Tumgik
#due giorni e torno a nominare Dio
piccolaaa3 · 1 year
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Per la rubrica *mio padre dice cose..*
Stavolta se ne esce con "dici troppe bestemmie, non sta bene per una ragazza" (chissà da chi ho imparato eh?)
Quindi ho deciso di mettermi alla prova e cercare di sostituire le bestemmie, vediamo quanti giorni duro.
L'esclamazione del giorno (che partirà da domani perché spero di aver finito i motivi per bestemmiare di oggi) sarà "mondocane".
Si accettano consigli e suggerimenti per i prossimi giorni 🥹
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giancarlonicoli · 5 years
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9 LUG 2019 18:38ARAGOZZINI: “UNA SERA PAOLI MI DICE: 'ANDIAMO DA ORNELLA, SI È SPOSATA DA POCO'. RAGGIUNGIAMO LA VILLA E MI CHIEDE DI ASPETTARE UN MINUTO CHE DIVENTA L'INTERA NOTTE. CITOFONAVO MA NON RISPONDEVANO. ALLE SEI ESCE DAL CANCELLO. 'CHE SCOPATA' – “UNA STORIA CON PATTY PRAVO? DOVE TIRI FUORI IL PANE NON TIRARE FUORI IL PENE” – “CON ME LA LOLLOBRIGIDA HA GUADAGNATO. IN ARGENTINA I GENERALI VOLEVANO TROMBARLA, IO PRENDEVO I SOLDI E GLIELI INFILAVO...” – “MAL? L’HO SALVATO DAI SERVIZI SEGRETI”
Alessandro Ferrucci per "Il fatto Quotidiano"
Tutto nasce da un gesto intimo. Racconta Adriano Aragozzini: "Anni 60, Gino Paoli rilascia un' intervista: rarissimo. La giornalista domanda: 'Cosa fa prima di un concerto?'. E lui: 'Una sega'. Vengo a saperlo, e quando lo incontro gli pongo lo stesso quesito. Scoppia a ridere, diventiamo amici, e poco dopo mi chiede di seguirlo come manager. Accetto".
Adriano Aragozzini è così. Visionario, arrembante, goliardico e spregiudicato; amato, temuto, detestato, per certi toni un Howard Hughes nostrano, anche lui appassionato di aerei ("ne ho posseduto uno"), di donne ("sono stato con Tina Turner, ma anche con Miss Mondo"), di imprese e fughe clamorose ("in Argentina con la Lollobrigida abbiamo rischiato di brutto").
Per molti lui è Sanremo, eppure ha guidato il Festival per cinque edizioni e dal 1989, ma lo ha rivoluzionato ("ho tolto il playback"). Quando racconta si diverte, e quando si diverte ride, con tutto il corpo, fino a sollevare i piedi da terra e raggiungere una posizione quasi fetale. Diventa serio solo al nominare Gianni Morandi: "Non ho alcuna stima di lui, è il peggio".
Ma come, Gianni Morandi?
La gente non sa, io gli sono stato vicino per molti anni: lo conosco bene. Però una volta in Giappone ci ha causato una risata da sentirsi male.
Dica
Con Fidenco e altri eravamo in un posto con piscine di acqua bollente. Impossibile bagnarsi se non con moderazione. Arriva lui, inconsapevole, e con i suoi modi grossolani si tuffa. Silenzio generale squarciato dalle sue urla di dolore: ha impiegato minuti prima di riacquistare una respirazione normale (pensa). Mentre Dalla è stato un grandissimo, ma l' ho rifiutato.
Errorissimo.
Purtroppo mi sono fidato dell' apparenza, e quando ho visto questo tipo basso, peloso, e un po' pelato, l' ho derubricato a flop. Stesso errore con Renato Zero.
E due.
Mi venne a trovare in ufficio su indicazione di Patty Pravo.
Mi trovai davanti un ragazzone vestito di nero, con i capelli lunghi: invece di accomodarsi come tutti, si sedette sulla spalliera di un divano meraviglioso, con i piedi sui cuscini. "Cocco mi vuoi?".
Finì lì.
Dopo pochi mesi aveva venduto un milione e mezzo di dischi (suonano al citofono, si alza, va in cucina, prende the freddo, torna e sposta gli oggetti dal tavolo. Casa è piena di ricordi, immagini, ninnoli: vita e carriera lo circondano. Prende una scatola d' argento).
Cos' è?
Me l' ha regalata Amir-Abbas Hoveyda, allora primo ministro iraniano, fucilato pochi giorni dopo averlo salutato.
Come mai era lì?
Organizzavo i concerti, in quell' occasione di Patty Pravo; in Iran ho portato tutti, da Iva Zanicchi a Modugno.
Sempre tutto liscio.
Mica tanto, con i The Four Kents qualche problemino c' è scappato.
Quanto "ino"?
Erano quattro ragazzi di colore, enormi, muscolosi. Li mando, dopo una settimana chiamano: "Non ci pagano". "Tranquilli, ci penso io". "Vogliamo i soldi". "Domandateli con molta cortesia".
Così non è stato
Macché, fino a quando l' organizzazione locale li mette in contatto con un piccoletto.
Loro non capiscono e rispondono, male. Il piccoletto li ha stessi tutti. A schiaffoni. Mi hanno chiamato quando si sono ripresi: "Aiuto, è arrivato un diavolo!".
Sembra una barzelletta.
Un' altra volta sono a Cannes con Sergio Bernardini (proprietario de La Bussola) per il Festival dell' editoria. La sera andiamo al Casinò, con noi un italiano bassino. Arrivano sette inglesi, non ricordo il motivo ma iniziano a discutere con il piccoletto.
Altra rissa.
Incredibile, da solo li ha distrutti; ma il punto è un altro: nella lotta si era stracciato una manica della giacca, l' avevo raccolta e portata in albergo.
Quindi?
La mattina dopo scendo nella hall e trovo Bernardini: "Il piccoletto lo hanno ammazzato. Stanno cercando chi ha preso la sua manica". Torno in stanza, chiudo al volo la valigia e via verso l' aeroporto; lì incontro Fred Bongusto, gli spiego il problema, e lui: "Ma che dici? Questa mattina era a colazione con me!".
Eh?
Uno scherzo di Sergio.
Si è mai vendicato?
Ovvio. Organizzo il concerto di Tina Turner a La Bussola, ma il giorno stesso fingiamo una lite e Tina se ne va.
La Turner sua fidanzata.
Di una simpatia unica; comunque Bernardini viene da me: "Devi recuperarla". Corriamo da lei, mi vede, sta per ridere, io mi preoccupo, invece inizia a urlare e quasi mi picchia. Sergio distrutto se ne va. Alla fine siamo arrivati alla Bussola e mentre lui era sul palco per annunciare il forfait, Tina inizia il concerto.
Bruno Voglino sostiene
Chi?
Voglino, ex Rai Tre.
Grande amico mio. Anche lui vittima di uno scherzo.
Eccoci.
Partiamo in aereo con Nicola Di Bari. Il giorno prima mi ero messo d' accordo con un mio collaboratore: "Chiama in aeroporto, e fingi un grave problema per Voglino". Così è.
Arriva la hostess, gli spiega, lui scende. Noi partiamo.
Insomma, Voglino parla della fragilità dell' artista.
Penso a Modugno, famoso nel mondo, trent' anni di collaborazione e un' amicizia vera: prima di cantare impazziva, si emozionava, soffriva.
Avete mai discusso?
Tutti i giorni, ma blandamente; comunque se il teatro era pieno, era merito suo, se era vuoto colpa mia.
Insomma, fragili.
Tranquillizzarli è un lavoro, faticoso, e dopo un po' di anni non è possibile continuare: oggi non sarei in grado, non ho più quel sistema nervoso.
Basta.
Tempo fa mi chiama Gino (Paoli) e mi chiede di seguire la Vanoni. Ho retto per poco.
Come mai?
Un giorno si fa ricoverare dal professor Cassano (psichiatra). Da lì mi chiamava tutte le notti per dirmi: "Perché non mi vieni a trovare?". Ed ero pure sposato da poco.
Risposta?
"Sono il tuo manager".
Duro ma giusto.
Una volta uscita la raggiungo in una villa affittata per incidere un album, e trovo la dimora ricoperta di materassi. Con lei c' era Mario Lavezzi.
I materassi?
Sì, per insonorizzare (ci ripensa). I materassi di casa!
Con Paoli era legato.
Insieme abbiamo passato anni veramente belli e intensi.
Condiviso tutto (inizia a ridere).
Una sera mi dice: "Andiamo da Ornella, si è sposata da poco". Raggiungiamo la villa.
"Aspetta, entro un minuto". Quel minuto diventa l' intera notte, ogni tanto citofonavo ma non rispondevano. Ero tra il disperato, il preoccupato e l' incazzato. Alle sei esce dal cancello. "Che scopata".
Cosa serve nella vita?
Il culo è fondamentale.
E poi?
Carattere e simpatia. Anche se suscito pure antipatia. Quando mi hanno assegnato Sanremo scattò una campagna stampa micidiale, passavo da dilettante, mentre avevo otto uffici in Sudamerica, a Los Angeles e a New York.
Alto livello.
A Los Angeles mi rappresentava Maddalena Mauro, agente di Gina Lollobrigida
Con la Lollo siete amici?
Sì, e con me ha guadagnato tanti soldi; quando arrivavamo in Argentina accadeva di tutto: i generali che impazzivano e volevano trombarla.
L' hanno mai fregata?
In Sudamerica capitava spesso, lo mettevo nel conto, e a me è andata meglio che ad altri: ero l' unico a portare italiani.
Nessuna concorrenza.
Se qualcuno ci provava, gli bloccavo il mercato.
Solo lei.
In Sudamerica Nicola Di Bari era una star assoluta, quando atterravamo la televisione trasmetteva in diretta l' evento, al grido: "Arriva il cantante più brutto del mondo ma con la voce più bella del mondo".
Proprio Nicola Di Bari?
Quando l' ho preso era completamente finito, talmente finito che l' unica condizione pretesa da lui per firmare il contratto è stata quella di saldare l' affitto di casa.
Niente di che
Con me nel 1969 è arrivato secondo a Sanremo e primo nel 1970 e 1971. Poi Canzonissima davanti a Massimo Ranieri.
Tripletta.
Mi accusarono di imbrogli.
Insomma, Di Bari
Prima dell' arrivo di Julio Iglesias veniva considerato un Dio; Billboard gli pubblicò una pagina intera: "È il fenomeno del Centro e Sudamerica". Eppure non scriveva canzoni, l' unica sua è di merda.
Sempre duro ma giusto.
Ha mai ascoltato Zapponeta?
No.
È il nome del suo Paese natale. Prima in classifica in tutto il Sudamerica.
Così brutta?
Orrenda.
Quindi?
Non vincevamo più Sanremo, così inventai un escamotage che ci regalò altri sette trionfi: prima del Festival ascoltavo i brani, prendevo i diritti in spagnolo di quei quattro o cinque papabili per la vittoria, traducevo il pezzo e Nicola lo incideva. Il gioco era servito.
Felici gli interpreti originali
Una mattina mi chiama Peppino Di Capri, urla: "Cosa stai facendo?". "Non capisco".
"Canto un grande pezzo e qui mi dicono che è di Nicola?" Anche Ranieri mi ha evitato per anni.
Hanno parlato di lei come finanziatore dei regimi del Sudamerica.
Stupidaggine: a quelli i soldi li portavo via, anche infilando i contanti nelle mutande e nei reggiseni della Lollo.
I servizi segreti l' hanno contattata?
Mai.
Massoneria?
La odio. Sono il mio contrario mentale. E non avevo tempo da perdere. Tempo è denaro.
A 21 anni andavo ogni mercoledì in Venezuela e a Roma avevo già una villa con piscina; un giorno venne mio padre in ufficio, allarmato: "Mi spieghi da dove arrivano i soldi?".
Ho tirato fuori i registri.
La sua vera svolta?
Proprio a 21 anni quando ho conosciuto per caso un agente che cercava star italiane da portare nello show di Renny Ottolina, il Mike Bongiorno del Venezuela.
E Con Renny ho lavorato per anni, poi è morto in un misterioso incidente aereo quando ha deciso di candidarsi alla presidenza del suo Paese. Il Sudamerica è così.
Ha mai avuto paura?
Solo una volta, per colpa di Mal: atterriamo in Venezuela e in aeroporto troviamo duemila persone. Una situazione folle, con le donne che lo aggredivano pur di dargli il numero di telefono; la sera, alla fine dello spettacolo, accade la medesima situazione, ma nel camerino. Mal si scoccia, le caccia, una signora insiste, ed entra di nuovo. Il segretario la solleva e la butta fuori. Errore clamoroso.
Chi era?
La moglie del colonnello dei servizi segreti. Dopo dieci minuti il proprietario del locale viene da me, pallido, sudato: "Cosa è successo? Sta arrivando l' esercito, porti via Mal".
Corro da lui e lo spedisco in albergo, in una stanza differente dalla sua; poco dopo si palesano i militari, in borghese, con il mitra in mano, mi interrogano. Bluffo.
Conclusione?
Per giorni i servizi mi hanno seguito, Mal nascosto, fino a quando sono riuscito a farlo salire su un aereo.
Ha mai avuto una storia con una delle sue artiste?
Quasi mai, giusto Tina Turner; però sono stato con Miss Mondo, nonostante fosse la donna di un grosso impresario, uno da aereo privato.
Come ci è riuscito?
Lui era spesso ubriaco, e se uno beve così poi a letto funziona poco; poi giocava al Casinò: nel frattempo invitavo lei in Italia per dei provini.
Un classico.
Con le donne ho sempre mantenuto la parola, a volte pagando perché non riuscivo nelle mie intenzioni.
In che senso?
Fingevo ingaggi, in realtà ero io ad allungare i soldi.
Conta più il potere o i soldi.
Con il potere arrivi ovunque.
Lei ha il potere?
Un tempo, oggi con internet è impossibile, tutti possono ingegnarsi, basta un' email spedita da casa.
E Patty Pravo?
La svolta è arrivata grazie alle foto nude apparse su Playboy, pagate una cifra pazzesca.
Era già molto famosa.
In quella fase non andava più in televisione, e la casa discografica la obbligava a cantare canzoni francesi pallosissime. Non vendeva. Rovinata. E invece con me ha inciso Pazza idea, e neanche era convinta: "Troppo commerciale".
Storia con la Pravo?
C' è un proverbio: "Dove tiri fuori il pane non tirare fuori il pene".
Mal.
Potevo lanciarlo sul mercato statunitense, aveva inciso un pezzo entrato in classifica e aveva una serie di concerti a Las Vegas; ha rinunciato al momento di partire: "Non posso, ho paura". "Di cosa?". "Se vado via la mia fidanzatina mi mette le corna".
Perfetto.
Alla fine la fidanzatina lo ha tradito e mollato; oggi avrebbe potuto vivere a Beverly Hills. Sta a Pordenone.
Gli artisti e i soldi.
Alcuni oculati, ma spesso sono una tragedia come Patty (ricca risata). Un giorno fisso un appuntamento con Andy Warhol per parlare di un film da girare. Lei è contenta di conoscerlo, ma quando lui varca la porta di casa, Patty si trincera in un mutismo assoluto. Dopo un'ora termina l'imbarazzo, Warhol va via. Appena esce, la Pravo accende una candela e inizia a correre come una matta per casa: doveva cacciare via gli spiriti cattivi.
L' artista è riconoscente?
No.
Lei è mai triste?
Spessissimo.
Le capita di stare solo?
Molto spesso.
E come si trova?
Preferisco la compagnia, ma non ci sto male (cambia tono); da pochi anni mi sono reso conto di ciò che ho combinato nella vita, quando ero al top non capivo.
Adrenalina.
Ho corso proprio tanto, la prima vacanza me la sono concessa a 39 anni. Ora ho passato gli ottanta, è stato un attimo. (Canta Anna Oxa: "La mia vita è questa qua, che un' altra dentro non ci sta").
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pangeanews · 6 years
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Daniele Mencarelli, poeta, scrive il romanzo più eversivo degli ultimi tempi. Una storia di disperazione. E di rinascita. Intervista a occhi spianati
La prima cosa da fare è afferrare Anna Achmatova. Requiem. La raccolta più dolente. Una delle più dolenti del Novecento. Impaniata nella censura russa. Ovviamente. Racconta i giorni in cui la poetessa, tra le grandi del secolo, mendicava notizie del figlio Lev, arrestato dal regime sovietico nel 1935 e poi, definitivamente, nel 1938. Elemosinava notizie al carcere della Kresty, Leningrado. Insieme a lei, code di madri, di mogli, di derelitte. “Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado”, scrive la Achmatova In luogo di prefazione a Requiem. “Una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): ‘Ma questo lei può descriverlo?’. E io dissi: ‘Posso’. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto”. Il brano, di sonora sofferenza e dedicata bellezza, è la serratura per capire il primo romanzo di Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi (Mondadori 2018, pp.226, euro 19,00). Il romanzo di Mencarelli, romanzo, classe 1974, tra i poeti più riconosciuti di oggi, comincia con una resa all’oblio (“non ricordo nulla”, dice il protagonista, Daniele medesimo, corrotto dall’alcol, divorato dall’annientamento, da una fragilità tumorale) e si chiude, con la leggerezza di una corolla, di una corona, con una pretesa di memoria (“Voglio ricordare tutto”). Mencarelli, come la Achmatova, allora, non volge le spalle dall’orrore, non annega, voluttuosamente, nel male – esercizio abusato dai dandy della narrativa, che godono l’eroina del nulla. Ha il coraggio della memoria, lotta (il romanzo è dedicato “ai lottatori”) per definire una fiamma nell’oscurità. Ha la gloria – così difficile, oggi, così gratuita – di raccontare una resurrezione. Il romanzo, in effetti, è questo. Siamo nel 1999 e Daniele – che è proprio lui, Mencarelli, ma non è lui, diluito in una storia di vertigini assolute – è un ragazzo perduto. Ha il crisma poetico, ma la vita lo spaventa, spazia in lui il male. Daniele si ubriaca. E quando si ubriaca non capisce nulla, non ricorda nulla, fa le peggio cose. Il romanzo parte sull’apice del primo giorno del ‘risveglio’. Daniele, grazie a un amico poeta (Davide Rondoni), trova lavoro presso una società di servizi all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Va a fare le pulizie. Un purgatorio devastante. L’obbligo di un lavoro umile – nitida la scena in cui Daniele deve nettare un bagno letteralmente pieno di merda: “vorrei scappare, in fondo a me dei bagni pubblici invasi di merda dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù cosa cazzo me ne frega?” – la necessità di dialogare con una vasta umanità di perduta gente. Il luogo, di per sé, è un agghiacciante Purgatorio. “Luogo di tortura, di maledizione”, lo chiama Daniele. Al Bambino Gesù si curano i bambini incurabili. Spesso i bambini muoiono. Muoiono ed è come una grandinata sulla testa di Daniele. Una grandinata di vite pure, di feti, di innocenti (micidiale la scena “in una sala d’autopsie a misura di bambino”, dove fiammano le domande lancinanti: “se ci sei tu, Dio, dietro tutto, perché non hai preso me? O qualsiasi altro adulto sulla faccia della terra?”). Il rapporto – mai astratto o concettuale o peggio, intellettuale, ma sempre fisico, in narrativa carnale – tra il perduto, il peccatore a contatto con la purezza che muore è devastante. Daniele, alla fine, si salverà. A piccoli, dolorosi passi. Scoprendo la vita. E incarnando la vita nella poesia – il direttore dell’ospedale pediatrico che gli commissiona una raccolta poetica sul Bambino Gesù, che effettivamente sarà pubblicata, con il titolo Bambino Gesù, nel 2001, presso le Tipografie Vaticane, ed è uno dei libri più atroci e sublimi di Daniele. Il romanzo, insomma, è di avventata bellezza, è una avventura nella tenebra della perdizione, un inno di gioia. In questa è l’eversione. Possente.
Parto dalla cosa più semplice, che non è mai semplice. Cosa si scrive, cosa ti scrive, perché scrivi? Scrivi la vita, la verità, la salvezza, la santità, la perdizione… cosa? Perché?
Scrivo perché, per quanto ci provi, tutti i giorni, non riesco a farmi passare la vita come un fatto ordinario, è qualcosa incastrato negli occhi, nello sguardo, ha a che fare con la reale grandezza di quel che ci circonda, è una grandezza maestosa, sovrana. Scrivo perché non mi è mai passato per le mani un giorno in cui non mi sia speso alla ricerca di qualcosa, se vuoi chiamalo significato, una preda inafferrabile, una caccia impossibile, almeno per me, che non è mai riuscita a sbocciare pienamente in una fede, una cosa da cani in pena. Scrivo perché mi risulta inconcepibile affidare al caos ciò che amo e ho amato. Scrivo per testimoniare tutto questo.
Parto da un dato di fatto molto semplice, scabro. Sei un poeta. Per quanto narrativo. Resti un poeta. Che ora si muove nel palazzone del romanzo. Come hai fatto? Che cambiamenti hai fatto? Che moine formali hai accettato, quale accesso concedi?
Sono un poeta che concepisce la poesia come l’unione di due elementi sostanziali: lo sguardo, nominato poc’anzi, come motore primo, come visione scatenante; e uno più formale, intimamente formale, il respiro. Il mio metro dominante è il respiro, il verso come un’unica emissione d’aria, saldare parola a vitalità. Nel passaggio al romanzo ho rinunciato, ma non del tutto, a quest’ultimo elemento, al respiro, quindi alla versificazione in senso stretto. Meno che mai, ma quello sarebbe impossibile, allo sguardo, al mio modo di vedere le cose. Se devo dirti, però, ho anche guadagnato qualcosa, mi hanno sempre intrigato le strutture dei grandi romanzi, la gestione delle psicologie dei personaggi, è un lavoro diverso rispetto alla poesia, ma non meno affascinante. In parte sono stato anche fortunato: per me la poesia e la narrativa, più in generale l’arte tutta, hanno a che fare con, per dirla con le parole di Eliot, “una scena che si dispone e si compie”, ho bisogno di correlativi, di azioni, comportamenti. Lascio ad altri le astrazioni, le scritture che ambiscono alla verticalità dimenticando tutto il resto. Nella scrittura del romanzo mi sono imposto, a tutti i costi, di non scadere mai nel poetico, questo sì, questo è l’unica vera disciplina che mi sono dato.
Racconti una delicatissima storia di perduti e salvati. Una ossessione, penso, pensando ai tuoi ‘romanzi in versi’. In questa storia, quanto c’è di vero, quanto di fiction?
La letteratura non è mai doppione assoluto della realtà, quando tenta di esserlo fallisce miseramente, semplicemente perché è regolata da leggi fisiche diverse, da meccanismi propri. Quindi il romanzo, com’è ovvio, ha elementi d’invenzione, ma il perduto e salvato che racconto, il Daniele protagonista del libro, sono in tutto e per tutto io. La parabola è quella che ho vissuto realmente in quegli anni: l’alcol, i problemi psicologici, la disperazione mia e di chi mi stava intorno. Questa tema torna spesso nei miei lavori, semplicemente perché non mi ha mai abbandonato, ho sconfitto le dipendenze, ma convivo con lo sguardo che mi è toccato in sorte. Costa fatica, mentale, fisica.
Ho avuto la fortuna, mesi fa, di avere una redazione di questo libro che non so se è l’ultima. Come è capitata Mondadori? Hai dovuto accettare tagli o un lavoro serrato con l’editor? Di cosa sei grato e cosa, ostinatamente, rivendichi?
A riguardo si sentono racconti horror…io sarò l’eccezione che conferma la regola, ma il mio rapporto con Mondadori, da Carlo Carabba a Marilena Rossi, a Barbara Gatti, è stato bellissimo sin dal primo giorno, credimi, non c’è un grammo di ruffianeria in quel che sto dicendo. Sul testo: non ho dovuto tagliare, o difendere, né ho rivendicazioni, abbiamo editato con grande tranquillità. Mi ha senz’altro aiutato, in tutta la fase di lavorazione del libro, il fatto che anche io sia un editor, non di libri ma di fiction, quindi parto dal presupposto che un autore, per quanto bravo e famoso, non è una divinità intoccabile e onnipotente. In Italia su questo tema siamo indietro di trent’anni. Il bravo editor sa contenere l’autore, consigliarlo, quando serve anche contraddirlo. Ma, ripeto, tutta la fase di editing è andata come mai avrei immaginato.
Quali sono i tuoi maestri, quelli di vita e di letteratura, come sempre, intendo? Insomma: per cosa vivi, che cosa leggi?
Maciniamo secoli, epoche e mode, ma se ti devo nominare un esempio vero, tra tante ipocrisie, torno a Cristo sulla croce, la sua eterna attualità, il giudizio come azione da rivolgere a se stessi, questa cosa mi innamora ogni volta, se ci pensi la storia può essere sintetizzata nella contrapposizione tra il “noi”, quindi il bene, e “gli altri”, il male da combattere. La vera rivoluzione è guardare in primo luogo ai propri peccati, errori, solo così possiamo crescere. Il mondo cambia cambiando noi stessi. Cosa leggo? Sono nato nel vecchio secolo, vivo nel nuovo, ma il legame con il Novecento, soprattutto italiano, per me è imprescindibile. Sbarbaro su tutti, ho una specie di venerazione, poi Caproni e Ungaretti, Turoldo, sino a Bellezza, e ancora più vicino a noi Salvia. Poi non posso non nominare Giovanna Sicari. Salto la generazione dei fratelli maggiori e arrivo ai nostri coetanei, quindi Francesca Serragnoli, Isabella Leardini, il grande Simone Cattaneo.
Che giudizio hai della letteratura italiana recente e della poesia? Tu lavori in Rai occupandoti di fiction, dunque si presume che conosci i diversi modi della comunicazione: perché il poeta è sempre il lebbroso, l’esiliato, l’emiro spacciato della società?
Torno al dato anagrafico: sono nato nel Novecento, ho esordito su rivista, ClanDestino, nel 1997. Lo sai quanto me: il mondo letterario che noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere, anche se nella sua fase crepuscolare, non esiste più, quel fiorire di riviste, collane. La rete, i social, che nell’immaginario di tutti avrebbero dovuto sostituire la carta hanno, in realtà, creato soltanto confusione, e dispersione. Questi sono i dati, ma ciò non vuol dire che siano morti i poeti. Tra i nati negli anni Settanta ci sono poeti che rimarranno, oggi occorre lottare di più perché gli spazi sono sempre di meno, ma di qualità in giro ne vedo, e tanta. Mi occupo di fiction, di serialità televisiva, forse il prodotto più trendy di questi anni ultimi. È un problema di peso specifico, di grammatura. La poesia è reietta perché chiama alla negazione delle apparenze, vuole vedere veramente, quindi è per sua natura eversiva, quando è vera. Non mi sembra un’epoca, la nostra, dotata di una volontà eversiva rispetto alle visioni dominanti. Forse un giorno…
L'articolo Daniele Mencarelli, poeta, scrive il romanzo più eversivo degli ultimi tempi. Una storia di disperazione. E di rinascita. Intervista a occhi spianati proviene da Pangea.
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