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#equivalenza
latiendaonline · 1 year
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La primavera huele a azahar, a rosas, a frutas frescas… ¿Cómo puedo conseguir estas fragancias en casa? https://latiendaonline.es/equivalenza/ #LaTiendaonline #cupones descuento #equivalenza #perfumesequivalenza #perfumes #tiendadeperfumes #cupondescuento #cuponesdedescuento #cupondedescuento #ofertasdescuento #promociones #descuentos #ofertas #tiendasdedescuento #comprarbarato #comprabaratoonline #tiendasbaratas #codigosdescuento #cosmeticos #tiendasonline #perfumeshombre #perfumesmujer #maquillaje #tiendasdemaquillaje #tiendacosmeticos #tiendacosmeticos #marcasperfume #modaperfume https://www.instagram.com/p/Cqh5ythNvyy/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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moneyfresh · 1 year
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💗 San Valentín 💗 💞Esta vez para San Valentín, aprovechando que Divain nos da la  oportunidad de probar sus  perfumes.  💗Quise regalar un perfumes para mi marido. 💗 Le cogí el Divain n°228,que es el similar a  Aventus de Creed,la marca nos da estos datos. Un perfume con una mezcla de notas poco convencional.( esto junto con la siguiente información, fue lo que nos hizo decidirnos por  este perfume) 💗Válido para cualquier momento del año y para cualquier ocasión, Familia olfativa: Chipre Frutal Intensidad: Media Estación: Primavera Uso recomendado: Día 💞Tienen más de 600 fragancias. 🎁Siempre tienen buenos descuentos,en la página web de Divain ,yo os dejo un descuento por aquí (BBFDH)para que lo aprovechéis en las mejores ofertas. 🐼Son crueltyfree, nada testado en animales. 💗Tienen perfumes muy logrados:   -para hombres -para mujeres - para los peques de la casa - hay perfumes unisex - incluso perfumes para el hogar. -siempre envían una muestra de tu perfume, porque si pruebas la muestra y no te convence,puedes devolver tu pedido,en la misma caja. 💗Con divain siempre  tendréis el regalo perfecto. 🎁En su web podéis mirar todo lo que tienen y sabréis muy bien a q huelen antes de que te llegue a casa ,porque lo detallan muy bien en características. Los envíos son muy rápidos. En uno o dos días ya lo tienes en casa. Gracias a @divain_es , por sus perfumes. 🎁¿ Ya tienes tu perfume favorito de Divain,para este San Valentín? ⚠️¿Alguna vez habéis devuelto algún pedido de Divain? #divainparfum #divainparfums #crueltyfree #perfumes #ambassadors #sanvalentín #regalosoriginales #vivaelamor #regalaamor #diadelosenamorados #tikxtube #apoyaresdeguapas #juntossomosmaisfortes #siemprejuntos #adventus #equivalenza #reciclable #parfum #febrero #fabruary (en Barcelona, Spain) https://www.instagram.com/p/CoM1SXRKzHI/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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der-papero · 1 year
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Un nuovo razzismo
Questo è uno dei post più difficili che io abbia mai scritto su questa piattaforma. Molto probabilmente, nel momento in cui lo leggerete, lo avrò già letto 30 volte e rinnegato altrettante, come fece Pietro col suo capo, prima che quel maledetto gallo svegliasse tutto il vicinato e venisse colpito in pieno da una scarpa.
Essenzialmente per tre motivi: il primo, perché non era proprio nei miei pensieri una discussione simile, il secondo, perché è estremamente facile uscire dal seminato e iniziare a parlare d'altro, e il terzo, perché la probabilità che venga letto tutt'altro è abbastanza alta. Riguardo al primo motivo, sono strafelice che sia accaduto, anche se lontanissimo dalle mie intenzioni, perché sta aprendo il mio spazio mentale ad un universo di riflessioni sul tema, riguardo al secondo proverò a fare del mio meglio per evitare scivoloni, e riguardo al terzo 'sti grandi apparati maschili.
In pratica, vi parlerò delle reazioni che ho ricevuto, in quattro giorni a questa parte, ogni volta che ho iniziato a parlare di possibilità di equivalenza tra pensiero naturale e pensiero artificiale e, volendo tirare un po' la corda, una possibile sostituzione dovuta ad un sorpasso facile del secondo rispetto al primo.
Premetto che all'inizio mi son lasciato un po' andare all'entusiasmo, ma come ho detto a @kon-igi nel mio ultimo vocale da ben 13 minuti esatti, credo di aver commesso un reato a responsabilità limitata (cit.), per via della mia naturale propensione a comportarmi come un bimbo col suo giocattolo nuovo verso tutto quello che suscita in me un interesse che va al di là delle aspettative. Ad ogni modo, questo reato è stato proprio funzionale a far esplodere (verbo azzeccatissimo) un dibattito sul tema, e non parlo solo di Tumblr, eh, io ne ho parlato con tutti, dovunque, in qualsiasi spazio e dimensione umana, e posso confessarvi che, trasversalmente all'educazione ricevuta, al percorso sociale e professionale, alle sensibilità verso la realtà circostante, tutti, a diverse sfumature, hanno esibito un qualcosa che io, con un titolo fotocopiato maldestramente da Star Wars IV, ho iniziato a semplificare brutalmente con razzismo verso la AI.
Prima che iniziate a lucidare la mazza da baseball per fracassarmela sul cranio, lasciate che vi premetta la mia definizione di razzismo. A mio parere, ne esistono di due tipi, uno dovuto alla mancanza di informazioni verso un qualcosa di sconosciuto, che implica una immotivata paura e un conseguente istinto di protezione verso sé stessi e la propria comunità (forse legato a scelte di sopravvivenza, boh, che ne so), e un secondo, una degenerazione del primo, ovvero la scelta consapevole di restare in questo stato di ignoranza per combattere un nemico inesistente. Io, ad esempio, mi dichiaro orgogliosamente razzista verso i tedeschi, perché ho optato per la scelta consapevole di ritenermi diverso e superiore a loro, e nun me scassat 'o cazz, come diceva il buon Pino. Nel caso invece di questo post siamo palesemente nella prima tipologia, che chiamo razzismo solo per brevità e perché non conosco una parola migliore, ma potrebbe essere un abuso di notazione, e che alla fine mi serve pure un po' per acchiappare like, come ho ben dedotto dal mio scambio con @aelfwin3.
Ognuna delle persone con le quali ho avuto il privilegio di confrontarmi ha avuto una reazione che oscilla dalla più morbida alla più reazionaria, ma hanno avuto tutte un filo conduttore comune. Ad esempio, Kon sta da tre giorni ad impazzire con me su questa roba, provando a menarmi dialetticamente da più punti di vista (cosa della quale non gli sarò mai grato abbastanza), mentre Elena, venerdì sera, avrebbe voluto che la mollassi in autostrada pur di non continuare più la serata con me, se non fosse che adora troppo quelle cagate asiatiche. Per farla breve (seeee vi piacerebbe ahahahahah!), tutti hanno avuto lo stesso tipo di approccio, che posso riassumere con la seguente frase
non osare provare a metterci sullo stesso piano
persino Yuri che, ieri a pranzo, davanti ad un panino di Burger King, cominciava a digerire male le patatine dopo le mie uscite, e ha provato a giustificare quella frase di sopra facendo riferimento ad un vecchio film russo, dove il secondo pilota di ogni aereo era una intelligenza artificiale pronta a continuare il combattimento al posto del pilota, qualora questo fosse stato nell'impossibilità di continuare il duello, e che mo' non mi ricordo tutta la trama, ma come al solito finiva di merda.
Piccola nota: Burger King ha tolto dal menù il Double Steakhouse, e, chi mi conosce bene lo sa, se c'è una cosa che mi fa incazzare è dovermi adattare ai cambiamenti della società. Mo' mi tocca mangiarmi tutti i panini possibili per riuscire a trovare quello che più somiglia al DS, porca vacca. Ma torniamo a noi (ve l'avevo detto che è difficile restare sul tema).
Prima di continuare (telefonate alle vostre mamme, perché stasera non si torna a casa), ribadisco ancora una volta la mia definizione di sentimenti nel mondo digitale, che nulla ha a che fare con quelli umani, e propongo ancora un altro esempio. Parliamo di Dante e Beatrice. Nessuno, e sottolineo nessuno, umano e non, è in grado di replicare, in ogni più piccolo dettaglio biologico e mentale, quello che Dante ha provato per la sua bella (diamo per buona tutta una serie di fatti storici, tanto a me non importa di Dante nel senso stretto della sua vita). Possiamo solo fare dei paragoni più o meno validi sulla base delle informazioni che abbiamo, e su quello che è la nostra esperienza riguardo all'amore, ma poi ognuno di noi ha il suo sentire riguardo a questo sentimento, potete provare a raccontarlo, ma già qui si perde, involontariamente, un contenuto informativo, per non parlare poi di quello che viene capito dal vostro interlocutore, insomma capire cosa possa provare un altro al 100% è un'impresa impossibile, ci possiamo arrivare solo tramite delle interpolazioni, che possono essere sufficienti per la stragrande maggioranza dei nostri scopi.
Ripeto: non fate riferimento ancora una volta all'essere umano in quanto essere biologico, altrimenti tutto questo post non ha alcun senso, né tanto meno tutta la discussione passata e futura sull'argomento. Io parlo unicamente del pensiero in quanto riflesso del nostro essere, il cogito ergo sum, per capirci, ma niente di più.
Adesso prendiamo una macchina NLP che ha raggiunto il suo stadio ultimo della conoscenza artificiale, ovvero sa correlare tutto a tutto (stavo per scrivere sa tutto di tutto, ma avevo visto la mazza da baseball che faceva capolino dietro le vostre schiene). Badate bene: questa macchina non esiste ancora, ma quello che provo a dirvi da tre giorni e che continuerò a fare, ed è meglio che iniziate a farci il callo con questo concetto, è che ci stiamo avvicinando al momento in cui questa macchina esisterà. Questa è una macchina che, dal punto di vista dei sentimenti, è messa malissimo, nel senso che non ha la nostra esperienza biologica, non sa cosa sia l'amore e il poterlo sapere non fa parte del suo esistere e del suo scopo. Ma, e qui perdiamo in quanto presunti esseri superiori, sa parlare dell'amore che Dante provava per Beatrice meglio di noi, perché, sfruttando la sua capacità di correlare e calcolare, riesce a mettere insieme robe che manco a calci ci potremmo arrivare.
Se siete arrivati fin qui, vuol dire che non mi avete tolto il follow (il che vi vale come buono per una pizza e una birra offerti da me), e adesso arriviamo al razzismo verso la AI. Pur di mettere in discussione il punto espresso al paragrafo precedente, le persone, tutte, virtuali e non, hanno fatto l'unica mossa che potevano fare: invalidare la potenziale (ma non l'unica, occhio!!!) fonte della conoscenza che alimenta la AI, ovvero Internet, tra l'altro con un argomento, i social, che per me è fallace già dal punto di vista meramente tecnico, perché non tiene conto di quello che è il reale serbatoio informativo della rete, ma ne vede solo una parte, che poi è proprio quello che ci fa parlare male della rete in generale (anche se stiamo tutti qua a crogiolarci come i maiali nel pappone che mio nonno mollava loro a pranzo). Infatti tutta 'sta manfrina è nata proprio dal vocale di @kon-igi che ho potuto ascoltare ieri ahimè solo in serata, avendo passato la giornata con le scimmie (esseri favolosi), e ci ho ritrovato (parzialmente) le stesse parole che Elena, una sera prima, una persona che è agli opposti di Kon su tutto, aveva provato a inculcarmi a furia di schiaffi sul cruscotto (abbiamo rischiato l'air bag) all'altezza di Darmstadt. E sono estremamente convinto che il tutto sia stato fatto d'impulso, d'istinto, da qui il senso del mio post.
Altri, una minoranza che mi ha sorpreso meno in quanto a reazione ma che comunque fa numero, preferiscono affondare le mani nella letteratura/filmografia catastrofista da un lato (Terminator), senza cuore dall'altro (I-Robot), pur di provare che, hey, noi siamo meglio di 4 fili collegati, e attenzione, io non sto dicendo che non sia una possibilità, ma che queste affermazioni non hanno alcun supporto concreto, si basano solo su scenari presi dalla nostra voglia di immaginare quello che non esiste.
Spero che adesso sia chiaro il motivo per il quale io abbia iniziato a definire una sorta di razzismo verso la AI, che, fino a quando si tratta della prima forma di razzismo, ci sta, è una reazione naturale ad un processo nuovo, a maggior ragione quando tutta la letteratura ce l'ha sempre dipinta come la minaccia alla nostra esistenza. La mia speranza è che non degeneri verso un qualcosa di accendiamo i forconi, in nome di una caccia alle streghe elettroniche che non ha alcun senso (e badate che questa paura non nasce dalle reazioni delle persone con le quali ho parlato oppure delle quali ho letto i commenti qui sopra, e delle quali mi fido, ma degli altri 8-miliardi-meno-30).
Lasciatemi però postare l'unico commento violento contro la AI che per me ha senso di esistere ed è supportato da fatti concreti, tangibili ed incontrovertibili, ovvero quello di @gigiopix, al quale va tutta la mia solidarietà e vicinanza in questa sua fase (spero breve) di interazione con le intelligenze artificiali, e sul quale rapporto con l'AI io ci vedo molta assonanza riguardo al mio con i tedeschi:
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klimt7 · 6 months
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Femminismo e poesia in Croazia: “Non leggi le donne” di Olja Savičević Ivančević
Il corso di lingua croata all’università di Udine avvicina gli studenti di mediazione culturale al mondo della traduzione, grazie alla guida della docente e traduttrice Elisa Copetti. Durante una lezione, poche settimane fa, è stata proposta questa poesia. Leonora Raijć ed io, che frequentiamo il corso, ci siamo occupate della traduzione di “Ne čitaš žene”, da cui siamo rimaste profondamente colpite per la sua immediatezza e per la sua forza nel mettere a nudo dei passaggi cruciali nella relazione uomo/donna. L’autrice ha inoltre accettato di rispondere ad alcune nostre domande in una intervista, che riportiamo integralmente.
“Normalmente non leggo le donne, ma mi piace il tuo libro”
È da qui, da questa affermazione, che è nata la poesia “Ne čitaš žene” (Non leggi le donne), come risposta. Ed è presto diventata un manifesto femminista nel mondo letterario croato.
La poesia di Olja Savičević Ivančević, nota autrice croata contemporanea, scatta un’istantanea, con rabbia e rassegnazione allo stesso tempo, della situazione delle donne nel panorama letterario croato, e non solo. Versi che esprimono, in uno spazio e un tempo dilatati, tutto quanto le donne hanno subito nel mondo della letteratura, da sempre appannaggio prevalentemente maschile. “Non leggi le donne” parla agli uomini, ma possiamo sentirci coinvolti tutti e tutte dalle parole dell’autrice.
Quante volte, come lettori o lettrici, ci siamo fermati a riflettere davvero sul numero di autrici donne presenti sugli scaffali del nostro salotto, nelle antologie scolastiche o nei programmi accademici, in vetrina nelle librerie o semplicemente nella nostra memoria? In un’intervista a Nova.rs, l’autrice spiega come la scrittura femminile rimanga ancora sinonimo di qualcosa di quasi banale, meno serio e impegnato rispetto alla produzione letteraria maschile. Mostra inoltre come sia necessario mettere in discussione il canone che ha condannato all’invisibilità molte donne colte e di talento, anche ai giorni nostri.
Dati e contraddizioni sulla situazione in Italia
Ma qual è la situazione femminile nel mondo letterario italiano? Emerge un quadro molto simile a quello che Savičević Ivančević mette in evidenza per la Croazia. Nel nostro paese, i programmi scolastici e accademici menzionano pochissime scrittrici: solo il 5% dei titoli proposti nei corsi universitari è scritto da donne. Un canone molto presente e rigido è quello per cui le opere considerate universali siano state scritte tutte da uomini. E questo è in controtendenza rispetto a chi legge e consuma la produzione letteraria. È infatti un dato noto che le donne leggano mediamente più degli uomini: come si coniuga questo con le statistiche? Quanto chiedono, le donne, di leggere altre donne?
Un punto cruciale che può favorire una nuova modalità di percezione delle donne nel mondo letterario è sicuramente l’educazione, ovvero ciò che avviene nell’ambito delle relazioni familiari e scolastiche, e come queste tendono o meno a trasmettere messaggi di equivalenza. Ed è attraverso la capacità di filtrare le comunicazioni dall’esterno in cui siamo tutti immersi, tutto il tempo (social media, internet e società stessa) che si delinea una nuova possibilità per smascherare ed indebolire la disuguaglianza. Rispetto ad alcuni decenni fa la narrazione di genere è profondamente cambiata, tuttavia il discorso patriarcale non è scomparso, né dissolto, e molto spesso si ripresenta in modi difficilmente identificabili.
La raccolta di poesie “Divlje i tvoje”
Ci si immerge completamente in questa visione durante la lettura della settima raccolta di Olja Savičević Ivančević, “Divlje i tvoje” (Selvagge e tue) pubblicata da Fraktura nel 2020, una lettura seducente sia per gli appassionati di poesia sia per i lettori che si avvicinano più raramente alla produzione in versi. Una posizione scomoda quella dell’autrice, come è da sempre quella di chi scrive, che presuppone uno sguardo vigile e un’attenta critica della realtà: preserva con forza emozioni come l’amore e l’amicizia, affronta le relazioni di genere, nel tentativo di decostruire gli ordini sociali canonizzati. Lo fa con una particolare cura al legame tra il passato e il presente, tra l’io e l’altro, accogliendo e considerando che si tratta di polarità solo immaginate dalla mente: noi e gli altri, gli altri e noi si confondono e, ad un livello di esperienza profonda e interiore, si rivelano essere uno.
Il tutto pervaso da una intrinseca prospettiva femminile e femminista: la necessità dell’uguaglianza di genere nel presente, ma anche la correzione delle ingiustizie del passato e la consapevolezza di quanto l’educazione giochi un ruolo determinante nella graduale dissoluzione degli schemi patriarcali che ancora pervadono il nostro mondo.
Non leggi le donne
Dici che non leggi le donne
Cosa potrebbero dirti 
Ti hanno insegnato a parlare
Ti hanno insegnato a camminare
Ti hanno insegnato a mangiare
Ti hanno insegnato a pisciare
Ti hanno insegnato a fare l’amore
In realtà cosa potrebbero 
Dire di te
E della tua esperienza
Tutti questi secoli
non ne hanno messa al mondo
Una che fosse grande
Come il grande scrittore
A cui lavava le calze 
Dici che non leggi le donne
Le donne ti hanno insegnato a leggere
Insegnato a scrivere
Insegnato a vivere
In realtà, ragazzo
Tutto questo è stato
Nel migliore dei casi
Un lavoro inutile
[ Olja Savičević Ivančević ]
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ammmbeeer · 1 year
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e quindi?
Un testo sull’ ADHD: contesto; fatti; metafora.
contesto. Sono una persona che sta arrivando ai trenta attraverso gli alti e i bassi della vita, dapprima affrontati in autonomia e poi anche no. Per curiosità qualche mese fa ho prenotato un appuntamento allo sportello per la diagnosi dell’ADHD nell’adulto del mio comune. Non è una cosa che si fa su due piedi come andare a fare due passi, lo riconosco, ma mi interessava avere un verdetto. Ho presentato i fatti onestamente, ho portato esempi pro e contro, ho compilato i questionari facendo attenzione a non essere in stati alterati di sorta (anche se la curiosità di come risponderei a prefrontale disattivata è sempre molto forte). Dopo alcuni incontri tra cui un colloquio con i familiari per l’anamnesi remota, la psichiatra ha sottoscritto la sua opinione professionale: secondo gli attuali criteri diagnostici ho (more on this phrasing later, or never) l’ADHD. Se sembra di no è perché ho praticato masking e altre tecniche di compensazione inconsciamente sin dall’infanzia. La diagnosi non mi ha cambiato la vita, arrivare fino a qui non si può fare senza conoscere il contenuto del tuo barattolo; ma avere un’etichetta standard ha comunque delle conseguenze. Ad esempio, la mia università ha acquisito il certificato, permettendomi di richiedere certe accommodations, e ho potuto fare il punto della mia carriera accademica considerando i miei talloni d’Achille e i miei punti di forza. Per la terapia farmacologica bisogna aspettare le liste d’attesa della diagnostica per immagini; speravo fosse prima solo per spuntarla dalla lista delle cose da provare. Negli anni, il mio disagio (i non-abbastanza-sintomi che erano di disagio agli altri) era prima passato sotto ai radar (erano altri tempi) e poi considerato una conseguenza di certe vicissitudini — invece pare fosse vero il contrario: la mia condizione mi ha permesso di attraversare quelle vicissitudini relativamente incolume. Insomma, “è intelligente ma non si applica” avrebbe dovuto essere “sta processando e digerendo cose senza nemmeno rendersene conto, sarebbe giusto che ci mettesse perfino di più a imparare a leggere l’ora” e via discorrendo. La diagnosi non mi ha stravolto la vita come altre diagnosi cliniche invece potrebbero fare, ma insomma in realtà un poco me l’ha cambiata. Mi ha aperto diverse possibilità positive e negative; ne ho parlato con chi so che mi vuole bene; non ne faccio una malattia, anzi ne parlo tranquillamente, e mi osservo sotto nuove prospettive. fatti. Nel pomeriggio di oggi ci siamo trovati per un aperitivo, tra conoscenze ed amici. I rapporti tra di noi si sono tesi e rilassati per varie ragioni nei mesi scorsi; ora non c'erano, che io sappia, screzi attivi. Siamo in questo bar, tre coppie (etero) e io. La discussione parte e va e fa i soliti giri, tra mandare in vacca argomenti seri e prendere seriamente le vaccate - sempre mantenendo toni civili, mai mettendola davvero sul personale tranne che per esempi contingenti, eccetera. I chihuahua, i film della Dreamworks, il concetto di product target nel consumismo, le video reaction su youtube, very controversial opinion tipo "sono innaturali in modo diverso, ma l'omosessualità è più innaturale della pedofilia" (concetto che non condivido e su cui ho strabuzzato gli occhi abbastanza da far cadere il silenzio, argomento che ho affrontato sul momento e che non voglio affrontare qui), innato egoismo umano, egoismo funzionale e comunità e i miei strali contro l'assurda e falsa equivalenza "il tempo è danaro" — giusto per dare un'idea del botta e risposta tra me e due ragazzi. Il terzo e la sua fidanzata erano in disparte, provati dalla giornata; un'altra ragazza non partecipava attivamente alla conversazione ma ascoltava e reagiva; la terza, mia amica più dell'altra, interagiva a random - o mandando in vacca, o rimanendo nei binari, o ricordandomi che sono io che ragiono in modo strano. I due esausti ci hanno lasciati; la conversazione si è tranquillizzata mentre ci spostavamo in un altro locale; ad un certo punto, aspettando le ordinazioni, o dopo che erano arrivate, o non lo so [beshtia la memoria alla mercé delle emozioni] per qualche motivo logico che c'entrava con la conversazione, ho tirato fuori l'ADHD. E arriviamo al punto. Uno dei due ragazzi rimasti, non quello fidanzato con la mia amica, mi chiede: "E quindi? Cioè - cos'è che io posso fare e tu no?" Ho riposto "ma no ma niente, non è il cosa ma il come", la mia amica ha portato l'esempio di quando l'anno scorso a 10 minuti da una deadline e col documento pronto invece di inviarlo stavo mettendomi a fare le pulizie, l'altra, che penso ne studi, ha parlato delle attività neuronali atipiche, e poi ho continuato il discorso con lei sul mio masking precoce e sulle mie fortune al riguardo. Eppure ora, a ripensarci, sto fremendo. Ultimamente mi succede spesso: somatizzo con tremori agli intercostali. "Cos'è che io posso fare e tu no?" Non ho il dono della telepatia. Non posso sapere le sue intenzioni dietro alla domanda e ho imparato a non proiettare. Ma poi ho anche imparato che se ho delle sensazioni sulle situazioni, è perché effettivamente contesto e comunicazione non verbale mi hanno trasmesso certe cose. Quindi, consapevole di non poter sapere come è stata pensata, posso però dire che per come l'ho ricevuta io si poteva parafrasare così: "Voglio che tu mi dia un esempio concreto della tua condizione. Non ci sono cose che io posso fare e tu no, quindi la tua etichetta è insulsa." E questa cosa mi sta dando tantissimo fastidio. Ripeto: non è quello che ha detto. Ripeto: la conversazione è proseguita pacificamente. Tuttavia, ripeto: è stato un metaforico pugno nello stomaco che mi si è conficcato nel cervello. Anche perché poco dopo un altro commento è stato: "La gente non dovrebbe sapere se ha una malattia, se no poi si giustifica e basta." Sì, non ha specificato malattia mentale. Sì, perplessità a pacchi. Però non tanto quanto il fastidio che mi ha dato la prima domanda. Quindi ho cercato di capire. Non mi interessa capire perché lui l'abbia detta, perché in quel modo, perché non qualcos'altro. Ho cercato di capire come mai quella frase abbia dato fastidio a me. E credo di averlo capito: la metafora. nasci con una particolare combinazione di geni per cui i tuoi muscoli a parità di zuccheri consumati e acido lattico prodotto, sviluppano meno forza. per compensare bruciano più zuccheri e fanno più acido lattico — in soldoni, lo stesso movimento rende più affaticati durante e più indolenziti poi. per trent'anni vivi nel tuo corpo; sai che deve fare più attenzione al riscaldamento e allo stretching, devi per forza portarti dietro del cibo se vuoi fare una corsetta per scaricare lo stress, sei estremamente consapevole dei tuoi limiti e hai imparato delle modalità per aggirarli. per curiosità vai da un luminare dei muscoli, che dopo le dovute analisi e procedure diagnostiche ti dice che in effetti si tratta di una forma di X: l'esercizio fisico aiuta, e certi integratori, e si può valutare di passare col servizio sanitario nazionale un aiuto alla deambulazione, per evitare affaticamenti non necessari, e... fino ad ora è andato tutto bene, ora è meglio tenere d'occhio la situazione. E mentre corri per strada ma col pulsiossimetro sapendo che poi ti aspetta quel defaticamento lì perché oggi hai mangiato più questo che quello — tutta roba che facevi anche prima ma a sentimento, ora con più consapevolezza — mentre corri incontri un tizio che conosci. lo saluti, gli dici che ora non sgarri con i minuti eheh, avendo X le cose vanno fatte con criterio e lui ti dice "Ma tanto un oro nella corsa alle paralimpiadi lo puoi prendere esattamente come io posso prendere un oro nella corsa alle olimpiadi, no? e poi se non lo sapevi che era X magari salivi sul podio alle olimpiadi! forse era meglio non saperlo"
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valentina-lauricella · 10 months
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Quando invocano "il karma..." e impotenti minacciano che "la ruota gira", io dico "no"; non voglio vedere nessuno soffrire come ho sofferto io; nessuno potrebbe, non essendo me; nessuna equivalenza sarebbe possibile; sarebbe un esproprio. Lasciate la mia firma sulla mia sofferenza, non la cincischi nessun altro. Chi fa del male, non soffra. Vada dritto nel seno di Dio, ad annegarsi di felicità. Quella sì, che cura ed appiana.
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Sono, nonostante Io non Sia ~ Chiara Gagliardi
Nel luogo descritto non vi è elemento o corpo ne spazio in attuazione,
una minuta essenza son Io.
Astrattezza, concretezza, equivalenza di un cosmo da infiniti tratti somatici
sospinti dall’armonica evoluzione in caotica degenerazione.
Si fluttua nell’esistenza della realtà naturale
fino a pervenire alle tribolate impalcature dell’intellettualizzazione;
Oscillare da Eros a Thanatos
da Obito a Vita antinomia generatrice del tempo.
Luci singhiozzanti e nebulose rendono gloria alle ombre estese
trame inedite percepite nella perpetua compressione
sino a un’elettrica esplosione.
Realizzarsi,
oceani di energia variopinta di quel che concerne la mortalità
senza riuscire a orchestrarne una compiuta trasmutazione.
Esisto serbante un’utopica alienazione valicante
il trincerato epiteto che con fin troppa smania viene esaltato.
Sono, nonostante Io non Sia
perturbante l’ambivalenza di questa sussistenza
lacerante e sagomante che sì esemplifica
senza darne parvenza di spiegazione.
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crazy-deals · 8 days
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drugastraian · 1 month
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levysoft · 3 months
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Il flexagono è un oggetto piano a forma di poligono, costruito ripiegando opportunamente delle strisce di carta, in maniera tale che si possa flettere (in inglese to flex) per rivelare una delle facce tra quelle presenti originariamente sul fronte e sul retro della striscia iniziale.
I flexagoni sono solitamente classificati in base al loro numero di lati: i più comuni sono i tetraflexagoni (di forma quadrata o rettangolare e aventi 4 lati) e gli esaflexagoni (di forma esagonale e aventi 6 lati). A seconda del numero di facce che il flexagono può mostrare, si antepone un ulteriore prefisso numerico al suo nome: ad esempio, un esaflexagono a 3 facce viene chiamato triesaflexagono, mentre quello a 6 facce è denominato esaesaflexagono.
Due flexagoni sono equivalenti se il primo può essere trasformato nel secondo attraverso una serie di piegamenti e rotazioni. L'equivalenza tra flexagoni è riconducibile a una relazione di equivalenza.
[…] 
(via Flexagono - Wikipedia)
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ilquadernodelgiallo · 3 months
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Detta altrimenti: per Fisher l'immaginario anni Duemila è letteralmente abitato da fantasmi, sia di stili passati (la Retromania), sia di ipotesi politiche e ideologiche relegate al dominio del non-più-possibile (le alternative al capitalismo messe a tacere dalla retorica neoliberale del "There Is No Alternative"), ed è semmai dalle seconde che discendono i primi. [...] La tesi è semplice: il "There Is No Alternative" al capitalismo pronosticato dalla Thatcher è stato infine introiettato non solo dalle forze politiche che pure a suo tempo occupavano il campo avverso a quello del consevatorismo neoliberale, ma dallo stesso inconscio collettivo; il risultato è che «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», con ricadute drammatiche sia nel campo sociale che in quello psichico. Da qui discende un'analisi succinta ma penetrante di come questo «realismo capitalista» si rifletta in ambiti apparentemente tra loro diversissimi come la sempiterna cultura pop (soprattutto il cinema, che nel corso degli anni è diventato sempre più uno dei perni dell'analisi di Fisher), la malattia mentale (che Fisher  conosceva bene sin dall'adolescenza), la burocrazia, il sistema scolastico, la catastrofe ambientale. [...] una generazione condannata a emergere in piena «fine della storia» [...] abbandonare nostalgismi di sorta, a recuperare il brivido del future shock, a tornare a ipotizzare alternative aliene e irriducibili al realismo capitalista imperante... [dalla prefazione di Valerio Mattioli] _______________
...è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un'alternativa coerente. _______________ A proposito: se ho parlato di aspirazioni «ufficiali» è perché l'ideologia neoliberale, nonostante ami da sempre scagliarsi contro lo Stato, è proprio sullo Stato che ha surrettiziamente contato. Il fenomeno è stato particolarmente evidente durante la crisi del 2008, quando - come da indicazione degli ideologi neoliberali - gli Stati si sono precipitati in soccorso del sistema bancario. _______________ Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore? [...] Possibile che davvero non ci aspettino cambiamenti di sorta, che non rimarremo più spiazzati da quello che verrà? Ansie del genere tendono a produrre un'oscillazione bipolare: la speranza vagamente messianica che prima o poi qualcosa di nuovo dovrà pur succedere scivola nella tetra convinzione che niente di nuovo accadrà mai sul serio. Dalla next big thing, l'attenzione si sposta sull'ultima grossa novità: a quanto tempo fa risale, e quanto grossa era davvero? Ma forse tra le pieghe del film [scil. 'I figli degli uomini' di Alfonso Cuarón] è possibile intravedere un altro Eliot ancora: quello di 'Tradizione e talento individuale'. Fu in quel saggio che Eliot, anticipando Harold Bloom, descrisse la relazione reciproca tra canone e nuovo: il nuovo definisce se stesso come risposta a quanto è già stabilito; allo stesso tempo, quanto è già stabilito deve riconfigurarsi in risposta al nuovo. Secondo Eliot, l'esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata e modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura. [...] Nessun oggetto culturale conserva la propria potenza se non ci sono più nuovi sguardi a osservarlo.[...] Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale [...]. Nella conversione di pratiche e rituali in puri oggetti estetici, gli ideali delle culture precedenti diventano strumento di un'ironia oggettiva e si ritrovano trasformati in artefatti. In questo senso, il realismo capitalista non è semplicemente un particolare tipo di realismo; è più il realismo in sé e per sé. [...] Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine. Eppure proprio la trasformazione dell'ideale in estetica, del coinvolgimento attivo in spettatorialità, andrebbe considerata una delle virtù del realismo capitalista. [...] L'atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo. [...] «Viviamo in una contraddizione», ha osservato Badiou: «Ci viene presentato come ideale uno stato delle cose brutale e profondamente ingiusto, dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari. Per giustificare il loro conservatorismo, i partigiani dell'ordine costituito non possono davvero dire che questo stato sia meraviglioso o perfetto. E quindi hanno deciso di dire che tutto il resto è orribile». [...] Quando poi finalmente arriva, il capitalismo si accompagna a un'imponente desacralizzazione della cultura. È un sistema che non è più governato da alcuna Legge trascendente: al contrario, smantella tutti i codici trascendenti per poi ristabilirli secondo criteri propri. I limiti del capitalismo non sono fissati per decreto, ma definiti (e ridefiniti) pragmaticamente, improvvisando. _______________
In uno dei suoi passaggi più profetici Nietzsche parla di «un'era satura di storia». «Un'epoca incorre nella pericolosa disposizione intima dell'autoironia, e da essa in quella ancora più rischiosa del cinismo», si legge nelle 'Considerazioni inattuali'; un «carnevale cosmopolitico», ovvero una spettatorialità distaccata, avrà sostituito la partecipazione e il coinvolgimento. È la condizione dell'Ultimo Uomo nietzschiano: colui che ha visto tutto, ma che proprio l'eccesso di (auto)consapevolezza condanna all'indebolimento e alla decadenza. [...] È noto che Jameson definì il postmodernismo come la «logica culturale del tardo capitalismo»: il fallimento del futuro era per lui una parte integrante di quella cultura postmoderna che, come correttamente anticipò, sarebbe infine stata dominata dal pastiche e dal revival. [...] Il lavoro di Jameson sul postmodernismo iniziava con una messa in discussione dell'idea, cara ad Adorno e soci, che il modernismo possedesse un potenziale rivoluzionario in virtù soltanto delle sue innovazioni formali. Quello che invece Jameson aveva notato era l'assorbimento di temi modernisti all'interno della cultura popolare: pensiamo all'improvviso uso che delle tecniche surrealiste fece la pubblicità. Nello stesso momento in cui le forme peculiari del modernismo venivano assorbite e commercializzate, il credo modernista - la sua supposta fiducia nell'elitismo e il suo modello culturale monologico dall'alto verso il basso - venne messo in discussione e rigettato in nome della «differenza», della «diversità» e della «molteplicità». Il realismo capitalista non intrattiene più un confronto di questo tipo col modernismo: al contrario, dà per scontata la sconfitta del modernismo al punto che il modernismo stesso diventa un oggetto che può periodicamente tornare, ma solo come estetica congelata, mai come un ideale di vita. _______________
In Europa e negli Stati Uniti, per la maggior parte delle persone sotto i vent'anni l'assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l'orizzonte del pensabile. [...] Quella con cui ora abbiamo a che fare non è l'incorporazione di materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto la loro precorporazione: la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze. Prendiamo per esempio quelle aree culturali «alternative» o «indipendenti» che replicano senza sosta i vecchi gesti di ribellione e contestazione come se fosse la prima volta: «alternativo» e «indipendente» non denotano qualcosa di estraneo alla cultura ufficiale; sono semmai semplici stili interni al mainstream - o meglio sono, a questo punto, gli stili dominanti del mainstream. Nessuno ha incarnato (e sofferto) questo stallo più di Kurt Cobain: con la sua straziante inedia, con la sua rabbia senza scopo, il leader dei Nirvana sembrò l'esausta voce dell'avvilimento che attanagliava la generazione venuta dopo la fine della storia, la stessa generazione cui ogni singola mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e svenduta prima ancora di compiersi. [...] La morte di Cobain ribadì la sconfitta e l'incorporazione delle ambizioni utopico-prometeiche del rock. [...] In buona parte dell'hip hop ogni ingenua speranza che la cultura giovanile potesse cambiare qualcosa venne sostituita dalla testarda adesione a una versione brutalmente riduttiva della «realtà». [...] Nell'hip hop, scrive Reynolds, «"to get real" significa confrontarsi con quello stato di natura in cui cane mangia cane, dove o sei un vincente o sei un perdente, e dove i più sono condannati a perdere». _______________
Un film come 'Wall-E' esemplifica quella che Robert Pfaller ha chiamato «interpassività»: il film inscena il nostro anticapitalismo per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente. Il ruolo dell'ideologia capitalista non è quello di ribadire le proprie priorità allo stesso modo della propaganda, ma di celare il fatto che le operazioni del Capitale non dipendono da alcuna convinzione soggettivamente imposta. [...] Resta prezioso il consiglio di Žižek: «Se il concetto di ideologia è quello classico in cui l'illusione sta nella conoscenza, allora la società di oggi dà l'idea di essere post-ideologica: l'ideologia prevalente è il cinismo; le persone non credono più in nessuna verità ideologica; la gente non prende seriamente nessuna proposta ideologicamente connotata. Il livello fondamentale dell'ideologia, in ogni caso, non è quello di un'illusione che maschera il reale stato delle cose, quanto quello di una fantasia (inconscia) che struttura la nostra stessa realtà sociale. E a questo livello, siamo ovviamente tutto tranne che una società post-ideologica. Il cinico distacco è soltanto un modo di renderci ciechi di fronte al potere strutturale della fantasia ideologica: anche se non prendiamo le cose sul serio, anche se manteniamo una distanza ironica da quello che facciamo, continuiamo comunque a farlo». L'ideologia capitalista in generale, continua Žižek, consiste precisamente nella sopravvalutazione del «credo» inteso come atteggiamento interiore soggettivo, a spese di quanto professiamo ed esibiamo coi nostri comportamenti esteriori. Fintantoché, nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio, siamo liberi di continuare a partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo. _______________
...vista la sua [scil. del movimento anticapitalista] incapacità di ipotizzare un modello politico-economico alternativo al capitalismo, il sospetto fu che il suo obiettivo fosse non rimpiazzare il capitalismo stesso, quanto mitigarne gli eccessi peggiori; e visto che le forme in cui il movimento anticapitalista si è espresso prediligevano più la protesta che l'organizzazione politica vera e propria, la sensazione era che questo movimento si riducesse a una serie di richieste isteriche senza che nessuno si aspettasse che venissero accolte sul serio. Per il realismo capitalista, la contestazione è diventata una specie di burlesco rumore di fondo _______________ Rivendicare un'azione politica vera significa prima di tutto accettare di essere finiti nello spietato tritacarne del Capitale al livello del desiderio. Declassando il male e l'ignoranza a dei fantasmatici Altri disconosciamo la nostra complicità col sistema planetario dell'oppressione. Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione. [...] Il ricatto ideologico emerso sin dal primissimo Live Aid del 1985 si fonda sull'idea che «prendersi cura degli individui» possa direttamente mettere fine alla fame nel mondo, senza alcuna necessità di soluzioni politiche o ristrutturazioni sistemiche. Quello che conta è agire e basta, o almeno così ci spiegano: la politica va sospesa in nome dell'immediatezza etica. [...] La fantasia era che il consumismo occidentale, anziché essere parte integrante delle disuguaglianze che sistematicamente segnano il pianeta, potesse addirittura risolverle. Tutto quello che serve è comprare i prodotti giusti. _______________
È più un'atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l'educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l'azione. [...] L'unica maniera per mettere in discussione il realismo capitalista è mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente e indifendibile: insomma, ribadire che di «realista» il capitalismo non ha nulla. Inutile dire che quello che viene considerato «realistico», quello cioè che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è innanzitutto determinato da una serie di decisioni politiche. Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di aver raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto. Di conseguenza il neoliberismo ha cercato di eliminare la stessa categoria di principio, di valore nel senso etico della parola: nel corso di più di trent'anni il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di «ontologia imprenditoriale» per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all'educazione, andrebbe gestito come un'azienda. Come ricordato da tanti teorici radicali - siano essi Brecht, Foucault o Badiou - ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l'apparenza dell'«ordine naturale», deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano. _______________
«Il principio di realtà è esso stesso ideologicamente mediato; si potrebbe persino arrivare a sostenere che sia la forma più alta di ideologia, quella cioè che si presenta come fatto empirico, come necessità biologica o economica, e che tendiamo a percepire come non ideologica.» [Alenka Zupančič] _______________ Viene quindi da pensare che una prima strategia contro il realismo capitalista potrebbe partire dall'evocazione di quei «reali» che sottendono la realtà per come il capitalismo ce la presenta. Uno di questi è la catastrofe ambientale. [...] La relazione tra capitalismo e disastro ecologico non è né casuale né accidentale: la necessità di espandere costantemente il mercato e il feticcio della crescita stanno lì a significare che il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità. Tuttavia le questioni ecologiche sono già una terra di contesa, un luogo cioè dove per la politicizzazione si combatte. [...] La prima riguarda la salute mentale. [...] Quello di cui però abbiamo bisogno ora è una politicizzazione di disordini assai più comuni; anzi, è proprio il fatto che questi disordini siano diventati comuni che vale da solo la nostra attenzione. [...] Quello che dovremmo chiederci è: com'è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La «piaga della malattia mentale» che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l'unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l'impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto. L'altro fenomeno che vorrei evidenziare è la burocrazia. [...] La realtà è che, piuttosto che scomparire, la burocrazia ha cambiato aspetto, ed è proprio questo suo aspetto inedito e decentralizzato che le ha permesso di proliferare. Che la burocrazia persista anche nel tardo capitalismo non è in sé un segnale che il capitalismo non funzioni: semmai è la spia di come il modo in cui il capitalismo funziona davvero è molto differente dall'immagine che ne fornisce il realismo capitalista. Il motivo per cui ho deciso di concentrarmi su problemi mentali e burocrazia deriva in parte dal fatto che entrambi i fenomeni occupano un posto di primo piano in un'area della cultura dominata con sempre maggiore insistenza dagli imperativi del realismo capitalista: l'istruzione. _______________
Ora: io credo che non si tratti né di apatia, né di cinismo; piuttosto, è quella che chiamo impotenza riflessiva. Gli studenti cioè sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l'osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera. [...] Non è esagerato affermare che, nella Grand Bretagna tardo capitalista, il solo essere adolescenti rischia di equivalere a una forma di patologia. Una tale patologizzazione pregiudica qualsiasi possibilità di politicizzazione: privatizzare questi disturbi, trattarli come se fossero provocati da null'altro che qualche squilibrio chimico o neurologico dell'individuo, o come se fossero il semplice risultato del retroterra familiare, significa escludere a priori qualsiasi causa sociale sistemica. [...] In un saggio fondamentale come 'Poscritto sulle società di controllo' Gilles Deleuze distingue tra le società disciplinari descritte da Foucault - organizzate attorno ad ambienti chiusi come la fabbrica, la scuola e la prigione - e le nuove società del controllo, nelle quali tutte le istituzioni vengono integrate in un regime diffuso. Deleuze ha ragione quando individua in Kafka il profeta di quel potere diffuso e cibernetico che caratterizza le società del controllo. [...] Una conseguenza di questa forma «indefinita» di potere è che il controllo esterno viene garantito dalla sorveglianza interna: il controllo, cioè, funziona solo quando sei complice. Da qui viene la figura burroughsiana del control addict che dal controllo dipende, ma che anche, inevitabilmente, dal controllo viene posseduto e sottomesso. [...] Il sistema attraverso cui il college è finanziato fa sì che - anche qualora qualcuno intendesse farlo - non ci si possa letteralmente permettere di respingere uno studente. Le risorse allocate per i college si basano sia su quanto questi riescano a raggiungere obiettivi specifici (e quindi fanno testo i risultati degli esami), sia sul tasso di frequenza e di mantenimento degli studenti: questa combinazione di imperativi di mercato e quelli che burocraticamente vengono chiamati target è un tipico tratto dello «stalinismo di mercato» che attualmente regola i servizi pubblici. Per usare un eufemismo, l'assenza di un vero e proprio sistema disciplinare non è stata compensata da un aumento della motivazione degli studenti, anche perché questi sanno benissimo che possono pure non frequentare le lezioni per settimane intere, possono pure non svolgere alcun compito o lavoro, e non ci sarà comunque nessuna seria sanzione ad attenderli. A questa libertà gli studenti in genere reagiscono non dedicandosi a progetti propri, ma cedendo a un'inerzia edonistica (o anedonica): e cioè a uno stato di soffice narcosi, al confortevole oblio della Playstation, alle maratone notturne davanti alla televisione, alla marijuana. [...] Anche l'utilizzo degli auricolari è un particolare indicativo: la musica pop non viene vissuta per il suo potenziale impatto sullo spazio pubblico, ma relegata a «ediPodico» piacere consumistico e privato che ci trincera dalla socialità. [...]
Quella che oggi frequenta le aule scolastiche, è insomma una generazione emersa all'interno di una cultura astorica e segnata da interferenze antimnemoniche, per la quale il tempo è da sempre ripartito in microporzioni digitali. [...] Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell'essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata. Allo stesso modo, in molti casi quella che chiamiamo dislessia altro non è che post-lessia: gli adolescenti processano dati densamente affollati di immagini senza alcun bisogno di saper leggere davvero; il riconoscimento degli slogan è tutto quello che serve per navigare il piano dell'informazione online e mobile. [...] Chiamati a mediare tra la soggettività post-alfabetizzata del consumatore tardo capitalista e le richieste del regime disciplinare (esami da superare e così via), gli insegnanti sono stati a loro volta sottoposti a una pressione incredibile; e questo è solo uno dei modi attraverso cui l'istruzione, lungi dall'essere quella torre d'avorio al riparo dal mondo reale, si trasforma in motore per la riproduzione della realtà sociale, scontrandosi direttamente con le contraddizioni della società capitalista. Gli insegnanti si ritrovano intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori e quello di disciplinatori autoritari: vorrebbero aiutare gli studenti a passare gli esami, ma gli viene anche chiesto di incarnare l'autorità, di imporre dei doveri. Dal punto di vista degli studenti, l'identificazione degli insegnanti come figure autoritarie esaspera il problema della «noia», se non altro perché qualsiasi prodotto dell'autorità è noioso a priori. Ironicamente, dagli insegnanti si esige più che mai una funzione di disciplinatori nello stesso esatto momento in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi; mentre le famiglie cedono alle pressioni di un capitalismo che obbliga entrambi i genitori a lavorare, agli insegnanti viene chiesto di comportarsi come surrogati dell'istituzione familiare: sono loro che devono instillare negli studenti i protocolli comportamentali base, sono loro che devono provvedere alla guida e al sostegno emotivo di quegli adolescenti che, in non pochi casi, ancora non sanno come socializzare. [...]
Presi assieme, gli immobilisti (con la loro ammissione implicita che il capitalismo non potrà mai essere rovesciato, e che nei suoi confronti non si può tentare altro che opporre resistenza) e i comunisti liberali (per i quali gli eccessi immorali del capitalismo vanno temperati dalla filantropia e dalla beneficenza) danno il senso di come le potenzialità politiche dell'oggi siano circoscritte proprio dal realismo capitalista. [...] Ad ogni modo, resistere al «nuovo» non è una causa che la sinistra possa o debba abbracciare. Il Capitale è stato molto attento e scrupoloso quando si è trattato di ragionare su come mandare in frantumi la vecchia classe operaia; mentre dall'altra parte altrettanta riflessione non c'è stata né su quali tattiche adottare sotto il postfordismo, né su quale nuovo linguaggio sviluppare per far fronte alle condizioni che lo stesso postfordismo impone. Mettere in discussione l'appropriazione capitalista della categoria del «nuovo» è importante; ma al tempo stesso rivendicare il «nuovo» non può significare adattarsi alle condizioni in cui già ci troviamo: in quello siamo già riusciti benissimo, e sappiamo bene che «riuscire ad adattarsi con successo» è la principale strategia dell'ideologia manageriale. [...] Il modello immobilista, quello che si riduce a chiedere di conservare il vecchio regime fordista/disciplinare, non potrà mai funzionare nei paesi in cui il neoliberismo è già riuscito a imporsi. _______________
È una condizione ben riassunta dallo slogan «niente è a lungo termine»: se in passato i lavoratori potevano acquisire un singolo bagaglio di capacità e da lì aspettarsi di progredire verso l'alto sui binari di una rigida gerarchia organizzativa, adesso ai lavoratori viene richiesto di apprendere periodicamente capacità nuove, a seconda di come si muovono da un'organizzazione all'altra, da un ruolo all'altro. E dal momento che l'organizzazione del lavoro viene decentralizzata, e che le vecchie gerarchie piramidali vengono sostituite da nuove reti trasversali, a essere premiata è la «flessibilità». [...] I valori da cui la vita in famiglia dipende - riconoscenza, fiducia, impegno - sono precisamente gli stessi che il nuovo capitalismo ritiene obsoleti. Eppure, visti gli attacchi che vengono portati alla sfera pubblica e lo smantellamento di quelle reti di sicurezza a suo tempo garantite dal vecchio «Stato assistenziale», proprio la famiglia viene sempre più identificata come un rifugio dalle pressioni di un mondo costantemente segnato dall'instabilità. La situazione in cui versa la famiglia nel capitalismo postfordista è contraddittoria nello stesso modo in cui aveva previsto il marxismo tradizionale: il capitalismo ha bisogno della famiglia (in quanto strumento essenziale per la riproduzione e la cura della forza lavoro; perché allevia le ferite psichiche inferte da condizioni socioeconomiche fuori controllo), eppure contemporaneamente ne mina le fondamenta (impedendo ai genitori di trascorrere tempo con i propri figli; alimentando la tensione di coppia nel momento in cui i partner diventano l'unica fonte di consolazione affettiva reciproca).
[...] Questa flessibilità è stata a sua volta definita da una deregolamentazione del Capitale e del lavoro, che ha portato a una crescente esternalizzazione e precarizzazione della manodopera e a un sempre maggior numero di lavoratori impiegati su base temporanea. [...] Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta (o «precarietà», come da orribile neologismo). Periodi in cui lavori si alternano a periodi in cui sei disoccupato. Costretto a una fila infinita di impieghi a breve termine, non riesci a pianificare un futuro. Sia Marazzi che Sennett fanno notare come lo sgretolamento del modello fondato sul lavoro stabile sia stato in parte motivato dalle aspirazioni dei lavoratori stessi: erano in effetti proprio i lavoratori che, giustamente, non ne volevano più sapere di lavorare per quarant'anni dentro la stessa fabbrica. A sua volta, il Capitale ha sollecitato e metabolizzato il desiderio di emancipazione dalla routine fordista, spiazzando in questo modo una sinistra che da allora per molti versi non si è più ripresa. [...]
Oggi l'orizzonte dell'antagonismo non sta più all'esterno, vale a dire nel confronto tra blocchi sociali; è semmai tutto interno alla psicologia del lavoratore, che da una parte resta coinvolto nel vecchio conflitto tra classi, mentre dall'altra è interessato a massimizzare i profitti dei propri investimenti in vista del fondo pensione. E se non c'è più un nemico esterno identificabile, la conseguenza è che - come nota ancora Marazzi - sotto il postfordismo i lavoratori assomigliano agli ebrei che nel Vecchio Testamento lasciano la «casa di schiavitù»: liberi da una prigionia verso la quale non provano nostalgia alcuna, ma anche abbandonati, persi nel deserto, confusi sul da farsi. Il conflitto scatenato nella psiche degli individui non può che produrre vittime; Marazzi analizza il legame tra postfordismo e aumento dei casi di sindrome bipolare: da questo punto di vista, se la schizofrenia è - come ricordano Deleuze e Guattari - la condizione che segna il limite esterno del capitalismo, allora il disturbo bipolare è la malattia mentale che del capitalismo segna l'«interno». Di più: coi suoi incessanti cicli di espansione e crisi, è il capitalismo stesso a essere profondamente e irriducibilmente bipolare, periodicamente oscillante tra stati di eccitazione incontrollata (l'esuberanza irrazionale delle «bolle») e crolli depressivi (l'espressione «depressione economica» non è evidentemente casuale). Il capitalismo nutre e riproduce gli umori della popolazione a un livello che nessun altro sistema sociale ha mai sfiorato: senza delirio e senza fiducia in se stesso, non saprebbe proprio come funzionare. [...] In particolar modo, James si sofferma sul modo in cui il capitalismo egoista istiga all'idea che qualsiasi aspirazione o aspettativa possa essere realizzata: [...]
«Le tossine più nocive del capitalismo egoista, sono quelle che sistematicamente incoraggiano l'idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza. Se poi non riesci, l'unico da biasimare sei tu». [...] L'ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un'individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci). _______________
È una dimostrazione pratica di come creatività ed espressione personale siano diventati strumenti di lavoro essenziali in una società del controllo che - come ricordato dai vari Paolo Virno e Yann Moulier-Boutang - dai lavoratori pretende un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo; persino il grossolano tentativo di quantificare il contributo affettivo degli impiegati è rivelatore. [...] Abbastanza non è più abbastanza. È una sindrome che suonerà familiare a quei tanti lavoratori per i quali una valutazione «sufficiente» delle proprie prestazioni, non è più… sufficiente. In molte strutture educative, se ad esempio la classe valuta come sufficiente il lavoro del proprio insegnante, quest'ultimo viene obbligato a intraprendere un corso di formazione prima che gli venga riassegnato un posto. Che le misure burocratiche si siano intensificate sotto un regime neoliberale che si presenta come antiburocratico e antistalinista potrebbe dapprima sembrare un mistero. Eppure ad aver proliferato è una nuova burocrazia fatta di «obiettivi» e di «target», di «mission» e di «risultati», e questo nonostante tutta la retorica neoliberale sulla fine della gestione top-down. [...]
E invece l'enfasi sulla valutazione prestazionale dei lavoratori, così come la spinta a quantificare forme di lavoro che per loro natura sono refrattarie a qualsiasi quantificazione, ha inevitabilmente prodotto ulteriori livelli di burocrazia e amministrazione. Quello che ci troviamo di fronte non è un raffronto diretto tra prestazioni o risultati, ma tra la rappresentazione (debitamente quantificata) di quelle prestazioni e di quei risultati. È ovvio che a questo punto si produce un cortocircuito: il lavoro viene predisposto alla produzione e alla manipolazione proprio di quelle rappresentazioni, anziché attrezzato per gli obiettivi ufficiali del lavoro vero e proprio. [...] Questa inversione delle priorità è uno dei tratti distintivi di un sistema che possiamo tranquillamente definire «stalinismo di mercato». Dello stalinismo, il capitalismo riprende proprio questo suo attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l'effettiva concretezza del risultato in sé. [...] In una strana coazione a ripetere, i governi britannici del New Labour - in apparenza, il massimo dell'antistalinismo - hanno dimostrato la stessa tendenza all'applicazione di interventi i cui effetti nel mondo reale contano solo fintantoché possono essere spesi in termini di «comunicazione». Un tipico esempio sono i fantomatici target di cui il New Labour era così entusiasta: seguendo un processo che tende a replicarsi con ferrea prevedibilità ovunque prenda piede, questi target smettono in fretta di essere uno strumento per la misurazione delle performance, e diventano invece dei fini a sé.
[...] Sarebbe comunque un errore interpretare lo stalinismo di mercato come una specie di deviazione dallo «spirito autentico» del capitalismo. Al contrario: è più giusto dire che la vera essenza dello stalinismo è stata inibita dal rapporto con un progetto politico quale il socialismo, mentre è solo in una cultura tardo capitalista che riesce a emergere a pieno. Nel tardo capitalismo, d'altronde, le immagini acquisiscono una forza autonoma: nel mercato azionario il valore viene generato non tanto da quello che una compagnia produce per davvero, quanto dalla fiducia nelle sue performance future, o perlomeno dalle sensazioni che circolano a riguardo. Mettiamola così: nel capitalismo tutto ciò che è solido si dissolve nelle public relations. [...] Un'altra dimensione importante del Grande Altro è che non conosce tutto: al contrario, è proprio questa ignoranza costitutiva del Grande Altro che permette alle public relations di funzionare. [...] Ma la distinzione tra quello che il Grande Altro sa - e cioè quello che è ufficialmente accettato - e quello che viene comunemente sperimentato dagli individui in carne e ossa, è tutto tranne che formale o vuota: è anzi proprio questa discrepanza che permette alla realtà sociale «ordinaria» di funzionare. E quando viene meno l'illusione che il Grande Altro non sappia, a disintegrarsi è la struttura immateriale che tiene assieme il sistema sociale. [...]
Allo stesso modo, non esiste alcuna tendenza progressiva allo «svelamento» del capitalismo, nessuna graduale messa a nudo di quello che il capitalismo davvero è: rapace, indifferente, inumano. Al contrario: il ruolo essenziale che nel capitalismo giocano quelle «trasformazioni incorporee» messe in atto dalle campagne di public relations, dal marketing e dalla pubblicità, suggerisce che, per funzionare efficacemente, la brama del capitalismo si affida a varie forme di copertura. [...] Ma i supposti gesti di demistificazione del postmodernismo non sono un segno di sofisticatezza: piuttosto denotano una certa ingenuità, la convinzione che una volta, nel passato, ci fosse davvero qualcuno che nel Simbolico ci credeva. In realtà, l'efficienza simbolica è stata ottenuta proprio mantenendo una distinzione chiara tra la causalità di tipo empirico-materiale, e la causalità incorporea del Simbolico. [...] «È il paradosso che Lacan sottolinea nel suo 'Les non-dupes errent': le persone che si affidano solo a quanto vedono di persona, le persone che non si lasciano raggirare dall'inganno e dalla finzione del simbolico, sono le persone che sbagliano di più. Un cinico che crede solo a quanto vede «coi propri occhi», non coglie l'efficienza della finzione simbolica e come questa struttura la nostra esperienza della realtà» [Žižek]. Buona parte del lavoro di Baudrillard ragiona sullo stesso tema: il modo in cui la fine del Simbolico porta non a un confronto diretto con il reale, ma a una specie di emorragia del reale stesso.
[...] Nello stesso momento in cui sembra che venga catturata nella maniera più cruda possibile, ecco che la realtà si trasforma in quella che Baudrillard chiama, con un neologismo troppo spesso frainteso, «iperrealtà». In un riflesso straniante delle tesi baudrillardiane, i reality show televisivi hanno finito addirittura per fondere tecniche-verità e sondaggismo d'opinione. In programmi del genere esistono in effetti due livelli di realtà: la «vita vera» e fuori copione dei concorrenti in tv, e le reazioni imprevedibili degli spettatori a casa (che a loro volta condizionano il comportamento dei concorrenti). Tuttavia la reality tv è continuamente perseguitata dal dubbio dell'illusione e della finzione: e se i concorrenti stessero segretamente recitando, reprimendo alcuni aspetti della loro personalità in modo da risultare più appetibili al pubblico? E poi i voti degli spettatori: vengono accuratamente registrati, o dietro c'è qualche forma di accordo, di intesa nascosta? [...]
Il motivo per cui Kafka è un prezioso commentatore del totalitarismo è perché rivela che c'è una dimensione del totalitarismo che non si riduce al dispotismo, e che quindi non può essere compresa come tale. [...] Possiamo pensare all'assillo della quantificabilità come a una fusione tra relazioni pubbliche e burocrazia: quasi sempre i dati burocratici assolvono a una funzione promozionale, come nel caso dei risultati delle prove d'esame che, nel sistema educativo, vengono impiegati per aumentare (o diminuire) il prestigio dei singoli istituti. Per gli insegnanti, a essere frustrante è la sensazione che il loro lavoro sia sempre più orientato a impressionare il Grande Altro che colleziona e consuma questi «dati» [...]. La nuova burocrazia non è più una funzione delimitata e specifica portata avanti da determinate figure professionali, ma invade ogni area del lavoro col risultato che - come pronosticato da Kafka - i lavoratori diventano i controllori di se stessi, obbligati a valutare le proprie stesse prestazioni. [...] Per Foucault non c'è alcun bisogno che il ruolo della sorveglianza sia effettivamente ricoperto da qualcuno: il non sapere se si è controllati o meno produce come effetto l'introiezione dell'apparato di controllo, così che finirai per comportarti come se fossi sempre sotto osservazione. _______________
Un tempo «essere realistici» significava forse fare i conti con una realtà percepita come solida e inamovibile: ma il realismo capitalista comporta che ci sottoponiamo a una realtà infinitamente plastica, capace di riconfigurarsi come e quando vuole. Dinanzi a noi c'è quello che Jameson - nel suo saggio 'The Antinomies of Postmodernity' - chiama «un presente puramente fungibile in cui sia la psiche che lo spazio possono essere processati e ricostruiti secondo necessità». Qui la «realtà» assomiglia alle infinite opzioni di un documento digitale, dove nessuna decisione è definitiva, le revisioni sono sempre possibili, e ogni attimo pregresso può essere richiamato in qualsiasi momento. [...]
È una forma di sconfessione e disconoscimento che dipende da quella distinzione tra atteggiamento soggettivo interiore e comportamenti esteriori di cui abbiamo già parlato: il dirigente poteva pur essere interiormente ostile (se non addirittura sprezzante) nei confronti delle procedure burocratiche da lui supervisionate; ma esteriormente, era perfettamente compiacente. Il trucco è che è proprio il disinvestimento soggettivo dagli adempimenti contabili che permette ai lavoratori di prestarsi a mansioni tanto inutili e demoralizzanti. [...]
La strategia di accettare senza domande l'incommensurabile e l'insensato è da sempre la tecnica sui cui regge la sanità mentale in quanto tale; ma nel tardo capitalismo - quell'«impasto informe di tutto quanto è già stato» in cui l'invenzione e la rottamazione delle finzioni sociali è tanto rapida quanto la produzione e lo smaltimento delle merci - è una tecnica che gioca un ruolo speciale. In una tale condizione di precarietà ontologica, dimenticare diventa una strategia di adattamento. [...] Da una parte, questa è una cultura che privilegia unicamente il presente e l'immediato: la rimozione del pensiero a lungo termine si estende non solo in avanti nel tempo, ma anche indietro (basti pensare a quelle storie che monopolizzano l'attenzione dei media per una settimana al massimo, per poi essere istantaneamente dimenticate); dall'altra, è una cultura piagata da un eccesso di nostalgia, schiava della retrospezione e incapace di dare vita a qualsivoglia novità autentica. [...] Come spiega in 'The Antinomies of Postmodernity': «Il paradosso da cui dobbiamo partire è l'equivalenza tra la quantità di immani cambiamenti a tutti i livelli della nostra vita sociale e l'altrettanto impareggiabile standardizzazione di tutto quanto appaia incompatibile con tali cambiamenti, si tratti di sentimenti, beni di consumo, linguaggio, architettura... [...] Di conseguenza, quello che cominciamo a percepire - e quello che sta emergendo come un profondo tratto costitutivo della stessa postmodernità, quantomeno nella sua dimensione temporale - è che d'ora in poi, laddove tutto si presta al continuo succedersi di mode e rappresentazioni mediatiche, nessun cambiamento sarà più possibile». [...]
Incapacità di produrre ricordi nuovi: eccola, la formulazione essenziale dell'impasse postmoderna. [...] Brown nota come, sebbene mossi da impostazioni tra loro diversissime, neoliberali e neoconservatori abbiano collaborato ai fini di un indebolimento della sfera pubblica e della democrazia, partorendo un cittadino assoggettato che cerca le soluzioni non nei processi politici, ma nei prodotti. Come spiega Brown: «[...] Gli intellettuali della scuola di Francoforte (e prima ancora Platone) hanno teorizzato l'aperta compatibilità tra scelta individuale e assoggettamento politico, descrivendo soggetti democratici capaci di accettare forme di tirannia politica e di autoritarismo proprio perché rapiti da una sfera di scelta e soddisfazione del bisogno che scambiano per libertà.» [...] E però, nonostante tutta la sua retorica antistatalista, a ben guardare il neoliberismo non è contrario allo Stato in sé (come abbiamo già ricordato a proposito degli aiuti bancari del 2008), quanto ad alcuni particolari utilizzi delle sue risorse. Nel frattempo, lo Stato forte tanto caro ai neoconservatori è stato confinato alle funzioni militari e di polizia, in diretta antitesi a uno Stato sociale accusato di minare la responsabilità morale degli individui. _______________
Letteralmente fatto a pezzi da neoliberali e neoconservatori, il concetto di Stato-balia continua nondimeno a rappresentare per il realismo capitalista un'autentica ossessione. Meglio ancora: per il realismo capitalista lo spettro dello Stato assistenziale gioca un'imprescindibile funzione libidinale: sta lì per essere biasimato proprio per i suoi fallimenti nell'accentramento del potere, [...] È il risultato di una prolungata ostilità nei confronti dello Stato-balia che - allo stesso tempo - si accompagna al rifiuto di accettare le conseguenze della marginalizzazione dello Stato nel capitalismo globale: il segno, forse, che al livello dell'inconscio politico resta impossibile accettare che non ci siano più controllori, e che la cosa più simile che abbiamo oggi a un potere decisionale sono null'altro che interessi nebulosi e incomprensibili, esercitanti a loro volta una forma di irresponsabilità aziendale-imprenditoriale. [...]
Questa forma di disconoscimento interviene in parte perché l'assenza di un vero centro nel capitalismo globale è drasticamente impensabile: nonostante le persone vengano ora interpellate in qualità di consumatori (e come Wendy Brown e altri hanno dimostrato, il governo stesso viene presentato come una specie di bene di consumo o di servizio), queste non possono ancora fare a meno di immaginarsi in qualità di cittadini (o se non altro, di pensarsi come se lo fossero). [...] L'esperienza del call center è un distillato della fenomenologia politica tardo capitalista: la noia e la frustrazione accentuate da campagne promozionali allegramente pompate; la continua ripetizione degli stessi tediosi dettagli da dare in pasto a operatori poco qualificati e male informati; l'irritazione montante ma condannata a restare impotente perché priva di un oggetto concreto, visto che - come chi si rivolge a un call center impara in fretta - nessuno sa niente e nessuno può nulla. La rabbia può tuttalpiù limitarsi allo sfogo, all'attacco a vuoto, all'aggressione nei confronti di un tuo simile, vittima anch'egli del sistema ma nei confronti del quale non è possibile alcuna comunanza solidale. E così come la rabbia non ha oggetto, non avrà nemmeno effetto. È nell'esperienza di un sistema tanto impersonale, indifferente, astratto, frammentario e senza centro, che più ci avviciniamo a guardare negli occhi tutta la stupidità artificiale del Capitale. [...]
Quello che Jameson descrive è il mortificante guscio protettivo della struttura corporate: che rasserena e ti mette al sicuro, che svuota e allontana chi sta sopra di te, che garantisce che la loro attenzione sia sempre altrove e che non ti possano sentire. [...] È qui che la struttura diventa palpabile: riesci praticamente a vederla mentre si impossessa delle persone; attraverso le loro parole, senti la struttura coi suoi deprimenti e insensibili verdetti. È per questa ragione che è un errore precipitarsi a imporre quella responsabilità etica individuale dirottata dalla struttura corporate; questa è la «tentazione etica» che, come nota Žižek, il sistema capitalista ha utilizzato per proteggersi in scia alla crisi creditizia: le colpe vengono fatte ricadere su quegli individui apparentemente patologici che «abusano del sistema», anziché sul sistema stesso. Solo che tanta elusività segue in realtà un doppio metodo: la struttura viene effettivamente invocata (e anche spesso), sia implicitamente che esplicitamente, quando c'è la possibilità che a essere puniti siano gli individui che alla struttura appartengono. Per farla breve: a un certo punto, le cause di abusi e orrori diventano improvvisamente così sistemiche, così diffuse, che nessun individuo può esserne considerato responsabile [...].
Da una parte quindi solo gli individui possono essere considerati eticamente responsabili per le proprie azioni; dall'altra le cause degli abusi e degli errori sono «di sistema». Questa impasse però non è una semplice dissimulazione: al contrario, indica precisamente cos'è che nel capitalismo viene meno. Quale organismo è in grado di regolare e controllare una struttura impersonale? Com'è possibile sanzionare una struttura corporate? _______________
La domanda concreta a questo punto è: se un ritorno al super-ego paterno (che sia il padre severo che domina in casa, o l'arroganza paternalista della vecchia televisione di Stato) non è possibile né desiderabile, come possiamo superare quel conformismo culturale monotono e moribondo partorito dal rifiuto di tutto quanto suoni come una sfida, uno stimolo, finanche un'educazione? [...] Come Burroughs, Spinoza dimostra che la condizione di assuefazione e dipendenza non è un'anomalia, ma la condizione ordinaria dell'essere umano, che viene regolarmente asservito a comportamenti reattivi e ripetitivi da immagini congelate (di se stesso e del mondo). La libertà, dice Spinoza, può essere conquistata solo nel momento in cui apprendiamo le cause reali delle nostre azioni, solo cioè quando siamo in grado di accantonare le «passioni tristi» che ci intossicano e ci ipnotizzano. Non c'è dubbio che il tardo capitalismo articoli molte delle sue imposizioni ricorrendo al fascino di un particolare tipo di «salute» [...]. Quello che ci troviamo davanti è semmai un modello riduttivo ed edonista di salute, tutto centrato sullo «stare bene» per «apparire bene». [...]
«La tv adesso non ti dice più cosa devi pensare, ma cosa devi sentire. [...] Davvero, non è tanto un sistema di orientamento morale, quanto emotivo. [...] Quello di cui la gente soffre è l'essere rinchiusi in se stessi: in un mondo plasmato sull'individualismo, ogni individuo è intrappolato nei propri sentimenti, nelle proprie fantasie, nel proprio "sé"» [Adam Curtis]. [...] Curtis se la prende con internet perché, nella sua visione, favorisce le comunità di solipsisti, reti interpassive formate da individui simili che, anziché mettere in discussione i rispettivi assunti e pregiudizi, non fanno che confermarli. Sono comunità che, piuttosto che confrontare i diversi punti di vista in uno spazio pubblico e di contesa, si trincerano in circuiti chiusi. Per Curtis, l'impatto che sui vecchi media hanno avuto internet e i suoi gruppi di pressione è disastroso: non solo perché la sua proattività reattiva permette al sistema dei media di chiamarsi ulteriormente fuori dalla funzione educativa, ma anche perché alimenta le correnti populiste sia di destra che di sinistra, nonché il diritto di «obbligare» i produttori a rifugiarsi in una programmazione mediocre e anestetizzante.
[...] Ma è anche vero che la simulazione interpassiva della partecipazione tipica dei media postmoderni e il narcisismo online di Facebook, e prima ancora di MySpace, hanno perlopiù generato contenuti ripetitivi, parassitari e conformisti. Ironicamente, il rigetto da parte del sistema mediatico di qualsiasi sospetto di paternalismo non ha prodotto alcuna cultura «dal basso» di eccitante varietà; ha solo partorito una cultura che più passa il tempo più si ritrova infantilizzata. Di contro, a trattare il pubblico in maniera adulta è proprio la cultura paternalista, se non altro perché parte dal presupposto che gli spettatori siano in grado di fare i conti con prodotti culturali complessi e intellettualmente impegnativi. Il motivo per cui focus group e sistemi di feedback capitalisti non riescono nei loro obiettivi, persino quando da lì prendono vita prodotti di immensa popolarità, è che le persone non sanno cosa vogliono; e non perché in loro il desiderio c'è già, solo che gli viene occultato (anche se spesso di questo si tratta); piuttosto, è che le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l'inaspettato, il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti e professionisti dei media preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che sono pronti ad assumersi un certo rischio. La super-tata marxista non sarebbe soltanto quella che stabilisce i limiti, che agisce nei nostri interessi quando noi non siamo in grado di riconoscerli, ma anche quella che questo rischio se lo assume, che scommette sullo strano e sulla nostra brama per ciò che non conosciamo. L'altra ironia è che la «società del rischio» capitalista è assai meno incline ad assumersi rischi di quanto non lo fosse la cultura del dopoguerra, così apparentemente pesante e centralizzata. [...]
L'effetto dell'instabilità strutturale permanente, della fine della visione «di lungo corso», non può che essere stagnazione e conservazione, altro che innovazione. E questo non è un paradosso. Lo suggeriva già Adam Curtis nelle osservazioni riportate sopra: i sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all'impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l'eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che già hanno avuto successo. [...] Quello che serve è legare l'effetto alla sua causa strutturale. Contro l'allergia postmoderna alle grandi narrazioni dobbiamo riaffermare che, anziché trattarsi di problemi contingenti e isolati, sono tutti effetti di un'unica causa sistemica: il Capitale. Dobbiamo insomma cominciare, come se fosse la prima volta, a sviluppare strategie contro un Capitale che si presenta ontologicamente (oltre che geograficamente) ubiquo. [...]
Quello che oggi appare chiaro è che se il neoliberismo non poteva che essere realista capitalista, il realismo capitalista non ha invece alcun bisogno di essere neoliberale. Anzi: ai fini della propria salvaguardia il capitalismo potrebbe benissimo riconvertirsi al vecchio modello socialdemocratico, oppure a un autoritarismo in stile 'I figli degli uomini'. Senza un'alternativa coerente e credibile al capitalismo, il realismo capitalista continuerà a dominare l'inconscio politico-economico. [...] Siamo adesso in un panorama politico disseminato di quelli che Alex Williams ha chiamato «detriti ideologici»; è un nuovo anno zero, e c'è spazio perché emerga un nuovo anticapitalismo non più costretto dai vecchi linguaggi e dalle vecchie tradizioni. [...] Non esiste niente che sia innatamente politico: la politicizzazione richiede un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una messa-in-palio. Se il neoliberismo ha trionfato assorbendo i desideri della classe operaia post-sessantottesca, allora una nuova sinistra potrebbe cominciare dal lavoro su quei desideri che il neoliberismo ha generato, ma che è incapace di soddisfare. Ad esempio, la sinistra dovrebbe rivendicare la sua capacità di riuscire in quello in cui il neoliberismo ha fallito per primo: una massiccia riduzione della burocrazia. Serve una nuova battaglia sul lavoro e su chi lo controlla [...]. Resta aperta la questione se le vecchie strutture (come i sindacati) saranno in grado di coltivare una simile soggettività, o se piuttosto non avremo bisogno di organizzazioni politiche radicalmente nuove.
Mark Fisher, Realismo capitalista
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universojedi · 4 months
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clubjacksonvss · 4 months
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der-papero · 1 year
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@getzunami ha scritto:
[...] Come fai a evitare di stabilire una definizione (quale che sia) di intelligenza, proponendo domande simili? [...]
[...] il web è in buona sostanza l’enorme pattumiera semiotica di un’umanità sempre più narcisisticamente ossessionata da se stessa e dalla propria produzione simbolica, una pattumiera che funziona sempre più come riciclatore automatico delle stesse escrezioni.
Quella che vedi non è intelligenza. L’intelligenza è profondamente calata e incorporata nel mondo attraverso canali e innervazioni che sono ben’altra cosa rispetto alla capacità di manipolare simboli e registri semiotici. Canali come il dolore, o la morte, o la paura. Che senso può avere per una macchina cognitiva il concetto di dolore? Puoi forse istruirla dicendole che è un parametro numerico? Che >0 vuol dire “stare bene” e <0 vuol dire “stare male”. Lo senti anche tu che qualcosa non torna, non sta in piedi. lo senti, perché essendo un essere vivente, hai una comprensione IMMEDIATA di cosa significa soffrire. Come diceva Jeremy Bentham non dovremmo chiederci se un ente pensa o non pensa; ciò che dovrebbe costituire l’unica, reale differenza è se soffre o non soffre.
Quella che vediamo all’opera nei vari chatbot e compagnia cantante non è intelligenza, è manipolazione semiotica alla decima potenza. Solo questo. Ma siccome nella nostra civiltà è la cosa che ormai conta di più sapere fare – anzi, è rimasta veramente l’unica cosa che conti, quando vediamo qualcosa che lo fa meglio di noi, il primo narcisistico, onanistico impulso è dichiarare che esso è come noi. E poi, ovviamente, meglio di noi. No, non lo è. Quel che stiamo vedendo è in realtà solo il classico, vecchio, effetto Eliza mischiato con l’altrettanto classico effetto stanza cinese. [...]
Innanzitutto mi scuso se ho preso i tuoi commenti, li ho tagliati e inseriti in questo post, ma non avevo un'altra formula, 16 commenti erano davvero tanti, per chi fosse interessato a leggere tutto il testo lo può trovare tra i commenti finali del post
https://www.tumblr.com/der-papero/715399649917321216/un-nuovo-razzismo?source=share
Il mio punto di vista diverge dal tuo, e si divide in due parti, uno che non c'entra nulla con la AI, e che avrei potuto pure raccontarti nel 1800, ben prima di Turing, e l'altro invece collegato alla AI, che spiega il mio concetto di equivalenza. Ed è allo stesso tempo una opportunità per usare la mia nuova tavoletta grafica 😍.
Giusto per portare un po' di acqua al mio mulino, tengo a sottolineare il fatto che non c'è alcun onanismo da parte mia (preferisco esercitarlo in altre forme), io non faccio il tifo per le macchine, valuto i sistemi per quello che sono, e mi faccio delle domande sulla loro evoluzione. Se poi la narrazione si accompagna ad una certa "eccitazione" nella scoperta, è un semplice derivato della mia pessima programmazione neuronale, di cui mi vanto pure, ci mancherebbe. Bon, fatto contento il mio avvocato, andiamo subito al pezzo.
Nella prima parte del mio pensiero, quello senza AI, ti dico che, senza girarci troppo intorno, tu hai alla base due tipi di modelli. O accetti che il nostro cervello (inteso come tutto il nostro sistema nervoso che processa input) è un grumo di oggetti (scusate l'estrema semplificazione) che parlano tra loro tramite impulsi elettrici, e su questo grigiume elettrico ci costruisci tutto quello che hai scritto, ma anche di più, l'io, la coscienza, il dolore, la semantica, il significato, la paura, il dolore, quello che te pare, oppure lo devi affiancare con "altro", ovvero un qualcosa al di fuori del cervello, un qualcosa che non fa parte del pensiero, ma che lo condiziona e lo guida, se non sostituisce in alcuni casi (esempi: anima, spirito, alieni che ci controllano da un'altra galassia, Matrix, etc.).
In pratica, o la busta 1 o la 2.
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(sentite, l'ho comprata due settimane fa, ho dovuto pure piegare il connettore perché era storto, nun ve lamentate, e mi sono pure accorto che ho scritto la parola INPUT al posto di MONDO ESTERNO, ma mi scoccio di rifare la figura, sorry).
Se scegli la busta 2, il post finisce qui, e anche il nostro confronto. Ovviamente non è lo scenario nel quale credo, ma è uno scenario onesto, nel senso che, utilizzando un qualcosa che io definisco metafisico ma ci siamo capiti, giustifichi tutta una serie di realtà, che poi ci definiscono "esseri unici", nel senso che nessuna AI potrà mai generare quel ALTRO, e allora possiamo tornare ognuno a casa sua, farci una birra e costruire tutte le argomentazioni filosofiche e sociali di questo mondo, tanto quel mattone ausiliario extra-cervello regge tutto, qualsiasi discussione ci inventiamo. Però bada bene alla posizione! ALTRO affianca il cervello, non ne fa parte, ovvero non è quella parte di cervello che non capiamo come funziona, è un oggetto proprio al di fuori della nostra composizione fisico-chimica.
Se invece scegli la busta 1, allora ti spiego perché ho iniziato a ipotizzare una equivalenza tra AI e intelligenza umana.
Una nota: filosofi come John Searle e company, ai miei occhi, sono solo dei grandissimi paracula. Scelgono la busta 1 (o meglio, fanno finta di scegliere la busta 1) e, giocando sul fatto che non sappiamo come il nostro sistema neuronale riesca a passare da una combinazione non lineare di impulsi elettrici e attivazioni di neuroni alla formazione di pensieri complessi, si inventano robe come simboli, significato, intenzionalità, che, per carità, hanno assolutamente senso nello studio della comunicazione e dell'essere umano, ma che, calati nella combinazione non lineare di input di cui sopra, non sono altro che nostre sovrastrutture conseguenti alle relazioni tra simboli che riusciamo a costruire. Ti arrivo a dire che, rispetto a questi, preferisco quei due ragazzi mormoni che ho incontrato sul fiume, almeno loro una posizione onesta (ma non condivisibile) ce l'hanno.
Bon, hai scelto la pillola ros ... ehm, la busta 1. Allora andiamo avanti, e parliamo di equivalenza della AI, ma prima parliamo di una roba che non c'entra un cass, ovvero elettrotecnica.
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Un ingegnere francese di nome Thévenin definì una cosa che Helmholtz aveva già espresso, ovvero che io posso sostituire un circuito lineare complesso quanto vuoi con una semplice batteria e una resistenza, e il comportamento ai punti A e B è identico (spiegato in modo molto spicciolo, eh). In pratica, io posso sostituire una mancata conoscenza di un meccanismo complesso con un meccanismo semplice ed equivalente, ed ottenere lo stesso identico comportamento.
Il mio esercizio di pensiero sulla AI consiste nel fare la stessa identica operazione, dando per buona la scelta della busta 1:
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In pratica, in una visione futura e asintotica dello sviluppo attuale (sappiamo tutti che le implementazioni di oggi servono solo a fare il caffè in mille modi possibili), le AI, processando gli stessi INPUT del mondo esterno di cui sopra, implementano un qualcosa di equivalente al cervello, creando quel substrato che porta alla formazione del concetto di IO, di COSCIENZA, di LINGUAGGIO, di INTENZIONALITA', di quello che ve pare, tanto sono tutti costrutti basati su una combinazione non lineare di segnali elettrici. Quella riga rossa sta a significare che, più passa il tempo, più la AI se "magna" una quota di cervello, fino a realizzare la perfetta equivalenza.
Date per buone tutte le fregnacce che ho scritto, l'unica conseguenza è che l'io, la coscienza, il linguaggio, l'intenzionalità, la semantica, i sentimenti, l'istinto di sopravvivenza, la voglia de scopa', sono sì reali, perché le viviamo e le usiamo ogni giorno, ma sono pur sempre artifici di processi fisico-chimici, e in quanto tali, sostituibili IN MODO COMPLETO con una tecnologia artificiale (che potrebbe essere la AI attuale, chissà).
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tecnologicovss · 4 months
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claudiotrezzani · 4 months
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In "Virtuose disposizioni" principiavo con una telegrafica elencazione di frasi involontariamente comiche proferite da fotografi  non particolarmente addentro alla materia.
Avrei potuto proseguire, e lo faccio qui con una singola ulteriore esternazione:
"una fotografia è fine art quando è stampata su carta costosa".
Si trattava e si tratta, epperò di conversazioni private, prive del beneficio / danno della moltiplicatoria propalazione.
Moltiplicatoria propalazione che è propria dei mezzi d'informazione.
Cartacei, o digitali.
Già, cartacei.
Carta canta villan dorme, dicesi.
E a prescindere dal supporto di riferimento:
scripta manent.
Ma è sempre opportuno destare il villano, o far permanere ciò che si è asserito?
Non quando si commettono errori, evidentemente.
Siamo eddunque approdati all'editoria sì appellata generalista.
Nonchè a quella non.
Sapete, non tutti sono Indro Montanelli.
E, nella specificità fotografica, non tutti sono Gerardo Bonomo.
E certi vizietti sopravvivono ad epoche.
I vizietti di non approfondire, di non documentarsi a sufficienza.
All'estremo e alla radice, di non sapere.
Già, non sapere.
Nel settore generalista il fenomeno - sebbene non scusabile - è almeno comprensibile:
redattori vengono estemporaneamente incaricati di "coprire" ambiti dello scibile non espressione della loro pregressa formazione.
In quello specialista o para/specialista, be', qui siamo al manzoniano scandolo (sì, con la "o").
Rimaniamo allora , se V'aggrada, all'ambito para/specialistico, ove il prefisso greco stempera, annacquandolo, il summentovato manzoniano scandolo.
Due casi separati da sessant'anni, a testimonianza che i succitati vizietti tendono pervicacemente allignare.
Primo caso:
obiettivo considerato luminoso in ragione di una apertura massima attestantesi a f 5,6, direttamente contrapposto ad un "buio" f1,8, definito tale proprio a cagione dell'"esiguo" numero che esprime...
Secondo caso, quello odierno.
Sapete, i costruttori di telefonini sovente si vergognano della superficie sensibile dei sensori che montano, così capita non ne dichiarino l'estensione.
Qualcuno, in un sussulto di trasparenza, nomina risoluzione e densità, così fornendo un indiretto indizio alla disvelazione dell'arcano.
Ebbene, un sito - nel titolo come nel testo - si diffonde sulle peculiarità di un "sensore 35 mm".
Sensore 35 mm?
Sì, d'accordo, nel modo analogico tale cifra designa l'altezza di una pellicola cinematografica, e  - per estensione - viene a convenzionalmente indicare il formato Leica in fotografia.
E sì, concedo:
nei droni come nei telefonini può verificarsi l'univoco abbinamento  sensore/obiettivo.
Non è questo il caso, epperò.
Nella fattispecie, 35 mm è semplicemente la focale (nemmeno poi quella, invero, facendo invece riferimento ad una equivalenza quanto ad angolo di campo coperto rispetto al 24 X 36 mm) corrispondente all'obiettivo principale.
Che a sua volta è abbinato al sensore principale, di cui però ignoriamo dimensione (salvo procedere con i sunnominati indizi).
Ecco, la necessità di approfondire.
L'imperativo di farlo, quando ciò che si scrive verrà letto dai più, con l'aura d'autorevolezza che  ipso facto chi legge attribuisce in  dipendenza dal luogo d'origine della propalazione.
Che poi, è una questione di "punta dell'iceberg".
Sì, punta dell'iceberg.
Sapete, molti anni fa - quando marginalmente m'occupavo di critica musicale - qualcuno mi disse che il mio modo di scrivere era assimilabile a quello di Duilio Courir di Corsera.
Niente di più sbagliato!
Duilio era persona in grado di parlare per ore in conferenza - e scriverne in interi libri - a proposito di aspetti anche assai parcellizzati della musicologia, mentre io non avrei retto alla prova dei cinque minuti (nel senso che al sesto minuto mi sarei già trovato imbarazzatamente ...afavellato, ove l'alfa è impietosamente privativa).
Ecco dunque l'importanza della montagna sommersa, piuttosto che di quella incantata (più precisamente, magica, ci stiamo riferendo all manniana  "Der Zauberberg"):
saldezza di conoscenza impone che ci sia una montagna - sia d'acqua o di roccia -  sotto ciò che scriviamo.
Personalmente sotto il pelo dell'acqua ho giusto un  pugno di terra alla portata edificatoria di formiche (purché non termiti, quello per me sarebbe già troppo).
Una qualsivoglia base, epperò, è necessario vi sia.
All rights reserved
Claudio Trezzani
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