell’epistème si è chiamato Dio: quell’Essere immutabile ed eterno che comprende e giustifica il divenire, ed è “sempre salvo” dal nulla. Come scrive Leopardi, la modernità è l’era del disincanto, in cui la ragione, nella sua forma più radicale, mostra l’impossibilità di sperare: «Il tempo delle grandi illusioni è finito» [8]; «Questa vita è una carneficina senza immaginazione» [9]. Se l’indeterminatezza e l’incertezza sono, per natura, le maggiori fonti della felicità, la scienza, avendo definito i confini delle cose, avendo quindi oltrepassato l’indefinito, limita la speranza, le illusioni, la vita. La scienza distrugge l’indeterminatezza, quindi porta all’infelicità e alla noia. Questa è la vita nell’èra moderna, nell’èra della matematica: «Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il vero, cioè il nulla?». Poi Leopardi prosegue, con un tono tanto inquietante quanto profetico: «Le quali cose [la ragione e il pensiero matematico, che rendono evidente la nullità di tutte le cose] se ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri» [10]. E ancora: «Si dice con ragione che al mondo si rappresenta una Commedia dove tutti gli uomini fanno la loro parte. Ma non era così nell’uomo in natura, perché le sue operazioni non avevano in vista gli spettatori e i circostanti, ma erano reali e vere» [11]. «Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare» [12]; ovvero: «Sunt lacrimae rerum: et mentem mortalia tangunt» [13]. («Sono le lacrime delle cose, e le cose mortali toccano i cuori».) Lapo Lani Milano, febbraio 2023
Note: [1] Giacomo Leopardi, “Dialogo di Timandro e di Eleandro", scritto nel 1824. Il dialogo fu pubblicato come epilogo della 1ª edizione di "Operette morali"; editore Antonio Fortunato Stella, 1827. [2] Dal latino imaginatio -onis, forma di pensiero che, senza seguire regole predeterminate o nessi logici, si esprime attraverso l’elaborazione di immagini in grado di rappresentare una realtà affettiva. [3] “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, altrimenti conosciuto come “Zibaldone” o “Zibaldone di pensieri”, scritto da Giacomo Leopardi tra il 1817 e il 1832. La numerazione relativa ai pensieri citati, riportata tra parentesi a termine delle note di seguito elencate, fa riferimento all’edizione Feltrinelli del 2019: “Zibaldone di pensieri. Nuova edizione tematica condotta sugli indici leopardiani”. [4] Giacomo Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, pensiero scritto il 18 luglio 1821 (1341,1). [5] Giacomo Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, pensiero scritto il 4 ottobre 1820 (259,1). [6] La parola deriva dal greco ed è composta dalla preposizione sýn- (“con”, “insieme”) e dal verbo histemi (“stare”); quindi “stare insieme”. [7] La parola epistème deriva dal greco (ἐπιστήμη) ed è composta dalla preposizione epì- (“su”) e dal verbo histemi (“stare”); quindi “stare sopra”. L'epistème designa la conoscenza certa e incontrovertibile delle cause e degli effetti del divenire, ovvero quel sapere che intende porsi “al di sopra” di ogni possibilità di dubbio attorno alle ragioni degli accadimenti. [8] Giacomo Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, (83,3). [9] Giacomo Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, pensiero scritto il 26 giugno 2020 (137,1). [10] Giacomo Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, pensiero scritto tra il 18 e il 20 agosto del 1820. [11] Giacomo Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, pensiero scritto il 21 agosto del 1820. [12] Giacomo Leopardi, epilogo dell’idillio “L’Infinito”, 1818-1819. [13] Virgilio, “Eneide”, Libro I, verso 465.
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Copertina: "L’infinito”.
Disegno di Lapo Lani, realizzato con colori acrilici su carta bianca, e successivamente elaborato con processi digitali. Dimensioni: cm 26x34. Anno: febbraio 2023. Collezione privata.
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rideretremando · 1 year
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Se avete figli o figlie adolescenti che non studiano, insistete.
Vi racconto una storia.
Ho passato un'adolescenza difficile, costellata di interruzioni scolastiche. Avevo la sensazione di vivere in una nebbia fitta, umida, insalubre, ogni mia cellula era immersa nel disagio.
Non vedevo a un palmo dal naso e gli adulti mi parlavano del futuro, dell'importanza di finire un liceo. Futuro. Una parola inconcepibile per un adolescente nella nebbia. Mi piaceva solo leggere poesie tristi, scrivere pensieri tristi e ascoltare la Ballata degli Impiccati di De André. Mi è sempre piaciuto scrivere.
A 17 anni non avevo finito nessun liceo, continuavo a cambiarli.
Mia madre, provvidenziale, trovò una strana scuola a Genova, si chiamava Leopardi come il poeta.
Questa scuola, creata apposta per ragazzi nella nebbia, preparava, “cinque anni in uno”, a un esame di maturità per Assistenti alle Comunità infantili. L'esame sarebbe stato esterno, in una scuola di Lucca che prendeva sul serio la formazione per maestri d’asilo e non faceva sconti.
Al Leopardi i professori non erano professori di liceo, erano professionisti nella loro materia. Una era medico, un’altra maestra d’asilo, quello di matematica era ricercatore di matematica all'università. Amavano il loro mestiere. Ci appassionavano.
Non so come, mi ritrovo a essere tra i primi della classe. I miei temi prendono voti alti.
Per l'esame di Lucca partiamo in macchina all'alba con due care amiche che mi ero fatta nella scuola, Adria e Chiara. Lasciamo Genova alle spalle e ricordo, sull’autostrada, una sensazione di sole improvviso. Per la prima volta la nebbia si era diradata. Non sapevo come sarebbe andato l'esame, ma sentivo fiducia. Era una cosa calda dentro le vene, qualcosa che aveva a che fare col futuro. Anche io adesso potevo avere un futuro.
Su 19 studenti della mia classe siamo passati in due.
Mi sono iscritta a Lettere e Filosofia. Ero curiosa di sapere se qualcuno avesse trovato delle risposte a questa cosa stranissima che è la vita.
A Filosofia ho scoperto, non un interesse, ma una passione per lo studio. Non mi interessava più nulla delle risposte sulla vita. Era solo bello studiare fino a notte tarda con Adria. Divorare libri e idee.
Mi sono laureata con 110 e lode con il professor Angelino, che nella foto vedete parlare con entusiasmo dell'oggetto della mia tesi, la percezione delle immagini nel Monsieur Teste di Paul Valéry.
Ogni volta che ho un piccolo successo professionale, come quando la settimana scorsa sono stata invitata a insegnare Storia dell'illustrazione alla Cattolica di Milano, traballo.
Mi viene il dubbio che si siano sbagliati. Invece no, sono proprio io. È la mia storia.
Auguro a tutti i ragazzi e le ragazze nella nebbia di trovare un Leopardi, e ai loro genitori di avere fiducia.
Anna Castagnoli
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ilmomentoingiusto · 1 year
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Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dí e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere.
Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Bologna, 17 gennaio 1826
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esamedistato2024 · 1 month
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Documento critico
Leopardi ritiene che i contrasti tra gruppi umani siano secondari, e perciò da mettersi a tacere di fronte all’esigenza di far blocco contro il nemico comune: l’empia natura.
Il dibattito su leopardi si consuma sempre sul rapporto tra poesia e filosofia.
Francesco De Sanctis (1817-1883) Per De Sanctis la componente filosofica è dominante, ma sarebbe nulla ne non partisse da uno slancio di sentimento. Privilegia gli idilli e ritiene le operette morali e la ginestra meno valide.
Benedetto Croce (1866-1952) Invece Croce valurizza la dua poesia nata dalla sua vita strozzata, e ritiene abbia un valore filosofico. La poesia è poesia se è scritta un un certo modo e nasce da una vicenda personale.
Walter Binni (1913-1997) Dopo la seconda guerra mondiale viene salvato l’ultimo Leopardi, combattivo ed erocio della ginestra, è il “vero” Leopardi.
Sebastiano Timpanaro (1923-2000) Riconosce nella Ginestra il valore illuminista e progressista di Leopardi.
Mario Andrea Rigoni (1948-2021) Afferma che Leopardi era un anticipatore del pensiero moderno. Un saggio dell’umanità i cui discendenti sono i pensatori più inquieti della modernità.
Emanuele Severino (1929-2020) Severino il pensiero di Giacomo Leopardi, Nietzsche e Giovanni Gentile è l'apice della follia del nichilismo. Severino considera questi tre filosofi come i tre più grandi geni che hanno portato all'estremo la concezione greca del Nulla, ovvero l'entrare e l'uscire degli enti dal Nulla.
Alienazione inettitudine, male di vivere → montale etc.
LA VERA ARTE è FUORI DAL TEMPO. DER ZEIT IHRE KUNST, DER KUNST IHRE FREIHEIT, INDIPENDENTEMENTE DALLA CRITICA, DALLE INTERPRETAZIONI, CHI LEGGE LEOPARDI VI TROVA SEMPRE DEL NUOVO VALORE, A MODO SUO. PERCHé è ARTE, CON UN MESSAGGIO E UNA BELLEZZA TALMENTE PROFONDA CHE TRASCENDE I SUOI CONTESTI STORICI, SPEZZANDO LE CATENE DEL TEMPO L’ARTE DIVENTA UNIVERSALE, IMMORTALE
WIR WOLLEN UNS IN LUFT AUFLÖSEN. WIR WOLLEN VERSCHWINDEN. UNSERE KUNST ZEIGT ES UNS: WIR VERSUCHEN SO MINIMALISTISCH ZU SEIN, WIR VERSUCHEN NICHTS ZU BEEINFLÜSSEN, WIR WOLLEN NUR DIE SCHÖNHEIT DEN ANDEREN ZEIGEN, OHNE DIESE SCHÖHNHEIT ZU STÖREN. WIR WOLLEN NICHTS DAMIT ZU TUN HABEN, VIELLECIHT GAR NICHT MEHR EXISTIEREN. DIE MENSCHHEIT HAT IHR MASSENSUIZID NICHT NUR IN DER UMWELT, ABER AUCH IN DER KUNST BEGONNEN.
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popolodipekino · 6 months
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pessimismo e fastidio
Per quanto riguarda il rapporto con Dio, Leopardi, dichiaratamente ateo, sostiene che quello che dicono Platone e "Leibnizio", che esistono delle idee perfette, è assolutamente falso, perché noi non siamo in grado di concepire qualcosa di preciso e perfetto. [...] Noi non dobbiamo considerare le idee innate, come fa Cartesio, [...] quelle che abbiamo a priori nella nostra mente, come qualcosa di vivo, dobbiamo fidarci soltanto di ciò che è dato, di ciò che passa attraverso i sensi. [...] La posizione di Leopardi è quella di Locke [...], secondo il quale tutte le nostre conoscenze derivano dai sensi, tutto ciò che non passa attraverso i sensi non entra nel nostro intelletto e tutti noi possiamo solo credere per fede che Dio esiste, ma non lo possiamo dimostrare. [...] Ma Leopardi va ancora più in là. Un mondo così imperfetto non può essere opera di Dio. E Leopardi, che conosceva Epicuro, diceva che, se Dio può togliere il male e non lo fa, è malvagio. Se non può togliere il male, è impotente. Se non può e non vuole è impotente e malvagio. Naturalmente, di fronte a queste posizioni si prova, soprattutto chi è religioso, una certa repulsione. Da qui l'idea di un Leopardi nichilista, che vuole il nulla. Da qui l'idea, diffusa nei manuali, del pessimismo cosmico. Leopardi è qualcosa di più. da R. Bodei, Oltre la siepe: Leopardi e l'immaginazione, in Leopardi e la filosofia
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valentina-lauricella · 3 months
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Current reading
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"[…] il pensiero leopardiano si costruisce faticosamente, di giorno in giorno, di rimando in rimando; e vive in quei grovigli, in un andirivieni tendenzialmente interminabile e comunque interminato. Non abbiamo innanzi a noi un oggetto soddisfatto di sé, preciso e chiuso su se stesso come un sonetto; ma un maestoso caos: vivo, inquieto, che cerca di estendersi sino ai confini dell’universo per riportarne una mappa accurata, munita di commento e note: perché l’esplorazione operata da Leopardi è esplorazione di filologo; la sua acribia è acribia di filologo. Con un filo di ironia potremmo apparentare anche il suo scetticismo e relativismo alla cautela con la quale il filologo contempla i risultati del proprio lavoro: consapevole che per quanto accuratamente abbia condotto l’indagine non può aver tenuto conto di tutte le variabili; sicché il lavoro rimane sempre aperto, provvisorio: un eterno preludio pronto ad agganciare una divagazione, ad accogliere una smentita o una contraddizione. Probabilmente è proprio questa insolente apertura a sconcertare e irritare i filosofi. E tutti noi, in fondo, che avremmo bisogno di rigirare fra le mani un oggetto chiaro e ben tornito e invece siamo costretti ad addentarci in un territorio pieno di insidie e praticamente inesplorabile."
Ma l'intelletto umano è capace di contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà. (Zibaldone, 3151)
In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto facilissimamente diviene vastissimo. Tanto più è necessario, volendo pur fare un libro, che uno sappia limitarsi, che attenda diligentemente a circoscrivere il proprio argomento, sì nell'idea de' lettori, e sì massimamente nella propria intenzione; e che si faccia un dovere di non trapassare i termini stabilitisi. (Zibaldone, 4484)
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moonyvali · 1 year
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«Chi non pensa, può “sapere” tutto ed essere ignorante in ogni cosa.»
Il filosofo (philosophos, colui che ama la conoscenza) è ben diverso dal sophos, colui cioè che possiede un determinato sapere e dunque è chiamato sapiente. Chi è il filosofo allora? Non chi possiede la verità ma chi ricerca la verità. Ecco in questa precisazione, vi è tutta la differenza del mondo. Il famoso detto socratico «so di non sapere» è il presupposto della filosofia. Se sei convinto di sapere qualcosa, perché mai dovresti metterti in discussione?
L’ho già detto ma lo ripeto: né i diplomi, né i titoli di laurea fanno la cultura. Cultura non è sapere tutto, essere archivi ambulanti di fatti, dati, nozioni. «È curioso a vedere» diceva Leopardi, «che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici.» Cosa intende Leopardi con semplicità? Ecco, c’è un’altra parola, una parola che oggi è completamente passata di moda, che nessuno o quasi usa più: umiltà. La persona saggia è umile, questo vi sta dicendo Leopardi. Disprezza i modi affettati, la presunzione che invece abbonda negli stolti, in quelli che gli antichi greci chiamavano “falsi sapienti”.
Quella in cui viviamo oggi è letteralmente l’epoca dei parolai: tutti vogliono mettersi in mostra, parlano, parlano, parlano, non di rado senza cognizione di causa: infarciscono i loro discorsi con parole sofisticate, con la volontà di umiliare, di far sentire inferiore il proprio interlocutore. «Lei non sa chi sono io», sembrano dire e alle volte te lo dicono proprio in maniera esplicita. Come comportarsi con questi individui?
Ecco, un giorno il filosofo Eraclito venne invitato a una riunione di saggi. La riunione andò avanti per molto tempo, tutti discutevano, argomentavano, parlavano facendo mostra della loro eloquenza, mettendo in mostra tutto il loro sapere. Eraclito invece se ne stava zitto, senza aprire bocca. A un certo punto uno degli altri notò il silenzio del filosofo. «Perché taci?» gli domandò. «Perché voi possiate chiacchierare.» gli rispose.
G.Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X Ai miei lettori, è da poco uscita la nuova ristampa del mio romanzo Clodio, se vi piacciono la storia e la filosofia, potete leggerne un estratto gratuito a questo link: https://www.amazon.it/Clodio-G-Middei/dp/8832055848
#filosofia #educazione #cultura
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SENSI DELL’ARTE - di Gianpiero Menniti
LA FRAGILE CIVILTÀ
Il teatro naturale dell’orrore esiste. Il sistema delle Rift Valley africane, quel vasto territorio considerato la culla dell’umanità, ne è lo sfondo: lì, si vive per la morte. Il mondo animale è talmente estremo, nel suo ciclo quotidiano e nel succedersi delle stagioni, da rendere improvvisamente veridica la filosofia di Schopenhauer: la specie prevale sull’individuo. E quella di Leopardi sulla vita:
«Il più solido piacere di questa vita è il piacere vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale state ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.»
Le illusioni necessarie hanno costituito uno dei fondamenti dell’arte. Quella che racconta la lunga e faticosa evoluzione sentimentale dell’umanità: un sistema di convivenza in antitesi al cinico, insensato modello imposto dalla natura. Tuttavia, la violazione delle norme poste a difesa della vita cosciente, talvolta emerge e sommerge. La violenza della guerra diviene una fatalità che muta gli equilibri e impone un nuovo impegno. Chi ha imbracciato le armi, più di altri, conosce quel tragico destino. Come Vasily Vasilyevich Vereshchagin (1842 - 1904), artista russo vissuto nell’età di Lev Tolstoj e di Fëdor Dostoevskij, l’età di una profonda svolta culturale in quel lontano e affascinante oriente europeo. Così, Vereshchagin seppe rappresentare l’anima di una civiltà in bilico tra la maturità dello spirito e le pulsioni viscerali della violenza ubriaca di retorica nazionalista: dramma assai diffuso nel mondo. Ci riuscì, in particolare con un dipinto: “L'apoteosi della guerra” (1871) conservato nella Galleria Statale Tret'jakov, a Mosca. Crudo. Efficace. Definitivo. Costruito come un cumulo artificiale dell’orrore ancestrale. Eppure, più vero dell’illusione. E più abissale e dissennato di ogni legge di natura. Tragicamente più forte della fragile civiltà.
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aaquilas-blog · 5 months
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Riflettendo su "Verità e Menzogna"
Ripensando al concetto di “NOLONTÀ”, elaborato da Arthur Schopenhauer, il Leopardi della Filosofia, mi è venuto in mente come questo si possa applicare alla società contemporanea, specialmente nell’era dei social media. Per Schopenhauer, la “Volontà” è un impulso “irrazionale” e istintivo che spinge l’uomo a esistere e ad agire per la propria sopravvivenza. Questa volontà, manifestandosi anche…
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lucianopagano · 5 months
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Appunti di lettura per
«Il rifiuto»
(Musicaos, Balbec, 1)
di Davide Morgagni.
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Dieci anni fa, nel 2014, venne pubblicato «I pornomadi» di Davide Morgagni, nella collana «Smartlit» di Musicaos Editore. Il primo manoscritto del primo romanzo di quello che oggi è «Il rifiuto» si intitolava «Canti di un pornomade». Nei vari ragionamenti attorno alla pubblicazione mi ricordo che quella parola, «Canti», oltre a essere molto evocativa (Leopardi, Lautréamont, Dante, etc.), poteva essere associata a un’altra opera, i «Canti dei caos» (2001, 2003, 2009²) di Antonio Moresco e così, per evitare cortocircuiti allusivi, trattandosi di un esordio, suggerii l’opportunità di togliere il libro dal repentaglio di intitolarsi «Canti di…» essendo il terzo titolo di un editore che aveva -caos come suffisso del suo nome, per sfuggire ogni tipo di ammiccamento. Cercammo così un riparo a distanza cautelativa dal capolavoro di Moresco, che a sua volta negli anni seguenti sarebbe divenuto parte di un lavoro ancora più grande. Una cautela che a posteriori, come spesso capita con le cautele letterarie di persone troppo devote alla letteratura, incorse nell’esagerazione di presupporre l’esistenza di lettori più che ideali, sublimi, invece che delle cimici di Majakovskij. 
Dal punto di vista linguistico-narrativo ciò che avviene ne «I pornomadi» è la genesi di un mondo e allo stesso tempo del «modo di esprimerlo». In una città infuocata un autore si scaracolla in balìa di mete imprecisate, tra un’estate e un inverno, con l’unico movente di esistere. L’idea di proporre un romanzo che contenesse un mondo senza somigliare a un romanzo-mondo era connaturata anche alla modalità in cui il volume si presentava nella sua prima edizione, con le opere d’arte fotografica di Lorenzo Papadia a costituire una narrazione visiva, e un’impaginazione “estesa”, che supportava l’idea di voler porre il lettore dinanzi a qualcosa di inedito, sotto più aspetti possibili. Questa realizzazione era alternativa alle aspettative e faceva parte dello stesso esordio, si trattava di un «io esiste».
Ricapitolando, una scrittura endogenetica, per un mondo che si costruisce dalla propria stessa lingua, raccogliendo testo, immagine, suono, urlo. Strumenti per narrare presi in prestito, oggettivamente, dalla poesia. Per usare un geniale e formidabile «metro» Eggersiano, in una scala dal 0 a 10 dove 0 è Poesia e 10 è Narrativa, «I pornomadi» si situa, oscillando, tra un 5 e un 7. Si tratta di una riflessione che troverà compimento nei romanzi successivi confluiti ne «Il rifiuto». Che impressione poteva fare sui suoi primi lettori «Il tropico del Cancro» di Henry Miller, pubblicato a Parigi nel 1934? Solo una ventina di anni prima la letteratura tradizionale (Gide che nel 1912 «rifiuta» “Dalla parte di Swann”) faceva i conti con l’«incomprensione» della prima parte della Recherche di Proust. Non c’è adito di paragone se non nel sottolineare che sempre, in tempi, luoghi e circoli differenti, la letteratura per emergere si pone complicemente come rottura con ciò che la precede nell’immediato, salvo poi essere ripresa – se riuscita – come continuità con lo stesso.
«I pornomadi», col suo stile «delirio» assume una modalità narrativa di derivazione céliniana, un «tenere bordone» costantemente «in levare» che dà movimento col suo stesso porsi, una scrittura che proviene da Miller, Deleuze, Guattari, Joyce, Beckett, Bataille, Céline, Bukowski; mi è sempre sembrato un «ponte» tra la concretezza sperimentativa e i suoi «misteri pedagogici», uno studio che devia dalla lezione originaria per creare qualcosa di originale e totalmente appartenente alla nostra lingua. Un romanzo “Il rifiuto” sul fatto che si possa scrivere un romanzo, fare scrittura, essere scrittura, tenuto conto di ciò che è stato prodotto in filosofia, teatro, poesia, negli ultimi cinquanta anni, tanti all’incirca ne sono trascorsi dalla pubblicazione dell’Anti-Edipo, dalla letteratura di avanguardia degli anni Settanta, dagli sperimentalismi più oltraggiosi, sia quelli riusciti che quelli mancati, quelli che hanno conservato una certa forza e quelli dileguati.
Perdere tutto per affermare l’esistenza di sé stessi, questo sembra urlare il protagonista de «I pornomadi».
«Strade negre» pone altre due urgenze sotto la lente focale della scrittura. Il «delirio» religioso – la prima metà si svolge a Roma, con il protagonista che segue un corso per diventare conservatore/divulgatore dei beni religiosi della Città Eterna – e il «delirio» da anti-potenza del «genere» del milieu culturale occidentale al suo tramonto.
«La nebbia del secolo», uscito nel 2019 con Leucotea Edizioni, è il terzo romanzo, riveduto, de «Il rifiuto». Romanzo più breve e altrettanto folgorante, è ambientato a Parigi nel periodo storico recente, dove il fantasma del terrorismo ha costituito la paranoia globale per eccellenza, concretizzandosi in attentati ancora oggi temibili, prima dello scoppio della pandemia e al margine di ogni guerra.
Dopo aver delirato i continenti, le religioni, i popoli, parlando di virus, guerre, conflitti, giunge la Pandemia. Il romanzo, fino a oggi inedito, «Finché c’è rabbia», racconta gli ultimi anni vissuti, quelli del Covid, nel racconto del protagonista. Le sue vicende non sono centrali di una storia che è più grande, che ci ha investito. Uno dei protagonisti è il Capitalismo, cui viene sferrata una critica viscerale, programmatica, che sottende tutta la narrazione.
«Il rifiuto» così si compone di quattro romanzi, quattro romanzi differenti per stile nei quali si produce un movimento stilistico dal caos iniziale, in cui la lingua poetica fa accadere il mondo, gettando sul piatto quelli che saranno i temi caratterizzanti del Romanzo: con il contrasto particolare (Capitalismo, Espressione, Spersonalizzazione), la Religione Universale e le religioni particolari, la religione dell’Arte, la religione del Maestro, la religione della Devozione Domestica, la religione della Famiglia, la religione allo Stato, la religione dello Studio, eccetera; e ancora lo Spettro della Storia Universale, attraversato a sua volta dagli spettri del terrorismo e della paranoia internazionale, con tutto ciò che compone il Secolo.
«Il rifiuto» è in tal senso rifiuto post-moderno, costruito sulle macerie del post-modernismo. Il post-moderno sanciva la fine della pretesa delle “Grandi Narrazioni”, dagli anni Settanta a oggi sembrava che si dovessero avverare tutte le promesse non solo stilistiche e narrative, ma anche di vita, di uno sviluppo consapevole, rispettoso delle coscienze e del sentire ecologico planetario. Una molecolarizzazione delle esperienze che si sarebbe accompagnata a un grado di umanità più apprezzabile. Tutto ciò ovviamente non ebbe luogo, se non teorico. Solo l’ipotesi di vivere su un pianeta insieme a cinque miliardi di persone, un giorno, poteva atterrire. Mentre scrivo siamo ottomiliardi settantasettemilioni quattrocentosessantasettemila e novecentonovantanove. Impossibile a credersi oggi, per chi vive in un’epoca che è somma di tante epoche che possono coesistere. Dagli anni Settanta a oggi è trascorso mezzo secolo, immaginare di riportare alcuni riferimenti culturali all’oggi senza storicizzarli sarebbe paradossale come interpretare il 1950 con le categorie del 1900. 
Per prescindere dall’empasse cui potrebbe condurci la storia ci si attiene alla creazione poietica, ai testi, alle influenze, in tal senso Gilgamesh è nostro contemporaneo. Nel miscuglio babelico dei linguaggi si è aperta con la Rete una Babele ancora più grande, districabile per chi ha in amore la complessità, la Società del Controllo è divenuta realtà, e oggi che ognuno di noi è misurato, controllato, enumerato, accountizzato, di quale bisogno si scopre desiderante la comunità dei clienti (lettori, ascoltatori, videoutenti) dell’infotainment? Narrazioni. Grandi. Innumerevoli. Ovunque. Grandi narrazioni. Chiusura del cerchio (canto del cigno o requiem) del post-modernismo, “Il cerchio si chiude”, come termina Stephen King il suo capolavoro virologico “L’ombra dello scorpione”.
«Il rifiuto» affronta questi temi con la densità leggera di un volo, pagina dopo pagina, mettendo a nudo i meccanismi psicologici, sociali, antropologici, mentali, narrativi, che ci vengono presentati dai metadiscorsi che viviamo. C’è un elemento comico che ritorna, come ce ne sono tanti, ilari, più o meno forti e incisivi, ma questo di cui parlo è – se vogliamo – metacomico: il protagonista, che si trova a dialogare con i suoi amici, conoscenti, spesso si sente rivolte frasi di questo tenore «sai, penso che quello che sto vivendo è importante, penso che lo racconterò in un libro», oppure «penso che scriverò un libro». In un mondo creato da un protagonista ossessionato dalla descrizione di un mondo traducibile e decifrabile per lui soltanto, gli altri, che subiscono il mondo senza comprenderlo, si sentono più atti di lui a raccontare la realtà. 
La scrittura filosofica è un genere poco letto, non mi riferisco ovviamente alla scrittura di romanzi a metà tra saggio e narrativa, o romanzi scritti da filosofi. Tutto ciò che c’è di politico e filosofico ne «Il rifiuto» traduce permanentemente un’urgenza stilistica, permettendo a questa scrittura la distanza tra autore, da una parte, e artista dall’altra. Se gli strumenti che Davide Morgagni utilizza attingono a un bagaglio simile, gli ambiti sono totalmente differenti. «Il rifiuto» intende porsi in un dialogo con le persone, i critici, i lettori, in generale, pensanti, a questi, da controcanto (di un pornomade) indico ad esempio la lettura dei romanzi di Aldo G. Gargani.
«Il rifiuto» è un romanzo lontano da Dio, fuori dalla sua grazia, se il protagonista può sembrare un asceta, questa sua ascesi si compie tra le mura, in un appartamento leccese, o romano, o parigino, senza wc, dove non c’è grazia del signore; c’è vicinanza a tutte le creature, compresi gli innumerevoli animali del creato, a dimostrazione di un anelito ecologista/ambientale di fondo  (pulci api foche mucche blatte vermi formiche microbi granchi lombrichi gatti pidocchi tonni pesci-spada galline polli sirene ragni topi cavalli gechi ramarri cani passeriformi molluschi bruchi testuggini merluzzi cicale grilli farfalle iene rondini fringuelli mosche tacchini ricci platesse polpi zanzare tigri cinghiali rondini piccioni scimmie pinguini giraffe bufali conigli rane mosconi manzi gazze capre agnelli struzzi tartarughe pipistrelli civette lucertole salmoni lumache porcospini moscerini calamari gamberoni ostriche colombe vipere ippopotami scorfani anguille orche foche seppie totani pappagalli cigni scoiattoli bisce avvoltoi scimmie anatre pecore pulcini millepiedi vitelli delfini pipistrelli pescecani gorilla babbuini rospi sanguisughe pesci palla leoni lupi asini ghepardi balene fagiani).
Molte creature ma, all’orizzonte, nessun Dio. Eppure non si tratta di un pensiero laico, quello che viene sfrondato da queste pagine, perché quella del protagonista non è un’ascesi raggiunta in mezzo alle persone buone e cordiali, al contrario, è una segregazione spesso ricercata per salvarsi e per difendersi dai barbari. Per non parlare delle volte in cui il protagonista, semplicemente, parla la lingua della verità in mezzo ai sordi, recando letteralmente la saggezza al mercato, come lo Zarathustra di Nietzsche, che compie l’oltraggio peggiore, quello di «bruciare» la news della sua scoperta «oltreuomo» con la condivisione.
Ciò che succede nei vari piani che situa il romanzo fa anzitutto in modo che ciò che risulta in esso romanzato (l’amore, le relazioni, le amicizie, i quartieri, le città, le metropolitane) trascorre in secondo piano rispetto alla società, ai conflitti generali di interesse economico, all’attrito tra classi sociali. «Il rifiuto» diviene così un dispositivo artistico rivolto all’esterno. Ricapitolando, una storia che abbraccia le vicende del protagonista nell’arco di quindici anni, con luci a più punti focali mirate a illuminare l’agire dell’individuo come reagente in una società paranoica-ossessiva-delirante. Il protagonista/Narratore, pure con diverse «facies», è sempre lo stesso, così i comprimari.
C’è un termine che si affaccia ed è: profezia. Quando la scrittura letteraria, poetica o narrativa, compone un quadro realistico di tutte le tensioni in gioco nel momento descritto, spostandosi in avanti fino a prevedere possibilità, la scrittura diviene profetica; un termine religioso – come ascesi – che ritorna in un ambito dal quale l’orizzonte di un qualsivoglia Dio è compromesso.
«Il rifiuto» è preludio a una narrativa dell’avvenire (non inteso come futuro, “ciò che avverrà”), di ciò che avviene nel suo farsi, che si compone passo dopo passo, della creazione di un contesto e dell’internamento di un protagonista nell’agire stesso che è stato contestualizzato a parole. La ricezione di una scrittura simile, è assimilabile a quella di una scrittura poetica, per quanto riguarda il suo abbrivio, che evolve in un percorso narrativo che porta al lettore stralci dal sapore joyciano, milleriano, beckettiano.
I luoghi in cui accade questo «avvenimento» (sempre da “avvenire”) narrativo sono tre, in tempi differenti e che si rincorrono, principalmente Lecce, Roma, Parigi. Il protagonista occupa sempre un altrove in ognuno di essi, ciò che percepisce il lettore è una velocità estrema, istantanea, centrifuga. Del centro, pur essendone affascinato, il Narratore coglie tutte le contraddizioni, la mancanza di umanità nei rapporti, la spersonalizzazione, l’egoismo. Non c’è un obiettivo, c’è una vita di margine vissuta al limite, nell’«underground». Torna qui, anche nel rapportarsi ai luoghi, la dimensione ascetica di una purezza etica, né santa né laica.
L’aggettivo «negro», come gli altri, è un simbolo. La negrezza/negritudine cui fa riferimento il Narratore è la risposta etica al disfacimento dell’Occidente. In particolare nell’ultimo romanzo, l’inedito «Finché c’è rabbia», dove lo sfondo delle vicende è lo Spettro Pandemico, si pone come fatto compiuto uno scollamento senza ritorno di tutti gli attori sociali. Non hanno più niente di esotico gli uomini del sud che ciondolano fuori dai bar per arrivare alla fine di un’altra giornata. Sono zombie, batterie senza carica positiva, salvati dal pasto quotidiano della Caritas e da un giaciglio di fortuna. Il racconto dell’umanità vissuta a contatto stretto, questo è il sud, un certo meridionalismo narrato da Davide Morgagni ne «Il rifiuto». Viene raccontata la povertà, l’indigenza, la vita degli ultimi. È uno dei temi che vengono messi di più in risalto nel quarto romanzo che compone «Il rifiuto», «Finché c’è rabbia».
Non potevano che volerci dieci anni per misurare un certo tipo di ampiezze. Termino con una breve considerazione sulla forma finale in cui è presentato «Il rifiuto». Perché quattro romanzi, al di là dell’Opera, in un volume? L’idea dell’autore, nel presentare «Finché c’è rabbia», era che questo romanzo chiudesse un ciclo di storie, tutte vissute e raccontate dallo stesso Narratore, e che questa conclusione avesse un titolo ideale che racchiudesse queste storie, per l’appunto, «Il rifiuto». Abbiamo creduto, di comune accordo con l’autore, che valesse la pena presentare questi quattro romanzi insieme, perché erano trascorsi dall’inizio de «I pornomadi» dieci anni, durante i quali avevamo il presentimento che fossero accadute molte cose.
A ciò si aggiunge il fatto, oggettivo, che sarebbe stato difficoltoso e magari affaticante, per il lettore odierno, ricomporre un puzzle narrativo i cui frammenti, seppure facilmente reperibili, andavano rinvenuti richiedendo quattro atti di volontà separati. Ciò per evitare, parafrasando l’Amleto/CB, quelle “spiegazioni che ci ammazzano”, nell’avere a che fare con un romanzo che richiamava inevitabilmente la prosecuzione all’inverso degli altri tre. Lo stesso senso è anche quello di questo intervento, che cerca di sollevare alcuni temi presenti nei quattro romanzi che fanno «Il rifiuto», che oltre a essere un romanzo da leggere, sia ad alta voce che interiormente, è un romanzo politico, nel senso più schietto e originario che si può dare oggi a questo termina.
E adesso dimentichiamoci di tutto per leggere «Il rifiuto».
Buona lettura.
«Il peggio passa e se ne fa una sintassi», «Io scrivo per le pulci di periferia», «Vedi ragazzo – quando perdi cerca di perdere tutto – e quando muori assicurati di essere morto», «Il demonio ha in serbo grandi fichi sbucciati per le nostre bocche ragazzo e quando ogni cosa va in frantumi è perché e eterna», «La Storia è un riciclaggio di antichità e remote invarianti ed è per sempre immondizia puzzolente di morte e morti e gambe e occhi paralizzati», «Poi ha compreso che soffrire non serve, ma ciò non serve a smettere di soffrire», «Nella disperazione non si vede nulla, ma la disperazione vede tutto».
«Il rifiuto» di Davide Morgagni è la prima uscita della collana «Balbec», di Musicaos Editore, nella quale sono in programmazione le uscite dei nuovi libri di Giuseppe Goisis, Raffaele Gorgoni, Francesco Lanzo.
Luciano Pagano
«IL RIFIUTO» (Musicaos, Balbec, 1) - Davide Morgagni
in distribuzione dal gennaio 2024
ANTEPRIMA a LECCE - VENERDÌ 22 DICEMBRE alle ORE 19
presso ASTRAGALI TEATRO (Via G. Candido, 23)
interveranno:
Fabio Tolledi [direttore artistico e regista di Astràgali Teatro]
Simone Giorgino [Docente di Letteratura Italiana Contemporanea / UniSalento]
Luciano Pagano [Editore]
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viagginoriente23 · 1 year
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Viaggi in Bhutan: Scopri la Terra del Drago del Tuono
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Offerte Viaggi Bhutan : Il Bhutan è un piccolo paese situato tra l'Himalaya e l'India, conosciuto per la sua cultura unica e la sua bellezza naturale. In questo articolo, ti presenteremo alcune delle migliori offerte per viaggiare in Bhutan e scoprire la bellezza di questa terra del Drago del Tuono.
Perché scegliere il Bhutan come destinazione di viaggio?
Il Bhutan è un paese unico, dove la felicità è considerata la principale fonte di ricchezza nazionale. Questa filosofia è espressa attraverso il concetto di "Felicità Interna Lorda", che misura la felicità dei cittadini e il benessere generale della nazione, invece del solo prodotto interno lordo. Il Bhutan è inoltre conosciuto per la sua cultura unica, che si esprime attraverso la lingua, la religione, l'architettura e le arti.
Il Bhutan è anche un paradiso per gli amanti della natura, con paesaggi montuosi mozzafiato, foreste lussureggianti e animali selvatici come tigri, leopardi delle nevi, yack e antilopi.
Quali sono le offerte viaggi Bhutan disponibili?
Ci sono molte offerte viaggi Bhutan disponibili sul mercato, che si adattano a ogni esigenza e budget. Ecco alcune delle migliori offerte per viaggiare in Bhutan:
Tour culturali: i tour culturali permettono di scoprire la cultura e la tradizione bhutanese, visitando i monasteri e i templi buddisti, le città storiche e le arti locali. Durante il tour, si possono ammirare le tradizioni locali, la musica e la danza, e la cucina locale.
Tour di trekking: il Bhutan offre molte opportunità per gli amanti del trekking, con sentieri che attraversano foreste lussureggianti, laghi alpini e villaggi remoti. I tour di trekking ti permettono di scoprire la natura selvaggia del Bhutan e di vivere un'esperienza unica.
Tour avventura: il Bhutan offre anche molte opportunità per gli amanti dell'avventura, come il rafting sul fiume Paro, il ciclismo su strada e la pesca sportiva. Questi tour ti permettono di scoprire la natura selvaggia del Bhutan e di vivere un'esperienza unica.
Tour spirituali: il Bhutan è un luogo sacro per il buddismo, con importanti siti come il Monastero di Taktshang e il Tempio di Kyichu Lhakhang. I tour spirituali permettono di scoprire la spiritualità del Bhutan e di vivere un'esperienza unica.
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cycktok · 1 year
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03 gennaio
Vengo invitato al compleanno di una nuova conoscente un po' random, a casa sua; ok l'idea mi elettrizza, ogni occasione è buona per migliorare le proprie abilità comunicative e strappare un sorriso tra i presenti e conoscere gente nuova; non a caso vengo definito, in seguito, durante la serata stessa "VIP" e, verso fine serata MVP, da molti. Mi dispiace non aver fatto un pensiero e comprato almeno qualcosa alla festeggiata; sarebbe stato molto gradito, e soprattutto giusto...
Conoscevo all'inizio solo un ragazzo (mio amico); anyway, alla fine della serata le persone sapevano chiaramente chi fosse io; CYCK.
Devo dire che probabilmente ho fatto 7368329 passi in avanti in questo genere di occasioni rispetto ad anni fa (vabbe la gente in media aveva un'età inferiore alla mia, ma comunque dai).
Addirittura un tipo tra i presenti in serata mi da dell'affascinante, rispondo che di solito preferisco me lo attribuiscano le fighe questo genere di epiteto. Bevo 2 birre 66 moretti in totale e un po' di spritz; così do il meglio di me anche con Cleopatra (nomignolo venuto fuori dopo aver parlato di viaggi in Egitto, e prontamente attribuitole come mi è solito fare), una ragazza conosciuta proprio la sera stessa, amica stretta della festeggiata. Le mie battute sono spesso cool e provocatoriamente destabilizzanti, cosa che fa sempre scalpore ed effetto. Mi è capitato anche di fare la mossa alzando la gambetta da fenicottero, tipica delle tik tokerss giusto per il meme. Dopo aver parlato di filosofia, maglie rosa, fucsia, il mio vecchio liceo; scuola che, sia una parente grande della padrona di casa ha fatto, sia cleopatra sta facendo, Leopardi ecc... arriva la torta, e si fanno le solite cazzatine tipiche di queste occasioni.
A una certa la gente inizia a volere ballare a just dance, e molti mi esortano a farlo, ma ehi, non c'è nemmeno bisogno di fare pressioni, me ne esco dopo 5 minuti sudati e coinvolgenti da singolo, conquistando tutti; inotre dico che avrei fatto il secondo balletto solo su una canzone di Dua Lipa (LOL, chi sa, sa😌😋). "One kiss" sulla traccia e via. OK avevo dato abbastanza e per il resto della serata me ne sto sui divanetti derenato a guardare gli altri. Alla fine, dopo i balletti cringe, propongo ulteriori miei giochetti del cazzo da fare insieme quando l'atmosfera era molto più calma. La gente inizia ad andarsene e rimaniamo in pochi pochi, così esaurendo le ultime battute saluto e ringrazio anche io e me ne vado.
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