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#tasca destra in alto
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se fossi ancora qui con me ti farei vedere io che la lezione d'amore che mi hai insegnato io l'ho imparata bene
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breaddo · 1 year
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hate when spotify is like im not going to play anything good but when i do its going to be one of those songs that rips your heart out of your chest
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ragazza-paradiso · 2 years
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in the taxi to the airport, leaving rome, and “a parte te” by ermal meta comes on the radio, i could fucking cry
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Sempre sarai nella tasca a destra in alto
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ambrenoir · 2 months
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"Se fossi ancora qui con me
Ti farei vedere io
Che la lezione d'amore che mi hai insegnato
L'ho imparata bene
Sempre sarai nella tasca a destra in alto
In un passo stanco, dentro un salto in alto
Che mette i brividi
Sempre sarai in un sorriso inaspettato
O in un appuntamento con il mio destino."
Ermal Meta
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Nella tasca destra in alto.
A te.🐻
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Il ricordo di gioventù che conserverò nella tasca destra in alto sarà per sempre l’atmostera di gioia, spensieratezza e amore che si respira in casa mia durante la settimana di Sanremo. Sono davvero fortunata ad avere determinate persone nella mia vita. Sono davvero fortunata, voglio ripetermelo sempre.
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Sempre sarai
nella tasca destra in alto.
May,14.
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silentalex · 2 years
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Il tono copri il suono secco del vetro ridotto in frantumi, Cohen ritirò il calcio del fucile ed insinuò la mano con attenzione attraverso i cocci, evitando le punte più taglienti, afferrò il maniglione antipanico e con uno strattone secco fece scattare la porta di emergenza.
-Di qua! Da questa parte!-
Alex si avvicinò in quel momento, fradicio sino al midollo, tenendo in braccio Logan in piena crisi respiratoria.
-Dentro, forza!-
Cercò di mettere fretta al ragazzo ed entrò dietro di lui lasciando che la porta si richiedesse alle loro spalle, poi cercò l'accendino in tasca e lo accese per cercare di fare luce. La struttura era enorme, forse un terminal o un centro commerciale, completamente immerso nel buio, i vetri delle porte antipanico erano talmente macchiati dal tempo da non permettere alla luce di filtrare, anche se ce ne fosse stata.
Guidò Alex verso un gruppo di panchine in quella che pareva essere la hall. Le panche attorniavano il perimetro di una bassa e grossa vasca vuota al cui centro si ergeva un rialzo di terra delimitata da una recinzione ben più recente, raffazzonata, con la poca erba incolta e visibilmente malata, concimata dai resti di una mucca.
Alex depositò con delicatezza Logan sulla panchina, la ragazza non riusciva a respirare, ma sapeva fin troppo bene che non avrebbe potuto estirpare alcun aiuto medico da parte del ragazzo, per cui cercò da sola di assumere una posizione migliore, data la situazione. Padre e figlio si guardarono a vicenda, erano entrambi bagnati da capo a piedi ed anche cedendole le loro camicie non avrebbero potuto aiutarla ad asciugarsi.
-Alex.- Lo chiamò Cohen -Non possiamo accendere un fuoco, non sappiamo dove siamo.- in effetti si erano infilati nella prima struttura riparata appena Logan aveva iniziato a soffocare per via dell'umidità della pioggia battente, Cohen non nascose al figlio la loro attuale vulnerabilità -Rimani con lei, io cerco qualcosa per scaldarla.- O un inalatore, ma le sue speranze di riuscire a trovarne uno erano davvero nulle.
Alex rimase vicino a Logan, sul suo volto i segni dello sgomento per lo stato dell'amica, ai limiti del panico, come sempre quando è l'unico medico a stare male. Osservò Cohen allontanarsi e si sedette sui talloni al capezzale della bionda, le accarezzò con dolcezza la fronte ed i capelli, cercando di rassicurarla. -Andrà tutto bene... Respira, piano. Mio padre... Troverà una soluzione.-
Passarono dei minuti che sembrarono ore, Logan sembrò superare il momento più acuto, smise di verseggiare, il respiro si fece più cadenzato e regolare, seppur ancora rumoroso, mentre la ragazzina esausta e tremante per il freddo dovuto alla pioggia chiuse gli occhi per cercare di riposare. Alex ne approfittò per allontanarsi di qualche metro e controllare almeno la stanza in cui si trovavano.
Il posto era enorme, per i suoi standard, e terribilmente vuoto, alcune stanze limitrofe erano chiuse da serrande, altre erano bloccate da doppie porte tagliafuoco, o da barricate di fortuna. C'erano arredi ovunque, sacchi di detriti ed altre barriere più o meno improvvisate: i resti di una qualche comunità probabilmente azzerata, si rifiutava di trovare un termine più specifico.
Del rumore alle sue spalle se ne rese conto troppo tardi, ma il forte dolore improvviso alla nuca lo percepí tutto. Finì a terra, perdendo la presa sul fucile automatico, che slittò in avanti sul pavimento con un sibilo, fuori portata. Gemendo, portò istintivamente entrambe le mani alla nuca, una tornò di fronte al viso lercia di sangue.
Il suo aggressore però non ne aveva abbastanza, lo intravide voltandosi supino. Il tizio era un uomo alto e ben piazzato, decisamente fuori misura, sembrava quasi uno scherzo di natura. Gli abiti erano vecchi e stracciati, sporchi, i colori difficili da interpretare al buio.
-Bene bene... Cosa abbiam...- Alex non lo lasciò finire la frase, allungò la gamba destra per assestargli un colpo deciso al ginocchio.
L'uomo brontolò, più per la sorpresa che per il dolore, e si piegò in avanti dando il tempo al ragazzo di girarsi e cercare di gattonare d'urgenza verso il fucile. Tentativo che fu sventato in breve: l'uomo lo afferrò per una caviglia e lo ritirò indietro, facendogli battere il mento a terra, subito dopo gli assestò un colpo deciso ai reni con il piede di porco, strappandogli un urlo che rimbombò in tutta la hall.
-Piccolo bastardo! Vieni in casa mia e ti permetti pure di fare lo stronzo?- Tuonò l'uomo, sollevando il braccio per caricare un nuovo colpo.
C'era qualcosa di sbagliato in quella voce, un sadismo malato che emergeva dall'eccitazione che arrivava a fargli brillare gli occhi, e distorceva il viso in un ghigno entusiasta. A nulla valse il tentativo di Alex di allungare la mano verso di lui per converso a fermarsi, lo sconosciuto direzionò il primo colpo al suo avambraccio, per liberarsi la strada, il secondo arrivò con maggiore violenza contro lo zigomo destro, schizzando sangue e lasciandolo stordito e riverso sul fianco sinistro.
Il primo richiamo di Logan lo aveva perso, ma il secondo arrivò forte e chiaro, per via del tono allarmato. L'uomo si voltò per raggiungere la ragazza, Alex tentò almeno di afferrargli le caviglie per cercare di farlo inciampare, ma era stordito ed indebolito, vedeva troppe gambe per essere certo di aver afferrato quelle giuste, o di aver stretto la presa a sufficienza.
-Che razza di zecca...-
Quello rise, ancora in quella maniera malsana, e si piegò sui talloni dietro la sua schiena. Appoggiò la mano libera contro lo zigomo distrutto, premendo con le dita per forzare altri gemiti doloranti da parte del ragazzo, che nel frattempo continuava a cercare di allontanarlo.
-Chissà se anche la tua amichetta strillerà uguale...- Disse mentre con il pollice cercava di spingere malamente tra la carne lacerata e l'osso scheggiato, Alex sentì il fiato venirgli meno.
Quando l'uomo sembrò averne a sufficienza di torturargli il volto, osservò il piede di porco nell'altra mano e poi in direzione delle panche, Logan sembrava essersi ripresa un po', ma qualcosa la tratteneva.
Lo sconosciuto insistette -Vuoi dirmelo tu da dove siete saltati fuori, o lo devo chiedere a quella biondina?-
Il ragazzo utilizzò le poche forze rimaste per mandarlo al diavolo. L'uomo non sembrò gradire, strinse le dita attorno al metallo e colpì con durezza il naso del ragazzo. Un suono secco ed una nuova chiazza di sangue sul pavimento segnarono la seconda frattura nasale nella vita del ragazzo, mentre l'uomo lo afferrò per una caviglia ed iniziò a trascinarlo lungo il pavimento, avvicinandosi alle panche.
Logan era lì, ed in effetti con lei c'erano altre tre donne, di età differenti, con fin troppi tratti in comune. Erano sporche, vestite di stracci e logore nell'animo tanto quanto nell'aspetto esterno, ronzavano intorno alla ragazzina impedendole di alzarsi dalla panca.
Quando Logan vide l'uomo trascinare Alex in quel modo sgranò gli occhi, ma non fece in tempo a pronunciar parola, l'uomo abbandonò Alex come fosse un pupazzo inanimato e la afferrò per il mento con uno scatto, sollevandola di qualche centimetro dalla seduta.
Le annusò i capelli e con un ringhio secco ordinò alle altre donne di sparire dalla sua vista. Quelle si ritirarono di qualche passo, ammucchiandosi spaventate dietro la vasca della fontana. Si esprimevano a versi, erano poco più che animali e lo sconosciuto ne era evidentemente il capobranco.
-Guarda bene Zecca- sghignazzò l'uomo, chiaramente divertito ed eccitato dagli schiaffi e dai graffi che Logan cercava di rifilargli -...guarda come si addestra una sgualdrina!-
Gettò di lato il piede di porco e spinse la ragazza supina sulla panca, iniziando nuovamente a serrarle una mano contro il collo. Ogni tentativo di Alex di rialzarsi morì nella sua testa prima ancora che l'impulso potesse raggiungere i muscoli.
L'uomo fu afferrato per le spalle e tirato via di peso, Cohen gli si avventò addosso con una furia ed una precisione disumana: sgambettò a terra l'uomo, gli spinse in bocca il fucile e premette il grilletto. Il boato riecheggiò nella stanza, il silenzio che ne seguì durò appena qualche millesimo di secondo, ma sembrò durare ore.
Il calore del sangue che scivolava fuori dalla testa ormai inesistente dello sconosciuto era quasi visibile, Cohen l'aveva terminato esattamente come un vagante, nessuna incertezza in merito, e di certo non avrebbe pianto per la dipartita di un mostro.
Si avvicinò a Logan, il fucile ancora fumante in una mano, e lo sguardo che cercava costantemente le tre donne, che terrorizzate si erano nascoste del tutto dietro la vasca, uggiolando. Non sembravano intenzionate a vendicarsi della perdita, forse una parte del loro cervello conservava ancora ricordi di ciò che quell'essere gli aveva fatto.
-Stai bene?- chiese Cohen a Logan aiutandola a rialzarsi, lei annuì a malapena e si chinò d'urgenza su Alex. Il ragazzo posò una mano sulla spalla dell'amica, sbuffando con la voce più nasale e gorgogliante, il tono flebile -ce... la faccio... aiutami... ad alzarmi...-
Cohen intanto ascoltava le voci dei due ragazzi, mentre continuava a tenere il mira le donne. Una di queste fuggì di scatto verso quella che doveva essere la tana di quel maniaco, Cohen la mantenne in mira finché non ebbe raggiunto le scale che si insinuavano verso il basso.
-Logan prendi quel ferro- disse alludendo al piede di porco -ci tornerà utile.-
Una volta che Alex fu in piedi, liberò una mano dalla presa sul fucile e la usò per fare scorrere sopra la testa e lungo la spalla la tracolla del fucile automatico del figlio, recuperato poco prima. Glielo porse ed un passo alla volta, guidò i due fuori da quella struttura, niente avvisi o minacce, solo il rumore della pioggia battente che li accolse nuovamente una volta all'esterno.
-Non possiamo lasciarle lì...- protestò Logan, Alex a malapena aveva la forza di reggersi in piedi, il suo volto era una maschera di sangue, si appoggiò con le spalle alla porta antipanico dietro di lui. Cohen invece tirò un lungo sospiro.
-Gli abbiamo restituito la libertà, non possiamo fare molto altro...-
-Ma...-
-Niente storie Logan, non abbiamo altro cibo, ci metterebbero in pericolo e non puoi sapere cosa hanno dentro la testa dopo tutto quello che gli è capitato. Potrebbero piantarci un coltello in gola alla prima occasione.- Cohen fu categorico, ma la ragazza mantenne dei dubbi, pur rendendosi conto della situazione.
Presero a camminare, Cohen di nuovo in testa a fare strada, con i vestiti nuovamente fradici a rendergli ogni passo un inferno.
-Ti ho trovati degli inalatori, li ho nello zaino. Troviamo un posto dove accamparci, gli raddrizzo il naso e poi te ne occupi tu?-
Chiese con un tono più umano, forse l'adrenalina cominciava a calare, o forse poteva finalmente permettersi di farsi scorrere un braccio di suo figlio sulle spalle, per aiutarlo a stare in piedi.
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maledettadaunangelo · 7 years
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Sempre sarai nella tasca destra in alto, in un passo stanco dentro un salto in alto che mette i brividi. Per sempre sarai in un sorriso inaspettato o in un appuntamento con il mio destino.
Ermal Meta
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vorrei tanto sapere se sei fiera di me, ma non mi è dato essere a conoscenza di questo dilemma.
Quando ti ho sognata avevo la mente che continuava a dirmi di farti quella domanda e tu, come se mi avessi letto nel pensiero, avevi risposto di sì con un cenno della tua testa fatta di capelli bianchi. Eri bella, sai? Anche se l’età non era più dalla tua parte e lo si vedeva dalle rughe sul tuo viso. Eri bella anche se stavi appassendo pian piano, sembravi un fiore.
Mi hai detto “combattere non è umano” e non capisco se ti riferisci a tutto ciò che sta accadendo in questo mondo o a ciò che sta accadendo dentro di me. Vorrei sapere tante cose ma non posso perché, nonostante la tua presenza sia forte neo gesti, nei pensieri e nei ricordi non ho modo di parlarti. Ne di vederti e abbracciarti. E, in questo periodo, nonna, avrei tanto bisogno di tornare ad essere piccola e dormire con te anche se, in un modo trasversale lo faccio già questo. E lo farò per sempre, perché ti ho letteralmente tatuata sulla pelle, precisamente sul cuore. Anche se li ci saresti rimasta comunque. Nella tasca destra in alto.
Mi manchi, ciao.
Saluta anche nonno e zia, vorrei tanto che anche loro mi dicessero qualcosa. Dagli un abbraccio da parte mia
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corallorosso · 2 years
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IL POTERE 1: High Octane Capitalism Ahead Erano pochi anni fa, guidavo in piena notte lungo una strada deserta alla periferia di Palo Alto, in California. I fari illuminavano cose scontate in un posto così: i grandi incroci delle statali americane, con l’immancabile distributore 7Eleven illuminato da scoppiare, e i prefabbricati a destra e a sinistra della carreggiata con le insegne al neon Jack’n a Box, Burger King, Pizza Hut, ma anche Psychic Palm Reading ecc. Lungo un tratto particolarmente rado di abitazioni butto l’occhio su un gigantesco cartellone pubblicitario che mi viene incontro, insolitamente poco illuminato, che significa illuminato appieno ma non all’americana per intenderci. Mi blocco, freno in mezzo alla strada e lì mi pianto. Quello che sto fissando è un poster di almeno 10 metri per 5, tutto arancione, che reca la seguente scritta in nero, enorme: “HIGH OCTANE CAPITALISM AHEAD”. Tradotto: “Ci aspetta un capitalismo a tutto gas”. In basso a destra la firma: Forbes, cioè i profeti a mezzo stampa del capitalismo americano. Per me, fermo lì nel silenzio di una strada deserta, è tutt’uno vedere e capire, leggere e sentire. Quel poster, nell’arroganza duplice delle sue dimensioni e della certezza di quell’affermazione, mi sbatte in faccia la verità: Il Capitalismo dei Beni di Consumo ha vinto, punto. Infatti, esso è l’unica interpretazione dell’esistenza umana che ha saputo dilagare trasversalmente in tutto il mondo, trapassando indenne culture, religioni, ideologie e regimi politici diversi, dall’Iran alla Cina, dall’Africa al Baltico al Nepal, e che attende al varco i ‘bolivariani’ dell’America Latina non appena questi avranno preso possesso di uno standard di vita decente per mezzo delle loro odierne ‘rivoluzioni’. Ha piantato davanti a noi per anni e già ben oltre il nostro orizzonte i paletti di un unico percorso obbligato, un destino se volete, ovvero una serie di appuntamenti ai quali non ci potremo sottrarre, né noi cittadini di un mondo ricco già fradicio di esistenza commerciale né quelli dei Paesi emergenti. E, si badi bene, ciò accadrà indifferentemente dalle crisi che il Capitalismo dei Beni di Consumo potrà vivere, come quella odierna, che non scalfisce neppure microscopicamente la certezza della sua diffusione. (...) Come hanno fatto, trentacinque anni fa, un nugolo di intellettuali, economisti e politici a progettare e poi a realizzare la più inimmaginabile sovversione di tendenza politico-sociale della Storia moderna? Come hanno saputo in sole tre decadi arrestare 250 anni di lotte dal basso e iniziare a invertirne la rotta? Come hanno annichilito le sinistre di tutto il mondo occidentale? Come hanno potuto renderci di nuovo plausibile l’inimmaginabile? E cosa sono divenute oggi quelle sparute forze di 35 anni fa? Come hanno lavorato? Come lavorano ogni giorno? (...) Dobbiamo comprendere come hanno fatto a creare un consenso talmente dilagante fra i popoli da riuscire in tutto ciò. Sappiamo che lo hanno fatto in silenzio, lavorando incessantemente a CONTATTO CON LA GENTE COMUNE, macinando incessantemente il loro consenso, senza manifestazioni, cortei, chiasso, gesta clamorose, senza bandiere colorate e feste di piazza. Oggi, se avete l’onestà di guardavi in tasca, di osservare come vivete, cosa consumate e con quali comfort, hanno intrappolato anche voi, nonostante tutto. (...) Paolo Barnard
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continuandoalottare · 3 years
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sempre sarai l'eccezione di un difetto, un respiro lento che scandisce il tempo che nessuno ferma mai..
per sempre con me sarai, nella tasca a destra in alto
ascolterai ridendo ogni mio segreto che nessuno a parte te.. a parte noi.. ha visto mai
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signora-bovary-blog · 7 years
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Sempre sarai l’eccezione di un difetto.
Ermal Meta
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orotrasparente · 3 years
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sempre sarai nella tasca destra in alto
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chiamatemefla · 3 years
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wip 2021 pt. 2
C’è una strada in discesa di fronte alla scuola elementare, un lungo nastro di asfalto che si srotola giù per un fianco della collina, costeggiato da palazzi anni Settanta, squadracciati e non particolarmente alti, tra le quali si incastrano viuzze che salgono verso questo o quel cancello.
Gli hanno una volta rivelato che una larga parte di quei cancelli è solo decorativa, che la maggior parte delle persone che abitano in quella zona la usa come vezzo più che come deterrente dall’altrui compagnia: un cancello fa status, denota qualcosa da proteggere e delimitare, anche se questo qualcosa è un appartamente piuttosto stretto in un vecchio condominio dai muri dipinti di un arancione scuro ora cotto dal sole.
C’è una curva in quella strada, ed un palazzo che sembra un po’ più alto degli altri perché affonda le sue radici nella strada sottostante e guarda, con interesse, verso la parete scoscesa su cui il centro storico poggia, impassibile, come un gatto perennemente in bilico sul bordo di una credenza.
Proprio ai piedi di quel palazzo stranamente alto c’è un’officina, e ci sono due ragazzi, un motorino, una macchina parcheggiata in attesa del suo turno che osserva un’altra venir smontata e rimontata con cura, e il sole che bacia solo metà del piazzale oblungo. È bello quel posto, non è buio eppure la luce non lo bagna mai del tutto, c’è sempre una piccola pozza d’ombra in cui nascondersi quando l’estate si fa bollente ed anche lavorare dentro al garage diventa un’esperienza piuttosto asfittica.
Antonio non ha ancora vissuto un’intera estate lassù, e dubita fortemente che possa essere calda quanto gli altri dicono, eppure in quel pomeriggio di fine febbraio può forse capire cosa i più intendono, perché si lamentano: il sole è strano quando si è lontani dal mare, colpisce in modo diverso perché non te l’aspetti.
Ciò non toglie che stia tentando di prenderselo tutto in faccia, respirarlo quanto più possibile, lavarsi via dalla testa tutta la pioggia delle settimane precedenti.
Poi d’improvviso il rumore di qualcosa che cade a terra, probabilmente una chiave inglese lanciata, ed un’imprecazione piuttosto colorita, forse sono davvero fortunati che non ci sia nessun altro lì davanti a parte loro due.
«’Sto motorino ha fatto l’Unità d’Italia.»
Giacomo si passa le mani sui jeans con veemenza, li sporca di grasso e qualsiasi altra cosa ci sia dietro alla scocca del suo bolide, continuando a guardarlo con la stessa aria di sfida con cui lo fissa da quando, circa un’ora prima, è arrivato in officina trascinandoselo dietro come una bicicletta particolarmente pesante su per i sali e scendi del paese.
«Dottore, mi dica, si riprenderà?»
Giacomo storce il naso, non scolla gli occhi dalla scocca blu abbandonata a terra; a volte vorrebbe sapere cosa vede in quell’ammasso di ferraglia che a lui sfugge, cosa sta leggendo tra i tubi a vista di un motorino che ha avuto giorni migliori. Giacomo concentrato è qualcosa di nuovo a cui un po’ tutti faticano ad abituarsi, una sfumatura diversa di quel ragazzo sempre un po’ assente che è stato fino a qualche mese prima.
«A riprendere si riprende, per carità, ma secondo me è meglio se ti fai un asino: va sicuramente meglio di questo coso e consuma meno. Quanto ci spendi per st’accrocco? Tra manutenzione e benzina già t’eri fatto una macchina, arrivato a questo punto.»
«Certo, poi parcheggio me lo cerchi tu.»
«Tanto il motoschifo sta sempre parcheggiato qua da me, non è che cambierebbe un granché e te potresti muoverti.»
Glielo ha già ripetuto almeno tre volte, l’ha quasi pregato di buttare quel motorino che non ha certo visto l’unità d’Italia ma sicuramente ha vissuto il diploma di sua madre, e Antonio sa perfettamente che potrebbe farlo ma, al contempo, la sola idea di rottamare quel cimelio che sta già cercando di rottamarsi da solo, gli crea un senso di disagio, una paura strisciante che lo fa desistere ogni volta.
Paura di cosa non lo sa, sa solo che non vuole lasciar andare il macinino anche se dovrebbe.
«Capirai, le traversate oceaniche mi ci faccio: da casa mia alla stazione, da casa mia a casa di Flavio, da casa di Flavio alla stazione...potrei pure comprarmi una bicicletta.»
«Ah, ma Flavio è ancora vivo?»
«Dipende da cosa intendi per vivo: respira ancora? Sì. Fa qualcos'altro? Non saprei.»
«L’altro giorno ho visto suo nonno, m’ha detto che non esce di casa da tipo Capodanno, che poi è l'ultima volta che l'ho visto, e che non lo sopportano più.»  
«Due gennaio», si ritrova a rispondere di getto, lo corregge come ha corretto anche i nonni di Flavio, come si ripete ora che non ha più la pioggia e il cielo tetro come scusa per quel comportamento.
Tutto è solo quel che sembra, però se lo chiedi a chiunque giri loro intorno la risposta sarà sempre la stessa: no, non è vero, non funziona così, è solo un po’ di stanchezza.
Risultato: ora sono stanchi in due, in modi diversi, per motivi diversi, e comunque nessuno li ascolta.
Giacomo fischia e tira fuori una chiave inglese troppo lunga per essere davvero entrata nella tasca sinistra dei suoi jeans. Antonio però non si fa domande, lo osserva passarsela tra le dita come fosse una matita durante una lezione particolarmente noiosa mentre ammira una chiazza una a tre passi da lui. Si ritrova stranamente in apprensione per l’espressione impensierita che è sempre meno da Giacomo e sempre più da qualsiasi cosa questi diventerà in futuro, un mistero avvolto in quelle rughette che si formano sulla fronte quando corruccia le sopracciglia.      
«Eh, cazzo, è il ventisette di febbraio magari il naso fuori dovrebbe metterlo. Neanche risponde ai messaggi, Gabriele quasi chiama Chi L’Ha Visto, poi fortuna gli hai scritto tu e l’hai tranquillizzato.»
«Gabriele sta tutto ansiato, s’ha da calmà arrivati a sto punto.»
Prova a pulire la macchia che Giacomo sta guardando, grattarla via col piede, e alla fine si sporca solo la gomma bianca delle scarpe e il grasso rimane lì, viscido e scuro.
«E comunque Flavio aveva detto che oggi mi avrebbe accompagnato, poi si è ricordato di non so che cosa che doveva rivedere e l’ho lasciato sui libri. Che poi fosse quello…è che probabilmente lo ritroverò sui libri ora che torno, ancor più probabilmente sulla stessa pagina.»
Un’altra generosa manata unta si aggiunge accanto alle altre sulla gamba destra dei pantaloni di Giacomo che ora guarda lui, alza il braccio per grattarsi il naso con il polso, e sembra tentennare.
«Vabbè, se non altro avete fatto pace.»
«Non è una questione di fare pace.» *
Gli piaceva di più quando al piano di sotto abitava ancora Lucrezia, che era sorridente e simpatica e metteva sempre la musica la domenica mattina, e soprattutto gli piaceva di più quando c’erano ancora i suoi panni stesi sulla via e lei lo salutava sempre affacciandosi alla finestra quando lo vedeva passare.
Ora, se guarda in basso dal minuscolo balconcino della cucina, vede solo delle persiane ostinatamente chiuse e il cartello verde fosforescente con su scritto “AFFITTASI”.
Lucrezia è trasferita perché la casa era piccola, un tempo intesa solo per il vecchio portiere di quel minuscolo palazzo, e la strada era scomoda, e trascinarsi una carrozzina con due gemelli dentro su per le infinite scalinate che dal parcheggio più vicino portano al palazzo sarebbe stato troppo difficile.
Quand’era piccolo lui era più comodo, sosteneva sua nonna, soprattutto perché non avevano ancora chiuso la stradina appena duecento metri più in là, una delle poche vie che non contemplavano il salire o scendere dei gradini per raggiungere la propria destinazione.
O forse no, non è vero che gli piaceva di più quando c’era Lucrezia, ché quando lo salutava dalle finestre credeva sempre di doverle delle spiegazioni, ché salutava sempre Francesca con un sorriso troppo largo quando li vedeva salire sapendo che in casa sarebbero stati soli e, si dice, forse oggi quel peso non l’avrebbe sopportato.
Dare spiegazioni non gli piace particolarmente, mal sopporta il doversi giustificare, e vivendo lui per primo nella beata convinzione che chi si fa i cazzi propri campa cent’anni non riesce a comprendere come, e soprattutto perché, sia possibile che il mondo intero non sia addivenuto alla stessa conclusione.
Lucrezia non era, ed è convinto che ancora non lo sia, una cattiva persona ma questo non significa che, per quanto possa mancargli ascoltare l’intera compilation di Battisti rigorosamente in vinile ogni domenica che Dio manda su questa terra, una parte di lui non stia gioendo nel sapere che una persona in meno ha visto il ragazzo davanti alla porta salire le scale con uno zaino particolarmente pieno sulle spalle.
Lo stesso ragazzo che lo aspetta sul pianerottolo con le mani in tasca e lo sguardo di chi non si aspetta davvero di vedere quella tavola di legno spostarsi quel tanto che basta da permettergli di entrare — e gli dispiace davvero, quell’espressione è colpa sua e non sa proprio come riuscire a non vederla mai più, a cancellarla, a togliergli ogni dubbio.
La meccanica del corpo umano, si ritrova a pensare, è una cosa bizzarra, così perfetta da non permetterti dubitare neanche per un attimo che la corazza di pelle ed ossa che abiti continuerà a funzionare perfettamente per tutta la tua vita, senza mai perdere un colpo, in un silenzioso insieme di ingranaggi fino alla fine dei tempi.
Ed è proprio questa illusione di perfezione che ti inchioda a letto in una mattina qualsiasi, quando tutto sembra funzionare nel modo giusto a parte il fatto che, no, non funziona affatto e il ronzio nelle orecchie lo senti solo tu, e le fusa del tuo gatto ti sembrano ingestibili perché quasi ti perforano il cervello.
A casa non c’è nessuno, i suoi sono partiti presto direzione Veroli per il funerale di un cugino del nonno, un tipo smilzo e storto che Flavio ha visto forse due volte in tutta la sua vita e che si era trasferito laggiù per nessun motivo, spinto da un irrefrenabile bisogno di spostarsi dalla Capitale alla ricerca di chissà cosa. C’erano voluti vent’anni di vita solitaria prima che incontrasse quella che poi sarebbe diventata sua moglie, una signora alta ed imponente che non amava particolarmente fare le scale e che, un paio di sere prima, aveva chiamato per annunciare che il cugino del nonno s’era incamminato sull’unica scalinata in cui non avrebbe potuto seguirlo.
Una pentola con le arance cotte riposa sul piano cottura della cucina, piena di qualcosa che non è ancora marmellata ma non è più frutta, le serrande sono alzate solo a metà e tutto sembra rallentato ed imbevuto dell’odore stucchevole degli agrumi cotti che si stanno pian piano caramellando.
Sua nonna non è una persona molto affettuosa, non nel senso stretto del termine, e il suo amore lo dimostra con gesti rari e parole fraintendibili però gli prepara sempre la marmellata e tenta di farla bollire quando non è in casa perché sa che odia gli odori troppo dolci, proprio come suo nonno.
E soprattutto sa che, proprio come suo nonno, ha bisogno di sentirsi in qualche modo rassicurato circa il proprio status affettivo all'interno della famiglia.
La marmellata è uno di questi rari gesti e Flavio sa che, se non fosse dovuta partire, avrebbe finito la sua opera facendolo uscire con una scusa qualsiasi come mettere la benzina alla macchina col serbatoio ancora mezzo pieno, o andare a fare la spesa nel supermercato più lontano solo per prendere quella specifica cosa che esiste proprio lì.
E invece la marmellata non è marmellata, è solo una pentola contenente una poltiglia gelatinosa di un arancione scuro che assomiglia un po’ a come sente ora il suo cervello: sciolto e pronto ad uscire dalle orecchie.
E Antonio aspetta sulla porta, ancora con le mani ben affondate nelle tasche del giaccone, ancora con la stessa espressione mentre butta un’occhiata verso l’interno.
«I tuoi si sono portati via la belva?» chiede, mentre Flavio si fa da parte quel che serve per farlo entrare e chiudersi la porta alle spalle con un sospiro che gli scioglie la tensione all'altezza del collo ma non il nodo doloroso che gli stringe lo stomaco in una morsa da ormai tre settimane.
Lo zaino dell'altro viene appoggiato con cura, ed un sospetto rumore di vetri, a terra proprio sotto all'attaccapanni, può sentire quel paio d'occhi azzurri fargli domande che la bocca non pronuncia e che vanno ben oltre la presunta assenza del padrone di casa, ovvero Cicerone, tra quelle quattro mura.
«La belva dorme sul mio letto.»
«Aspetto il giorno in cui mi dirai che tu sei andato a dormire sul divano per non svegliarlo.»    
Flavio sorride e si sporge quel che basta per poterlo salutare per bene, lascia che si avvicini per poterlo baciare e sentire le labbra dell’altro rilassarsi contro le sue. Gli piace che quello sia ormai un gesto automatico, gli piace il fatto che la reazione di Antonio sia sempre la stessa e, soprattutto, gli piace che anche oggi il suo ragazzo abbia voglia baciarlo.
Non era scontato, così come non era assolutamente sicuro che l'altro si sarebbe presentato a casa sua, eppure eccoli lì, con la tuta per stare comodo, con un gran sorriso stampato in faccia perché ama quando i suoi piani vanno a buon fine, soprattutto quando danno come risultato il riuscire a stare insieme un po’ più del solito.
Vorrebbe evitare di sorprendersi ancora, dopo due anni sarebbe forse ora di acquisire un po' più di sicurezza in quel frangente, eppure si scopre totalmente incapace di farlo.
«Dici che ricominci a respirare o devo far valere il mio corso da bagnino?» domanda Antonio, accarezzandogli piano uno zigomo con la punta delle dita, proprio lì dove ieri ha sbattuto contro lo spigolo della finestra, nel disperato tentativo di separare Cicerone da un povero pettirosso che si era avventurato sul balcone, e dove si sta formando un alone violaceo.
Così sembra ancora più pesto, eppure Antonio lo guarda come se fosse qualcosa che vale la pena osservare.
«Sto respirando» replica, con poca forza, e le labbra di Antonio si stirano in un sorriso pallido, cauto, mentre sbottona il cappotto e sfila la sciarpa.
Improvvisamente è come se ogni tensione fosse sparita, ci sono solo loro due e la prospettiva di una serata ed una notte insieme, un risveglio che non implichi Giacomo o Gabriele che entrano in camera loro con una scusa qualsiasi e li trascinano fuori non appena aperti gli occhi. Chissà dov’è il problema, chissà se hanno davvero paura che il loro stare insieme possa in qualche modo minare la loro amicizia, lasciarli soli possa in qualche modo minare l’unità di un gruppo che già inizia a smembrarsi per le vicissitudini della vita.
«Peccato, niente respirazione bocca a bocca allora. Potevi anche fare finta.»
Scuote la testa, Antonio, e si allontana per appendere cappotto e sciarpa, aprire lo zaino per frugarci dentro probabilmente alla ricerca degli occhiali che ultimamente ha iniziato ad indossare quando ha mal di testa.      
Dopotutto devono studiare, non tutto il pomeriggio perché ha promesso che non sarebbe stato così, però devono se non altro provarci.
«Perché, mi serve una scusa?»
«Magari serve a me, che ne sai?» *
«Dopodomani sono esattamente due anni che devo smettere di fumare.»
La risata di Flavio è calda contro il suo orecchio, un’inaspettata ondata di tepore in quella serata altrimenti gelida in cui l’aria di febbraio rende la luce dei lampioni sulla via un po’ più aranciata e brillante, luminosa nel gelo che gli intirizzisce la punta del naso ed il dorso delle mani.
Della casa di Flavio gli piace particolarmente quell’apertura nel muro della cucina, piccola e quadrata e proprio all’altezza giusta per appoggiarci i gomiti, che si affaccia sul balconcino: c’è la porta finestra, lunga e sottile e con delle tendine arancioni, e poi subito accanto c’è quella finestrella da cui l’altro si affaccia per fargli compagnia quando Antonio viene spedito fuori a fumare.
Si appoggia con la schiena contro la persiana, facendo bene attenzione che il fumo non entri in casa, costringendo l’altro a sporgersi un po’ di più sul davanzale di marmo che, al momento, deve essere la seconda cosa più fredda e rigida dopo le sue dita.
Se resta fuori più di cinque minuti ha paura di vederle cadere.
Le osserva nella luce calda, le nocche un po’ arrossate, la sigaretta girata un po’ storta che, incastrata tra indice e medio, si sta consumando mentre lo ascolta pensare ad alta voce.
«Ah sì?»
Si decide a prendere una boccata, mandando al diavolo tutta l’opera di convincimento fatta fino ad allora, chiedendosi se vale davvero la pena buttare via una sigaretta ormai fumata a metà. Il danno è fatto, dopotutto, potrebbe smettere con la prossima o potrebbe essere l’ennesimo Zeno Cosini ma senza la grazia di un qualche tipo di supporto psicoterapeutico.
«Eh, sì.»
Un altro tiro, il fumo soffiato via che si alza e si confonde con la condensa del respiro contro il freddo della sera.
Può vedere con la coda dell’occhio Flavio fissarlo in attesa di una spiegazione più articolata, sul viso l’espressione appena divertita di chi non aspetta altro che avere una nuova verità da assaporare.
«Sto cercando di trovare un modo poco imbarazzante per dirlo, datti pace.»
«La fase dell’imbarazzante l’abbiamo già passata da un bel po’. Insomma, il pigiama del Napoli...»
«Non quel tipo di...Senti, non eri te quello che “parlare dei sentimenti è imbarazzante”?»
«Eh, appunto, sono io mica te.»        
Stavolta tocca a lui ridere piano, mentre fa precipitare un po’ di cenere giù dalla ringhiera.
«Quando t’ho baciato davanti al portone del comune tornando dal compleanno di Stefania, no? Avevo detto “se ci sta smetto di fumare”, anche perché so che ti dà fastidio.»
Si decide a rinunciare a quella sigaretta, la schiaccia dentro ad un posacenere di fortuna, uno di quelli che Flavio ripesca solo per lui dal fondo di una credenza in cui sua nonna stipa le chincaglierie figlie di viaggi vari ed eventuali.
Il souvenir dimenticato di oggi è gentilmente offerto da un viaggio che il fantomatico zio di Flavio ha fatto a Berlino durante l’ultimo anno del liceo, una roba di plastica trasparente un po’ sbeccata sul cui fondo si stagliano le silhouettes nere su fondo bianco di alcune attrazioni turistiche.
«Non avevi fumato tutta la sera.»
«Sì, vabbuò, è che magari...così non ti scansavi, no?»
«Tre mesi che aspettavo e secondo te me scansavo pure?»
Due anni prima era convinto che lo avrebbe fatto, che si sarebbe scansato, perché in quel periodo era tutto strano e leggere male i messaggi dell’altro era solo la degna conclusione di un nuovo capitolo della sua vita che sembrava non andare da nessuna parte da dodici lunghi mesi.
Era sicuro che l’avrebbe piantato in mezzo alla via, nascosto da quella curva che i palazzi fanno prima di aprirsi in un’altra piccola piazza abitata solo da una fontanella di pietra, con le labbra ancora calde di un bacio corrisposto ma non desiderato - perché succede quando si viene baciati, no? Il primo istinto è contraccambiare, poi si può decidere.
C’aveva pensato per una serata intera, giocando con il pacchetto di sigarette, cercando di resistere all’urgenza di accendersene una e continuando a ripetere come un mantra quella promessa a chissà chi: se la serata fosse andata bene lui avrebbe smesso di fumare.
Il giorno dopo, un Flavio piuttosto nervoso ed assonnato lo aveva chiamato per chiedergli se avesse voglia di farsi un giro, una chiacchierata, e ad Antonio era servito tutto l'autocontrollo di cui disponeva per rispondere un solo "A che ora?" a cui non aveva ricevuto una vera risposta.
Flavio era passato sotto casa sua appena dopo pranzo, insieme avevano comprato i biglietti dal tabaccaio ed avevano aspettato sotto alla pensilina rovinata l'arrivo del Cotral.
Avevano passato l'intero viaggio in autobus a far finta di pensare ad altro e si erano ritrovati a camminare lungo l'argine del fiume, l'acqua torbida, la stradina sterrata appiccicosa d'umidità sotto alle suole delle scarpe.
«Alle elementari ci portavano qui almeno una volta all'anno per fare birdwatching. Dicono che ci sono gli aironi ma io non li ho mai visti», aveva detto Flavio, riponendo il suo immancabile, quanto in quel momento inutile, paio di occhiali da sole nella tasca della giacca.
Poi non avevano più parlato, non davvero, c'erano state chiacchiere vuote e aneddoti idioti per riempire l'aria e il silenzio.
Si erano seduti sulle assi bagnaticce di uno dei moletti disseminati lungo l’argine, in quel nulla palustre solo loro, due barche tirate a secco e qualche uccello che sguazzava ignaro tra le acque del Tevere.
Flavio aveva sospirato, storcendo il naso come se fosse pensieroso e scontento della direzione che le sue riflessioni stavano prendendo. Una frazione di secondo dopo, lo stesso Flavio lo stava baciando con un trasporto che non avrebbe saputo cucirgli addosso, con le mani che si aggrappavano alle sue braccia e il viso bollente.
Non avevano fatto molto altro per l'ora seguente, ed avevano dovuto correre per prendere l'autobus prima che facesse buio, infreddoliti e con le guance accese, con gli occhi quasi febbricitanti.
Del viaggio di ritorno ricorda solo le risate sommesse, il modo in cui la mano dell'altro cercava la sua nella penombra di quel Cotral semivuoto mentre tentavano di toccarsi con ogni parte del corpo.
Flavio che si sporge e gli dice, come se fosse una sciocchezza, che spera di poter un giorno baciarlo su al Belvedere, davanti a tutti, sotto al sole o durante le feste, senza doversi nascondere.
Ché non ha senso nascondersi, ripeteva, ché non capisce dove sia il problema eppure deve far finta che sia così.
C'era voluto quasi un anno per fare avverare quella promessa, altri sei mesi perché diventassero uno parte della famiglia dell'altro in quel modo sottile e traballante e chiaro solo a loro che dà la stessa sensazione che precede un temporale.
E così la famiglia di Flavio lo tratta come hanno sempre trattato Gabriele, e così la sua famiglia tratta Flavio come tutt’ora farebbero con Vito se solo non abitasse a qualche centinaio di chilometri da lì - se qualcuno di loro ha capito qualcosa non è dato saperlo, quel che sanno è che per ora non piove e va bene così, anche se a volte pesa.
Anche se Antonio è costretto a dire una bugia, convincendo sua madre e sua sorella che in questo momento è a casa di Giacomo insieme a Flavio stesso, certo, ma anche a qualche altro amico per passare un sabato notte come tanti altri, qualche birra, una maratona di film.
Una mano tiepida si sporge dalla finestra per spostare una ciocca di capelli, un movimento leggero e delicato, e si volta quel che basta per poter guardare negli occhi il suo ragazzo e la cucina dietro di lui appena illuminata dalla luce sopra al lavello, il resto della casa avvolto nella stessa penombra che riveste la via silenziosa.
Che strana sensazione.
Che bella sensazione.
«Rientri?»
«Non lo so, forse voglio fare Capitan America.»
«Emblema di un paese capitalista e guerrafondaio?»
«Pensavo più figo e intirizzito. Calma il comizio, Lenin.»   *
La prima volta che hanno dormito insieme non erano quasi neanche amici, ché per diventare amici c’hanno messo un bel po’ e la colpa è di entrambi.
Si sono ritrovati a condividere un letto dopo una trasferta romana, quando Antonio era solo il ragazzo nuovo che andava in classe con Giacomo ed era bravo a calcetto, e lui era uno che era stato appena mollato dalla ragazza e  voleva solo una scusa per schifare chiunque. Ospiti a casa del cugino di Gabriele, un appartamento per studenti piuttosto stretto ma con un numero di letti improvvisati da far invidia ad un ospedale da campo, si era ritrovato a condividere un sottile materassino da campeggio con Antonio.
Schiena contro schiena, come consuetudine ed etichetta vuole quando due maschi sopra ai dieci anni condividono un giaciglio, e tentando di non toccarsi anche se lo spazio era quello che era e la coperta non permetteva loro di allontanarsi troppo, avevano trascorso le ultime ore della notte prima dell’arrivo di un’alba che li aveva colti quasi tutti svegli e veramente poco preparati.
Il telefono di Antonio non aveva fatto altro che vibrare, da qualche parte per terra, un ronzio profondo che era presto diventato un rumore bianco come quello delle macchine sotto alle finestre o del russare di Gabriele in corridoio. Lo aveva chiaramente sentito muoversi per prenderlo almeno un paio di volte, la luce fredda del display che per qualche istante illuminava la stanza prima di essere riposto di nuovo in compagnia di profondi sospiri e tentativi di trovare una posizione comoda per dormire.
E succede molte altre volte di dormire insieme, sempre per un motivo diverso, ed ogni volta rispondono entrambi con una scrollata di spalle perché ci sta, perché è plausibile, perché nessuno di loro è particolarmente infastidito dalla presenza dell’altro nello stesso letto. Flavio, inoltre, si è quasi abituato al fatto che spesso e volentieri Antonio si alza nel cuore della notte per andare a parlottare con qualcuno, con un tono di voce appena percettibile, prima di tornare a coricarsi e far finta di dormire per il tempo che resta.
A volte ripensa al coraggio che gli ci era voluto per sussurrargli, in uno di quei viaggi in solitaria verso l’angolo più recondito di qualsiasi spazio si trovassero a condividere, che il suo sonno valeva tanto quanto il bisogno dell’altra persona di sentirsi in diritto di chiamare a qualsiasi ora. E ricorda il modo in cui Antonio aveva risposto solo che c’era abituato, che comunque dorme poco di suo e alla fine ormai gli sembra quella la normalità.
C’erano voluti mesi per scoprire che, no, non è vero che Antonio dorme poco e, anzi, ama particolarmente poter evitare di mettere la sveglia quando possibile e che era Edoardo, che spesso e volentieri lavorava di notte, quello per cui il sonno arrivava con difficoltà e solo quando ormai era giorno.
Ma ormai quel capitolo è chiuso e Antonio ha imparato a mettere il telefono in modalità silenziosa quando finalmente si infila sotto alle coperte.
E va bene così.
Lo sente sbadigliare e stiracchiarsi al suo fianco, poi un braccio gli cinge il petto e può sentire il viso dell’altro appoggiarsi contro la sua clavicola, caldo e morbido come solo il sonno riesce a rendere i corpi delle persone.
Quella è la prima mattina in cui si svegliano completamente soli, nella luce soffusa che penetra dalle persiane serrate della sua camera, stretti nel letto in cui da vent’anni si sveglia ogni mattina e, si ritrova a pensare, sarà veramente difficile domani aprire gli occhi e doversi alzare completamente da solo.
Non che sia sicuro di volersi alzare in generale, ora come ora, deve ammettere.
«Flavio...»
«Mh?»
«Sei sveglio?»
«Insomma.»
Antonio posa un bacio sul suo petto, in un punto a caso da sopra alla maglietta, si stringe un po' di più a lui e, ancora una volta, Flavio si ritrova a pensare all'assurdità di quella situazione.
Un'assurdità bella, eh, solo piuttosto lontana da qualsiasi idea abbia mai avuto circa il suo futuro – e di idee balzane a proposito ne ha avute parecchie, tutte ovviamente mai rivelate ad anima viva, eppure nessuna prevedeva anche solo un momento di così pura e totale tranquillità.
«Volevo fare la colazione ma non so dove tieni la roba. Poi cominciavo ad aprire tutto e facevo casino.»
Nello strascinare delle parole ancora assonnate, inframmezzate da uno sbadiglio lungo e sonoro, Flavio può sentire una punta di quell'accento che Antonio cerca sempre, se non proprio di camuffare, almeno di tenere a bada.
Spesso esce fuori quando litigano, quando non pensa a quel che dice e vuole solo svuotarsi il cuore e lo stomaco, e spesso si chiede quanto gli costi tentare di essere un'altra faccia di se stesso ogni dì per tante, troppe ore al giorno.
E invece ora è solo Antonio che tenta di scoprirsi il meno possibile perché di mattina ha sempre freddo, non si stanno urlando contro come avevano fatto solo dieci giorni prima, e sente un fortissimo bisogno di iniziare a baciarlo in quel preciso istante per smettere forse tra due giorni.
Ma per baciarlo dovrebbe alzarsi e lavarsi i denti e non ne ha voglia, vuole restare in quella bolla di penombra e calore almeno un altro po'.
«Dammi cinque minuti per svegliarmi.»
«Ma pure di più, io non voglio alzarmi.»
«I termosifoni sono accesi.»
«So' contento per loro, fa comunque freddo.»
Con la coda dell'occhio può vedere Cicerone entrare in camera sua con non poca fatica, cercando di fare entrare il suo corpicino grassoccio nella stretta fessura lasciata aperta durante la notte.  Segue con gli occhi quella macchia arancione che si muove per la stanza con circospezione, bene attento a non avvicinarsi al letto, prima di salire con un tonfo sonoro sulla sua scrivania, spostando fogli e facendo cadere penne, per poi fermarsi, immobile come una statua, a fissarli.
Antonio sospira, lui ride, Cicerone per tutta risposta fa cadere un'altra penna.
Sarà un piacere riordinare la stanza più tardi, chissà se ritroverà metà della sua cancelleria o se dovrà, come al solito, comprarne di nuova.
Si sposta per lasciare un bacio appena sotto l'orecchio dell'altro, spostando i capelli con la punta del naso, mormorando un «Credo Cicerone ci stia osservando».
«Vorrà la colazione pure lui. Quel gatto pesa come un bambino.»
«O forse vuole noi per colazione.»
«Facesse di me quel che vuole, basta che fa da sé.»
«Mi mancherai quando diventerai trippa per gatti.»
«Il mio fantasma farà in modo di infestare i tuoi sogni.»
«Sei così premuroso.»
«Oh, pensavo si sapesse già! Ti porto pure i sassolini belli come fanno non mi ricordo quali uccelli. Sono un ragazzo da sposare, altro che premuroso.»
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