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#campo dei tedeschi
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dans le labyrinthe infini de la ville, il y a des campi doubles qui se fond concurrence, dos à dos accolés et dont la frontière entre eux reste en partie insaisissable ; on ne sait alors lequel choisir, et surtout quel impact infime aura le choix opéré ; car il s’agit bien d’infime qui règle constamment l’exceptionnel de cette ville, l’infime qui la bouleverse, qui la traverse en permanence, là où on n’y pensait pas, qui la rend irrésistible au regard et à la promenade ; toute ces petites variations urbaines qui sonnent comme une petite musique qui ouvre au grand changement, qui régule les lumières et les ombres ; les impressions stimulées qui ne peuvent ainsi que respirer davantage (campo dei Tedeschi, campo Nazario Sauro)
© Pierre Cressant
(lundi 27 février 2012)
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sauolasa · 2 years
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Danimarca: il Museo dei rifugiati apre al campo "dei tedeschi" di Oksbøl
Il Museo "Flugt" - che in danese significa fuga - è stato presentato sabato ed è situato sul campo di Oksbøl, un paese nel sud-ovest della Danimarca, che ha ospitato fino a 100.000 rifugiati tedeschi negli anni del dopoguerra. Il Museo è stato in parte finanziato dal governo tedesco
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mucillo · 2 months
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I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell'adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all'improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!».
Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza.”
Piero Calamandrei
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viendiletto · 3 months
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Ho vissuto 17 anni a Pola ed è stata una vita da favola: è quella la mia terra e mi manca tanto. Siamo andati via nel 1946 perché c’erano già state le prime foibe, in Istria si sapeva, a Pola meno. Venivano di notte, chiamavano la persona e dicevano “Vieni, ti devo parlare”, e quella spariva. Poi ci accorgemmo che, dopo tempo, a Pola, sui tabelloni di un cinema erano esposti cadaveri; così la gente andava alle foibe per cercare lembi di indumenti dei familiari scomparsi. Fummo sfollati a Orsera (in croato Vrsar) nel 1944-’45, quando avevo 14 anni, perché gli alleati bombardavano e c’erano i tedeschi. Ricordo un presidio di giovani soldati, 18 o 19 anni, che furono convinti dalla popolazione pro-Tito a lasciare il presidio e andare in bosco coi titini. Questi presero le armi dei nostri soldati e si vestirono con le loro divise: i giovani che andarono in bosco non tornarono più. Le mamme andavano a chiedere a don Francesco Dapiran, poi parroco di Fertilia, dove fossero i loro figli, e lui andò a cercarli paese per paese, chiedendo alla popolazione dove fossero stati portati: erano tutti morti gettati nelle foibe. Tornammo a Pola e riprendemmo la vita di tutti i giorni. Vivevamo in mezzo a gente slava, ma non lo sapevamo, eravamo tutti una comunità. Furono alimentati rancori e odi, ma in realtà non c’era questo fra noi, eravamo gente buona. Mio padre, originario di Buggerru, e mia madre ripresero a lavorare, io proseguii gli studi. Poi anche da noi iniziarono le uccisioni e facemmo domanda per espatriare. La nostra partenza fu fissata il 10 febbraio 1947, ma l’uccisione del generale De Winton la rinviò. Essendo una ragazza di 17 anni, vivevo quell’esperienza non come un disagio, ma come un’avventura. Partimmo col successivo imbarco, il pomeriggio di sabato 15 febbraio. La domenica, a bordo, il parroco celebrò la messa, quindi, nel pomeriggio, arrivammo ad Ancona. Mi aspettavo una festa d’accoglienza, con le bandiere, invece ci vennero incontro delle barche con a bordo uomini che, col pugno chiuso, ci insultavano gridando: “Tornate a casa vostra, fascisti!”. Se non ci fossero stati i carabinieri quelli ci avrebbero buttati in mare: li ringrazierò per sempre per quello che hanno fatto per noi. In treno raggiungemmo Civitavecchia da dove c’imbarcammo per la Sardegna. Il giorno dopo sbarcammo ad Olbia, quindi ci trasferimmo a Sassari e da lì prendemmo il treno per Cagliari. Il paesaggio che si presentò ai miei occhi era desolante, mi sembrava di attraversare la steppa; ricordo delle cavallette enormi ma anche un bel sole, che ci accolse con tutto il suo calore. Il primo impatto con Cagliari fu positivo: il municipio e il bel giardino antistante mi diedero subito l’impressione di una bella città, nonostante i danni subiti dalla guerra appena terminata. Ci condussero nel campo profughi, situato tra le vie Logudoro e San Lucifero, e lì l’accoglienza fu buona. La città mi piaceva e mi piace, ma mi sono inserita con difficoltà, la mia mentalità era diversa da quella che ho trovato e non riuscivo a capire le persone che si esprimevano solo in sardo. Sono arrivata a 80 anni e ringrazio Dio e ringrazio la Sardegna perché mi trovo bene, la vita è tranquilla, una pensione l’ho avuta, ho pochi amici ma buoni e tengo collegata tutta la ‘mia’ gente, sparsa in tutto il mondo.
Nerina Milia, esule da Pola
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angelap3 · 5 days
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Chi liberò veramente l’Italia
25 aprile liberazione
Si può celebrare in tanti modi la Liberazione dell’Italia nel 1945 ma ci sono dati, numeri e vite che non si possono smentire e che sono la base necessaria e oggettiva per dare una giusta dimensione storica all’evento. Dunque, per la Liberazione dell’Italia morirono nel nostro Paese circa 90mila soldati americani, sepolti in 42 cimiteri su suolo italiano, da Udine a Siracusa. Secondo i dati dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, furono 6882 i partigiani morti in combattimento.
Ricavo questi dati da una monumentale ricerca storica, in undici volumi raccolti in cofanetto, dedicata a La liberazione alleata d’Italia 1943-45 (Pensa ed.), basata sui Report of Operations di diversi reggimenti statunitensi, gli articoli del settimanale Yank dell’esercito americano e i reportage dell’Associated press. E naturalmente la ricerca storica vera e propria. Più un’ampia documentazione fotografica. L’autore è lo storico salentino Gianni Donno, già ordinario di Storia contemporanea, che ha analizzato i Reports of Operations in originale, mandatigli (a pagamento) da Golden Arrow Military Research, scannerizzati dall’originale custodito negli Archivi nel Pentagono. L’opera ha una doppia, autorevole prefazione di Piero Craveri e di Giampiero Berti e prende le mosse dallo sbarco di Salerno.
Secondo Donno, non certo di simpatie fasciste, il censimento dell’Anpi è “molto discutibile” ma già quei numeri ufficiali rendono le esatte proporzioni dei contributi. Facciamo la comparazione numerica: per ogni partigiano caduto in armi ci furono almeno 13 soldati americani caduti per liberare l’Italia. Senza considerare i dispersi americani che, insieme ai feriti, furono circa 200mila. E il conto risuona in modo ancora più stridente se si comparano i 120mila militari tedeschi caduti in Italia, soprattutto nelle grandi battaglie (Cassino, Anzio e Nettuno) contro gli Alleati e sepolti in gran parte in quattro cimiteri italiani.
Naturalmente, diverso è parlare di vittime italiane della guerra civile, fascisti e no, di cui esiste un’ampia documentazione, da Giorgio Pisanò a Giampaolo Pansa, per citare le ricerche più scomode e famose. Ma non sto parlando di fascismo e guerra civile, bensì di Liberazione d’Italia, ovvero di chi ha effettivamente liberato l’Italia dai tedeschi o se preferite dai “nazifascisti”.
Pur avendo un giudizio storico molto diverso dalla vulgata ufficiale e istituzionale, confesso una cosa: avrei voluto dire il contrario, che l’Italia fu liberata dalla Resistenza, dalla lotta di liberazione, dall’insurrezione popolare degli italiani contro l’invasore. Avrei preferito, da italiana, dire che furono loro a battere i tedeschi, fino a sgominarli, come suggerisce la narrazione ufficiale e permanente del nostro Paese. Ma non è così; e se non bastassero i giudizi storici, la conoscenza di eventi e battaglie, le sottaciute testimonianze della gente, bastano quei numeri, quella sproporzione così evidente di morti, di caduti sul campo per confermarlo. Furono gli alleati angloamericani, sul campo, a battere i tedeschi; senza considerare il ruolo decisivo che ebbero i bombardamenti aerei degli alleati sulle nostre città stremate e sulle popolazioni civili per piegare l’Italia e separarla dal nefasto alleato tedesco. Si può aggiungere che la liberazione d’Italia sarebbe avvenuta con ogni probabilità anche senza l’apporto dei partigiani; mentre l’inverso, dati alla mano, è impensabile. Dunque la Resistenza può conservare un forte significato sul piano simbolico e si possono narrare singoli episodi, imprese e protagonisti meritevoli di essere ricordati; ma sul piano storico non si può davvero sostenere, alla luce dei fatti e dei numeri, che fu la Resistenza a liberare l’Italia. Nella migliore delle ipotesi è mito di fondazione, pedagogia di massa, retorica di Stato. Il mito della resistenza di cui scrisse uno storico operaista di sinistra radicale come Romolo Gobbi.
Per essere precisi, la Liberazione non si concluse il 25 aprile a Milano come narra l’apologetica resistenziale, ma l’ultima, aspra battaglia tra alleati e tedeschi, sostiene Donno, si combatté nel comune di San Pietro in Cerro, nel piacentino, tra il 27 e 28 aprile. A San Pietro c’era anche il regista americano John Huston, inviato col grado di Capitano, a girare docufilm. Ma i filmati erano così duri che gli Alti comandi americani decisero di non diffonderli fra le truppe se non in versione edulcorata.
Sulle lapidi dei cimiteri di guerra disseminati tra Siracusa e Udine, censiti da Massimo Coltronari, ci sono nomi di soldati e ufficiali hawaiani, australiani, neozelandesi, perfino maori, indiani e nepalesi, francesi e marocchini, polacchi, greci, anche qualche italiano del Corpo italiano di liberazione, e poi brasiliani, belgi, militi della brigata ebraica; ma la stragrande maggioranza sono americani, caduti sul suolo italiano. Molti erano di origine italiana: si chiamavano Ferrante, Lovascio, Gualtieri, Rivera, Valvo, Pizzo, Mancuso, Capano, Quercio, Colantuonio, Barrolato, Barone…
“È stata e continua ad essere – dice Donno – una grande opera di mascheramento della “verità” quando non di falsificazione… i miei volumi hanno l’ambizione di rompere questa cortina di latta (che, ammaccata dappertutto, tuttora sopravvive nella discarica del tempo) facendo emergere dati e fatti oscurati ed ignorati”. Naturalmente possono divergere i giudizi tra chi considera gli alleati come benefattori e liberatori, chi come occupanti e nuovi invasori; chi avrebbe preferito che fossero stati i sovietici a liberarci; e chi si limita a considerarli combattenti, soldati in guerra e non eroi, soccorritori o invasori. La memorialistica sulla liberazione d’Italia minimizza e trascura l’apporto americano; invece, sottolinea Craveri, è evidente che furono loro i protagonisti della liberazione d’Italia.
La verità, vi prego, sull’onore.
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vintagebiker43 · 5 days
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"I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell'adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all'improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!». Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza''.
Piero Calamandrei
#25aprile_e_antifascista
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curiositasmundi · 1 month
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La bozza di conclusioni uscita dal vertice dei capi di Stato e di governo europei sottolinea la necessità “imperativa” di preparare i cittadini Ue al rischio di guerra “in vista di una futura strategia di prontezza”. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, due giorni fa, ha usato le parole di Cicerone, annunciando esplicitamente: “Se vogliamo la pace, dobbiamo preparare la guerra”. E la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen che aveva ulteriormente chiarito: “Il mondo è diventato più pericoloso e l’Ue si deve svegliare, sappiamo che le ambizioni di Putin non si fermano all’Ucraina”.
Il testo sottolinea anche la necessità di sviluppare un piano per una preparazione militare-civile coordinata e rafforzata, insieme a una gestione strategica delle crisi, considerando l’evoluzione del panorama delle minacce. Ciò che rende questa situazione ancora più tangibile è il fatto che questo appello è inserito nella sezione “militare” del documento. È un chiaro segnale che l’Unione Europea si sta preparando all’eventualità di un conflitto armato. Tanto che lo stesso Borrell ha invitato ad abbassare un pò i toni per “non spaventare i cittadini europei”.
Il nuovo strumento di assistenza militare all’Ucraina da 5 miliardi è stato approvato e sul tavolo dei leader c’è la anche la proposta sull’uso dei profitti degli asset russi per comprarci armi e munizioni fa fornire a Kiev. Dal febbraio 2022 la UE e i suoi Stati membri hanno fornito o impegnato oltre 143 miliardi di euro a sostegno dell’Ucraina, di cui 33 miliardi in aiuti militari.
Ma a rendere il tutto ancora più inquietante è lo spettro del casus belli che potrebbe portare i paesi europei alla guerra con la Russia.
“L’Europa ha bisogno dell’effetto Pearl Harbour, di uno shock devastante che ne scuota le democrazie, polverizzi la trincea di dubbi, egoismi ed esitazioni infinite, costringendola ad agire con il consenso delle sue opinioni pubbliche”. A scriverlo una veterana del Sole 24 Ore, l’editorialista Adriana Cerretelli che da anni segue la politica europea per il principale quotidiano economico italiano.
“Dietro garanzia di anonimato il nostro interlocutore, politico europeo di alto rango, evoca l’attacco a sorpresa del Giappone alla base navale americana nel Pacifico, quello che nel 1941 ruppe la neutralità degli Stati Uniti, facendone dal giorno dopo i protagonisti della Seconda Guerra Mondiale a fianco dell’Europa democratica contro la Germania di Hitler”.
La Cerretelli scrive su Il Sole 24 Ore del 20 marzo che il vertice del Consiglio europeo in corso a Bruxelles “è il secondo vertice europeo di guerra dopo quello che due anni fa si tenne a Versailles”.
L’editorialista sottolinea come ci siano ancora divergenze in seno all’Unione Europea ma che “la certezza dell’instabilità continentale, l’esplosione del Medio Oriente dopo il massacro del 7 Ottobre, lo shock di novembre se l’America optasse per il ritorno di Trump, salvo sorprese antieuropeo, antiNato e filo-Putin, hanno prodotto profondi ripensamenti”.
Secondo la Cerretelli l’invio di «soldati sul campo», evocato dalla Francia di Macron e sconfessato a metà dopo il no generale, non è sparito dai radar. Come la questione dei missili tedeschi Taurus, che per il cancelliere Scholz è «prudente» non dare agli ucraini ma per altri sono un deterrente indispensabile.
In Europa, dove in alcuni paesi torna la coscrizione obbligatoria, il presidente del Consiglio Ue Charles Michel nella consueta lettera di invito ai 27 paesi membri della Ue, ha scritto che: “Siamo di fronte alla più grande minaccia alla nostra sicurezza dalla Seconda Guerra mondiale, è tempo di fare passi concreti”. E poi ha citato Cicerone: “se vuoi la pace prepara la guerra”.
La storia insegna molte cose, anche come cominciano le guerre. Più difficile è sapere in anticipo come vanno a finire e di solito finiscono male per molti.
Fermiamoli, con ogni mezzo necessario!!
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gregor-samsung · 3 months
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“ Le invenzioni e le scoperte portano benefici a tutti. Il progresso della scienza è una faccenda che riguarda tutto il mondo civile. Non ha una vera importanza il fatto che un uomo di scienza sia inglese, francese o tedesco. Le sue scoperte sono a disposizione di tutti e per trarne profitto non occorre niente di più dell'intelligenza. Il mondo dell'arte, della letteratura e del sapere, è internazionale; quel che vien fatto in un paese, non vien fatto per quel paese, ma per l'umanità. Se ci domandiamo che cosa eleva la umanità al disopra delle bestie, che cosa ci permette di considerare la razza umana più importante di qualsiasi specie di animali, scopriremo che non sono cose delle quali una nazione può avere la proprietà esclusiva, ma sono tutte cose che il mondo intero può spartirsi. Coloro che tengono a queste cose, coloro che desiderano vedere l'umanità feconda nel lavoro che soltanto gli uomini possono fare, non baderanno gran che ai confini nazionali e si cureranno ben poco di sapere a quale Stato un individuo deve fedeltà.
L'importanza della cooperazione internazionale al difuori del campo della politica mi è stata dimostrata dalla mia stessa esperienza. Fino a poco tempo fa ero occupato nell'insegnamento di una nuova scienza che pochi uomini al mondo erano in grado di insegnare. Il mio lavoro si basava soprattutto sull'opera di un tedesco e di un italiano. I miei allievi venivano da tutto il mondo civile : Francia, Germania, Austria, Russia, Grecia, Giappone, Cina, India e America. Nessuno di noi era cosciente di un senso di diversità nazionale. Ci sentivamo un avamposto della civiltà, occupati a costruire una strada nella foresta vergine dell'ignoto. Tutti collaboravano all'impresa comune e nell'interesse di questo lavoro le inimicizie politiche delle nazioni sembravano insignificanti, temporanee e futili. Ma non è soltanto nell'atmosfera piuttosto rarefatta di una scienza astrusa che la collaborazione internazionale è vitale per il progresso della civiltà. Tutti i problemi economici, la questione di garantire i diritti della mano d'opera, le speranze di libertà in patria e di umanità fuori, poggiano sulla creazione di una buona volontà internazionale. Finché odio, sospetto e paura, dominano i sentimenti degli uomini, non possiamo sperare di sfuggire alla tirannia della violenza e della forza bruta. Gli uomini devono imparare ad essere coscienti degli interessi comuni dell'umanità che sono identici, piuttosto che ai cosiddetti interessi dai quali le nazioni sono divise. Non è necessario, e neanche desiderabile, eliminare le differenze di educazione, di usi e di tradizioni tra le diverse nazioni. Queste differenze danno ad ogni singola nazione la possibilità di contribuire in modo distintivo alla somma totale della civiltà del mondo. “
Bertrand Russell, Le mie idee politiche. Una guida per orientarsi nelle ideologie politiche di tutti i tempi, traduzione di Adriana Pellegrini, Longanesi & C. (serie ocra, collana Pocket saggi n° 525), 1977; pp. 144-46.
[1ª Edizione originale: Political Ideals, New York: The Century Co., 1917; full text Here]
NOTA: nella prefazione l’autore puntualizza: «Questo libro è stato scritto nel 1917, ma pubblicato soltanto in America. Avrebbe dovuto essere una serie di conferenze, ma il ministero della Guerra lo impedì. Il primo capitolo doveva essere una conferenza da tenersi a Glasgow, presieduta da Robert Smillie, presidente della Federazione Minatori. Poco prima della data fissata per la conferenza il governo mi proibì l'ingresso in quelle che venivano chiamate « zone proibite », tra le quali era compresa Glasgow. Queste zone comprendevano tutto quanto si trovava vicino alla costa, e l'ordine era inteso contro le spie, per impedire che facessero segnalazioni ai sottomarini tedeschi. Il ministero della Guerra fu tanto cortese da dire che non mi sospettava di spionaggio a favore dei tedeschi; mi accusò soltanto di fomentare il disinteresse industriale, allo scopo di por fine alla guerra. Smillie annunciò che avrebbe tenuto la riunione di Glasgow nonostante la mia inevitabile assenza e infatti lesse la conferenza che avrei dovuto tenere io. Il pubblico rimase piuttosto sorpreso dalla differenza dal suo solito stile; ma alla fine, Smillie annunciò di aver letto la conferenza proibita. Il governo aveva troppo bisogno di carbone per agire contro di lui.»
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ama-god · 1 year
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Primo Levi
La tregua
La Liberazione di Auschwitz da parte dei soldati dell’Armata Rossa sovietica
27 gennaio 1945
Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di «recuperare», a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidità dell’avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera. Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era piú alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva, e cosí era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai piú sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia. Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi.
Il comandante sovietico Georgj Elisavetskj ricorda così quel 27 Gennaio 1945
“Ancora oggi, il sangue mi si gela nelle vene quando nomino Auschwitz; Quando sono entrato nella baracca ho visto degli scheletri viventi che giacevano sui letti a castello a tre piani. Come in una nebbia, ho sentito i miei soldati dire: «Siete liberi, compagni!» Ho la sensazione che non capiscano e comincio a parlargli in russo, polacco, tedesco, nei dialetti ucraini. Mi sbottono il giubbotto di pelle e mostro loro le mie medaglie … Poi ricorro allo yiddish. La loro reazione ha dell’incredibile. Pensano che stia provocandoli; poi cominciano a nascondersi. E solamente quando dissi: «Non abbiate paura, sono un colonnello dell’Esercito sovietico e un ebreo. Siamo venuti a liberarvi» […] Finalmente, come se fosse crollata una barriera … ci corsero incontro urlando, si buttarono alle nostre ginocchia, baciarono i risvolti dei nostri cappotti e ci abbracciarono le gambe. E noi non potevamo muoverci; stavamo lì, impalati, mentre lacrime impreviste colavano sulle nostre guance”
29 gennaio 1945 - Telegramma del Generale dell'Armata Rossa Konstatin Vasilevich Krainiukov a Georgij Maksimilianovič Malenkov, membro del Comitato di difesa dell'URSS: "Liberata la regione dei campi di concentramento di Osvenzim (Auschwitz-Birkenau). Orribile campo di morte. A Osvenzim ci sono 5 campi. In 4 erano tenute persone di tutti i paesi d'Europa, il 5° era un carcere. Ogni campo è composto da un terreno enorme,circondato da diverse linee di filo spinato, su cui passa alta tensione elettrica. Dietro si trovano innumerevoli baracche di legno. Tra i sopravvissuti di questo campo di morte ci sono ungheresi, italiani, francesi, cecoslovacchi, greci, romeni, danesi, belgi, iugoslavi. Tutti sono in stato pietoso,ci sono vecchi giovani e bambini, quasi tutti sono seminudi. Ci sono molti cittadini sovietici, da Leningrado, Tula, regione di Kalinin, Mosca, da tutte le regioni dell'ucraina sovietica. Molti sono mutilati, hanno segni di torture, segni di bestialità nazifascista. Dalle prime testimonianze dei prigionieri in questo posto sono state torturate,bruciate,fucilate centinaia di migliaia di persone. Chiedo l'invio della Commissione Speciale Governativa per le indagini sulla bestialità nazifascista."
NELLA FOTOGRAFIA
Soldati dell’Armata Rossa liberano e curano i sopravvissuti di Auschwitz
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pettirosso1959 · 7 months
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FREEZE CORLEONE,
IL PROTOTIPO DEL NUOVO RAGAZZO EUROPEO: GENITORI DIVORZIATI CHE NON SI PARLANO, MULTIETNICO, MULTICULTURALE E CANTANTE TRAP.
Mentre in Italia si discute della pesca di Esselunga e se non sia un desiderio legittimo vedere i propri genitori tornare insieme c'è chi sta AVANTI e per trovarlo basta valicare le alpi
Ma per conoscerlo dobbiamo fare un bel passo INDIETRO, diciamo ai primissimi anni 90.
Siamo in Sicilia, esattamente a Palermo e la protagonista di questa storia è una ventenne centrosocialara. Erano i primi tempi della globalizzazione e tra le altre cose un po' tutti conoscono nuovi costumi e nuove culture che a sinistra vengono assunte come salvifiche e come necessarie per cambiare la società italiana in meglio: "immigrati non lasciateci soli con gli italiani" insomma, quella roba lì.
La ragazza palermitana, coerentemente col suo pensiero, ospita a casa un immigrato del Senegal con cui ovviamente fa subito un figlio che nei suoi pensieri è femminista, meticcio, di sinistra e laico.
Diciamo che non va proprio così ma questo lo vedremo dopo.
Quello che lei vede subito è il suo amato scappare dalla camera da letto per tornare nel suo paese, dove lo aspettano le sue otto mogli. D altronde è quella la sua cultura e forse la ventenne siciliana non lo sapeva cosi trovandosi da sola emigra a Parigi dove nasce il piccolo Lorenzo con la promessa che un giorno il padre sarebbe tornato mettendogli quindi il suo cognome, Dhakate.
Il padre effettivamente torna ma 11 anni dopo. Nella versione senegalese dell' islam la madre deve crescere il bambino fino a quando non c è il primo segno di pubertà. Arrivato quel momento la responsabilità dell' educazione è del padre che lo prenderà sotto la sua ala protettrice e gli insegnerà la parola del Profeta.
Lorenzo viene iscritto in un college in Canada, dove vive il ramo maschile della sua famiglia, ma sembra poco interessato allo studio dato che inizia subito la carriera che più gli interessa: lo spacciatore, in particolare di Lean ( una droga sintetica sciroppata a metà strada tra popper e cocaina inventata dai chimici inglesi per Churchill di cui era ghiotto).
A 20 anni però l'imprevisto: gli salta il carico della vita perché arrivano centinaia di litri di prodotto falso dall' Alaska.
Dopo la crepa presa non si perde d animo e si trasferisce in Francia, dato che è cittadino transalpino grazie allo ius soli, e li inizia a fare musica trap in versione "Cloud drill" , la nuova tendenza molto più ambiente filosofica proveniente da Londra. Diventa subito discretamente famoso grazie alla sua crew, i 667 ( "un numero in più di SoroSSatana con cui non scendiamo a patti") nel suo sobborgo, LES Liles, dove approfondisce la sua cultura politica e religiosa e diviene simpatizzante dell' ideologia nazionalsocialista e praticante dell' islam radicale, la versione wahabita.
E li diventa FREEZE CORLEONE, il nuovo astro nascente della trap francese e tutti scommettono sul suo futuro.
Ed a ragione perché il suo momento col destino lo vive l'undici settembre, data scelta diciamo non a caso, nel 2020, all uscita del suo primo disco, "La Menache fantome" con etichetta la major Universal.
" Determinato ed ambizioso come un giovane Adolf negli anni 30"
" La musica dei bianchi fa schifo ma noi ne@ri arriviamo sui carrarmati tedeschi e conquistiamo Parigi"
" Fratello Bin L. guidaci a New York in modalità avion"
" Vado in campo e smarco gli ebrei sulla Maserati come fa Marco Verratti"
" Israele come Babilonia, nel nome del Profeta"
Le sue canzoni diventano subito inni nelle banlieue, in particolare la sua dove detta legge ( qui vigono solo tre valori: l'Islam, il verbo di Adolf. H. e la Lean dichiarerà nella sua prima Intervista), la Universal si rende conto di aver fatto un autogol e rescinde il contratto per giusta causa. "Ma ormai è tardi" direbbe qualcuno.
Difatti Lorenzo sta già a due dischi di platino dopo solo un mese e questo fa arrabbiare non poco il ministro degli interni, il falco macroniano Gerardo Dermanin.
Quest' ultimo quindi posta su Twitter una canzone di Corleone affermando che "questa immondizia antisemita non ha diritto di cittadinanza in Francia" ricevendo svariate critiche dai giovani di seconda generazione che gli fanno presente che se Charlie Hebdo può fare certe vignette allora anche Corleone può cantare le sue canzoni in cui inneggia ai campi di concentramento, all invasione tedesca dell' Europa e all undici settembre.
Non fa una piega se non fosse che proprio Lorenzo risponde al twit affermando "che se ne frega tutti i giorni della Shoah".
Così scatta immediatamente il mandato di arresto per lui che però riesce a fuggire in Senegal dove compra proprio un carrarmato con cui giura di invadere la Francia dove torna dopo otto mesi, decaduta la pratica di arresto, e realizza insieme al suo amico Julienne Schwarzer il singolo più venduto e famoso della storia della Trap francese "Mannschaft".
Arriva a 5 dischi di platino nel frattempo e con la sua crew detta legge nei locali di mezza Europa vestiti con le tute del Psg e del City( le squadre più forti in Europa a proprietà ovviamente araba wahabita) anche se Lorenzo in particolare esibisce sempre quella della Roma di cui è tifoso, in primis nella sua foto più famosa dove usa 1kg di hashish come guancialino a destra e a sinistra.
Chissà che ne pensa la madre che voleva un bimbo aperto, di sinistra e multiculturale e si ritrova come figlio il trapper più famoso in Francia di simpatie nazionalsocialiste, islamista, misogino e maschilista.
Una pesca dell' Esselunga sciroppata alla Lean per tutti, barista.
[Dario Berardi]
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canesenzafissadimora · 9 months
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I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell'adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all'improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!». Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza.
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(Piero Calamandrei)
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arcobalengo · 9 months
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LAFONTAINE: GLI AMERICANI PREPARAVANO QUESTO CONFLITTO DA TEMPO
La testata polacca “Myśl Polska” riporta questa citazione del politico tedesco Oskar Lafontaine.
Secondo Lafontaine, l’America sta cercando di rimanere l’unica superpotenza al mondo. E quando si hanno ambizioni di questo tipo, si cerca il conflitto con altre superpotenze: Cina, Russia e, probabilmente a breve, anche India.
Oskar Lafontaine è uno dei veterani della politica tedesca. Allo stesso tempo, trovandosi fuori dal mainstream, si permette alcune dichiarazioni decisamente controcorrente.
Si tratta di un conflitto ideato a Washington.
Тom Wellbrock: Lei è d’accordo con la tesi che l’Occidente avrebbe potuto impedire il conflitto in Ucraina se ne fosse stato interessato?
Oskar Lafontaine: gli Stati Uniti preparavano questo conflitto da alcuni decenni. I teorici americani della politica estera, tra cui Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, da tempo segnalavano che l’Ucraina controllata dagli USA avrebbe garantito l’uscita della Russia dalla lista di superpotenze mondiali. L’Ucraina, quindi, non è altro che un campo di battaglia dove gli americani combattono i russi per minare la posizione del Cremlino sulla scena politica mondiale.
— La maggior parte degli Stati non è interessata né alle sanzioni, né a procrastinare il conflitto.
Evidentemente, i tedeschi hanno un punto di vista diverso. Di recente ho parlato con un conoscente che ha dichiarato che il nostro Paese è in via di distruzione e che alla fine non ne resterà più nulla. Anche gli ucraini smetteranno di esserci grati per le forniture di armi. Lei condivide questa opinione?
— Sì, coloro che dopo un anno pensano ancora che il conflitto si possa risolvere aumentando le forniture di armi, devono riflettere. Sono morte centinaia di migliaia di persone. L’Ucraina si sta devastando sempre più e, che se tutto va così, non ci sarà mai fine. È incredibile che la Germania continui con questa politica davvero stupida, anche se ormai nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo sono state tratte le conclusioni del caso.
La distruzione del cuore industriale d’Europa
— Mi sembra che l’attuale classe politica stia portando il nostro Paese verso il baratro e che alla fine non resterà più nulla dell’economia tedesca. Forse sto esagerando?
— In effetti, c’è da averne paura. Sono sorpreso che gli industriali tedeschi non stiano ancora dando allarme. Si potrebbe dedurre che la quota di partecipazione delle corporation americane nelle industrie tedesche sia talmente importante da rendere impossibile qualsiasi protesta.
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levysoft · 9 months
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Nei primi anni della Seconda guerra mondiale, i cani sovietici anticarro rappresentarono una grossa minaccia per l’avanzata tedesca. Legati a sistemi esplosivi, venivano usati per distruggere gli armamenti nemici. Una tattica atroce, che potrebbe oggi indignare gli attivisti per i diritti degli animali. Ma non bisogna dimenticare il contesto in cui questa pratica veniva applicata: erano infatti anni di disperazione, con il nemico quasi alle porte del Cremlino. Le mitragliatrici sui carri armati tedeschi erano posizionate troppo in alto per poter colpire i “cani suicidi” e, grazie alla copertura della fanteria sovietica, i nazisti non riuscivano a uscire con facilità dai propri carri armati per fermare a colpi di fucile i pericolosi animali in avvicinamento. Talvolta le truppe nemiche si affidavano all’utilizzo di un lanciafiamme.
Le origini dei “cani suicidi”
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Archivio di Ninel Ustinova/russiainphoto.ru
L’Unione Sovietica iniziò a utilizzare i cani anticarro ben prima dell’invasione nazista del 1941: iniziarono infatti ad addestrare questi animali già negli anni Trenta, prima dello scoppio della Grande guerra patriottica. I cani venivano addestrati a gattonare sotto i carri armati nemici mentre trasportavano esplosivi legati al corpo, solitamente 12 kg di TNT. Venivano poi tenuti a digiuno per vari giorni in modo da provocare una fame tale da spingerli alla ricerca di cibo, solitamente sistemato in fase di addestramento sotto i carri armati. Così gli animali si abituavano a strisciare sotto i cingolati. Veniva inoltre insegnato loro a muoversi in maniera da evitare il fuoco nemico e a non temere l’artiglieria pesante. I primi cani anticarro furono introdotti nell’Armata Rossa nel 1939. Parteciparono ai primi combattimenti due anni dopo.
La prima disastrosa battaglia
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I cani anticarro del primo battaglione speciale (212 cani e 199 addestratori) furono utilizzati per la prima volta in un combattimento nei pressi di Mosca. Il primo attacco dei soldati a quattro zampe si rivelò un totale disastro, perché gli animali non erano coperti dalla fanteria sovietica e i tedeschi riuscirono a eliminarli con facilità.  Inoltre gli addestratori commisero un grave errore: ammaestrarono i cani utilizzando carri armati sovietici, che, a differenza di quelli tedeschi, erano alimentati a gasolio, anziché a benzina. Una differenza di odori che confuse terribilmente i cani sul campo di battaglia.
I combattimenti
Anche se il Primo battiglione fu spazzato via, l’Urss continuò a utilizzare i cani anticarro per combattere i tedeschi. Vennero cambiate le tattiche e l’addestramento. Alla fine del 1941, oltre 1.000 cani combattevano sul fronte e l’anno successivo il numero superò le 2.000 unità. Il 21 luglio 1942 i cani suicidi contribuirono a ottenere la vittoria durante una grande battaglia che si svolse vicino a Taganrog, sul Mar di Azov. Durante l’assedio di Leningrado, un gruppo di cani fece esplodere i carri armati e le fortificazioni nemiche, riuscendo a farsi strada intorno al filo spinato e identificando le posizioni del nemico. Riuscirono a far saltare in aria diversi bunker e un deposito munizioni.
Il contributo alla vittoria
Verso la metà del 1943, la situazione era alquanto diversa. L’Armata Rossa iniziò a ricevere un cospicuo rifornimento di armi anticarro, insufficienti all’inizio della guerra. Fu così che i cani anticarro vennero “mandati in pensione”.  In totale questi soldati a quattro zampe riuscirono a distruggere 304 carri armati nemici, contribuendo a spostare l’ago della bilancia verso la vittoria dell’Unione Sovietica e la sconfitta del nazismo. Con la fine dei combattimenti, i cani restanti vennero riqualificati e addestrati per missioni di rilevamento mine. Molti di loro sopravvissero ben oltre la fine della guerra.
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goodbearblind · 1 year
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"I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell'adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all'improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!». Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza''.
Piero Calamandrei
@MamafricaO
Valentina
www.mamafrica.it
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ilpianistasultetto · 2 years
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Domani sara' il grande giorno. Domani si sapra' se ci troviamo di fronte a uno Schettino qualunque o ad un voltagabbana, come succede quasi sempre ai politici e ai potenti. Quello e' un mondo dove la schiena dritta e' qualcosa di alieno. "Senza il m5s dentro al governo, io lascio". Questo il testamento governativo di Draghi. Staremo a vedere. Intanto da qualche giorno tutti i giornali, tutti i talk tv e gran parte della politica tutta ha iniziato la grancassa della propaganda d'elite: " tutto il mondo vuole Draghi, da Biden a Macron, a Zelensky, ai tedeschi e spagnoli. L'africa piange, piange l'asia, la chiesa. Piange il mondo animale, minerale e vegetale. Insomma, un pianto mondiale a sostegno del migliore. Peccato che quelle due, tre manifestazioni spontanee fatte di gente comune a sostegno di Draghi svolte a Roma, Milano e Torino, hanno raccolto in tutto 3-400 persone, per lo piu politici e loro parenti. Ultimi a scendere in campo, dopo i sindaci, i rettori delle nostre universita', quelli messi li sempre dalla politica. Poi uno si chiede: ma se questo Draghi e' veramente il migliore dei migliori e sta salvando questo Paese, perche' chi lo appoggia non ha triplicato i suoi voti e chi lo osteggia non e' sparito? Invece vola sempre l'unico partito di opposizione, quello che non vuole Draghi e non gli riconosce nemmeno mezzo merito. Ce la vogliamo fare qualche domandina tendenziosa o stiamo sempre li a pendere dalle penne di qualche Ciarrapico, di qualche Romeo o Alkan che sia o dalla bocca di un Mentana o Vespa o di altri 100 giornalisti mercenari pagati per fare da grancassa? @ilpianistasultetto
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Torino - 18-07-2022 manifestazione spontanea pro-Draghi.
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spettriedemoni · 2 years
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Si gioca in 11 anche l'11 luglio 1982
Sono passati tre giorni dalla semifinale la Camp Nou di Barcellona contro la Polonia. Ci sono diverse bandiere con la scritta Solidarność sugli spalti. Saprò solo molti anni dopo che significa "solidarietà" ed è il nome che un sindacato si è dato sotto il regime polacco.
Il 4 luglio 1982 la Polonia ha affrontato nel suo raggruppamento a 3 l'Unione Sovietica. Ricordo che eravamo a Casalbordino quella sera e mio padre, "comunista così" come direbbe Mario Brega in un famoso film di Verdone, tifa per i Sovietici. Hanno la divisa completamente bianca e quelle lettere CCCP (che da ragazzini interpretavamo con l'improbabile acronimo "Col Cavolo Che Perdo") che campeggiano sul petto. Alla Polonia basta un pareggio perché hanno battuto il Belgio per 3-0 mentre i sovietici devono vincere perché il Belgio lo hanno battuto solo 1-0. La partita si chiuderà sullo 0-0 e l'unica soddisfazione per mio padre è l'ammonizione per Boniek che salterà così la semifinale. Sono dei signori i Sovietici, almeno secondo mio padre, perché non protestano contro l'arbitro per il gioco fin troppo rude dei polacchi. La partita è una questione politica tra uno stato oppresso e il suo oppressore, logico che i polacchi mettessero in campo il più feroce agonismo.
Non sapevamo ancora se saremmo andati in finale contro la Polonia, l'Italia dove ancora battere il Brasile ma ricordo quella sera i Polacchi vestiti completamente di rosso e una partita con poche emozioni per me che volevo vedere solo l'Italia.
L'8 luglio i miei sono a lavoro quel pomeriggio. Io sono da mia nonna con mia cugina e una sua amica e vediamo la partita. Ho imparato tutti i nomi di battesimo dei nostri giocatori e a mia cugina sto rompendo le ovaie perché a ogni calciatore che nomina Martellini io aggiungo il nome di battesimo: «Ecco Oriali che avanza» e io: «Gabriele» e via così. Ormai sono preso dal demone del calcio.
Di quella partita ricordo poco perché dò per scontato che vinceremo. Abbiamo battuto il "Magno Brasile" come lo chiama Brera, la Polonia è robetta, diciamo così. Vinciamo infatti con 2 gol di Rossi che non si ferma più anche senza Gentile siamo troppo forti per loro e loro non hanno Boniek invece. Rivedo la faccia sofferente di Antognoni e il piede nudo senza scarpa né calza, rivedo Conti buttato da un calciatore polacco oltre i cartelloni pubblicitari addosso a un fotografo, vedo Graziani costretto a uscire in barella dopo una botta rimediata contro uno dei rocciosi difensori polacchi. Più di tutto vedo Rossi a terra sommerso di abbracci dopo il 2 a 0. Siamo in finale. L'unica altra immagine che vedo è quella di Boniek sugli spalti con occhiali da sole con uno sguardo vacuo comprensibilmente deluso. Ho un moto di pietà verso lui e i polacchi: mi spiace perché percepisco sarebbe stato più giusto vincere con lui in campo. Mi riprometto che tiferò Polonia alla prossima occasione.
Mio padre viene a prendermi dopo la partita, andiamo in auto a casa e lì ricordo i festeggiamenti per le strade, gli unici che mi ricordo vivamente durante quel mondiale. Ricordo bandiere e gente in festa a torso nudo, in piedi sulle decappottabili tipo la Diana, la 2 Cavalli della Citroën ma più di tutte mi ricordo una Fiat 500 colorata con i tre colori della bandiera italiana e poi gente in Vespa a urlare la propria gioia. Ci credono. Ci crediamo tutti.
Avevo visto qualcosa dell'altra semifinale, la "Battaglia di Siviglia" tra Francia e Germania Ovest e ricordo di aver pensato che era meglio vincesse la Germania perché così l'Italia non avrebbe dovuto rischiare di cambiare maglia per la finale: volevo vedere la mia squadra con la maglia azzurra.
Passano i tedeschi e così la finalissima sarà Italia - Germania. A Vasto dai miei nonni intravedo la finale per il terzo posto tra Polonia e Francia e tifo per i polacchi come mi ero ripromesso e vincono loro infatti.
A Casalbordino siamo ospiti di uno dei fratelli di mia madre. Lì c'è la sua casa al mare: un appartamento in un palazzo di pochi piani a letteralmente due passi dal mare: attraversi la strada e sei in spiaggia. Sono legati mio zio e mio padre, si capiscono e scherzano spesso. A mio zio sono simpatico un po' perché dopo tre figlie femmine forse gli sarebbe piaciuto avere un maschio, un po' perché gli altri nipoti maschi ne combinano di ogni incluso fare lo scivolo sulla sua BMW. Decisamente sono molto più tranquillo dei miei cugini.
Mi ricordo l'emozione dell'attesa quell'11 luglio. Il televisore non è grandissimo ma per fortuna a Casalbordino in qualche modo il segnale TV arriva almeno quello di Rai 1. Schierati per l'inno nazionale vedo entrambe le squadre vestite di bianco. Mi ricordo poi che l'Italia ha la giacca della tuta sopra le maglie per far vedere lo sponsor tecnico. Sì perché le maglie azzurre non hanno il logo dello sponsor ma solo lo scudetto tricolore a sinistra dal lato cuore.
Rivedo Graziani infortunato alla spalla uscire dal campo. Ha le lacrime agli occhi. Sento mio padre dire che abbiamo subito un fallo "a gamba tesa" e ignoro cosa voglia dire poi assisto all'assegnazione del calcio di rigore.
Penso che finalmente vedrò un calcio di rigore a favore dell'Italia e mi chiedo come sarà. Penso poi che Schumacher, il portiere tedesco, ne ha parato qualcuno nella partita precedente e mi assale il pensiero che potrebbe essere allenato. Sono sicuro che lo tirerà Rossi: ho letto che lui e Rumenigge sono entrambi capocannonieri del Mundial con 5 gol a testa: qual miglior momento per far vincere la classifica cannonieri al nostro Rossi?
Non funziona così, Bearzot ha le sue gerarchie: Antognoni è il primo rigorista, ma è infortunato dalla partita con la Polonia, ricordate il piede nudo dolorante? Ecco c'è un taglio che ha reso necessari alcuni punti di sutura e tre giorni sono troppo pochi per recuperare. Ci ha provato fino a pochi minuti prima a vedere se ce la faceva ma non c'è stato nulla da fare e al suo posto gioca Bergomi. Con lui fuori causa il rigorista è Cabrini e alla domanda di Rossi «Te la senti?» lui ha risposto di sì.
Mia madre a distanza di tempo dirà che un amico di mio zio presente quella sera ha detto profeticamente "Tanto lo sbaglia". Onestamente non ricordo la circostanza, ma forse lei è più presente di me che per un attimo mi illudo di aver visto il pallone in rete nonostante Schumacher abbia intuito la direzione del tiro. Cabrini ha effettivamente sbagliato il tiro che è finito fuori.
Quando finisce il primo tempo sono ancora fiducioso. Non so se il mio essere bambino mi porta a questo ottimismo o se è la vittoria sul Brasile a non farmi dubitare che avremo ragione pure dei tedeschi, fatto sta che nel secondo tempo sono convinto vinceremo.
Mi ricordo Oriali a terra che si innervosisce e allontana il pallone con le mani. Forse vuole prendere qualche tedesco in faccia perché davvero non ne può più degli innumerevoli falli che subisce. Ero un po' diffidente nei confronti dell'arbitro perché è brasiliano ma sono più fiducioso sulla sua imparzialità dopo il rigore. Tuttavia a Oriali lo stanno massacrando e lui non ce a fa più, evidentemente.
Succede che quando il pallone torna sul punto dove è stato commesso fallo, Tardelli ha un'intuizione e batte senza aspettare l'arbitro, senza chiedere la distanza e lancia Gentile sulla destra. Da quella parte arriva il cross che attraversa l'area di rigore, rimbalza davanti ad Altobelli e viene deviato in rete da qualcuno dei nostri. SI sono avventati sul pallone Cabrini e Rossi, nello slancio sono finiti in porta pure loro, Schumacher non riesce a deviare il pallone. È 1-0 per noi. Si è alzato Rossi e comincia a correre mentre Martellini con un attimo di esitazione ha appena detto «Ha segnato... Rossi».
Era solo questione di tempo, infondo. Vedo Pertini esultare, non seguo la politica perché alla mia età non è un argomento che interessa, ma questo signore mi è simpatico con la sua pipa e il suo modo di parlare che trovo buffo. Mi sembra un po' un nonno simpatico e alla mano.
Ricordo il gol di Tardelli e la sua gioia incontenibile subito dopo. Penso: "Adesso si mette a piangere" perché la faccia mi sembra quella invece no, non piange. Esulta e corre come un pazzo prima che i compagni lo sommergano di abbracci. C'è gioia e tanta rabbia in quella esultanza.
Ricordo il gol di Altobelli, il giovane entrato a sostituire Graziani, un gol realizzato con freddezza dopo aver spostato il pallone a Schumacher e messo in rete. Rivedo ancora oggi Steilke a terra con il pallone sotto il suo braccio. Mi sembra pianga, chissà se è davvero così o se è una mia impressione. Steilke aveva già pianto quando aveva sbagliato il suo rigore contro la Francia, evidentemente è emotivo di suo, però è anche un mastino e un tignoso insopportabile che non si arrende facilmente. Quella immagine invece restituisce un uomo che ormai si sente sconfitto.
Lo sa il Presidente Pertini che infatti agita l'indice e dice: «Non ci prendono più».
Trovo tutto sommato giusto il gol tedesco alla fine della partita, dopotutto abbiamo già dimostrato di essere superiori e gli "Olè" del pubblico a ogni nostro passaggio lo sottolinea inequivocabilmente. Empatizzo un po' per gli sconfitti ma... ce la meritiamo noi questa vittoria.
Qualche macchina passa lungo la strada che separa la casa di mio zio dal mare. I clacson si sentono forti e si vedono le bandiere sventolare dalle auto in corsa, ma non ci sono folle oceaniche, dopotutto Casalbordino è una località di mare molto meno famosa e popolata di altre.
"Rossi, Tardelli e Altobelli" diventa un coro da urlare un po' ovunque quella sera. Aspettiamo che l'entusiasmo passi un po' prima di riavviarci e tornare a Pescara in quella sera di festa.
Non ricordo nulla del viaggio di ritorno, so solo che ero sul sedile posteriore senza cinture e seggiolini, dietro mio padre mentre mia sorella era dietro mia madre: quella era la formazione tipo quando si facevano viaggi lunghi in auto.
Non riesco a ricordare che macchina avevamo, forse era la Lancia Flavia oppure la Fiat 127 prima di cambiarla e prendere la Lancia Delta. Ricordo che si prendeva la strada statale spesso perché tanto viaggiavamo di domenica e di traffico ce n'era poco e poi sull'autostrada giravano i camion. Così ricordo le strade statali circondate da alberi e da verde.
Eravamo belli nei nostri calzoncini cortissimi e nelle nostre maglie di cotone che non ancora chiamavamo T-shirt.
La mia generazione non aveva visto il mondiale del Messico nel '70, non avevamo apprezzato l'epica di Italia-Germania 4-3 a mezzanotte, no la nostra Italia-Germania era una partita quasi scontata nel risultato: troppo più forti dei tedeschi in quel momento.
Fu un'estate bellissima dove ci sembrò che tutto fosse possibile.
Ci illudemmo che eravamo vincenti e fortunatissimi.
Vincenti magari no, non sempre almeno, però di sicuro fortunatissimi lo eravamo. Vale la pena ricordare e ringraziare sempre per la fortuna che si ha
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