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#pallone di cristallo
SAN MARINO. Calcio Estate, tutti i vincitori dell'edizione 2022
SAN MARINO. Calcio Estate, tutti i vincitori dell’edizione 2022
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messinacalcio · 10 days
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Si chiude con una sconfitta la stagione del Messina - VIDEO
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Una sconfitta quasi scontata, una formazione del Messina messa in campo con molte seconde linee. Nessuna sorpresa contro un Monopoli molto motivato per evitare i play-out. Modica schiera un 4-3-3 inedito con Piana in porta, in difesa Salvo e Dumbravanu sulle fasce e Pacciardi e Polito centrali; centrocampo con Firenze, Giunta e Scafetta; in avanti Luciani, Zunno e Signorile. Parte bene il Monopoli e al 4’ Fornasier di testa si vede respingere il pallone in calcio d’angolo da Piana. Al 7’ ci prova osa in area con un tiro al volo. Al 10’ il Monopoli passa in vantaggio con una autorete di salvo che devia in gol un bel tiro di Borrello. Al 16’ ci prova Barlocco con un colpo di testa. Nel secondo tempo al47’ il Monopoli raddoppia con Tommasini e al 53’ Luciani accorcia le distanze con un colpo di testa su assist di Salvo. Al 57’ gran tiro di Iaccarino dal limite dell’area ben parato da Piana. Al 69’ il Mesina potrebbe pareggiare, Cavallo lancia Ragusa, l’attaccante entra in area, ma il suo tiro viene deviato incredibilmente in angolo da Dalmasso. Il Messina chiude il campionato al 14mo posto con 45 punti, con 11 vittorie, 12 pareggi e 15 sconfitte, 41 i gol fatti e ben 49 quelli subiti. Un campionato che solo nella sua parte centrale ha dato qualche soddisfazione, con la speranza di poter agganciare la zona play-off, ma i diversi errori arbitrali a sfavore ed il calo evidente nell’ultima parte della stagione hanno portato il Messina all’ennesimo campionato anonimo, in attesa di tempi migliori. Tabellino Monopoli-Messina 2-1 Monopoli: Dalmasso, Angileri, Fornasier, Sosa (66' Grandolfo), Tommasini (85' Ardizzone), Borello (75' Bulevardi), Viteritti (85' Berman), De Risio, Bizzotto, Iaccarino (66' Hamlili), Barlocco. A disposizione: Vitale, De Paoli, Ferrini, Cristallo, Simone, Cubretovic, Arioli, Peschetola, Vitale. Allenatore: Taurino. Messina: Piana, Dumbravanu, Firenze, Luciani (76' Plescia), Zunno (60' Ragusa), Signorile (46' Cavallo), Giunta (76' Emmausso), Salvo, Pacciardi (46' Zona), Polito, Scafetta. A disposizione: Fumagalli E., Manetta, Lia, Frisenna, Emmausso, Franco, Adragna, Plescia, Rosafio, Fumagalli J.. Allenatore: Modica. Arbitro: Emmanuele di Pisa. Marcatori: 10' Salvo (aut.) (Mo), 47' Tommasini (Mo), 53' Luciani (Me). Read the full article
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quadernitorinesi · 7 years
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Quaderno 40
L'abbiamo fatto per te, questo sgarbo al cielo l'arrivo del fuoco il peso delle montagne la tormenta il temporale d'estate la furia del meteo e quest'estate al contrario che arriverà con un altro uragano scomposto a portarci via dalla testa canzoni che incidono con strofe che parlano di capelli sulla faccia, i tuoi - che ti dovevi ancora tagliare che non avevi avuto il tempo di tagliarti, è solo decompressione, vedi, è soltanto aria che passa e la stagione che se ne va col sangue e domandarsi cento volte quanto spazio occupano questi pensieri nella scatola nera del tuo cuore, quello che batteva su lenzuola che non erano le nostre, sottili e stropicciate con piccoli fiori che si aprivano come si aprivano i tuoi occhi mentre mi fissavi le labbra mentre scuotevi la testa mentre ti facevi prendere da quel panico che adesso rimpiango, quel panico che comunque ti teneva lì, davanti a me, che ti teneva con me, che ti teneva di fronte a me con tutto il tuo bagaglio di paure di dubbi di piccole dita tormentate le pellicine le ferite i nostri traumi le storie che sono finite male e ci hanno regalato la certezza che è meglio questa solitudine pesante, liquida, che arriva da tutte le parti come acqua che rompe le dighe, esattamente prepotente come la tua bellezza che si infrangeva come un uccello che non distingue il vetro, quella tua bellezza imbarazzata che chiedeva scusa che aveva l'odore dell'asfalto dei parcheggi dei supermercati come quando parlavi dei miei occhi come i palloni con cui giocavi a pallone con l'arrivo del caldo, come le tue mani che sono i rami degli alberi che stanno già morendo, è in arrivo l'autunno in vene di cristallo e di piombo e tu a centomilari di chilometri dall'altra parte dell'autostrada a fare delle valigie o a prendere dei treni perso in pensieri dentro cui non so più stare, perso in quella bellezza che passa e se ne va tirando su la pelle d'oca sulle braccia
oggi più di qualsiasi altro giorno sulla terra il senso di decompressione schiaccia le vene e la testa di fronte a tutte le cose che siamo riusciti a far succedere tranne amarci, tutte le cose che sono alla fine accadute e che mesi fa sono cominciate con una scintilla, con te che semplicemente mettevi su un disco mentre aspettavamo che cuocesse la pasta, le magie che sono accadute mentre eravamo distratti mentre tu mi guardavi e con le parole più brutte e pesanti dicevi ancora parole d'amore - ci toccavamo come si toccano i pesci sott'acqua, che si sfiorano con la naturalezza di uno spazio comune, quello spazio era un letto di ferro all'ultimo piano di un vecchio palazzo e il tuo sorriso un po' furbo e curioso sotto il cappello stretto che liberava all'improvviso una cascata di capelli e non te li tagliare mai, pensavo, e non te li tagliare - qualcuno prende i Sillabari di Parise dallo scaffale senza sapere di quel libro e di te che di mattina presto prima di andare a lavorare ne leggevi uno cercando di tenerti al passo coi tempi, e dicendo quelle cose straniere e preziose mi prendevi per il polso con anelli di metallo come quelli degli uccelli che devono tornare, devo tornare devi tornare, devi tornare tu, dovresti, tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare tornare da me.
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pangeanews · 4 years
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Le molteplici esistenze di Roberto Baggio, il Bodhisattva del calcio
Nell’ultima delle sue esistenze “era un leone crinito e viveva nella Grotta d’Oro sull’Himalaya”: chi lo guardava, incapace di sostenerne lo sguardo, diceva “Rifulgi nella tua potenza, signore”. L’ultimo gol in campionato accade al minuto numero 89, contro la Lazio. Il leone riceve palla in area di rigore, scarta un uomo, un altro lo sta per attaccare ma lui ha già tirato: angolo della porta alla sua sinistra, la rete oscilla, con sintonia di preghiera, perfetto. Il Brescia batte la Lazio 2 a 1. Nei Campionati italiani il leone chiude con 220 reti, contando la doppietta che nel 2000 consente all’Inter di accedere alla Champions League, un regalo mistico – lo spareggio è in appendice al torneo – dopo una stagione triste. Ama la rotondità, la sfera, i compiti ben fatti, il leone – non ha bisogno di ruggire, ha reagito così tante volte. Quello stesso gol, meraviglioso, ricorda quelli che realizzava, con precisione marziale, molte vite prime, con il Vicenza, con la Fiorentina. Passato e futuro si chiudono ad anello, il leone, ora, può schiudersi verso la sparizione.
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Così evanescente, così cristallino, Roberto Baggio pare la fioritura dei ciliegi: il gesto ti folgora, ti ubriaca fino a dissipare ogni aggettivo. Poi va, il fiore si scinde, si perde. Dubiti che sia mai esistito. Non sta nel recinto delle statistiche, ha una santità diversa dal calcio performativo odierno, muscoli, media gol, registro delle vittorie, Baggio. La sua stagione fenomenale, per dire, l’annata 1992-93, casacca Juventus, 43 presenze complessive e 30 gol, non è da fenomeno, come lo intendiamo oggi, specie di robot da videogame: i bianconeri non vanno oltre al quarto posto in Campionato, c’è la Coppa Uefa, però, a brillare come un scettro raggelato tra le braccia di Baggio.
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Se un uomo – poco conta la sua potenza – si rivela nell’ultimo istante, nel vagito della morte, Roberto Baggio è stato un grande uomo. Le quattro stagioni – dal 2000 al 2004 – passate a Brescia sono il culmine della sua carriera. Il campione non si rilassa in provincia, a far la vigna in area di rigore, al contrario: gioca come non ha mai giocato, pensa ogni partita come l’ultima, declina la velocità in sapienza, il decoro in rettitudine, l’entusiasmo in stile. 45 reti in quattro campionati, tra le più belle realizzate da Baggio. Sceglie di lasciare il calcio da sovrano, da leone, nella folgore, dimostrando che genio è una variante del vuoto, una scelta di solitudine, l’esilio dalla gloria.
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Roberto Baggio, vagabondo del Dharma, non è stato una bandiera come Francesco Totti o Alessandro Del Piero, non è stato un messia come Maradona, non aveva il carisma di Zico. Non ha segnato più di tutti, non ha vinto più di altri, anzi. Roberto Baggio ha vissuto molte vite, è stato il Bodhisattva del calcio, i suoi gol sono simili a sutra, sapienza dissociata dall’utile, dall’utilizzo, dal metodo. Roberto Baggio è stato “la divinità di un albero cresciuto vicino ad uno stagno di loti” nella Fiorentina, è stato il cristallo piantato sulla fronte della Juventus, è stato il re dei lupi nella Nazionale, nel Bologna è stato la volpe sagace a cui il coccodrillo dice “chi come te possiede le quattro virtù, verità, lungimiranza, costanza, generosità, supera il nemico”. È stato la prigione e l’eremitaggio, a Milano, tra Milan e Inter, dove “si diede alla vita ascetica, attinse le Conoscenze superiori e i Poteri vivendo nell’esercizio della meditazione”. Per capire Roberto Baggio – ricordate, a Roma, Italia 90, la rete australe contro la Cecoslovacchia; ricordate a New York, nel 1994, la doppietta contro la Bulgaria – bisogna leggere gli Jataka, la raccolta delle “vite anteriori del Buddha”. Per capire che può esistere costanza nell’incongruenza.
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Baggio è sempre stato nel posto sbagliato, nel momento inopportuno, ignifugo alla fama, in fuga. Per questo è l’uomo dell’imprevisto, dell’istantaneo, dell’impossibile. Relegato nel quarzo, impassibile, Baggio piange dentro – un eremita del calcio con la “leonessa d’Italia”, l’atleta che ha fatto della fragilità una delle quattro nobili verità che guida “Brescia la forte, Brescia la ferrea”. È proprio vero, c’è magia nell’incongruenza.
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“La presenza di Baggio è intermittente, liminale, sempre sospesa sul crinale del tradimento. Vederlo giocare è come aspettare una stella cadente la notte di San Lorenzo, e se vogliamo è un’esperienza più religiosa che veder giocare Maradona: bisogna essere disposti a contemplare un’assenza, aspettando qualcosa che potrebbe manifestarsi oppure no e che, se anche dovesse manifestarsi, si scioglierà nel buio un attimo dopo”, scrive Stefano Piri, geografo dell’inarginabile fin dalla nota biografica (“Era allo stadio il giorno dell’ultima partita di Baggio in Nazionale e non ha mai dimenticato un’emozione strana – quella di assistere alla fine di un’epoca senza rendersene pienamente conto”), in un libro raffinato, Roberto Baggio. Avevo solo un pensiero (66thand2nd, 2020).
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Chi è cresciuto giocando sotto l’egida algida di Baggio sa che il calcio è un morso, la soluzione di un koan, l’illuminazione abbagliante. Sa che si gioca per 90 minuti cullando l’inatteso, che una vita atletica si riassume, alla maniera di Dante, in una terzina: tocco-scarto-rete. In questa eresia del triplice e del nascosto, in questo esoterismo dell’invisibile giace il gioco di Baggio.
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Naturalmente, il libro di Piri è più riuscito di un docufilm sulla vita di Baggio perché le parole riescono a carpire ciò che al video è precluso: l’ombra, lo scavo, il mistero. E Baggio è lì, un tuono partorito dall’ombra, imperterrita. Così, i secondi che precedono il minuto 88 della partita fatale, Nigeria vs. Italia, Foxboro Stadium, Boston, ottavi di finale dei Mondiali di calcio, 5 luglio 1994, Piri li legge così: “è un’idea mia e posso sbagliarmi, ma per me dal linguaggio del corpo è evidente che Baggio non vuole davvero il pallone. Sente che se gli passano la palla sbaglierà di nuovo, non vuole essere lì in quel momento, spera che tutto finisca in fretta e di tornarsene a casa e di dimenticarsi tutto. Invece il pallone arriva e la sua girata verso la porta ha una delicatezza quasi infantile… tutta l’azione ha qualcosa di goffo, scoordinato e vorrei dire tenero, come i gol maldestri che segnano i bambini nelle porte giocattolo coi pali di plastica”.
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Baggio non può piacere perché la sua ritrosia è presa per arroganza, la modestia per presunzione, l’umiltà per orgoglio, l’assenza di scaltrezza per supponenza. Costantemente, tutto ciò che fa è letto a contrario, e nel suo silenzio, spesso, non c’è il rebus del Buddha, ma soltanto la rassegnazione di chi possiede l’Ottuplice Sentiero nelle caviglie, un talento talmente vasto che va dissipato, come la fioritura dei ciliegi, perché il bello ha ragione sul giusto, lo spreco sul buon gusto.
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Nell’eludere ogni natura, smarcandosi dai segni – a Bologna, dove segna 22 reti, il suo personale record in Campionato, appare azzerato di divin codino, pieno della sua rinuncia – è il genio sibillino di Roberto Baggio.
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Supera ogni discorso atletico, Baggio: quando si parla di lui se ne parla come della pupilla di un santo, di una reliquia, con toni da cripta teologica. “Uno degli ultimi veri predestinati del nostro calcio”, dice di lui Piri. Con evidenza, la sua passione appare ferocia a chi non gli si appresta, devoto – egli sa, del tetragramma calcistico, ogni cabbala, noi siamo soltanto geometri della zolla al suo cospetto. Nel Sutta Nipata, testo fondamentale del Buddhismo primo, è scritto: “Chi procede solitario e vigilante, imperturbabile nel biasimo e nella lode, impavido come un leone fra i clamori, libero come il vento che non s’impiglia in una rete, incontaminato come il loto che non s’insudicia a contatto dell’acqua, guida degli altri e non guidato da alcuno, quello i saggi riconoscono come maestro”. Tutto gli è stato dato, tutto ha concesso, Baggio. Per caso un bodhisattva si è incarnato sul campo da calcio, in un dato istante della storia. Non ha avuto bisogno di astuzia, era puro gesto, atto depurato dal risultato, Baggio, di cui risalta l’oro, lo sterminio dei demoni. Di questo, molti anni dopo, siamo ancora stupefatti, e la nostalgia non è che un altro modo per sarchiare la luce dal caos. (d.b.)
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plumisuniverse · 6 years
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"Ho rivisto i tuoi occhi in quelli di un bambino. Mi sono ricordata di come fosse facile perdersi ad ascoltarti; riuscivo ad assimilare ogni tua minima sfumatura senza vedere mai oscurare le tue ali.
Ti credevi un demone, probabilmente ti credi ancora così. Ma siamo tutti demoni di noi stessi o di qualcun altro, poiché portiamo dentro mostri che a volte ci distruggono pezzo per pezzo.
Avevo imparato a volare attraverso le tue ali, le condividevamo. Come del resto condividevamo ogni cosa.
Mi ricordo il tuo profumo, mi ricordo quel tuo tic adorabile del fingere di avere un pallone da basket per palleggiare.
Mi ricordo di quel giorno. Dai, sai quale intendo, ti sarà venuto alla mente appena ho scritto questa frase. Sai quella giornata di carnevale? Non puoi averla dimenticata, l'avrai accantonata ma non puoi cancellarla.
Essa è il ricordo più bello di te. Più delle mille parole e dei cuori, del tuo modo di chiamarmi 'piccola' o ‘principessa’, più del tuo ‘per sempre’ e del tuo ‘Sei unica’.
Mi sei entrato nelle vene, hai scavato fino al cuore e sai che ti sei preso ciò che io avevo ricostruito di me. Tu mi avevi riportata a volare, a credere. Ricordi il mio ‘sii gentile e abbi coraggio’, tratto da Cenerentola? Certo che sì. Da quando te l'avevo detto tu lo avevi incamerato come fosse la frase che mi descriveva di più.
È stata importante quella giornata perché, come tutte le volte che eravamo insieme, mi hai dimostrato di essere il mio angelo.
Battevi le ali, diavolo di un angelo, solo per riportare luce su alcune parti di me che avevo dimenticato.
Io sono solo un essere umano dominato da demoni, tu eri il demone angelico per cui piccole persone come me incidevano parole di cristallo da donare all'universo.
Tu eri il senso.
Ora il senso non esiste più.
- plumisuniverse
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juvestreaming · 7 years
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Il mago Caressa legge nel suo pallone di cristallo il nome del prossimo allenatore della Juve http://www.diggita.it/v.php?id=1609353
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serieastreaming · 7 years
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Il mago Caressa legge nel suo pallone di cristallo il nome del prossimo allenatore della http://www.diggita.it/v.php?id=1609353
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regalinatale · 7 years
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Puzzle 3D Pallone di cristallo
Puzzle 3D Pallone di cristallo
Un oggetto molto particolare legato sempre ai regali del mondo del calcio e dello sport più in generale può essere rappresentato da questo pallone di criztallo che in realtà è pure in divertente puzzle tridimensionale. Vediamo un pò meglio l’aspetto ludico di questo gioco che può eessere considerato divertente già per i bambini di oltre 10 anni ma allo stesso tempo per gli adulti: è composto da…
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realpaparazzi · 7 years
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Dzeko Re della classifica marcatori a suon di gol
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Dzeko sempre più leader della classifica marcatori. Bastano dieci minuti perché il secondo posto del Napoli evapori. Bastano dieci minuti al Torino per capire che, in questo periodo, contro la Roma c’è davvero poco da fare. Troppo crudele Dzeko, troppo ispirato Salah, troppo pungente Nainggolan. In giornate così, nemmeno le streghe degli ex – Ljajic, Falque, Iturbe – riescono a infastidire Spalletti. Che magari non recupera punti alla Juve, ma con il 4-1 al Torino – secondo poker in quattro giorni – tiene sotto controllo il secondo posto in vista di una dieci giorni con Villarreal, Inter, Lazio e Napoli ad attenderlo. La dedica è ovviamente allo sfortunato Florenzi: “presente” sulle maglie dei compagni, dove il club ha stampato il “suo” 24.
Come andrà a finire si capisce subito. La certezza la offre il solito Dzeko. Che dopo 10′ riceve da Nainggolan e centra il suo personalissimo poker dopo la tripletta in Europa League con l’unico fondamentale che ancora mancava all’appello: il tiro da fuori. Destro all’angolo per bucare l’amico Hart, 19esimo centro in campionato a affermare la leadership tra i marcatori di serie A, 29esimo stagionale.
Da quel momento non c’è più gara. La Roma è una biglia d’acciaio che scivola liscia sul cristallo mentre il Toro annaspa in un campo che sembra troppo largo perché i suoi difensori riescano a coprirlo tutto. L’unica conseguenza possibile è il raddoppio romanista. Che puntualmente materializza al 17′, quando Strootman inventa un lob verso l’area e Barreca anticipa di testa Dzeko trasformando un pallone innocuo nell’assist per Salah. Volée dell’egiziano e palla nell’angolo per il 2-0. Pochi istanti dopo sarebbero addirittura tre se il palo non respingesse un arcobaleno dipinto dal solito numero undici dopo cavalcata maestosa sulla destra.
L’unica reazione del Toro è un destro al volo di Lukic, largo alla sinistra di Szczesny.  Quando a inizio ripresa Baselli tarda sull’invito di Zappacosta dal fondo, pure Mihajlovic capisce che è il caso di tentare qualcosa di diverso. Ripone la tattica e s’affida alle stelle, mandando in campo Iturbe, colpo di gennaio che ha ancora nei polmoni l’aria di Trigoria. Il terzo ex granata, dopo Falque e Ljajic. L’ingresso dell’argentino-paraguayano però fa effetto su Paredes, il suo più caro amico dei tempi di Roma. Prima il “5” di Spalletti sradica un pallone che poteva valere il 3-0 di Dzeko. Poi decide che il gol è comunque ora di farlo e spedisce una destro che falcia l’erba dell’Olimpico e si spegne nell’angolo. E’ la pietra tombale sul match, archiviato in pieno recupero dal poker di Nainggolan su invito delizioso di Totti (acclamato da bambini nei distinti). Pochi istanti prima aveva lasciato il segno pure la “lavatrice” Maxi Lopez: golletto utile solo per infrangere l’imbattibilità di Szczesny. E magari mandare un messaggio al criticissimo Mihajlovic. Per togliere punti alla Roma, oggi, serve decisamente altro.
Un anno di transizione quello scorso in cui Dzeko, ha subito l’adattamento al nostro campionato. Un anno di assestamento ma un campione resta tale e quello che l’attaccante stà dimostrando in questo campionato è ciò per cui chi lo aveva portato nella capitale voleva che fosse: un leader, un goleador un uomo su cui puntare per traguardi importanti.
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thebeckhamrule-blog · 7 years
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#10tofollow
Ogni anno lo sport si arricchisce di personaggi sempre nuovi e ne perde, non nel senso fisico del termine, ma solamente a livello di popolarità e attenzione mediatica, altri, in una sorta di onda che vede gli atleti partire dal basso per risalire pian piano, raggiungere il picco della fama o più semplicemente delle proprie capacità atletiche, e poi scivolare verso il punto di partenza. Non è una cosa particolarmente triste, pur con alcune notevoli e drammatiche eccezioni, ma è un percorso fisiologico che tutti quanti attraversano. Quali potrebbero essere i personaggi che segneranno questa stagione sportiva, chi più e chi meno, a svariati livelli di popolarità? Non è per niente facile indovinarlo, anzi direi che è quasi impossibile prevederlo, ma in questo pezzo leggerete di dieci atleti che sicuramente faranno parlare molto di sé in questo A.D. 2017, e che potrebbero ritagliarsi uno spazio importantissimo sulle pagine dei vostri giornali e sulle righe dei vostri siti internet preferiti.
 Henrik Kristoffersen
Se non fosse per la sempre ingombrante presenza del fenomeno austriaco che all'anagrafe fa Marcel Hirscher non potrebbero esserci dubbi sul fatto che Henrik Kristoffersen sia il più grande slalomista al momento sulla faccia del pianeta Terra. Purtroppo per il giovane norvegese Hirscher esiste, ma comunque in questi ultimi due anni ha mostrato di poterlo battere tranquillamente in questa specialità. L'anno scorso Kristoffersen ha vinto la sua prima coppa del mondo di specialità, con il rivale austriaco comunque portatosi tranquillamente a casa la sua quinta coppa di cristallo, e questa stagione sta ottenendo prestazioni stratosferiche, avendo recuperato lo svantaggio accumulato nei primi due slalom stagionali saltati a causa di problemi con gli sponsor. Quest'anno ci saranno anche i Mondiali, a Sankt Moritz, la località sciistica probabilmente più esclusiva al mondo, e Henrik ha la prima grande possibilità per cogliere il trionfo iridato. Qualunque gara tecnica alla quale Marcel Hirscher possa essere iscritto lo vede sicuramente come principale favorito, ma è veramente difficile ignorare lo stato di forma e le qualità di questo gatto, talmente agile da passare sotto le porte e non farsi niente, capace di curvare in maniera assurda con una semplicità imbarazzante e una superiorità tecnica rispetto a tutti gli altri che, in questa specialità, lo rendono già adesso l'unico a poter stare, tra gli atleti ancora attivi, sull'Olimpo dello slalom insieme alla macchina di Annaberg.
 Antonio Conte
Dopo Claudio Ranieri, un altro allenatore italiano potrebbe condurre alla vittoria della Premier League una squadra dalla maglia azzurra che aveva concluso una scorsa stagione in maniera deludente rischiando anche di retrocedere. Ok, la vittoria del Chelsea non sarebbe sorprendente come quella del Leicester, ma era effettivamente poco prevedibile che la squadra dell'ex allenatore della Nazionale potesse essere a gennaio in testa alla classifica con così tante possibilità di alzare il trofeo alla fine della stagione. Secondo alcuni opinionisti inglesi, con l'ex portiere trinidadiano Shaka Hislop in prima fila, questo Chelsea ha già vinto il titolo, con nessuna delle altre pretendenti a poterli insidiare. Così forse è un po' troppo, anche perché la sconfitta nel derby con il Tottenham ha dimostrato che questi Blues si possono battere, ma il mister pugliese è riuscito in poco tempo a ridare stimoli ad una piazza che sembrava morta, con la stella Eden Hazard reduce dalla peggiore stagione della sua carriera londinese, un po' come aveva fatto anche alla Juventus, portata al titolo alla prima stagione in panchina. In Italia molto facilmente ci dedichiamo all'elogio più sfrenato delle nostre individualità, anche se fino a pochi mesi fa (prima dell'Europeo francese) queste stesse individualità erano state fortemente criticate un po' da tutti, e per questo può capitare di sentir parlare di Conte come del miglior allenatore al mondo. Io non credo molto in queste classifiche, e non ho il minimo interesse a sapere chi sia il miglior allenatore a tutto tondo, e non ritengo nemmeno che lo si possa esprimere, ma l'allenatore originario di Lecce sta dimostrando che pochi suoi colleghi sono in grado di portare risultati concreti in un tempo così rapido, anche se magari poi la data di scadenza della squadra è leggermente più vicina del previsto.
 Roberto Gagliardini
Parliamoci sinceramente, che nessuno si prenda meriti che non ha. Fino all'inizio di questa stagione a nessuno nemmeno importava sapere chi fosse Roberto Gagliardini, che era appena tornato da un deludente prestito a Vicenza (il terzo in Serie B, nessuno dei quali esaltante), e nemmeno lo stesso centrocampista bergamasco probabilmente si immaginava un semestre come quello appena passato. Come l'Atalanta del guru Gasperini, finalmente convincente anche fuori dalla sua comfort zone vicino all'Acquario e a Via del Campo, il fenomeno Gagliardini è esploso all'improvviso, quasi dal nulla. L'Inter lo ha infatti appena prelevato in prestito con un diritto di riscatto a fine stagione che va oltre i venti milioni di euro. Ovvio che molti occhi siano puntati su di lui. L'importante, per lo sviluppo e la crescita di un talento come quello di Gagliardini, è evitare di caricarlo di eccessive pressioni come fatto con Kondogbia. Non bisogna pretendere dal ragazzo, solo per il prezzo del suo cartellino, una caterva di gol/assist, perché non è questo quello che Roberto Gagliardini può portare all'Inter. L'ex atalantino è una mezzala ottima nel recupero palla e abbastanza capace nel gestire il pallone una volta recuperato, ma non è né Pogba, come riportavano i giornalisti della Gazzetta, né il giocatore che, probabilmente, si adatta perfettamente a coprire il ruolo nello schema di Pioli che ai tempi della Lazio era occupato da Lucas Biglia, non a caso fortemente richiesto dal tecnico parmense. Roberto Gagliardini è un giocatore utile, anche unico in quelle che sono le sue caratteristiche, che può mostrare di valere quanto speso per lui, ma certamente non sarà un giocatore appariscente che in molti si possono aspettare, e quindi è meglio non covare aspettative eccessive su questo ragazzo esploso quasi dal nulla.
 Fabio Aru
Non è mai facile parlare di un giovane ciclista che affronta per la prima volta il Tour de France da capitano della propria squadra, perché il Tour è una corsa completamente a sé stante e per quanto tu possa aver vinto e fatto bene negli altri due grandi giri, l'atmosfera e le avversità che ci saranno sulle strade francesi saranno comunque un'esperienza del tutto nuova. Per questo motivo è esagerato definire fallimentare l'annata 2016 di Fabio Aru, ma sicuramente la parola da utilizzare in questo caso non può essere "positiva". Per questo motivo il ciclista sardo non vede l'ora di rifarsi e questo è l'Anno con la A maiuscola. Il Giro d'Italia parte dalla sua isola natale, Nibali se ne è andato alla Bahrain Merida lasciando il giovane come capitano unico dell'Astana e gli avversari alla corsa rosa saranno molti e agguerriti, a partire proprio dall'ex compagno di squadra di Aru per poi passare anche ad un altro corridore che vedremo più avanti in questa lista, il colombiano Nairo Quintana. Tutti si aspettano molto da Aru, che è visto come il futuro del ciclismo italiano ormai che Nibali, che ha già fatto tantissimo per il nostro movimento, con una carriera straordinaria, ha scavallato i trent'anni e che gli altri talenti sembrano non riuscire mai ad esplodere realmente.
 La Lineup of Death
Quanto è dura la vita di un Superteam NBA? Sicuramente non è affatto facile, perché c'è l'obbligo di vincere, possibilmente dominando, e tutte le sconfitte, che nel corso delle 82 gare sarebbero pure fisiologiche, vengono utilizzate per riempire di critiche le scelte della dirigenza in off-season. Questa è la situazione dei Golden State Warriors da quando Kevin Durant ha messo piede sulla Baia, nonostante la squadra sia più che felicemente prima nella sua conference con un record più che ottimo. Ma questo è, e qualunque risultato che non sia la vittoria sarà da considerarsi un fallimento, come in fin dei conti è giusto che sia, visto che proprio gli Warriors si sono messi scientemente in questa pericolosa situazione. La Lineup of Death ha una responsabilità incredibile, perché è quella in cui si concentrano le maggiori attenzioni, ovviamente, ma anche i maggiori dubbi, perché la composizione di questo quintetto ai limiti dell'assurdo, impossibile da difendere perché ci sono cinque giocatori letali a scambiarsi il pallone costringendo la difesa a delle scelte che liberano per forza di cose una più che eccezionale bocca di fuoco, ha costretto la squadra a privarsi di giocatori fondamentali nel corso della vittoria del primo titolo per Curry, Thompson e compagnia cantante. E comunque vada, a Oakland non devono mai scordarsi che nell'Ohio c'è un automa abbastanza motivato a sconfiggerli un'altra volta.
 Lonzo Ball
Nella Southern California c'è una piccola palestra, quella della Chino Hills High School, dove un padre sta tentando, attraverso i suoi tre figli, cavie consapevoli di questo esperimento da consulenti criminali alla Jim Moriarty, di rivoluzionare il mondo della palla a spicchi. LaVar Ball ha passato infatti gli ultimi anni della sua vita ad allenare i figli nei tiri da tre punti, e fino a qui non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse che i piedi di Lonzo, LaMelo e LiAngelo (i tre nomi, alquanto fantasiosi, dei tre giovani Ball) sono molto spesso posizionati più vicini alla linea di metà campo che all'arco che delimita l'area dei due punti. Lonzo, il più grande dei tre fratelli, è al momento freshmen per UC LA, ma il suo impatto con il college è stato talmente incredibile che una delle prime tre scelte al prossimo draft (già di per sé stracolmo di talento) sembra essere se non scontata, altamente probabile. Difficile che un giocatore del genere possa arrivare in NBA e prenderla by storm un po' come ha fatto Karl Anthony Towns lo scorso anno, ma la curiosità su di lui è altissima, anche perché credo che tutti vogliano sapere se un approccio del genere alla pallacanestro possa essere fruttuoso anche al livello più alto. Intanto la stagione collegiale va avanti e grazie a Lonzo Ball University of California @ Los Angeles sembra poter tornare ad ambire al titolo NCAA, che non vede più i Bruins tra i più forti da quando il draft si è portato via quei due giocatorini che sono Russel Westbrook e Kevin Love.
 Marco Verratti
Negli ultimi anni stiamo assistendo sempre più a trasferimenti di giocatori attraverso il pagamento di cifre astronomiche, quasi impensabili per l'acquisto di quelle che sono le prestazioni sportive di persone, chi più e chi meno, simili a tutti noi. La prossima estate la cifra fatidica dei cento milioni di euro potrebbe essere passata da un terzo giocatore, dopo Bale al Real Madrid e il recente Paul Pogba al Manchester United, e questo giocatore potrebbe essere un italiano: Marco Verratti, che non sembra il giocatore perfetto per Unai Emery, e che potrebbe finalmente realizzare il sogno bagnato delle notti del Real Madrid, ovvero diventare un giocatore della Casa Blanca, nonostante lo stesso talento pescarese abbia affermato la sua contrarietà ad un prezzo così alto per un trasferimento. Solamente noi italiani non sembriamo esserci accorti a pieno di quanto talentuoso sia Marco Verratti e di quanto meriterebbe le chiavi della nazionale e la possibilità di fare e disfare a piacimento le fila dei nostri azzurri. Nonostante un brutto infortunio che lo ha limitato per quasi tutto lo scorso anno, l'abruzzese è uno dei pochi al di fuori della Catalogna a interpretare il ruolo del centrocampista in una certa maniera e in molti hanno notato la somiglianza del suo gioco con quello di Xavi e Iniesta. In caso di firma con il Real sorgerebbe allora il dubbio su chi togliere per far posto a lui fra Kroos e Modric e potrebbe creare molti squilibri all'interno della squadra di Zidane. Siamo veramente sicuri che il Barcellona, con il calo fisiologico di Iniesta e la probabile cessione di Rakitic a giugno, non sia la big che più uscirebbe rafforzata dall'arrivo di Verratti?
 Alessandro Gentile
Fin dall'intervista post scudetto contro Reggio Emilia, nella quale Alessandro Gentile annunciava conclusa la sua avventura a Milano (e invece non lo era), il figlio di Nando e la squadra di cui era capitano hanno pian piano allontanato i loro destini, prima con la fascia di capitano toltagli dal presidente Livio Proli nel corso di un'intervista alla Gazzetta, fino ad arrivare al calcione tirato ad un secchio che gli è costata la panchina per l'intero secondo tempo su precisa indicazione di coach Repesa. Adesso Alessandro veste la maglia del Panathinaikos, ma è in prestito e a fine stagione tornerà di nuovo a Milano. A quel punto il destino di uno dei giocatori italiani più talentuosi degli ultimi anni  potrebbe prevedere qualunque opzione. Potrebbe rimanere a Milano e cercare di riprendersi la fascia di capitano, potrebbe tentare l'avventura nella NBA e far valere la scelta degli Houston Rockets, oppure abbandonare l'Italia per provare a diventare una leggenda del basket europeo, anche perché il talento di Gentile è assolutamente innegabile.
 Nairo Quintana
Da quando nel 1998 il compianto Marco Pantani realizzò una storica quanto imprevedibile doppietta Giro-Tour in molti hanno provato a replicare l'impresa del ciclista romagnolo senza mai riuscirci, fallendo completamente o vincendo solamente una delle due grandi maglie. In molti sostengono che con la stagione sempre più lunga del ciclismo e con la iper specializzazione dei ciclisti imprese del genere non siano più raggiungibili, ma Nairo Quintana ha deciso comunque di porsi questo gigantesco obiettivo per la prossima stagione, pur sapendo di dover affrontare una durissima concorrenza da entrambi i lati delle Alpi, con i due alfieri azzurri Nibali e Aru sulle strade italiane e con il dominatore degli ultimi anni di Tour Chris Froome su quelle francesi. Il colombiano, che ricordiamo ha ancora solamente ventisei anni, è ormai da qualche anno uno dei Big 4, insieme a Nibali, Froome e, ormai un gradino più dietro, Alberto Contador, ed è probabilmente quello più potenzialmente devastante con i suoi scatti sui pedali, eppure negli ultimi due Tour de France è stato aspramente criticato per il suo immobilismo, tanto da sembrare quasi il più fedele scudiero del kenyano bianco. Se uno come Quintana si propone di partecipare sia al Giro che al Tour è evidente che lo faccia per vincere, e questa annata potrebbe mostrarci, ovviamente non in maniera definitiva, se è ancora possibile nel ciclismo degli anni dieci, portare a casa nello stesso anno sia la maglia rosa che quella gialla.
 Gli attaccanti del Napoli
Con Arkadiusz Milik sulla strada del ritorno dall'infortunio, con Leonardo Pavoletti appena arrivato da Genova, e con la probabile partenza di Manolo Gabbiadini da sotto il Vesuvio, il reparto offensivo si prepara a vivere un'annata concitata. Il gioco del Napoli e le prestazioni mostruose di Mertens come punta hanno tolto l'attenzione mediatica da questa situazione, ma è chiaro che il folletto belga non sia il giocatore perfetto per quel ruolo nello scacchiere del tecnico napoletano. Questo ruolo dovrebbe essere occupato da uno fra il polacco e il neoacquisto livornese, entrambi reduci da problemi fisici. Milik sembrerebbe di natura il più adatto, con la sua capacità fenomenale di attaccare la profondità e con la sua tecnica che gli permette di dialogare con i compagni di reparto, mentre Pavoletti possiede una qualità nettamente inferiore, ma sarebbe una calamita perfetta per i cross che arrivano a decine dalle fasce azzurre, spesso per mano dei terzini. Non manca tantissimo al Napoli per poter ambire al ruolo di potenza europea sul campo, ma sicuramente lo spot di prima punta sta offrendo non pochi grattacapi a Maurizio Sarri, con gli ottavi di Champions League contro il Real Madrid detentore della coppa che si avvicinano a velocità sempre maggiore.
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pangeanews · 4 years
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Henry de Montherlant, il Minotauro, l’amicizia con Henri Matisse e la virtù del disprezzo. “Non è insana la passione, è insana la convinzione che la passione sia insana”
Nell’alcova della luce giace la tenebra, così la ferocia esalta il cibo in rito. L’ardore per la tauromachia porta Henry de Montherlant, un secolo fa, a sondare la bestia, che lo perfora. Il dolore esegue il canone sacro: diventa gorgo che ispira. Il rapporto con la bestialità – in fondo: con il corpo, la sfida, il sangue – domina l’opera di Montherlant, che aggioga il caos in una scrittura caravaggesca, corrosiva, aristocratica, antistorica. Da Les Bestiaires a Les Olympiques, la solarità della carne – cioè, la sua ombra – è il carisma del libro; d’altra parte, il ciclo de “Les jeunes filles” – memorabile: s’affretta Adelphi a pubblicare gli altri tre libri del ciclo dopo Le ragazze da marito, era il 2000, un millennio editoriale fa? – non è che una pervicace, preziosa, cruenta tauromachia. Al posto del toro, lì, c’è una follia di donne. Inevitabilmente, dal toro Montherlant passa al Minotauro.
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Affascinato dall’altro, dallo ‘strano’, Montherlant offre carattere di mostro al suo Malatesta: un principe recluso in un labirinto di sguardi, nell’effimero della propria grandezza. Anche lui, in effetti, il divo Henry, vive, scrivendo Malatesta, nel labirinto: a Parigi, osteggiato dai collaborazionisti, odiato dai resistenti, troppo individualista, individuo puro, perciò, mostro. Dove gli altri ansimano di contraddizione, egli vive nel cristallo del sé, fuori da tutto.
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Mentre, il 7 febbraio scorso, dispensavo – manco fossi un D’Annunzio sulla Vienna della nostra ignavia – copie del Malatesta di Montherlant, al Teatro Galli di Rimini (così restaurato da restare ignifugo alla meraviglia). Qualche ora prima, direi. Una signora mi si fa accanto. “Questi sono per lei”. Sfodera libri da una sacca. Non si presenta se non con un, “Sa, Carlo Bo veniva a casa mia, parlavamo di letteratura francese”. Le è piaciuto il mio estro energumeno – perché, poi?, mah… amo chi sfida l’oblio con eccesso di aggettivazione, direi – nel divulgare didatticamente Montherlant. Esito: ho vinto una catasta di libri. Prime edizioni Gallimard dei testi teatrali: La ville dont le prince est un enfant, Celles qu’on prend dans ses bras, ad esempio. I libri più importanti, per me che sono una iena bibliografica, però, sono altri, sono due. Il profilo di Montherlant stilato da Henri Perruchot (sempre Gallimard, 1959) e quello di Pierre Sipriot, Montherlant par lui-même edito da Seuil in quello stesso 1959. Il repertorio fotografico è vasto: ho bisogno di vedere il volto di uno scrittore per confortare l’opera. Fin da bambino: la faccia supponente di chi suppone per sé un destino diverso, fino all’atomo di morte. Poi, trentenne, orecchie a punta, labbra carnali ma volto astratto; eleganza e spada in mano. Certo: Montherlant posa, ma sa che tutto è posizione, posa, postura. In alcune immagini, gioca a pallone, in porta.
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Ovviamente, ci sono dei testi, tra mistica e narcisismo, superbi, superiori. “Finis gloriae mundi è un luogo comune. Ni mas ni menos non lo è. Ovviamente, il primo è il punto di vista cattolico. Non si tratta qui, però, dell’equivalenza tra vizi e virtù intesi secondo la tradizione cristiana. Si tratta, piuttosto, della presenza di ciò che è contrario in ciascuna cosa, come manifestazione della vita. C’è solo una divinità, ed è la vita. Questa idea si trova in ciascuno dei miei libri, sotto forma di principio o di aneddoto. Questa morale è la mia morale. E questo equilibrio, più ancora delle corna del toro e della torre in fiamme o altro, dovrebbe essere il segno della mia vita e della mia opera”.
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Tra i testi che la nobile signora – dileguatasi prima di un aureo grazie, come le creature autentiche – mi dona, mi cattura l’edizione che raccoglie Demain il fera jour e Pasiphaé (Gallimard, 1949). M’interessa, soprattutto, quest’ultimo testo, Pasiphaé, scritto nel 1936 – all’altezza de “Les Jeunes Filles”, dunque in quel delirio dell’eros, in una estatica del torbido – e andato in scena la prima volta al Théâtre Pigalle di Parigi il 6 dicembre 1938, con Catherine Seneur come Pasifae. Nel discorso introduttivo, Montherlant dice: “Pasifae è un’opera dell’immaginazione: ho inteso tastare la parte patetica e quella razionale dello spettatore, essere un moralista, cioè uno che studia le passioni, e un moralizzatore, cioè colui che propone una certa morale. Sia chiaro che questa morale, se in alcuni punti corrisponde esattamente (senza che l’autore ne apporvi il gene) a una moralità volgare, in altri vi si oppone del tutto”.
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Montherlant gode nel sondare il contrasto: figlia di dèi, Pasifae, insieme a Minosse, partorisce Arianna e Fedra, donne dall’amore ‘mostruoso’; unendosi al toro bianco partorisce Minotauro – questa brama è colpevole o sacra? Quando Pasifae si lancia tra le tenebre della passione, il Coro risponde: “Non esiste tenebra né voragine né nulla di simile. Non c’è una zona oscura nell’anima. Se lei commette il caos, tutta la natura è caos. Non è insana la sua passione, è insana la convinzione che la passione sia insana. Metà donna e metà dea, l’infermità umana la fa soffrire di un male che è orrore solo nella sua mente. O vergognose spirali del cervello umano!”.
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Nel 1944 Henri Matisse realizza alcuni disegni per una edizione speciale di Pasiphaé, uscita per Fabiani in 200 copie. Il libro è un capolavoro. L’amicizia tra Matisse e Montherlant è testimoniata da una serie di ritratti realizzati dall’artista dal 1940 che bloccano il cranio miceneo dello scrittore. Il mito del Minotauro, in effetti, attrae i grandi: Picasso disegna e dipinge minotauri dagli anni Trenta; la Yurcenar dà voce ad Arianna nel 1939. Il legame tra Matisse e Montherlant si sviluppa in una serie di lettere; questa la scrive l’artista, da Nizza, il 3 maggio 1943.
Caro povero Schiavo,
mi fai pietà! Con il talento eccezionale che hai, con il genio di cui sei stato glorificato, e da cui devi lasciarti possedere, mi immagino il panico che ti affligge, leggendoti. Meno ti infastidisci, più sarai considerato – tanto da avere sufficiente celebrità per una vita… Non fraintendere il mio rimprovero: sono già passato da queste sensazioni, ho avuto il coraggio di voltarmi dall’altra parte e sono felice. Per Pasifae e Canto di Minosse, non preoccuparti, già mi conquistano, sarai soddisfatto del mio lavoro. Sono testi emblematici, pieni di contasti eccessivi, che mi eccitano… Perché non ti piace l’incisione su linoleum? Questa incisione è difficile come suonare il violino: tutto dipende dalla flessibilità dell’arco e dalla sensibilità dell’esecutore. È la prima volta che lavoro con uno scrittore difficile come te… Le foto che mi hai inviato non mi convincono, sono troppo all’acqua di rose per il Montherlant che conosco. Ci vuole un Minosse che incendia, che metta a fuoco l’Inferno. Queste foto, invece, fanno pensare a cappelli a piume, creature ben pettinate, in accordo con una spada ottimamente rifinita e l’introduzione di un accademico stimato, burocratico. Ti prendo in giro, scusami. Ricorda: puoi fare e essere ciò che vuoi, per questo, non fare troppo per la Gloria. Ti saluto con affetto,
Henri Matisse
*
Henri de Montherlant secondo Henri Matisse, 1942
In una lettera del 12 novembre 1944, pur parlando delle opere per Pasifae, Matisse svela il dolore. La moglie Amélie è stata arrestata dalla Gestapo insieme alla figlia Marguerite. La prima viene rilasciata dopo sei mesi; alla seconda combinano di tutto. “Mia figlia è appena tornata da Belfort, una delle 500 liberate su 1500 prigioniere. È stata torturata. Il medico assicura che potrà guarire. I tedeschi sono dei bruti immondi…”.
*
Il costruttore del labirinto e lei che ne svela l’enigma, sovvertendo lo stratagemma con la strategia, sono entrambi umani. Del mostruoso a volte sentiamo il sussurro, altre il morso, il ghigno di corna sulle pareti della prigione. Non chiede più di uscire, benché continuiamo a sacrificargli il vergine del giorno. (d.b.)
***
Lettera di un padre al figlio
Le virtù che devi coltivare sono anzitutto il coraggio, il senso civico, la fierezza, la drittura, il disprezzo, il disinteresse, la grazia, la gratitudine, e, in termini generici, tutto ciò che intendiamo come generosità.
Il coraggio morale è una virtù facile, soprattutto per chi non si cura dell’opinione altrui. Se non lo possiedi, acquisirlo è un affare della volontà, dunque cosa semplice. Di contro, se ti manca il coraggio fisico, conquistarlo è questione di allenamento. La vanità, che guida il mondo, è un sentimento ridicolo. L’orgoglio, se fondato, non aggiunge nulla al merito; se non è fondato, è ridicolo. La superiorità dell’orgoglio sulla vanità è che questa si attende tutto, l’altro non ha bisogno di nulla, non ha bisogno di nutrirsi, è di una sobrietà folle. A metà strada tra la vanità e l’orgoglio trovate la fierezza.
Il disinteresse ti eleva dal volgare. Il disprezzo comprende la stima. Uno dei segni inequivocabili del declino della Francia è l’incapacità del disprezzo. La riconoscenza è un sentimento tanto ostile ai nostri tempi che se non sei addestrato rischi di ignorarlo. Se possiedi questa virtù, il resto verrà di conseguenza.
Devo prevenirti contro l’ambizione. È una passione che fa parte della stupidità della giovinezza. Passati i ventotto anni, l’ambizione è una passione borghese. Certo, puoi coltivare quel sentimento, come qualsiasi altro, come un passatempo, che non ti tocca intimamente.
Henry de Montherlant
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pangeanews · 4 years
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Sono nella classifica dei libri più belli del 2019 stilata dal “Corriere della Sera” (nelle zone infime, tra gli ultimi, tranquilli). Peccato. Era meglio non esserci
Un amico mi sussurra: guarda che ci sei anche tu! Dove?, faccio io, cascando come sempre dall’Athos di cristallo dove vivo. Nella classifica dei migliori libri dell’anno stilata dalla “Lettura” del Corriere della Sera, idiota! Eh!?!, replico, di cosa stai parlando? Cretino, fa lui, staccando il cellulare.
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A conforto della mia ignoranza. “La Lettura”, l’inserto culturale del Corriere della Sera – di solito non lo prendo, è di una noia equinoziale, equina, equatoriale – stila ogni anno una classifica dei migliori libri dell’anno. Per il 2019 “Il pallone d’oro della letteratura” – così il pezzo di Antonio “Anthony” D’Orrico – è andato a Il colibrì di Sandro Veronesi, di cui hanno parlato un poco tutti (non l’ho letto, sto zitto).
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Geografia del voto. La classifica – lo dico dando ancora cura alla mia ignoranza – è stilata registrando le preferenze di 317 “scrittori, traduttori e collaboratori dell’inserto”. Ciascuno di loro ha scelto “i tre migliori libri usciti nel 2019”. Strano. L’amico che mi ha telefonato – e che presumibilmente mi ha votato – non collabora con il Corriere. Diciamo che, stando così le cose, la classifica rispecchia le opinioni dei collaboratori del Corriere. Ecchissenefrega. Forse sarebbe bene allargare le maglie e le mutande.
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Sostanzialmente, i primi dieci libri in classifica – di qualità? di quantità? – sono transitati, più o meno a lungo, pure nella classifica dei libri più venduti (Il colibrì, Serotonina, I leoni di Sicilia, La vita bugiarda degli adulti, Fedeltà), segno, appunto, che tra qualità e quantità non c’è differenza. Degli altri – da Bret Easton Ellis a Ian McEwan e Manuel Vilas – hanno scritto in molti, moltissimi (pure io). Quindi, niente di nuovo sotto il sole: a che pro la classifica?
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Nessun libro Mondadori tra i primi dieci (ma 5 Einaudi); nessun piccolo editore tenuto in considerazione; La Nave di Teseo piglia medaglia d’oro e d’argento (Houellebecq). Molti romanzi mi sembrano modesti (quello di Houellebecq non è il libro migliore, quello di Ellis idem; Stefania Auci e Elena Ferrante hanno firmato romanzi diversamente brutti, Marco Missiroli un libro semplicemente presuntuoso). In ogni caso, non mi pare che La Nave di Teseo sia l’editore migliore di questo paese di pessimi lettori: io preferisco ancora Adelphi.
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Come mai non c’è un libro di poesia tra i primi dieci in classifica, almeno uno? A dire il vero, non vedo molti libri di poesia neanche nel resto della classifica: perché? 317 lettori ‘forti’ in fondo uniformati a quelli debolissimi. Eppure, a me pare che la poesia, in Italia, sia messa meglio del romanzo. Per carità, sono un idiota.
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Ne resterà soltanto uno. Che senso ha allineare in classifica tutti gli altri? La letteratura è agonistica, ma non è una gara di atletica – è egoista. Non mi immagino l’Ulisse di Joyce in testa alla classifica dei migliori libri del 1922. I grandi libri, in realtà, sono sempre fuori classe – bisogna cercarli al di là di questa classifica.
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Le pagine 36-37 dell’inserto sono emblematiche. Una massa di libri, di nomi, un massacro. Mi sembrano le pianure di feti in vitro di Matrix. Mi sembra una cosa orribile. Ogni libro necessita di una intimità assoluta: va scelto e curato, come fosse il solo. Va accarezzato come una liturgia. Così, invece, è una specie di vilipendio al lettore, una viltà, che schifo.
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Consiglio non richiesto: mettete dei limiti al grottesco. Esempio: alla riga “Punti 20” l’Ingegner Carlo Emilio Gadda – con Divagazioni e garbuglio – sta vicino a Michael Connelly; Ildefonso Falcones sta al fianco di Georges Simenon. Poco sopra, Massimo Gramellini è vicino a Denis Johnson (“Punti 22”), ma fatemi il piacere… ci sono scrittori che devono restare fuori classifica, abbiate pietà almeno dei morti.
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Quanto a me, ho preso “Punti 4”, il minimo sindacale, insindacabilmente. 4 persone – chissà chi – hanno preferito Gries, il libro di poesie che ho pubblicato con Aragno due mesi fa. Strano. Non pensavo che qualcuno l’avesse letto, che a qualcuno fosse arrivato, che ad alcuno fosse piaciuto. Insieme a me, intorno, in assedio, tutti stipati come formiche, un mucchio: da Charles Bukowski (povero ‘Chinaski’, anche lui tra gli addobbi librari natalizi…), Luciano Canfora, Lilli Gruber (!), Tacito (!), Veronica Raimo + Marco Rossari e Nicanor Parra (!!!), Roberto Mussapi, Giorgio Agamben e Michela Murgia. Il commento adatto è in cima alla pagina, dove si cita un libro di Milan Kundera, La festa dell’insignificanza. Ecco. Proprio così. Insignificanza.
*
A che pro questa classifica?, ripeto. Per implementare le vendite di alcuni libri (a discapito di altri)? Piuttosto, per darci idea – perfino grafica – che la letteratura è un puttanaio, un vespaio di bla bla, di libri che ronzano per azzeccare attenzione.
*
La poesia, poi, non può stare in classifica, quieta & domestica; non ha neanche una classificazione grammaticale, va cercata nei boschi, tra chi ti mette un foglio nella buca delle lettere, in direzione contraria alle norme, deformato dalla meraviglia. Meglio non esserci, in una classifica come questa. (d.b.)
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pangeanews · 5 years
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Fuori luogo, fuori schema, silenzioso, antipatico: tanti auguri a Roberto Baggio, il Piccolo Buddha del calcio italiano che ci ha fatto credere che gli arcangeli giocano a pallone
Per quel che conta, avevo il suo nome inciso sulla cavigliera destra, come se il nome, specie di amuleto, bastasse a raddrizzare il piede, a conferire il carato del talento. Ma io ero un airone, una cattiva imitazione di Alen Boksic, ricordate?, mentre lui era l’inafferrabile capitato su un campo da calcio. Oggi, 18 febbraio, Roberto Baggio compie gli anni, ne fa 52, 5+2 fa 7, il numero perfetto, ma ogni occasione è perfetta per parlare del più grande calciatore italiano di sempre.
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Certo – assoluti, aggettivi, superlativi, paragoni sono gli ornamenti dei cretini. Roberto Baggio è indelebilmente legato alla mia giovinezza – ho iniziato a giocare a calcio, con somma modestia, dopo aver visto le evoluzioni americane del ‘Divin Codino’, la micidiale semplicità con cui, durante le semifinali del Mondiale, ne salta un paio e infila, angelica precisione, il portiere della Bulgaria – per questo, per me, è il campione, è l’inevitabile.
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Ciò che mi affascina ancora di Robert Baggio è che è l’emblema del genio puro, inspiegabile. Come hanno detto in troppi, Baggio ha vinto troppo poco rispetto al suo talento, soltanto due campionati – con la Juventus e con il Milan, in quest’ultimo caso segnando pochissimo – una Coppa Italia, una Uefa. Nonostante sia il cannoniere massimo dell’Italia nella manifestazione più importante – 9 gol in 3 edizioni dei Mondiali – non ha mai portato gli Azzurri sul trono più alto del podio. Baggio, in un gioco dove conta tanto chi urla più forte, non è un ‘capo’, non sbraita, non sgomita. Baggio è, non ha bisogno di ribadire quello che potrebbe essere. Baggio è il genio, la forma pura, l’ideogramma sul prato, il sonetto nell’area di rigore, il verso impeccabile davanti al portiere – per questo è insopportabile. Baggio è la bellezza dissociata dal mucchio, dal resto, e la bellezza è ardua, è inutile. Baggio agisce come ciò che è naturale e irripetibile, fa accadere l’inspiegato in un istante – e sai di avere assistito a ciò che non sarà mai più.
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Roberto Baggio non è un fenomeno di massa come Diego Armando Maradona, non è simpatico come Gianluca Vialli, non è atletico come un Alessandro Del Piero, non è un fenomeno come Cristiano Ronaldo, non è la bandiera di una squadra come Francesco Totti. Appunto: non è altro che genio. La poesia in sé.
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Roberto Baggio è l’inatteso che irrompe nella norma e la rompe in virtù del sublime. Se vi capita di rivedere una partita di Baggio capite che a un certo punto, dalla palude dei passaggi onesti e delle sincere ‘sgambate’, accade qualcosa. Come se il calciatore fosse ‘chiamato’, come se agisse per tramite di una divinità. Eccola la ‘magia’ – il gol inesplicabile – il passaggio incredibile. E Baggio che esulta con pudore, come chi sa che ha editti biblici nei piedi e la Bhagavadgita nelle caviglie di cristallo.
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I calciatori oggi sono gladiatori statuari, uno slogan in tatuaggi, hanno una vigorosa ‘personalità’. Roberto Baggio, al contrario, è il vuoto: sembra sempre fuori posto, abulico, pare che il chiasso dei tifosi gli dia fastidio, scansa il contatto fisico con una devozione verso l’arte del dribbling priva di astuzia e di cinismo – la rivalsa del piccolo contro il rude, come faceva Sivori, che irretiva i difensori fino al pugno – simile a una preghiera, un dono al perfetto. Baggio, come il genio depurato da ogni ambizione che non sia la forma, non ha bisogno di ostentare una pacchiana personalità. Egli fa il vuoto per lasciare spazio al gesto, supremo.
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Baggio è sfuggente – non riesce a diventare un ‘simbolo’, non si lega a una squadra in particolare. Egli elude ogni passione smodata, immotivata: preferisce che si ammiri il gesto, scevro dal superfluo. All’urlo preferisce lo stupore, che ti occlude la gola, che occulta il cervello, che profila gli occhi in frammenti di luce.
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Baggio è il Piccolo Buddha del calcio italiano: i risultati più grandi li ha conosciuti con le squadre più modeste. Prima con la Fiorentina, poi, soprattutto, quando gli davano del ‘finito’, con il Bologna, con cui segna il maggior numero di gol mai segnati in campionato – 22 su 30 partite – e tramuta l’onesto Kennet Anderson in un temibile bomber – grazie a Baggio segna come mai prima e come mai più in Italia. Infine, nelle quattro stagioni a Brescia, eroiche, dimostra che non c’è umiliazione, non c’è esilio né esitazione per un campione, che si gioca sempre l’ultima partita, per rispetto verso la natura del cosmo e della vita.
*
Incidentalmente. Le stagioni più brutte Roberto Baggio le ha giocate all’Inter. Nel campionato 1999-2000 ‘Roby’ fa 18 presenze e 4 gol. Una miseria. A contratto scaduto e a campionato finito, c’è una partita in coda. Lo spareggio contro il Parma per garantirsi l’accesso alla Champions League. Ormai Baggio è altrove: cosa gli importa? Ancora una volta, l’arte è tutto. L’Inter vince 3 a 1 e l’anno dopo si gioca la Champions. Eroe della partita: Roberto Baggio, che segna la doppietta decisiva. Né rancore né proteste né incomprensioni impediscono al campione di esprimersi: un conto è il mondo e l’uomo, un conto è l’arte.
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La questione, dunque, non è sbagliare un rigore, ma dare rigore all’imponderabile; la questione non sono i 205 gol in serie A, le 323 reti in totale, ma l’istante, assoluto, in cui il piede diventa profetico, il verbo terroso di Isaia o l’inno smagliante di Milarepa, il pallone un testo sacro, la rete un rito, la gioia una liturgia che scompone l’esistere in canto.
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Fuori dagli schemi, inadatto al calcio muscolare, incapace a obbedire alla ‘tecnica’ imposta dagli allenatori, propenso alla difficoltà – squadre piccole, situazioni impossibili – più che al chiarore della fama, Roberto Baggio, con serafica compassione, ci ha fatto credere che anche gli arcangeli giocano a calcio. (d.b.)
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