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#questa è la mia profonda critica letteraria
gelatinatremolante · 2 years
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Di nuovo in uno di quei periodi in cui non riesco a far passare più di due giorni senza pensare che se nel 1800 Emma Bovary avesse avuto, oltre ai romanzi, anche internet non sarebbe esistito nessun libro lungo centinaia di pagine in cui passano anni e anni perché si sarebbe sicuramente uccisa molto prima.
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agrpress-blog · 7 months
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Sabato 7 ottobre 2023 a Massagno - Lugano presso il Lux Art House si è svolto l’evento conclusivo dello “Switzerland Literary Price” che ha assegnato il premio alla scrittrice Amalia Mancini per “Emozioni Private - Lucio Battisti. Una biografia psicologica”, la nuova edizione del libro della scrittrice pubblicato a marzo 2023 da Arcana Editore. Amalia Mancini (nota nell’ambiente letterario come “Amelie”) è una giornalista, ma anche una scrittrice. Una sceneggiatrice, ma anche un critico musicale. Negli ultimi tempi, si sta consolidando soprattutto la sua carriera di scrittrice, avviata del resto giovanissima e che, nel corso degli anni, ha visto assegnarle, in questa specifica veste, numerosi premi. Il Premio Zurigo vinto dal suo Emozioni Private – Lucio Battisti. Una biografia psicologica (Arcana Editore)è solo l’ultimo riconoscimento, in ordine di tempo, alla sua penna abile, sempre più sapiente in occasione dell’uscita di ogni nuova creatura letteraria. L’evento conclusivo dello “Switzerland Literary Price” ha visto la partecipazione di numerosi personaggi del mondo della letteratura, del giornalismo, della televisione e dello spettacolo. Impossibilitata a partecipare alla cerimonia di premiazione per impegni precedentemente presi, Amalia Mancini ha delegato a ritirare il suo riconoscimento il Dr. Renzo Mario De Ambrogi, collegagiornalista e scrittore, ma anche manager di altissimo profilo (noto soprattutto per essere stato per oltre quindici anni il Direttore generale internazionale della Maison Gucci). Attualmente, R. M. De Ambrogi è Presidente Onorario della Accademia Filarmonica “G. Casanova” di Venezia e vice presidente della Fondazione Giacomo Casanova. «So che è stata fedelmente riportata al pubblico presente, tramite la voce e la presenza sul palco del Dr. De Ambrogi, la mia sincera gratitudine e la profonda gioia provata alla notizia del riconoscimento assegnatomi dallo Switzerland Literary Prize», ha dichiarato Amalia Mancini alla stampa già dal giorno dopo la fine dell’evento. «La letteratura ha il potere di toccare il cuore e di connettere le persone attraverso i libri, ed ogni premio è un incoraggiamento a continuare a condividere storie ed emozioni con il mondo, nonostante le tante sfide della vita». Emozioni Private - Lucio Battisti. Una biografia psicologica raccoglie racconti inediti a ottant’anni dalla nascita dell’artista L. Battisti. L’edizione ampliata del volume, vincitrice dell’awardin Svizzera, è arrivata nelle librerie a marzo scorso, e conduce il lettore/lettrice in un viaggio attraverso la vita e l’opera di uno fra i musicisti italiani più amati di sempre, mettendo in luce gli aspetti più intimi e personali del suo carattere e della sua anima. Dopo il successo della prima edizione, pubblicata quattro anni fa, l’autrice ha arricchito e completato il suo lavoro con interviste esclusive a nuovi personaggi che hanno fatto parte della vita del Battisti uomo, prima ancora che del Battisti artista. Ignorato da una parte della critica di quel tempo, ma non per questo meno meritevole, Battisti, ad un certo punto della sua vita, si è ritirato dalle scene, lasciandoci però le sue emozioni e sensazioni per l’eternità. Il libro permette una panoramica documentata, avvalendosi di interessanti e ben concertate interviste, mettendo in luce verità inattese e accenni psicologici sul complesso itinerario di vita del grande Lucio. «Ho dovuto affrontare una lunga fase di ricerca nei luoghi e nel passato dell’artista, culminata con un’intervista esclusiva a Giulio Rapetti, in arte Mogol, l’autore dei testi che hanno contribuito a rendere immortali i brani di Battisti, con la condivisione delle memorie di una tra le amicizie più controverse della musica italiana. Il loro è stato il sodalizio più celebre e discusso della canzone italiana. Legati come furono da una profonda amicizia, all’inizio degli anni Ottanta i due artisti decisero di interrompere il loro rapporto, proseguendo su strade diverse.
Mogol mi ha svelato molti segreti dell’amicizia e della fertile collaborazione con Lucio, un artista tanto discreto nella vita pubblica quanto espressivo e sincero in quella musicale», ha raccontato l’autrice fin dall’uscita della prima edizione del volume. «Non posso fare a meno di ammirare anche il secondo viaggio musicale di Lucio, quella straordinaria collaborazione con Pasquale Panella. Le canzoni che ne sono scaturite sono veramente degne di nota». Il filosofo francese Henri Bergson sosteneva che l’arte di scrivere è far dimenticare al lettore che ci stiamo servendo di parole. Eccolo il mondo letterario di Amelie: ricco soprattutto di sensazioni e sentimenti. Che si trovano appieno anche in Emozioni Private – Lucio Battisti. Una biografia psicologica. Amalia Mancini, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice e critico musicale, ha partecipato a numerosi concorsi letterari, ottenendo sempre significativi consensi. Ha conseguito numerosi premi a carattere nazionale, quali il Premio letterario Corrado Alvaro, conferito dalla Presidenza del Ministero per i Beni e Attività Culturali e dalla Fondazione Corrado Alvaro; Premio Borromini dedicato alla celebrazione del quarto centenario dalla nascita dello stesso, conferito dal Ministero dei Beni e le Attività Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici; Premio alla cultura rilasciato dalla C.I.F.A.A. (comitato laico organizzatore) di Toronto; Premio Capit Terzo Millennio consegnato da Piero Angela; Premio internazionale Altiero Spinelli; Premio Viareggio Carnevale e Premio Unpli (Unione Nazionale Pro Loco d’Italia). Collabora con varie testate, ed è autrice di venti Sillogi Poetiche inedite e dei volumi Lucio Battisti l’enigma dell’esilio, L’amore piace a tutti, La Tata dei Divi. È inoltre coautrice del volume Giovani e Droga, Perché? e curatrice del libro Le mie Prime vere Scarpe. Con la prima edizioni di Emozioni Private, che diversi siti specialistici hanno posto in testa alla classifica dei 10 migliori libri su Lucio Battisti, l’autrice ha vinto il Premio Internazionale Spoleto Art Festival Letteratura 2021. Ad Emozioni private, uscito in occasione degli 80 anni dalla nascita di Lucio Battisti, sono stati assegnati anche il Premio Scriptura artistico letterario internazionale di Nola (Na), fondato, promosso e organizzato da Anna Bruno, ed il Premio Internazionale Salvatore Quasimodo per la sezione Saggio o Tesi di laurea (presidente di giuria Alessandro Quasimodo, figlio del Premio Nobel), il Premio Cartesar Carlo de Iuliis, Premio Internazionale Spoleto Art Festival Letteratura 2023. Su Lucio Battisti, Amalia Mancini ha pubblicato ben tre volumi, con tre decenni di studio dedicati: Lucio Battisti: L'Enigma dell'Esilio (1999); Emozioni Private: Lucio Battisti, una Biografia Psicologica, (2019); nel 2023, la NUOVA edizione ampliata di questo capolavoro. Tra le numerose attività culturali in cui è coinvolta, ricordiamo la presidenza di giuria del Campionato Nazionale Cittadinanza e Costituzione. Di prossima pubblicazione l’ultima sua fatica letteraria, di cui al momento è stato annunciato solo il titolo: FALCONE E VESPAZIANI - Un'Alleanza per la Verità. La Straordinaria Collaborazione tra il Magistrato e l’Avvocato. Questo libro svelerà una storia avvincente di impegno per la giustizia e la verità, con al centro il giudice Falcone ed il suo incontro con l’avvocato Vespaziani.
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Vanda, all’origine della bellezza dei libri di Eugenio Corti
Il colpo di fulmine, l’esame fallito per il timore di non rivederla, la convinzione di aver incontrato la donna voluta per lui dal Cielo. Nell’epistolario di Eugenio Corti con Vanda ci sono tutti i tratti dell’uomo e grande scrittore de “Il Cavallo Rosso”. Che sapeva di avere contro la cultura dominante, ma sapeva anche di avere al suo fianco una moglie che non è «una donna comune, bensì nobile, e di antica nobiltà, in tutti i sensi».
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di don Giovanni Fighera (18-07-2019)
Eugenio Corti incontrò la futura moglie mentre attendeva di essere chiamato a sostenere l’ultimo esame all’Università Cattolica di Milano. Quando fu il suo turno, ebbe fretta di terminare l’interrogazione per paura di non ritrovare più quella ragazza che aveva conosciuto poco prima. Fu così che fu bocciato. Era il luglio 1947. Corti riuscì a rivedere la ragazza con cui aveva scambiato qualche parola prima della prova, si recò poi in visita a casa sua senza trovarla, infine le scrisse una lettera, datata 14 luglio 1947:
Quando ho visto te, mi è sembrato che la tua bellezza esteriore non fosse, come molte, soltanto esteriore, ma fosse lo specchio di quella dell’anima. Per questo ho desiderato conoscerti e divenirti amico. Tu hai accennato a una tua grande sofferenza. […] Anch’io ho molto sofferto. Quello che io sono lo potrai leggere in un libro.
Si trattava de I più non ritornano, il primo diario pubblicato sulla guerra in Russia, relativo a 28 giorni trascorsi in una sacca sul fronte.
Corti amava moltissimo la scrittura e continuò a comunicare per anni con Vanda e con gli amici attraverso le lettere. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, Corti aveva raccontato la sua esperienza umana e storica nelle lettere scritte dal 6 giugno 1942 al 29 gennaio 1943, che sarebbero state pubblicate con il titolo Io ritornerò nel 2016 (Edizioni Ares), un testo dalla grandissima rilevanza letteraria, perché quell’epistolario era una vera e propria fucina di uno scrittore che aveva già scoperto la sua vocazione.
Già dal 1940 Corti aveva iniziato ad affidare a un diario-zibaldone le sue riflessioni sulla vita, sulla guerra, sull’amore. Corti aspettava e sognava l’amore, quello eterno, che non l’avrebbe mai più abbandonato per tutta la vita. Dedicò addirittura i suoi ricordi memoriali a quella donna che ancora non aveva incontrato e promise che ne avrebbe parlato diffusamente il giorno che l’avesse conosciuta:
A te
che ancora non conosco
e che un giorno diventerai
la compagna della mia vita,
ai tuoi grandi occhi
lucenti
questi diari,
sui quali certamente mi accadrà di narrare
il nascere del nostro amore.
Corti non riuscì, però, a mantenere la promessa e nel diario sarebbe comparso di lei solo un fugace accenno: «Dovrei ora parlare di V., più importante di quanto detto finora, ma non lo faccio». Era il novembre 1947. Poco tempo dopo Corti interruppe il diario e dedicò all’amata lettere molto intense.
«Da giovane», mi raccontava Vanda Corti in un’intervista del 2016, «Eugenio è sempre stato in attesa di conoscere la donna che il Cielo gli avrebbe fatto incontrare. C’è una pagina di diario, scritta quando aveva vent’anni, in cui Eugenio attesta la certezza e, nel contempo, l’attesa gioiosa di incontrare la fanciulla che sarebbe diventata la compagna della sua vita. La sua era una visione stilnovista, la donna è un miracolo del Cielo, come la Beatrice di Dante. Nelle pagine di diario si vede questa attesa continua. Ma non c’era una ragazza che gli andasse bene. Prima di me si era innamorato di Margherita, che è stato un amore platonico, da cui rimase deluso, perché la ragazza gli apparve presto diversa da come si era immaginato».
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Vanda confidava, poi, che non era certa che avrebbe pubblicato le lettere che Eugenio le aveva inviato negli anni di fidanzamento e nei primi anni di matrimonio. Ora, finalmente, esce pubblicata da Ares la silloge «Voglio il tuo amore». Lettere a Vanda 1947-1951. Le lettere attestano il rapporto tra lo scrittore e Vanda: il primo incontro all’Università Cattolica, gli anni del fidanzamento fino al matrimonio celebrato ad Assisi il 23 maggio 1951 dall’amico don Carlo Gnocchi.
Il libro riporta anche le lettere che Vanda scrisse in risposta a Eugenio durante il fidanzamento. Poche settimane prima del matrimonio, il 7 maggio 1951 Vanda riconosceva con gratitudine la grazia di aver incontrato Eugenio: «In questi giorni mi sono sentita circondata dal tuo affetto, lo sento sempre come un dono, che possiedo sicuramente, che nessuno mi potrà togliere ed è questa sicurezza che mi dà la gioia più grande». La fidanzata rilesse in quei giorni quasi tutta la corrispondenza che il fidanzato le aveva inviato: «Ho ritrovato tutto di te, i tuoi entusiasmi e le tue ire, i momenti di serenità e di pessimismo. Ma, in un modo o in un altro, c’era sempre scritto che tu mi hai amata, fin dal primo incontro, quando mi hai visto là sulla scaletta di san Francesco, con una forza e una determinazione che hanno costretto me ad amarti. Qualche tua lettera mi ha veramente commosso».
Vanda scrisse, poi, del libro di Corti appena pubblicato da Garzanti il 2 maggio 1951 ovvero I poveri Cristi (sarebbe stato pubblicato da Ares nel 1994 in veste rielaborata con il titolo Gli ultimi soldati del re). Vanda lo lesse con un interesse particolare: «Io cerco te nel libro: voglio conoscere la tua storia di anni, quando ancora non ti conoscevo. Ma spesso ti ho dimenticato e mi sono lasciata attrarre solo da quello che racconti. Ti amo tanto. Non posso più concepire la mia vita se non unita profondamente a te».
Nell’epilogo della raccolta epistolare Vanda sintetizza gli anni del matrimonio: i periodi di profonda intesa alternati ad altri di scontro, le delusioni del marito per il successo clamoroso mai arrivato, neanche dopo l’uscita de Il cavallo rosso («i lettori erano sì molti» scrive Vanda «ma nella completa indifferenza della stampa ufficiale e della critica»), il senso di inutilità di lei che si tradusse nella poesia Andando che recitava «Voglio tornare alla mia terra». Era il 1993.
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Eugenio Corti rispose alla moglie con una lettera: «Per due volte parli di te stessa come di una “che non ha dato frutti”: ma non è vero, la realtà non è questa. La mancanza di figli della carne è evidente; anch’io un tempo li desideravo, ma noi due non eravamo chiamati a questo: la nostra unione, nei disegni di Dio, non aveva questo fine. […] I nostri veri figli sono i nostri libri che non vengono solo da me, ma anche da te. Essi si reggono interamente - come sai - su due colonne: la verità e la bellezza, e senza di te al mio fianco e sotto i miei occhi tutti i giorni, la loro bellezza non ci sarebbe stata, o sarebbe stata enormemente monca, cioè appunto, in conclusione non ci sarebbe stata».
Corti riconosceva di aver contro la cultura dominante dell’epoca contemporanea, ringraziava Dio di non aver goduto in vita del grande successo (per non cedere alle tentazioni dell’orgoglio), invitava la moglie a continuare a cercare in sua compagnia solo il Regno di Dio (che è tutto ciò che occorre). «Forse non è facile per una donna condividere una tale impostazione di vita»: ma la sua Vanda non è «una donna comune, bensì nobile, e di antica nobiltà, in tutti i sensi».
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Caro alle Muse: Luigi Marti da Ruffano a Pallanza
di Paolo Vincenti
  Il poeta salentino Luigi Marti nasce nel 1855 a Ruffano da Pietro ed Elena Manno. La sua era una famiglia della media borghesia delle professioni ma tuttavia indigente a causa dell’alto numero dei suoi componenti. Dovevano infatti pesare non poco sul magro bilancio famigliare quindici figli, come apprendiamo da alcune memorie inedite di Pietro Marti(1863-1933)[1], l’ultimo e il più noto dei suoi fratelli. Pietro infatti fu storico e giornalista, fondò e diresse molte riviste letterarie, ad alcune delle quali collaborò lo stesso Luigi. Esperto di arte e di archeologia, fu Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”di Lecce e nonno del famoso poeta Vittorio Bodini[2].
Altri fratelli furono: Donato, il primogenito, Giuseppe, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Caterina, Raffaele, nato nel 1859, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861. La loro fu una famiglia di letterati, a partire da Giuseppe, per il quale Pietro Marti, nelle sue memorie, ha parole di grande lusinga ed ammirazione, sebbene le condizioni di estrema povertà impedirono anche a lui di spiccare il volo verso la gloria artistica. Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti cit., p.33.
Luigi trascorre gli anni della fanciullezza a Ruffano proprio sotto la guida del fratello maggiore Giuseppe, che però scompare prematuramente. A lui il poeta era molto legato, tanto da dedicargli la sua opera Un eco dal Villaggio. Dopo lo smembramento della famiglia (Pietro e Raffaele, per esempio, vennero condotti a Lecce in un orfanotrofio), Luigi, insieme ad Antonio e altri fratelli, si trasferisce a Maglie per gli studi ginnasiali presso il Liceo Capece e poi a Lecce presso il Liceo Palmieri, nel cui Convitto entra con la qualifica di “Prefetto di Camerata”[3], dove consegue il titolo di Dottore in Lettere. Oltre all’amore per la storia e lo scavo erudito, ha una notevole inclinazione per le arti visive, in particolare per il disegno, che però non estrinseca se non in bozzetti che restano manoscritti e nelle illustrazioni di alcune sue opere, arabescate da ornati e volute e piccoli quadrettini. L’amore per il disegno però si riflette nelle sue composizioni poetiche e nei romanzi, in cui si avverte una potenza espressiva che ha la stessa forza del colore sulle tavole pittoriche, specie nelle descrizioni paesaggistiche e degli spettacoli della natura, come dalla critica del tempo gli viene unanimemente riconosciuto. I suoi principali referenti letterari sono il Foscolo e il Carducci.
Maestro elementare a Lecce, con i fratelli Pietro e Raffaele fonda nel capoluogo nel 1884 una scuola privata, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Collegio Argento[4].
Nel 1880 pubblica una delle sue opere più apprezzate e conosciute: Un eco dal villaggio[5]. Quest’opera viene positivamente recensita dallo Stampacchia, da Nicola Bortone, ecc.  “In quei versi freme l’animo e l’ingegno di un giovane, che sente profondamente gli affanni del proletariato, e li rende in una forma, alcune volte, rude, ma sempre efficace e solenne”, scrive La Direzione (probabilmente il fratello Pietro Marti) nelle note biografiche del libro Il Salento[6]. L’opera è dedicata “alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”. Raccoglie poesie di alto impegno civile, in cui l’autore affronta temi come le raccomandazioni, i debiti contratti con gli usurai (“L’obligazione”), la prostituzione minorile, le sperequazioni della giustizia che si dimostra debole con i forti e forte con i deboli (“Ladro di campagna”), il riposo del contadino (“Il villano”). Nell’Introduzione, “A chi legge”, scritta dallo stesso autore, Marti fornisce dei cenni esegetici della propria poesia, alla quale è dedicata la liminare lirica della raccolta (“Alla Poesia”).
Egli è anche un apprezzato giornalista ed assidua è la sua collaborazione ai giornali diretti dal fratello Pietro Marti; in particolare la sua firma compare spesso su “La Voce del Salento”, insieme a quella dell’altro fratello, Raffaele, storico e scienziato, col quale condivide gli interessi eruditi[7]. La musa della poesia invece lo accomuna al fratello Antonio, autore di pregevoli opere liriche[8]. Nel1889, pubblica La Verde Apulia[9]. Nella raccolta, che si compagina di dodici sonetti, insieme ai versi, sono presenti molte note archeologiche, geografiche e storiche, sui luoghi che via via i componimenti toccano, e inoltre disegni illustrativi di mano dello stesso autore, sicché questo libro può essere considerato una summa del talento e delle conoscenze del Nostro. Canta di Leuca e del suo Faro, di Otranto, “Niobe delle città marittime”, di Maglie, dove erano sepolti un fratello ed il padre, di Lecce, “l’Atene delle Puglie”, di Brindisi, con le sue vestigia romane e il suo porto a testa di cervo, di Taranto, di Gallipoli, “molle Sirena’ del mar Jonio”, dei grandi personaggi che hanno illustrato il Salento, come il Galateo, Liborio Romano, Giuseppe Pisanelli. Sono versi che dai critici vengono accostati al Byron e al Foscolo per la loro vigoria ed icasticità.
Nel 1889 pubblica un’altra raccolta poetica, intitolata Liriche[10]. Nella prima pagina è riportato il titolo della Prima sezione, ovvero Odi (Strofe libere), con alcuni versi in epigrafe tratti dalle “Egloghe”(IV) di Virgilio: paulo maiora canamus. Si tratta di componimenti di carattere civile, dall’intonazione sostenuta, che si rivolgono ai principali protagonisti della scena pubblica italiana dell’epoca, a cominciare da Umberto I di Savoia, cui è dedicata l’esordiale lirica, occasionata dall’epidemia di colera che si verificò nel 1884, passando per Victor Hugò (“Nel giorno della sua morte”), Garibaldi (in “Monumento a Caprera. Visione”), e Giosuè Carducci, cui è dedicata “Per i caduti in Africa”. Seguono liriche di argomento salentino, dedicate a Castro, ai Martiri di Otranto, et alia.  Si apre poi la seconda sezione, Sonetti, fra i cui versi compaiono ancora personaggi di spicco dell’Italia postrisorgimentale, Garibaldi, Giuseppe Libertini, Giovanni Prati, ma anche personaggi ai quali l’autore si sente evidentemente consentaneo, come Giulio Cesare Vanini, che omaggia con due poesie, Antonio De Ferrariis Galateo, Liborio Romano e Giuseppe Pisanelli.
Accanto alle opere poetiche, produce opere di erudizione varia e disparati argomenti, come Ricordi delle conferenze del R. Provveditore agli Studi Francesco Bruni sulla Ginnastica Educativa, stampata a Lanciano, presso Rocco Carraba, nel 1881, in cui riprende le conferenze tenute dal Provveditore agli Studi della Provincia di Lecce Bruni, che in apertura di libro gli scrive una lettera gratulatoria.  Fra le altre opere: Umberto I di Savoia, che è una lunga lirica al Sovrano (nella copia conservata presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, sulla prima pagina è scritta una dedica, di mano dell’autore: “Al chiarissimo Dottore Gaetano Tanzarella per stima ed affetto”)[11]; e poi ancora A Vittor Hugò[12], L’Africa a Giosuè Carducci[13], Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri,[14]Umberto I e la Verde Apulia[15], Manfredi nella Divina Commedia: Conferenza[16], Bonaparte e la Francia: nella mente e nelle opere di Ugo Foscolo[17]. Per motivi di insegnamento da Lecce si trasferisce a Pallanza, in provincia di Novara, dove si sposa e comunque non interrompe la sua attività letteraria.
 Nel 1891 esce Un secolo di patriottismo[18]. Nel 1896 è la volta di Il Salento. Poemetto lirico[19]. Questa sua fatica letteraria è pubblicata nella collana “Il Salotto Biblioteca tascabile”, edita da Salvatore Mazzolino e diretta da Pietro Marti, il quale in Appendice scrive delle Annotazioni in cui commenta i vari sonetti con approfondimenti storici e cenni di critica letteraria. Si tratta di un excursus storico sull’antico Salento, scritto in versi: l’autore tocca le città di Lecce, Brindisi, Taranto, Otranto, evocando le antiche vestigia e la gloriosa storia di queste città, e non mancano riferimenti a personaggi illustri del passato quali Vanini, Liborio Romano e Galateo.
Nel 1902 pubblica il poema Dalle valli alle vette Cantiche[20]. La copia conservata presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, reca sull’antiporta una dedica autografa dell’autore a Cosimo De Giorgi, mentre la dedica a stampa recita: “A te che mi aleggi d’ intorno”. In epigrafe, subito dopo la dedica, è scritto: “Ho cercato alla profonda quiete delle valli, alla pura sublimità de le vette, il vigore necessario a spogliarmi delle vecchie consuetudini ed aprir l’anima a la nuova fede. Nelle Cantiche che pubblico, si riflette, con le impressioni della natura e della vita, il divenire della mia coscienza”. E la raccolta infatti si apre con “La mia arte”, quasi manifesto programmatico della poetica dell’autore. Il poema è diviso in sezioni: Valle Ossola, Valle Anzasca, Pestarena, Macugnaga, Ascensione, Tra i ghiacci, Valle del Mastellone, Riti e costumi, Valle Canobina, Emigrazioni, Valle Diveria, Ancora in alto, Inno alla natura, per un totale di 68 liriche.
Altre opere creative sono: Conflitto d’anime (Romanzo) e Verso Roma (Nuove cantiche), sulle quali non abbiamo ottenuto ancora riscontri. Inoltre scrive Orazioni, Discorsi, articoli, pubblicati in riviste e volumi miscellanei.
Da Pallanza, per motivi di lavoro, si trasferisce a Salerno, dove muore prematuramente all’età di 56 anni[21]. Questo, appena tracciato, è solo un primo parziale profilo bio-bibliografico del poeta di origine ruffanese, in attesa di ulteriori doverosi approfondimenti.
  Note
[1] Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.
[2] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933) esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri: Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138); Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188; Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64; Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti, in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15; Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.
[3] Aldo de Bernart, Il Salento nella poesia di Luigi Marti, in “Nuovi Orientamenti”, Gallipoli, marzo-aprile 1984, n.85, p.25.
[4]Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.
  [5] Luigi Marti, Un eco dal villaggio, Lecce, Tip. Scipione Ammirato, 1880.
[6] Luigi Marti, Il Salento. Poemetto lirico, Taranto, Mazzolino, 1896, p. 4.
[7] Raffaele Marti (1859-1945) fu autore di moltissime opere, quali: Foglie sparse, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907; Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913; Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924; Lecce e suoi dintorni. Borgo Piave, S. Cataldo, Acaia, Merine, S. Donato, S. Cesario ecc., Lecce Tip. Gius. Guido, 1925. L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931. Su Raffaele si rinvia a Paolo Vincenti, Un letterato salentino da riscoprire: Raffaele Marti in “Il Nostro Giornale”, Supersano, giugno 2019, pp.41-43.
[8] Fra le opere di Antonio Marti (1856-1935): Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari –Novelle e Viaggi, Intra,Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893.
  [9] Luigi Marti, La Verde Apulia Lecce, Stab. Scipione Ammirato, 1885.
[10] Idem, Liriche, Lecce Tip. Garibaldi, 1889.
[11] Idem, Umberto I di Savoia, Lecce, Editrice Salentina, 1884.
[12] Idem, A Vittor Hugò, Lecce, Editrice Salentina, 1885.
[13]Idem, L’Africa a Giosuè Carducci Lecce, Stab Tipografico Italiano, 1887.
[14] Idem, Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri Lecce, Tipografia Salentina, 1887.
[15] Idem, Umberto I e la Verde Apulia, Lecce, Editrice Salentina, 1889.
[16] Idem, Manfredi nella Divina Commedia: Conferenza, Lazzaretti, 1889.
[17] Idem, Bonaparte e la Francia: nella mente e nelle opere di Ugo Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini,1892
[18] Idem, Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891.
[19] Idem, Il Salento. Poemetto lirico, Taranto, Mazzolino, 1896.
[20] Idem, Dalle valli alle vette Cantiche, Milano, La Poligrafica, 1902.
[21] Aldo de Bernart, op.cit.,p. 26.
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pangeanews · 4 years
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“La domanda è sovversiva, il silenzio disturba”: nel deserto, insieme a Edmond Jabès
Inalare il deserto. Confortare in labirinto l’alveo dell’alba. Chiudersi nell’anello di una indagine infinita. Non altra è l’iniziativa del poeta se non sporgersi verso la lama della lettera. “In un mondo come l’attuale in cui la parola è pronunciata in modo sempre più altisonante, declamatorio, più si parla basso, più si è di disturbo. Sta lì la vera sovversione. Allo stesso modo è sovversiva la domanda. Infatti chi interroga non urla mai, perché è insicuro… La domanda è sempre al di sotto dell’urlo… La parola del libro è sovversiva: perché è una parola dal silenzio”, dice Edmond Jabès, più maestro che poeta, ad Alberto Folin (l’intervista, del 1985, ora è in: Edmond Jabès, Il libro delle interrogazioni, a cura di Alberto Folin, con un saggio di Vincenzo Vitiello, Bompiani, 2015).
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Se Yves Klein è penetrato in modo marziale nel blu, Edmond Jabès, interstellare profeta del mistero, si è conficcato nel bianco.
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Non si è poeta se non nell’attimo del silenzio, dove la parola, a fior di labbra, può fiorire in qualsiasi alfabeto – perché il verbo è gesto prima che senso, canto che precede ogni norma, ogni sfida.
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Nul L’Un, detta Jabès: intrico continuo, serpeggiante, tra Nulla e Uno; farsi nulla per entrare nell’uno. Si è unici unicamente annientandosi.
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Il libro delle interrogazioni è il solo libro ‘di poesia’ che vada interrogato. Così: aprilo a caso, a occhi chiusi, dona sostanza al libro passando le dita, leviga la lingua sui denti, fermati al radioso mignolo.
“Sono la parola alla tua portata
e impaurita.
Tu mi chiami.
Saprei risponderti se tu cessassi di affermarlo?”.
Poco prima:
“Maestro, disse un giorno Reb Vidor a Reb Goetz, è vero che il deserto discende fino all’anima e che la passione, in origine pianta delle sabbie, ci spinge a lasciare il luogo del suo passato per una promessa di foresta o di giardino?”.
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Edmond Jabès fa fiorire, nei suoi libri, rabbini rari, cauterizzati dal sogno, il caglio di una sapienza astrale. Jabès sta all’incrocio tra Borges e Beckett, deviandoli: non celebra la cultura, la infiamma; cava dal non-senso un bagliore da parola ultima, il tremore bianco.
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Nasce al Cairo nel 1912, il 16 aprile, in una famiglia ebraica, abbiente. La sorella Marcelle, più grande, muore nel 1924, “Quel giorno ho capito che c’era un linguaggio per la morte, come c’è un linguaggio per la vita. Non si parla a un morente come a un vivo. La sua parola è diversa”. Nel 1964, a Roma, si suicida il fratello, più grande anche lui. Come la vita, anche la morte sancisce un multiplo esilio nell’esistere di Jabès: “Al cimitero di Bagneaux, nel dipartimento della Senna, riposa mia madre. Al vecchio Cairo, al cimitero delle sabbie, riposa mio padre. A Milano, nella morta città di marmo, è sepolta mia sorella. A Roma, dove, per accoglierlo, l’ombra ha scavato la terra, è sotterrato mio fratello. Quattro tombe. Tre paesi. La morte conosce frontiere? Una famiglia. Due continenti. Quattro città. Tre bandiere. Una lingua, quella del niente”. Dopo l’infanzia di “cielo azzurro – senza ricordi”, gli studi, tra Egitto e Francia, la scoperta di Rimbaud, l’amicizia con Max Jacob. Viaggia a Gerusalemme durante la Seconda guerra – è antifascista, i suoi posseggono passaporto italiano. Lascia l’Egitto, nel 1957, per sempre, per la Francia, optando per una tenda nell’esilio – diventa cittadino francese dieci anni dopo. Nel 1992, la morte. Restano libri esigenti, distillati d’incertezze, radici che sondano le tibie di Dio: Il libro della sovversione non sospetta, Il libro dei margini, Il libro dell’ospitalità, Uno straniero con sotto il braccio un libro di piccolo formato.
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Di Jabès hanno scritto in moltissimi, da Blanchot a Derrida, perché la sua scrittura è, in effetti, una abitazione. Vuota. Il poeta ha fatto uno scavo, il vuoto, una raggiera di cunicoli, per far sì che altri lo abitino. Nel 1977 di lui ha scritto Paul Auster, sulla “New York Review of Books”: “Negli ultimi anni nessun poeta francese ha ricevuto più attenzione critica ed elogi di Edmond Jabès… A partire dal primo volume de Le Livre des Questions, pubblico nel 1963, Jabès ha creato un nuovo e misterioso modello di opera letteraria, sbalorditiva, di difficile classificazione. I suoi scritti hanno un posto tanto centrale che Derrida si è esposto a dire che ‘negli ultimi anni nulla è stato scritto in Francia che non abbia il suo precedente nei libri di Jabès’”. In Italia, l’esegeta straordinario di Jabès è Antonio Prete, che ha scritto: “Il Libro per Jabès modula in mille modi l’assenza di Dio, un’assenza irrevocabile, originaria, costitutiva dell’essere, e questa privazione diviene ritmo dell’apparire, anima stessa delle cose. Il Libro replica l’esilio dal senso, l’orfanità delle parole. Un’orfanità da cui muove l’apertura della domanda, lo stato di ascolto lungo il cammino”.
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Per talento di Gianni Scalia, Il libro delle interrogazioni viene in Italia nel 1982, nella traduzione di Chiara Rebellato, edito da Marietti. L’introduzione a quei tomi è di Massimo Cacciari che in un saggio dal titolo sbilenco (Il bianco e il nero) scrive: “La scrittura di Jabès è assolutamente lontana da quella ‘mistica’ cui siamo abituati, che è una scrittura procedente per aneliti, desideri, rimandi, attraverso l’emotività profonda dell’alludere. Quella di Jabès accosta parola a parola, proposizione a proposizione; la sua sonorità è mono-tona; ‘guarda vivere la parola’ distaccata dalla frase; fa-deserto intorno ad ognuna; distende un interminabile, accecante bianco tra nota e nota”. Piuttosto, la poesia di Jabès non è ‘liturgica’: egli dispone l’aula al rito, senza saggiarne le leggi e gli analecta, sarai tu, lettore, a doverlo adempiere.
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Intendo dire che la poesia di Jabès non è poesia – è canto ininterrotto. Non c’è possibilità di indulgere nel giudizio, non c’è indulgenza. Bisogna animare il canto per far accadere qualcosa – si è nella gola del canto, ingoiati.
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Non si viene a capo di nulla, non c’è cima ma l’incipit dello smarrimento – come si sonda, se non snodando l’alfabeto fino a una millesima quota d’acqua, una pozza, dove ghepardo e angelo, specchiati, sono lo stesso?
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Tutto sta a definire il diverso tra deserto e ghiaccio, tra esodo e Antartide – da un lato Dio inspira, dall’altro espira. Scrivere come costruire una sedia – senza comodità, nel quadrivio del comando. (d.b.)
***
Nuovi dialoghi tra sapienti e invitati occasionali con la partecipazione di Yukel Sérafi
Disse: Il bene ci colma, il male fa il vuoto. E pensava: Il niente è il male.
Disse: Il male è talvolta l’abito del bene. E pensava: La stella è l’ornamento e il bottone dell’ampio manto delle notti.
Disse: Il bene è la nudità – per opposizione al manto. E pensava: Il bene è il dono del vuoto; il male, l’abbandono.
Disse: Il niente votato al niente, è il male. E pensava: Il vuoto allacciato al vuoto, è il bene?
Disse: Il male è il naufragio, l’incendio. E pensava: L’acqua non è il bene? E il fuoco?
Disse: Il fuoco non brucia il cielo? La pioggia non affoga il cielo? Così, il fuoco, la pioggia, l’ombra sono il male. E pensava: Il bene è il mattino degli occhi, la pioggia fertilizzante e l’ombra del sonno.
Disse: Il bene e il male hanno le stesse carte, godono delle stesse complicità, possiedono le stesse armi. E pensava: Il male è l’avversario del bene. Nemici giurati, gemelli nell’uomo e nel mondo, il loro potere è uguale. La loro astuzia, la loro temerarietà, identiche.
Disse: Possiamo essere il male o il bene. Siamo l’uno e l’altro; ora la punta della spada, ora la venatura della foglia. E pensava: Così, il disordine è lo sradicamento dell’ordine; così la menzogna è il vento contrario che la verità affronta. L’ordine nasce dalla piaga medicata e la verità, dalla ferita inferta alla tempesta.
Disse: Così, l’amore è la fortuna dell’amore.
Disse: La rivolta, colle della collera – Reb Assayeh non ha scritto: Guarda. Il colle è il vaso dove si schiude il pugno di Dio? – domina le nostre esistenze. E pensava: Si può raggiungere la cima del colle?
Disse: Il pugno di Dio, minacciando il sole, abbaglia la morte. E pensava: La rivolta è la vertigine del sogno, dove fonde l’acciaio dell’ascesa.
Disse: Più in alto, dove l’oggetto s’innamora del bastimento, prossimo ripiano di virtù. E pensava: Dove il culmine contesta la propria altezza, la morte abolisce l’assurda misura.
Disse: L’oggetto è l’alba, il getto. E pensava: La rivolta che si nutre di eccessi è figlia della morte.
Disse: La vita riduce la rivolta a grano di riso. E pensava: La morte abbraccia la risaia.
Disse: È l’uomo capace di un vasto respiro? E pensava: Il petto dell’uomo è prigione di vita.
Disse: L’uomo si compie nel superamento di sé. La morte lo rende l’uguale di Dio. E pensava: Là dove la morte ci trascina, l’impossibile diventa possibile.
Disse: Non sorridere più, non è essere morti? Cessare di pensare, non è esere morti? Avere gli occhi chiusi, tacere, seppellire le mani, non è non vivere più? Rinunciare al cammino, non è aver perduto la terra? E pensava: Abbiamo camminato senza segnare il suolo. Abbiamo fatto il giro del mondo. La morte ci ha confuso. Lo sguardo, il sorriso, il gesto sono faro, ripiano, tappa, dove la vita ci consuma.
Disse: La morte è la vita piena proposta a chi dispera di vivere. E pensava: La morte, dove Dio va miracolosamente incontro a Dio.
E Yukel disse:
Il cerchio è riconosciuto. Spezzare la curva. Il cammino raddoppia il cammino. Il libro consacra il libro.
Edmond Jabès
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pangeanews · 4 years
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“La poesia è sovversiva per eccellenza. Lautréamont e la volontà di aggressione”. Benjamin Fondane sfida Gaston Bachelard
Benjamin Fondane, il pensatore imprendibile, imprevedibile, agisce come un giaguaro. Dietro la sua prosa, smagliante, a tratti involuta, strategica, sento l’odore, l’animalesco. Fondane fonda il gesto critico sulla descrizione dell’avversario, non senza elogi. Parte, cioè, dalla riconoscenza – non dal riconoscimento. Riconosce la muscolatura della preda, la sua eleganza. Poi affonda. Come il giaguaro, all’inizio Fondane ha andatura dimessa, elogia la foresta filosofica; quando attacca, infine, è drastico e mirabile, ed è tutto lì, in quella frase clamorosa, nuda, “La poesia è sovversiva per eccellenza – e non vediamo cosa essa potrebbe sovvertire, se non, precisamente, i «valori intellettuali»”. Lì, Fondane, con morso chirurgico segna l’abisso tra poesia e filosofia, tra la vita filosofica che l’uomo occidentale ha scelto rispetto all’abitare poeticamente, nel crisma del rischio. Ha preferito elevarsi, cioè, più che adorare l’etica dell’erba, il vigore del suolo. Ma uccidere un dio con il ragionamento non è divorarlo nel canto. In particolare, nel 1940, su “Cahiers du Sud” – la rivista fondata da Jean Ballard, su cui hanno scritto, tra gli altri, René Guenon, Antonin Artaud, Albert Camus, Henri Michaux – Fondane legge e disseziona il Lautréamont di Gaston Bachelard (passato in Italia, nel 2009, edito da Jaca Book, per la cura di Filippo Fimiani). Lo fa, prima con aristocratico distacco, considerando un filosofo di cui spesso ha scritto – riconoscendone, quindi, una postura degna di scontro – poi squartando. Riguardo a Lautréamont, di cui quest’anno ricorrono i 140 anni dalla morte, Fondane aveva già detto tutto in Rimbaud le voyeu, diversi anni prima (1933; nel 2014 pubblicato da Castelvecchi come Rimbaud la canaglia, per cura di Gian Luca Spadoni). “Lautréamont parla per il lettore, declama; vi si sente scaturire in ogni istante il tono della predicazione, l’enfasi romantica e romanzesca, il genere maudit, la sicurezza dell’uomo che insegna quel che sa bene di non sapere e si attribuisce una missione tra gli uomini… Non sfugge alla volontà, terribilmente tesa, di apparire straordinario… Che questa dinamite non esploda, che non superi il livello della scrittura, non siamo nelle condizioni d’incolpare Lautréamont; ma è lo iato che separa la sua esperienza da quella di Rimbaud a rendere l’avventura di quest’ultimo assolutamente unica”. Quando ‘recensisce’ – cioè, azzanna – il Lautréamont secondo Bachelard, irritandosi quando il poeta, che resta una ferita, un assoluto, una voragine, viene semplificato a emblema, a santino, a figurina metafisica, Fondane ha da poco scritto il Faux Traité d’esthétique (per Denoël, è il 1938). Un libro d’estasi, un trattato di ribellione poetica. Uscito nel 2014 per Mucchi come Falso Trattato di estetica. Saggio sulla crisi del reale (per la cura di Luca Orlandini), tornerà in circolo, in traduzione e curatela rinnovate (sempre a firma di Orlandini) per Aragno, tra un paio di mesi. Sarà un piccolo evento, l’irrinunciabile, un fuoco sul palmo della mano, che fiamma lame. (d.b.)
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A proposito del “Lautréamont” di Bachelard
Il libro di Bachelard è il terzo di una serie dedicato alla ricerca di una psicanalisi della cultura – o meglio, poiché la psicanalisi è concepita dall’autore in modo assai poco classico: analisi dei bassifondi, delle zone profonde e delle forze motrici e istintive del fatto culturale e poetico. La Psychanalyse du feu, il secondo libro della serie, tentò di ricavare le fondamenta «di una fisica o di una chimica del sogno», al fine «di approntare gli strumenti per una critica letteraria oggettiva, nel senso più rigoroso del termine». Il libro dedicato a Lautréamont costituisce l’illustrazione di tale avvincente e ampio progetto. Egli adotta come modello l’opera di Lautréamont, introdotta mirabilmente da Edmond Jaloux, nei termini in cui ci viene presentata, all’apice della raffinatezza e del rigore, dall’edizione José Corti. È un’ottima e lodevole iniziativa editoriale, quella di Corti, di far seguire alla pubblicazione delle opere di Lautréamont la potente e mirabile intelligenza dell’analisi di Bachelard.
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È un’opera capitale e, ancor meglio, estremamente fertile. Attualmente è impossibile prevedere quale influenza egli avrà sulla psicologia dell’arte – ma il lettore non può che auspicarla di tutto cuore. Nulla di meglio è stato scritto in merito, con un punto di vista così innovativo, una intuizione così penetrante e mezzi così rigorosi. Ma una personalità così robusta non poteva fare altro che comunicarci la sua sola intuizione; in questo libro troviamo anche la parte del filosofo, che d’altronde è di prim’ordine – e che, per quanto voglia cancellarsi, non risalta di meno: questa seconda influenza entra in gioco creando qualche difficoltà alla prima, dispiegando di fronte ai nostri occhi la natura ambivalente dell’autore. È la prova – nel caso ce ne fosse il bisogno – della buona fede dell’opera, e i commenti che questa suscita in noi non fanno altro che mostrare con maggior forza le profondità da cui essa emerge alla luce della coscienza.
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È una duplice e profonda intuizione, quella che, dopo aver descritto l’opera di Lautréamont come «una fenomenologia dell’aggressione» e l’opera poetica in generale come un atto istintivo e spontaneo, proclama che, al contrario della credenza generale, anche il pensiero è un atto aggressivo – che il filosofo «attacca» il problema. In effetti, è uno stile aggressivo, quello di Bachelard – tuttavia, non è certo che l’aggressività del filosofo sia analoga alla natura di quella del poeta, e che ne perpetui il significato. Nel mio Faux Traité d’esthétique ho mostrato che fu Platone, nella sua Repubblica, il primo a comprendere che la natura dell’aggressività poetica e quella speculativa erano di natura opposta; la filosofia, in seguito, ha avuto il torto di volersi conciliare con questo irriducibile avversario, la poesia a sua volta ha avuto il torto di accettare una tregua che non poteva che danneggiarla. Credo che, dopo Platone, nessuno sia spinto tanto lontano quanto Bachelard, nella scoperta del fondo cupo della poesia, e abbia segnalato in questa, con maggior forza e penetrazione, quel complesso profondo e primitivo, anteriore al pensiero stesso, che suscita il risentimento del filosofo e lo induce senza tregua a volersi rivalere contro il poeta. Da parte mia, vi è il rammarico che Bachelard abbia evitato di trionfare; il suo piacere estremo per la poesia glielo ha impedito; egli propone delle conciliazioni, tanto ripugnanti per la poesia quanto per la filosofia; ciò vuol dire che il problema dell’antagonismo poetico-filosofico non emerge affatto dall’avvolgente oscurità dei secoli. Di conseguenza, l’enigma perdura, e tanto più grande, nel momento in cui l’analisi di Bachelard è dedita a descrivere apertamente e con audacia il cuore dell’esperienza poetica ch’egli considera allo stesso tempo istintiva – e irriducibile.
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Bachelard si propone di analizzare innanzitutto l’opera di Lautréamont, ma avvertiamo chiaramente che, nel suo pensiero, si tratta solo di un caso esemplare, e perfino di un caso limite dell’attività poetica: una volta posti i termini dell’analisi, si potrà rintracciare il valore degli altri poeti in base al fatto che questi lautréamontizzino più o meno, o qualora essi oppongano un rifiuto al lautréamontismo. Il lautréamontismo è ritenuto da Bachelard un criterio della poesia: e una presa assoluta, da parte della coscienza poetica, di un complesso di vita animale, la produzione di una violenza, una creazione di tempo e velocità, una volontà sostantivante, di metamorfosi. È un occhio immenso, quello di Bachelard – un occhio che vede più lontano dello sguardo. Trascuro con rammarico gli innumerevoli dettagli e le audaci definizioni che il pensatore del Siloe adopera per infondere una manciata di magnifico magnesio, benché duratura, nei bassifondi della poesia lautréamontiana; è un’intuizione che emerge chiaramente, e con tale certezza, che consiglio al lettore di procedere nei miei termini: leggere il libro lentamente. Questi potrà così verificare che in effetti, per Bachelard, Lautréamont rappresenta una sorta di unità di misura dell’atto poetico: egli non giudica forse l’opera di Kafka – e a ragione? – un complesso di Lautrémont negativo? quello di Hugo o di Leconte de Lisle un Lautréamont estenuato? quello di Eluard, infine, come la trasposizione di un complesso lautréamontiano su un piano diverso, ecc.? Bachelard compie un passo in avanti, nel momento in cui pone il complesso lautréamontiano dell’animalità, un complesso inumano – insiste egli – sul piano culturale; egli vede nel dramma di Lautréamont «un dramma della cultura», un atto che deve trovare la sua soddisfazione, il suo rigoglio e la sua estenuazione – nelle parole. Tutto ciò è di una esattezza sorprendente. Ma quando Bachelard si decide a mostrarci la trasposizione che viene prodotta, nell’opera di Ducasse, del complesso animale in immagini e disposizioni culturali – non lo vediamo affatto:
Levant cette peau noire ouverte sous le crin (oltre una pelle nera aperta sotto il crine)
di cui parla Mallarmé nel «sa négresse par le démon secouée» (la sua negra scossa dal demonio). E il mistero si installa, irritante, perfino là dove un’istante prima lo avevamo così precipitosamente cacciato. Questa «volontà di aggressione», questa crudeltà per la crudeltà, gratuita, pura contiene tuttavia un’etica perlomeno singolare: in effetti, con nostro grande stupore, il critico scopre, in Maldoror, un’anima tutta matematica, colma «di furia matematica» (p. 128), che disprezza la forza, la brutalità, la violenza e la vita. Nulla è più vero, ma anche più estraneo, alla precedente analisi di Bachelard, di questa affermazione: «Sembra, in effetti, che nell’opera di Ducasse vi siano le tracce di due concezioni dell’Onnipotente. Esiste l’Onnipotente creatore di vita – e contro questo creatore di vita la violenza ducassiana si rivolterà. Vi è l’Onnipotente creatore del pensiero: Lautréamont lo associa allo stesso culto della geometria.» (p. 129) E Bachelard aggiunge: «Vediamo così che, nell’opera di Ducasse, a una passione per il pensiero si aggiunge il disprezzo per la vita. Ma perché Dio ha creato la vita, se avrebbe potuto creare direttamente il pensiero?». Non so se questo pensiero di Bachelard sia giusto, ma proverei imbarazzo a contestarlo, io, che nel XXIV capitolo del mio Rimbaud scrissi: «Lautréamont rimprovera a Dio di essere (“la mia soggettività e il Creatore, è troppo per un cervello”) e Rimbaud gli rimprovera di non essere, di abbandonarlo a se stesso (“la vera vita è assente”). Rimbaud rimprovera a Dio la sua assenza (ossia l’esistenza della Necessità, dell’Autorità) e Lautréamont la sua “presenza” nel mondo (ossia l’esistenza dell’Ingiustizia)». È indubbio che ciò voglia dire: Rimbaud rimprovera a Dio di aver creato il pensiero, e Lautréamont gli rimprovera di aver creato la vita. Ma, nello schema del mio libro, si comprende che l’anima matematica disprezza quel Dio che ha creato la vita; com’è possibile che Bachelard, nel suo schema, giustifichi il disprezzo della vita da parte di un uomo ch’egli considera l’esemplare privilegiato del complesso animale, un prototipo della fenomenologia dell’aggressione? Se, in ogni caso, la violenza esiste qua e là, e anche la «furia», queste non potrebbero essere della stessa natura, essendo esse rivolte – essenzialmente a quanto a pare – rispettivamente, la prima a disprezzare il pensiero, la seconda, a disprezzare la vita. La «furia» poetica la troviamo agli antipodi rispetto alla furia etica. Preso dall’intento di scoprire la disposizione etica di Lautréamont, non mi sono affatto preoccupato di stabilire a quale profondo istinto rispondesse la sua poesia; preso dalla disposizione poetica dell’autore del Maldoror, Bachelard avrebbe potuto trascurare la sostanza della sua etica. In effetti, è stata solo una dimenticanza; la conclusione del libro ci dimostrerà che Bachelard non crede a una disposizione etica che non sia saldamente collocata al centro stesso dei valori che governano l’opera poetica. Egli non potrebbe degnarla di una seria considerazione.
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D’altronde, non è affatto mia intenzione chiedere conto a Bachelard delle contraddizioni interiori del suo autore; esse esistono, si fondono in una meravigliosa unità organica; è compito del critico esporle, e non spiegarle. Tantomeno intendo dimostrare che questa duplice tendenza, ch’egli trova nel cuore dell’opera di Maldoror, noi la ritroviamo nell’analista: questi afferma continuamente che esiste autentica originalità poetica solo nel ritorno a un qualche complesso primitivo, biologico e tuttavia, alla fine della sua analisi, egli si propone di umanizzare la poesia, di «deanimalizzarla», conducendola a questo dilemma, ch’egli ci confessa apertamente: «… dobbiamo forse divorziare dalla vita o continuare con la vita? Per noi, la scelta è compiuta… La vita deve volere il pensiero» (p. 199). Ma la seconda tendenza è decisamente più accentuata in Bachelard che in Lautréamont, poiché il libro conclude in questi termini: «Dobbiamo inserire nel lautréamontismo dei valori intellettuali» (p. 199). Vediamo così (come già osservato più in alto) che Bachelard non considera seriamente l’odio di Lautréamont per il Dio creatore della vita, né la sua passione matematica per un Dio creatore del pensiero. La «scelta» di Bachelard è ormai compiuta, e quella di Lautrémont lo è altrettanto; mentre il primo sceglie il pensiero «deanimalizzante», il secondo sceglie la poesia animalizzante. Se la vita deve volere il pensiero, è indubbio che quella di Lautréamont non lo vuole; e, se credo all’analisi dello stesso Bachelard, è in quanto volontà poetica che la vita di Lautréamont rifiuta il pensiero. È pur vero che l’estetica classica non tiene in alcun conto la «volontà» del poeta; a questi si dirà quel che egli «deve volere» e non dovrà fare altro che conformarsi al dettato; il poeta non è forse una creatura della ragione? Ma, agli occhi dello stesso Bachelard, il poeta non è affatto una creatura che appartiene alla ragione; egli tiene in gran conto la sua irresponsabilità; sa che il poeta crea la sua opera attraverso l’istinto e i suoi complessi; e al cuore della poesia egli riconosce non una volontà di pensare, ma una volontà di aggressione, di metamorfosi… Non solo il poeta è perduto, se obbedisce ai dettati dei filosofi, ma egli è perduto nell’istante in cui la decisione di «volere il pensiero» emerge in lui stesso, dalle sue profondità. Una decisione cosciente – e il «dover volere» non potrebbe essere altro che un atto cosciente – non farebbe che alterare un atto che appartiene al getto spontaneo, all’esplosione.
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Da parte mia, non abbraccio l’intera poesia che appartiene al nome esclusivo di Lautréamont. Il complesso animale non è il solo, a mio avviso, al quale il poeta abbia ricorso. Ma convengo con Bachelard che l’immersione poetica, per sua essenza, accada in qualche luogo irrazionale, che essa agisca in modo istintivo. La poesia è sovversiva per eccellenza – e non vediamo cosa essa potrebbe sovvertire, se non, precisamente, i «valori intellettuali». Così, collocare in lei quei valori che essa disprezza, vuol dire conciliare – con la forza – nemici irriducibili. Ma poiché, di fatto, tale operazione si rivela tanto assurda quanto irrealizzabile, non sarebbe più onesto ammettere la loro opposizione? Ammettiamo che la vita del filosofo «deve volere» il pensiero; che quella del poeta al contrario lo disprezza; non dico che debba volerlo disprezzare; egli lo fa suo malgrado, spontaneamente. In apparenza il poeta smette di essere un poeta nell’istante in cui egli è «appassionato del pensiero» –  almeno in quanto poeta – e il filosofo smette di essere un filosofo nell’istante in cui egli sente la vita, e il fetore dell’istinto; impossibile inserire i valori intellettuali nell’uno, o la vita, nell’altro.
*
Ammettere, tuttavia, che la poesia si opponga irriducibilmente alla filosofia, vorrebbe dire ammettere che la poesia rappresenta una funzione metafisica analoga a quella della filosofia, e – poiché vi è lotta, e un equilibro precario – nulla ci vieta di parteggiare per il trionfo della prima. Quest’unico pensiero relativizzerebbe per sempre l’assoluto della conoscenza; e sappiamo che, dopo aver descritto l’opera d’arte come il mago che ci svela l’essenziale assurdità, il Signor Bergson, avvertito il pericolo, ritornò a conciliazioni più prudenti. Malgrado il suo piacere per il pericolo e l’amore per il rischio poetico, Bachelard si deciderà forse ad affrontarli, libero di rischiare il suo «dover volere» il pensiero?
In ogni caso, ritengo il libro di Bachelard un meraviglioso stimolante di idee. Se non avessi già scritto il mio Faux Traité d’esthétique, lo farei ora, se non altro per il piacere di confutarlo. Vi aggiungerei una solo cosa: è la psicanalisi della cultura a non essere possibile, poiché la cosa più difficile di tutte, è quella di vincere le resistenze dello stesso analista.
Benjamin Fondane
*L’articolo è apparso originariamente nei «Cahiers du Sud», il 1940, XIX, pp. 527-532; e successivamente pubblicato nella raccolta di testi: B. Fondane, «Le Lundi existentiel», Editions du Rocher, 1990, Monaco, pp. 157-168. La traduzione italiana è di Luca Orlandini, come la ricerca bibliografica.
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pangeanews · 4 years
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In onore di Alasdair Gray. “In Paradiso sarò una pantera, voglio questo epitaffio: non ho nulla, devo tutto e lascio il resto ai poveri”
Se ne è andato domenica 29 dicembre lo scrittore e cantore della Scozia contemporanea. È morto a 85 anni Alasdair Gray. Il lettore italiano legge il suo Lanark (1981) in quattro volumi grazie a Safarà e scopre scenari distopici all’insegna della critica sociale. L’opera prese a Gray una trentina d’anni di lavorazione perché voleva letteralmente conoscere quello di cui scriveva. Il tutto si chiude con un repertorio di voci critiche, un “indice plagiario” dove indica al lettore fatuo le sue possibili fonti di ispirazione letteraria. La cosa divertente è che Gray sputacchia così alla voce “Burns, Robert”: “Il suo razionalismo umano e lirico non ha avuto alcun impatto sulla formazione del presente libro. Il fatto è molto più sinistro così che non se si fosse trattato di una fonte acclarata. Vedere Emerson al riguardo”.
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Pausa. Robert Burns (1759-96) è il santo patrono, insieme ad Andrea, della Scozia. Anche oggi, anno di grazia 2020, la festa nazionale cade il 25 gennaio in onore del bardo Robert Burns. Di lui è a disposizione, giusto nelle biblioteche, la traduzione nella ‘bianca’ di Masolino d’Amico. A parte questo, va notato che gli scozzesi non vanno per il sottile – il 25 gennaio si festeggia portando al tavolo in pompa magna, su vassoio, un fegato di pecora. Poi si scaglia al soffitto una parte della poesia di Burns sul fegato, si estrae dall’ugola il barbarical yawp e si affonda il coltello nella carne di bestia.
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Che uno scrittore dichiari di non aver nulla da spartire con l’eroe nazionale la dice lunga sull’orgoglio scozzese. Alasdair Gray ha ribadito sino alla fine sul The Herald scozzese di continuare a sostenere il partito indipendentista. “Nel passato ho scritto molti pamphlet per loro e lo farei anche adesso, e certamente avrebbero una carica critica enorme nei loro confronti”. Anche da questo si riconosce un vero scozzese, da una carica vitale quasi esplosiva. Per dire, sino alla fine Gray ha continuato a dipingere murales pur stando in carrozzella. Questo a lato della grande opera: “Mi interessano storie e leggende, da sempre voglio creare un’epica nuova e sì, Lanark dovrebbe essere un’epica scozzese. I vari riferimenti che sono stati fatti con Finnegan’s wake sono sorprendenti ma io non ci vedo bene al riguardo, quella è un’opera di Joyce che non ho letto con la dovuta attenzione ma che mi ha attratto, di tanto in tanto, e mi ha enormemente divertito”.
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Secondo i suoi estimatori sulla Paris Review del 2016, “Lanark è probabilmente quel che si avvicina di più a Ulisse dal fronte scozzese. Gray è un maledetto e dannatissimo grande scrittore. Visto di persona, è sempre digressivo e tratta tutti gli argomenti possibili”. Insomma i complimenti sono volati, l’importante è che ora non subentri il silenzio assordante, il rispetto parlamentare per il caro estinto… Il fatto è però che Gray un po’ se la tirava addosso. Dava spago a chi indicava nella sua frustrazione sessuale giovanile le origini della creatura mostruosa, Lanark. Così sempre sulla rivista fighetta Paris Review: “I primi versi che scrivevo risultavano da frustrazione sessuale o adolescenziale, erano scritti che uscivano dal foro che mi avevano creato le persone che amavo e non c’erano più, se n’erano andate o magari erano morte. Poi ho avuto voglia di scrivere un libro enorme con tutta la mia poesia, qualcosa di sinistro che contenesse un po’ tutta la mia arte”.
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Di nuovo. Che Gray si sentisse estraneo all’influenza del bardo nazionale Burns è tutto sommato una panzana. Lui era, al contrario, in competizione serrata col santo poeta scozzese: l’ultimo lavoro è stata una versificazione della Divina commedia. Dopo i romanzi fiume al modo novecentesco, insomma, Gray voleva afferrare la voce profonda della Scozia, sciogliere la lingua in canto. Intendeva dare forma al suo popolo come Burns fece prima di lui, riuscendovi ad ampio raggio. È impressionante vedere che Steinbeck prese un verso di Burns facendone il titolo di libro su topi e umani e che Salinger ne scelse un altro sul campo di segale creando il titolo The catcher in the rye. Se questo succedeva è perché Burns costruiva versi epici, popolari. Al punto da arrivare fino a Brodskij. Quando stava per volare via dalla Russia con un amico si trovava sopra gli Urali. Non si lasciava dietro mogli o fidanzate, solo i genitori e ripensando ai versi di Burns sulla natura decise che non ce la faceva, voleva tornare indietro. Finì a processo. La poesia impegna a seguire rotte strane.
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Tutto questo per dire che nel silenzio dei media italiani (quando va bene ci sono stati paragrafi battuti con due occhi su wikipedia) se n’è andato un cantore che di qui a cent’anni parlerà ancora a chi è sperduto. Chi è il cantore? Uno come Burns che capisce l’andazzo del mondo e crea poesie di fiamma – Nonostante tutto e tutto:
“Lo vedi quello lì, che chiamano signore, Che incede impettito, guarda dall’alto e via dicendo? Magari a centinaia penderanno dalle sue labbra, Ma lui non è che un pagliaccio, nonostante tutto. Nonostante tutti e tutto, Nastri, decorazioni e via dicendo, L’uomo di mente indipendente Guarda e ride di tutto ciò”
Il cantore è uno che come Stevenson sta seduto sul cocuzzolo della brughiera, si fa accarezzare dal vento e ti dice: “Cos’è la vita? / Sedere in cima a una brughiera / per vedere l’amore arrivare / e vedere l’amore partire”. Un cantore, in fin dei conti, è uno come Gray che quando gli facevano il questionario ultraterreno aveva la risposta facile.
Cosa si sente in paradiso? “Vento, acqua, canto di uccelli, musica suonata da uomini e conversazioni”.
Quali fantasie diventano vere lassù? “Sarò una pantera ben pasciuta e ci sarà qualcuno al posto mio a dipingere”.
Se ne avessi la possibilità, torneresti tra noi? “Sì, per curiosità. Voglio questo epitaffio: non ho nulla, devo tutto e lascio il resto ai poveri”.
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“Erano i primi anni Sessanta e davo qualche lezione al dipartimento d’arte dell’università di Glasgow. Mi trovavo a dormire in questi alberghi dove la clientela nella hall non era granché interessante e io non ero incline a parlare perché loro non stavano a lungo a sentirmi discorrere di van Gogh e Gauguin. Perciò me ne stavo in camera. Pensavo: “siccome non parlo con loro, non sanno nulla di me, non sono nessuno. Presi a immaginarmi un uomo che fosse più grande di tutti gli altri, un alcolizzato che rifiutava di pensare alla propria vita. Però non capivo nulla del lavoro, della vita sessuale di questo mio personaggio. Importava solo quel suo potenziale che il mondo non avrebbe mai conosciuto. Di qui provai col monologo tenendomi vicino a quel che dice Joyce – la grande arte rimane ferma, solo le arti improprie (propaganda e pornografia) ci scuotono. La vera arte ci fa fermare davanti alla bellezza eterna, alla verità, decidete voi. Però il guaio era che avevo cominciato a scrivere un libro di cose improprie per Joyce: fantasie sessuali e diatribe politiche, quindi doveva rimanere tutto confinato nella testa del mio personaggio. (…) Alla fine questi divenne quanto di più opposto da me per credenze politiche e sessuali. L’avevo fatto diventare uomo al momento migliore della sua vita sessuale, della sua realizzazione sociale, i suoi piaceri si allungavano sempre di più. Per me le cose erano andate al contrario. Ne venne fuori un autoritratto in negativo” (1986)
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Sembra che Gray, sotto la scorza, avesse qualcosa di più morbido da dire. Era della stessa stoffa dei suoi antenati, di Stevenson, di Robert Burns. Qui sotto, per capire il tipo umano scozzese, leggete un medaglione sbalzato con la mano rapida di Stevenson. Il saggio originale è lunghetto e inesistente in italiano, risale al 1879 e finì in Ritratti familiari di uomini e libri. Qui trovate le fughe romantiche di Burns. (Andrea Bianchi)
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Robert Louis Stevenson, Aspetti di Robert Burns
Nelle notti del 1785 si ritrovavano a Mauchline gli uomini e le donne giovani del posto per fare, secondo tradizione, le loro corse inseguendo una penny ball. In uno di quei gruppi danzava Jane Armour, figlia del proprietario della magione, e il nostro don Giovanni dagli occhi scuri. Il suo cane, all’apparenza sensibile come il suo padrone, lo seguiva qui e là nella confusione delle danze. Vi furono chiaramente dei commenti salaci; e Jane sentì il poeta dire al suo compagno – o almeno dovrei immaginare che le cose siano andate così, col lancio di un commento da far ridere tutta la compagnia – insomma lei sentì dire che lui sperava che una delle ragazze lo avrebbe amato così come lui stava lì a coccolarsi il cane.
Qualche tempo dopo, mentre la ragazza stava a stendere i panni sul verde di Mauchline, Robert si avventurò in quella direzione, sempre accompagnato dal cane e questi, stanco della lunga escursione, scorrazzava con tutte le sue zampette nere sui panni appena lavati. Dopodiché i due furono portati ad attaccare bottone; sino al punto che Jane, con un’avance da maschiaccio, domandò se lui avesse poi trovato qualcuna che lo accarezzasse come facevano col suo cane.
È una delle sfortune del don Giovanni di professione che il suo onore gli proibisca di rifiutare la battaglia; sta in battaglia come il soldato romano col suo dovere, o come il medico temprato a tutte le sfide impossibili. Burns raccolse la provocazione; una speranza affamata risvegliò il suo cuore; stava lì una ragazza – carina, semplice per lo meno, se non onestamente sciocchina, e in fondo non contraria alle sue attenzioni: gli sembrava ancora una volta che l’amore stesse lì ad aspettarlo. Avesse saputo la verità! ché questa ragazza facile e col capo scarico non aveva altro in mente che il flirt, il suo cuore dall’inizio alla fine era impegnato con un altro uomo. Una volta di più Burns incominciò quel ben noto processo che porta tutti a buttarsi nella tempesta con caldo affetto. E le prove del suo successo vanno ricercate nei molti versi di quel periodo.
La sua fortuna non era personale; Jane, il cui cuore stava ancora da un’altra parte, cadde davanti a questa fascinazione e presto nel giro di un anno se ne videro le conseguenze. Fu un colpo pesante per questa coppia sfortunata. Stavano a gingillarsi e ora si ricordarono in modo rude dei temi seri di una vita. Jane si riprese e scoprì il disastro delle sue speranze; il meglio che si potesse aspettare era un matrimonio con un uomo estraneo ai suoi pù cari pensieri. Ora poteva esser contenta di ottenere quel che prima non avrebbe scelto. Quanto a Burns, nell’imminenza del casino riconobbe che il suo viaggio di scoperta l’aveva portato nell’emisfero sbagliato – non era, non era mai stato, realmente innamorato di Jane.
Sentitelo: “Contro due cose – scrive – mi fisso come fossero fatali: rimanere addomesticato, e averla come coniuge. La prima, grazie al cielo, non accadrà mai! L’altra, dannazione, mai la compirò!” E poi aggiunge, forse più accomodante: “Se vedi Jane, dille che la incontrerò, che Dio mi aiuti nella mia ora di bisogno”. Si trovarono come d’accordo; e Burns, colpito dalla miseria di lei, se ne venne giù dalle sue altezze di testa indipendente e le diede un’ammissione per iscritto di matrimonio. Punizione del dongiovannismo è creare continuamente false posizioni – tutte relazioni nella vita sbagliate in se stesse, altrettanto sbagliato a rompersi o perpetuare. Questo era un caso del genere.
Un uomo saggio e di parola si sarebbe fatto una risata e avrebbe tirato dritto; stiamo contenti che Burns si fece consigliare meglio dal suo cuore. Quando scopriamo di non poter essere a lungo veri, la cosa migliore è di farsi onesti. Oso dire che uscì da quel rendez vous non molto contento, ma con la coscienza glorificata; e mentre se ne tornava a casa avrebbe cantato il suo pezzo migliore, la nota poesia Come i tuoi servi sono benedetti, Signore! E Jane, d’altro canto, rientrò nei ranghi confidando la sua situazione alla coppia di coniugi a capo del villaggio. Burns e suo fratello stavano intanto mandando in fallimento la fattoria. Il poeta era un pessimo partito per tutte le ragazze di campagna.
Almeno lui non si incensava da solo al modo di don Giovanni perché era stata lei a deviare per lui, era lei la libertina che con un nuovo matrimonio doveva andare a coprire tutto il suo passato. Di questo Burns non  avrebbe sentito una parola. Jane aveva cercato un riconoscimento solo per la buona pace dei genitori e non per un’inclinazione decisa verso il poeta, e presto si mise a distruggere quel foglio; tutti credettero, sbagliando, che così il matrimonio fosse dissolto. Per un uomo orgoglioso come Burns questo fu un colpo d’arresto. La concessione estorta dalla sua pietà gli veniva ribattuta sui denti. La famiglia Armour preferiva andare in disgrazia piuttosto che legarsi a lui. Dal tempo della promessa, peraltro, lui si era affaccendato per ritrovare l’affetto per la ragazza; questa situazione non lo toccava solo nella sua vanità, ma lo feriva al cuore. (…)
Penso che possiamo guardare a Robert Burns in questi suoi primi anni, in quella terra di ruvide brughiere, come al povero tra i poveri con le sue sette sterline l’anno che viene squadrato con fare dubbioso dalle famiglie rispettabili. Però era lui il miglior conversatore, il più celebre amatore e confidente, il poeta laureato. Ed era l’unico che sapesse pettinarsi a modo.
Robert L. Stevenson
*traduzione di Andrea Bianchi
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pangeanews · 4 years
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La recensione che ha cambiato la vita di Jack Kerouac. Ovvero, sul fattore cu*o nella storia della letteratura e sull’inutilità, oggi, delle pagine culturali (meditate gente e reagite con genio!)
Certo, ci vuole cu*o. Ma ci vuole anche un certo culto per il nuovo, una certa fame, un desiderio. Ci vuole anche, diciamolo, ‘il contesto’, ecco, parola terribilmente seria.
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Sul “Washington Post” Ronald K.L. Collins racconta una bella storia, che fa così: “Quella recensione acccidentale che rese Jack Kerouac famoso”. Lo sketch è brillante, come l’incipit, da giornalismo narrativo: “Inizi di settembre, 1957. Jack Kerouac realizza il sogno di ogni scrittore. È mezzanotte, lui e la sua ragazza, Joyce Glassman, lasciano l’appartamento di New York City, quell’alto edificio in pietra arenaria, si fermano a un’edicola sulla 66ma, vicino a Broadway. Il tizio taglia lo spago che tiene insieme la pila dei giornali, è l’edizione mattutina del ‘New York Times’. I due aspettano. Prendono il giornale, lo sfogliano. Kerouac legge la recensione del suo libro, On the Road. ‘Bastò il primo paragrafo… aveva le vertigini’, ricorda la Glassman”.
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5 settembre 1957: sul “New York Times” Gilbert Millstein scrive la recensione che cambia la vita letteraria di Jack Kerouac
Prima frase di quella fatale recensione: “On the Road è il secondo romanzo di Jack Kerouac, la sua pubblicazione è un’occasione storica per capire l’epoca attraverso un’autentica opera d’arte”. Secondo paragrafo: “Questo libro richiede esegesi e studio del contesto. Certamente, questo libro sarà condannato o maledetto dai critici ‘ufficiali’ e dai critici dell’avanguardia, oppure trattato superficialmente come opera ‘intrigante’ e ‘picaresca’ o con altri aggettivi di dozzinale banalità. In realtà, On the Road è l’espressione più alta ed eloquente di ciò che qualche anno fa è stata chiamata generazione ‘Beat’”.
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Ronald K.L. Collins, a cinquant’anni dalla morte di Kerouac, è piuttosto perentorio: “Senza quella recensione, Kerouac sarebbe rimasto uno scrittore minore e la Beat Generation non sarebbe fiorita affatto. D’altronde, sette anni prima, il primo libro di Kerouac, The Town and the City, non aveva attratto che modeste recensioni, incapaci di spingerlo alla fama”.
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Il retroscena che ha portato a quella recensione – ergo: il cu*o – è divertente. Millstein “era il recensore giusto al momento giusto: conosceva la cultura bohémiennes degli anni Cinquanta nata intorno al Greenwich Village e aveva già recensito il romanzo d’avanguardia del 1952, Go, di John Clellon Holmes, oggi ritenuto il primo romanzo ‘Beat’”. Soltanto che… Il caporedattore cultura del ‘Times’, Orville Prescott, è in vacanza e On the Road giace muto sulla scrivania di Charles Poore. Poore non voleva occuparsi del libro, disprezzava la controcultura, allora lo passa a Millstein, l’unico collaboratore disponibile. Millstein scrive. La recensione è fiammante. Poore manda il pezzo a Prescott, che si incazza. “Odiava quel libro, quel movimento, gli pareva che la recensione fosse eccessiva”, ricorda Millstein. Alla fine, non c’è molta roba per quel numero del ‘Times’ e scelgono comunque di pubblicare la recensione. Paradosso: l’esplosione critica di Kerouac, la sua consacrazione, sancì la fine del rapporto tra Millstein e il “New York Times”. “Fu la mia ultima recensione nella mitica sezione del ‘Books of the Times’. Amen”.
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“Kerouac e la Beat Generation non hanno beneficiato soltanto dei ritmi culturali del tempo, ma anche della recensione di Millstein: era eccezionalmente pensata e scritta in modo superbo, elegante, profonda, consapevole”. In effetti, alcuni cliché critici sono intercettati immediatamente. Ad esempio questo: “Come, più di ogni altro romanzo degli anni Venti, Fiesta è diventato il testamento della Lost Generation, è certo che On the Road diventerà l’emblema della Beat Generation. Per altro, non c’è alcuna somiglianza tra i due: formalmente e filosoficamente, Hemingway e Kerouac sono divisi, almeno, da una depressione e da una guerra mondiale”. Millstein riconosce i caratteri ‘formali’ della scrittura di Kerouac: il jazz, l’etica Zen, lo stile oceanico e involuto di Thomas Wolfe. “La ‘Beat Generation’ è nata disillusa: dà per scontata l’imminenza della guerra, l’inutilità della politica, l’ostilità del sistema sociale. Non è impressionata dal benessere, non sa in quale antro rifugiarsi, è in ricerca”. Millstein intercetta il cuore del romanzo in questa frase di Sal Paradise: “Le sole persone, per me, sono i matti, i pazzi per la vita, i pazzi che vogliono la salvezza, quelli che vogliono tutto in un istante, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai cose banali, ma che bruciano, bruciano, bruciano, come favolose, gialle, candele romane”.
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In climax vertiginoso – ultimo capoverso: “Ci sono sezioni di On the Road dove la scrittura è di una bellezza mozzafiato… Ci sono dettagli memorabili, teneri, divertenti. Ci sono alcune considerazioni sul jazz che non anno eguali nella narrativa americana, per intuizione, stile, virtuosismo tecnico. Insomma, On the Road è un capolavoro” – la recensione proiettò Kerouac nell’empireo. Ne parlarono tutti. Oggi, una intervista sul ‘Corrierone’, spalmata su due pagine, sposta forse una decina di copie e chi se la ricorda più, domani, se non ci sei tu, aureo intervistato, a incorniciarla sotto vetro?
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È la stessa riflessione di Collins: oggi una ragionata riflessione sui ‘giornaloni’ è sconfitta da un cinguettio sui social, che è sommersa da altri migliaia di latrati. “Per gli scrittori che sperano di esplodere e di brillare di una luce simile, nel groviglio caotico dei nostri media, oggi è più difficile che ieri. Tutto è possibile, ma è necessario un raro allineamento del destino e della creatività, un Kerouac, un Millstein…”. Insomma, ci vuole cu*o. (d.b.)
*In copertina: Jack Kerouac a Milano, 1966, photo Massimo Vitali
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pangeanews · 4 years
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Il “Canone Caterini”: da Virginia Woolf a Malcolm Lowry, da Oreste Del Buono a Franco Cordelli e Gombrowicz, una raccolta di ritratti del pugile della critica
In copertina c’è un celebre autoritratto di Rembrandt. Il dipinto è del 1628, e i capelli scompigliati nascondono in ombra lo sguardo. L’espressione è seria: il pittore ci guarda, ma noi non possiamo vincere i suoi occhi – soccombiamo. Allo stesso modo, il critico letterario scava nell’opera – con devozione da sciamano, ossessione da voyeur e dedizione da chirurgo – senza essere visto dall’autore, ed è lì, invisibile sentinella nella notte, a colpirci ai fianchi con i suoi sguardi. Il critico letterario non è un ‘mezzo’ – come può esserlo, ad esempio, un ottimo giornalista culturale. Egli è un mestatore di enigmi, un ritrattista dell’inavvertito, dell’imprevisto: per questo, a volte, alcune pagine critiche sono più belle e sgargianti dell’oggetto che criticano. A volte, intendo, il racconto di un libro è più affascinante del libro stesso. Andrea Caterini fa questo effetto: ha delicatezze da cavalleria arcana – uno stile, ad esempio, un poco rétro, che si rifà a una tradizione intravista nel sogno –, flirta con l’opera, per poi, con gesto fermo e discreto, estorcerne il cuore. Per questo, gli studi ‘dipinti’ che ha raccolto in Ritratti e paesaggi, il libro con Rembrandt in copertina (Castelvecchi, 2019), non sono casuali e catodici esercizi di stile. Caterini, scrittore di suo eccezionale (dopo questo, leggete Vita di un romanzo, stampa sempre Castelvecchi, 2018), sceglie solo autori che pongono nella crisi, che stordiscono a sprangate, che obbligano all’interrogativo, alla scelta. “Non credo nella saggezza, che è solo un metodo per imparare la prudenza, la moderatezza, la medietà; una forma dell’addomesticamento della ragione che non porta ad altra conoscenza se non quella della nostra vanità. Ma credo nella sapienza, che è invece una visione oltre ogni conoscenza – qualcosa di tanto vicino al fondo della vita da non poterle mai consapevolmente appartenere”: si può dire meglio? Con perizia, Caterini distingue i suoi studi – per lo più, per lunghezza e occasione – in “Ritratti ad olio” – che belli quelli su Virginia Woolf, Malcolm Lowry, Witold Gombrowicz –, “Ritratti a matita”, “con tecnica mista” – le letture di Enzo Siciliano e Franco Cordelli sono essenziali – etc. Come sempre, Caterini è troppo pudico. Questa formula della critica in forma d’arte è riuscita. I suoi editoriali, per dire (Cari critici, ammettetelo: i romanzi non li leggete; L’Età del Pongo) sono incisioni su pietra; le sue “conversazioni” (un repertorio interessantissimo che richiama alla parola Berardinelli, Colasanti, Manica, Onofri, Montesano, Cordelli) mi paiono, piuttosto, “autoritratti in uno specchio convesso”. Voglio dire che Caterini conosce l’uomo, prima della sua opera. Mi sembra – e non è il vezzo di uno che immagina il sangue senza averlo visto e leccato – che la sua capacità critica sia una dote donata dal ring, dalle botte prese quando Caterini praticava la ‘nobile arte’ – ancora lecitamente visibili sul suo muso. Attendere, indietreggiare, fare forza sulla debolezza, usare le braccia come un verbo, il corpo come una scrittura malleabile. Guardare l’avversario e valutarne la fame, pesarne la paura. Caterini, sul ring della letteratura, è di quelli che starebbero ore a fissare le intenzioni dell’altro, affascinati dalla sua storia, è dei rari e coraggiosi che rischiano di finire kappaò, purché il gesto sia saturo di bellezza, il dolore autentico, l’urlo ridotto in meraviglia, lo sputo una cometa, un miracolo. (d.b.)
Al di là delle ‘occasioni’ che hanno dato compostezza al libro, mi sembra ci sia una ragione profonda nel lavoro. Ad esempio, la critica letteraria come ‘ritratto’ e come ‘paesaggio’. Cosa significa? Spiegati. 
Alla sostanza la ragione credo vada trovata in un assunto: che il ritratto e il paesaggio sono forme espressive che hanno a che fare con la teoria. L’analisi di un volto e quella di un paesaggio costringono all’attenzione. La mente, poi, traduce, nel senso che organizza in un’interpretazione, ciò che l’occhio vede. Ecco, a me interessava anzitutto capire cos’è il romanzo moderno. O forse sarebbe meglio dire cosa è stato. E l’ho fatto anzitutto osservando l’opera di alcuni autori particolarmente rappresentativi (Proust, Virginia Woolf, Gombrowicz, Lowry ecc.). Ma non volevo scrivere un libro di storia della letteratura, anche perché non sono uno storico. Il mio è un libro di ricerca. E i libri di ricerca sono sempre aperti. Ma devo aggiungere che Ritratti e paesaggi è anche un libro speculare al mio precedente, Vita di un romanzo. Ho sentito in qualche misura la necessità di rendere manifesta la ricerca sul “romanzo” che mi ha portato a scrivere quel libro.
Piagati dal contemporaneo, sembra impossibile esercitare la critica bensì limitarsi alla ‘cronaca’. Tu in qualche modo attraversi i generi: genericamente, nel libro ci sono dei saggi, degli articoli di giornale, delle interviste, perfino degli acuti, degli ‘editoriali’. Ora, poi, fai una specie di militanza critica in Rai. In cosa sta, allora, nel divario dei generi e dei toni, lo sguardo critico dominante? 
Sì, l’impalcatura, cioè la struttura del libro comprende diverse forme e modi di fare critica. Questo per mostrare che il lavoro critico è un lavoro quotidiano, costante, ininterrotto. Lo sguardo dominante è quello del saggio più approfondito, questo perché non ho un particolare amore per la cronaca, che è troppo effimera. Il saggio in qualche misura ti costringe a fare i conti con il tempo, che è un tempo mentale e di dedizione. Ti costringe a essere paziente nonostante le impellenze della vita e la dissipazione dell’intelligenza e delle energie anche in ciò che è evidentemente futile. In quella pazienza c’è la ricerca di uno spazio di pace, che è una pace che si costruisce attraverso un corpo a corpo, una tensione continua con il tuo oggetto di indagine.
Mi domando: qual è il libro che sei più fiero di aver proposto a un editore e introdotto; quale quello su cui vorresti lavorare. 
Ce ne sono due. Il primo certamente è Jean Santeuil di Proust, di cui c’era una sola traduzione di Franco Fortini, che da Mondadori non veniva assurdamente più ristampata da decenni (chissà, forse si erano addirittura dimenticati di averla avuta in catalogo). L’ho fatto ritradurre da Salvatore Santorelli e ho avuto la fortuna di introdurlo. È stato un modo per capire a fondo l’origine di quel monumento della letteratura che è Alla ricerca del tempo perduto. L’altro è il racconto di Dostoevskij Il sogno di un uomo ridicolo. In questo caso non si trattava di un’assenza dalle librerie ma ero interessato a lavorarci. Ho usato quel racconto come modello del pensiero dello scrittore russo, come dire una sineddoche che mi ha permesso di parlare di tutta la sua opera. L’ho introdotto e commentato e alla fine quel libro è diventato a tutti gli effetti una monografia su Dostoevskij. La cosa su cui mi piacerebbe lavorare sono i taccuini, i diari, gli appunti di alcuni autori (e penso, per fare degli esempi, a quelli di Henry James, di Dostoevskij, di Camus, di Gide). Mi interessa molto capire cosa c’è dietro un’opera. Anzi, detta meglio, la necessità che un’opera sottende, che significa poi cogliere il suo momento sorgivo.
Mi chiedo: come si integra la tua specificità ‘autoriale’ dalla capacità critica, dove finisce il ‘creativo’ e inizia lo ‘scienziato’. Insomma, come vai fuori di te per entrare nel cuore altrui?
Le due cose non sono distinte. La mia forma di creatività è l’analisi. Analizzare è la mia particolare forma di racconto, sia per i libri più specificamente narrativi, sia per quelli saggistici. Il racconto, per me, non è un procedere in avanti, ma uno scavare dentro. Si tratta sempre di una ricerca. Il mio desiderio è quello di trovare il cuore, il nucleo delle cose – sia dentro di me, sia nelle opere altrui.
L’autore italiano (vivo o morto) più sottovalutato. E perché. 
Nomino uno scrittore italiano a cui ho dedicato un saggio nel libro: Oreste del Buono. Del Buono ha davvero raccolto la tradizione del romanzo moderno perché ha capito che il romanzo, a un certo punto, non poteva che parlare di se stesso, perché le storie si erano in qualche misura esaurite. Il suo modello è Flaubert, ma non quello di Madame Bovary (che pure ha tradotto) ma quello di Bouvard e Pécuchet. La sua opera, come quella di pochi romanzieri del Novecento italiano, sembra avere davvero un disegno; un disegno che poi, libro dopo libro, mette in evidenza come l’io sia messo sotto assedio – quello stesso io che del Buono non prende mai davvero sul serio.
Dici che la nostra è ‘l’età del pongo’: perché? Dunque, nessuna opera di questo tempo è destinata a memoria? Perché?
Ho usato questa espressione, “l’età del pongo”, per dare l’immagine di una condizione di falso mascherato da vero. Volevo dire che il modello dominante è qualcosa che assume l’aspetto di, ma non è. Gli oggetti primari che l’uomo ha sempre utilizzato per esprimersi – il marmo, il bronzo, l’argilla, la lingua ecc. – non sono ormai che oggetti plastificati. È evidente che il mio è un giudizio assolutamente generico non attribuibile alla totalità dei libri. Dico, appunto, che è qualcosa che mi accorgo essere dominante nel nostro tempo, e non so quanto ne siano consapevoli coloro che questa falsificazione la sfruttano o la subiscono. Ovviamente, oggi come ieri, opere importanti escono eccome. E mi auguro che siano quelle a restare.
Continuamente nel tuo lavoro (qui, per altro, fin dal titolo), c’è una affinità filiale tra opera pittorica e opera letteraria: come mai? Come se la parola si facesse ‘tratto’ e l’immagine verbo…
Sì, è così come dici. E aggiungo che non c’è atto critico più evidente di un’opera pittorica. La pittura è il risultato di un’osservazione e di una interpretazione di ciò che si vede. L’immagine pittorica è in qualche misura il risultato di una tensione tra il soggetto e l’oggetto osservato. Ma, oltre a tutto questo, dalle arti figurative subisco come una forza d’attrazione che non so descrivere, ma è potentissima. Niente come le opere pittoriche riescono a farmi emozionare e nello stesso tempo ragionare. Quell’assenza di parole dell’immagine è ciò che vorrei esprimere.
Il libro della tua vita; quello che stai leggendo ora; quello che stai scrivendo. 
Continuo a pensare che il libro della mia vita sia Delitto e castigo di Dostoevskij. La prova è la quantità di volte che l’ho letto, scoprendoci sempre qualcosa di nuovo. Non credo sia il libro più importante del russo, che con tutta probabilità è invece I fratelli Karamazov, ma quello in cui davvero gli si spalanca un mondo. Quel mondo lo spalanca continuamente anche a me. Ultimamente sto leggendo pochissimi romanzi e molti libri che hanno come argomento l’arte. L’ultimo è una biografia di Cézanne scritta da John Rewald, uno dei maggiori storici dell’Impressionismo, che per la prima volta esce in Italia da Donzelli. Un libro ricchissimo per la ricerca che Rewald ha fatto delle fonti. Cézanne, poi, è una mia grande passione. Forse perché in lui nulla è mai davvero chiaro pur essendo un pittore riconoscibilissimo. Se ti muovessi in un museo, le sue opere le riconosceresti pure in mezzo a cento altre, vieni immediatamente attratto dall’intensità dei suoi colori. Ma, nonostante questo, la sua pittura è davvero un mistero. Per quanto mi riguarda ho finito di scrivere un piccolo libro monografico su Giorgio Morandi (ancora l’arte che torna) che uscirà con l’anno nuovo.
*In copertina: Witold Gombrowicz e Rita, con cane, a Vence, 1967
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pangeanews · 5 years
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“Spremono lo scrittore perché produca, come una gallina… ma a questo mondo c’è bisogno d’amore”: dialogo con Giovanni Pacchiano
Un dettaglio profila l’uomo. Anzi, un nome. Santamaura. Lo conoscete? Appunto. Autore, nel 1983, per Mondadori, di Magdala, trent’anni fa pubblica con Marietti Il paradiso e gli assassini. Su “la Repubblica”, Giovanni Pacchiano scommette su di lui, convincendoci che “è, davvero, il nostro piccolo Broch”. A leggere quella arguta e appassionata recensione si capisce che i drammi di ieri sono quelli (moltiplicati) di oggi: che “pubblicare con un piccolo editore”, in un oceano editoriale gonfio di squali, equivale a “giocare una cinquina al lotto pretendendo di vincere. Mille problemi: distribuzione difficile, poca o nessuna pubblicità, il libro che scompare dal bancone del libraio a tempo di record” (tragedia, questa, che accade pubblicando pure con una major, oggi). Soprattutto, già allora si parlava, sui giornali ‘di peso’, dei soliti noti, dei nomi consueti, nobilitati da una griffe. Insomma, del talento dell’autore, nudo d’altro, importa a nessuno, nessuno è in grado di valutarlo (“Un gran bel libro: ma morire che qualcuno ne abbia parlato”). In questa piccola recensione (arte arcana, che richiede gesto intellettuale e gusto per l’azzardo, la recensione), c’è in gemma tutto Pacchiano: il critico letterario dai gusti esigenti e vertiginosi (Broch), che sa scommettere, con ardore, sui grandi scrittori di oggi (nell’intervista parla di Alessandro Banda e di Romolo Bugaro; ricordo la Lettera al lettore incorporata a Christiane deve morire di Veronica Tomassini). Giovanni Pacchiano, in effetti, è uno dei rari, autorevoli rappresentanti della critica letteraria: lavora per recuperare autori insoliti, dissepolti dal passato (tra gli altri, ha curato opere di Julien Green e Benjamin Crémieux, ha scritto di Vittorio Imbriani, di Carlo Dossi, di Renato Serra, soprattutto è l’autore della mastodontica curatela delle opere del grande Sergio Solmi, per Adelphi, in sei volumi, dal 1983 al 2011), ma esercita una attività pubblicistica importante, da miliziano della meraviglia, ora su ‘Robinson’, l’inserto culturale de “la Repubblica”, allora su diverse testate, da “il Giornale” a “L’Europeo”, fino al “Sole 24 Ore”, da dove fu ingiustamente allontanato. Sceglie i libri con una delicatezza aliena alle mode e ai furori del mercato editoriale, Pacchiano (l’ultimo libro, Gli anni facili, è edito da Bompiani nel 2016), con una attenzione a sondare le ombre, a snidare mitologie rilegate nell’ignoto. Ha autorità, disincanto, stupore inerme. Lo contatto, sfidando una sua certa ritrosia, per capire in che stato è la critica italiana attuale, per continuare a mordere i libri come fossero cuori che urlano. (d.b.)
Tra le imprese critiche di Giovanni Pacchiano, si segnala la curatela, per Adelphi, delle opere di Sergio Solmi, tra 1983 e 2011
Quali libri hanno formato il suo ‘carattere’ critico?
Quanto alla critica, la mia generazione è stata influenzata, nella giovinezza, dal crocianesimo. Decisivo è stato all’università l’incontro con un maestro come Mario Fubini, nel suo duplice aspetto di critico dello stile e di storico della letteratura. Ma fondamentali sono state, almeno per me, anche le letture dei diversi libri di Leo Spitzer e di Eric Auerbach. Devo dire che la critica dello stile, se condotta con giudizio, mi affascina ancora oggi, ma non saprei mai rinunciare allo storicismo, che ora viene tanto svilito. In anni meno lontani ho letto con interesse e passione tutto ciò che ha scritto Starobinski. Per fortuna oggi tramite alcuni siti possiamo ordinare libri in lingua originale introvabili in Italia e mai tradotti. Ah, un altro che mi ha molto influenzato è René Wellek.
Preciso: quali scrittori contemporanei hanno folgorato la sua giovinezza? E di quali autori si è innamorato esercitando pubblicamente la critica letteraria?
Per risponderle in maniera esaustiva dovrei scrivere un libro. Il primo incontro “fulminante” è stato, a 14 anni, con Martin Eden di Jack London, che ritengo un capolavoro assoluto. Poi, al liceo, il Joyce di Gente di Dublino, tutto Thomas Mann ma soprattutto I sonnambuli di Hermann Broch. Devo essere grato al mio indimenticabile amico e compagno di classe Giorgio Lanaro, l’intelligenza più viva che abbia mai conosciuto, recentemente scomparso, e, da adulto, eccellente  professore di Storia della filosofia alla Statale di Milano, che in seconda liceo classico (avevamo 17 anni!) mi segnalò la voluminosa trilogia di Broch, che non solo mi affascinò ma mi fece entrare in una dimensione più complessa della letteratura, dove la narrazione dei fatti portava con sé non solo una visione estetica dello scrivere, ma anche una profonda esigenza etica e la volontà di dare una nuova struttura al romanzo, unendo tradizione e innovazione, sulle orme di Joyce ma andando ancor più in là per profondità di pensiero. Nel Novecento per me Broch resta il più grande, alla pari col solo Proust, che conobbi più tardi, all’università, e con Joyce e con i racconti di Musil, oggi purtroppo poco frequentati. Dovrei citare diversi altri scrittori, ma non la finiremmo più. Mi limito a dire che tengo sempre sul comodino la Pléiade di Gallimard dedicata alle opere di Valery Larbaud e il suo Journal, 1600 pagine. E le Nine Stories di Salinger, più ancora del Giovane Holden, rappresentarono per me un autentico choc, e soprattutto il primo racconto: “Un giorno perfetto per i pesci banana”. Quanto agli italiani, mi restringo qui a quelli che considero i massimi del Novecento, Svevo, Gadda, il Borgese di Rubè, Antonio Delfini, che continua a essere ignorato, nonostante gli sforzi del grande, da me amatissimo, Cesare Garboli. Naturalmente Primo Levi e Pavese (oggi purtroppo sottovalutato dagli ignoranti) e Fenoglio. Non c’è Calvino? Lo apprezzo e lo stimo molto per l’intelligenza vivissima, ma non è nel mio dna. Soldati, Bassani (che adoro), Berto (ah, La cosa buffa! Ancor meglio del Male oscuro), Piero Chiara, troppo spesso scambiato per un autore di solo intrattenimento, mentre sui suoi libri aleggia la consapevolezza malinconica del tempo che fugge. E poi ancora il Testori del Dio di Roserio e il Sillabario numero 1 di Parise e, in anni più recenti, Dolcezze del rancore di Alessandro Banda: brevi racconti (ma è improprio definirli così) che hanno la stessa caratura e la stessa suggestione delle Operette morali del Leopardi. Nella fretta della risposta, posso aver dimenticato qualcuno: sì, Fruttero & Lucentini, deliziosi. Esce proprio ora un loro cofanetto nei Meridiani con l’opera omnia. E il quasi totalmente sconosciuto Guido Manera, che scrisse sotto lo pseudonimo di Santamaura, e che con Il paradiso e gli assassini, ambientato ai tempi di Omar Khayam, ci ha dato il romanzo italiano più bello e più intenso di tutti gli anni Ottanta, e forse non solo di quelli. Sapesse a quanti editori mi sono rivolto perché lo ripubblicassero, ma tutti mi guardano come se fossi matto. Eppure… E Camilla Salvago Raggi, ancora attiva a 95 anni. Il suo romanzo breve L’ora blu, ambientato a Genova durante la seconda guerra mondiale, ha uno charme particolare. Pare di leggere una Charlotte Brontë trasferita nel Novecento. Insomma, questi sono gli scrittori che negli anni mi hanno folgorato e di cui mi sono innamorato esercitando la critica letteraria. E che hanno esercitato un influsso, palese o nascosto, su di me. Per accennare brevemente ai poeti: Dino Campana (immenso), Montale, Solmi ovviamente, Caproni, Vittorio Sereni, Luciano Erba e il Pagliarani del poemetto La ragazza Carla. In anni recenti Roberto Mussapi ha pubblicato un poemetto, La grotta azzurra, ambientato in gran parte nei bagni di un autogrill, incantevole per poesia e fascino. È una storia d’amore. E a questo mondo c’è bisogno di amore.
Intendo capire con lei se oggi la critica riesca ancora a preparare uno spazio alla grande opera, uno spazio di pensiero aspro e onesto. Le chiedo, insomma, se esista ancora una critica letteraria che abbia peso, nitore, valore.
Mah: non c’è un’idea unitaria della critica, né ci potrebbe mai essere; ci sono i critici con la loro formazione e il loro gusto. Non sono mai riuscito a capire chi ha tentato di convalidare il valore oggettivo della critica. Però leggo Garboli e ancor oggi mi entusiasma, mi invoglia a leggere i libri di cui parla. Così per Mengaldo, per Remo Ceserani, magnifico comparatista, per Mario Lavagetto e la sua critica psicoanalitica. Non ho un debole per Piperno come scrittore, lo trovo un po’noioso, ma mi affascina e mi persuade come critico letterario. La critica letteraria ha un peso quando ha una cultura alle spalle e ci contagia, ci spinge alla lettura. Ma oggi ci sono tanti improvvisatori.
Recentemente, mi è accaduto di essere ‘fatto fuori’ da una testata dove, per anni, ho esercitato la critica tramite il ‘genere’ della stroncatura. Mi hanno fatto capire che le recensioni e in genere le veline culturali servono a consolidare un sistema di relazioni, a perfezionare una qualche carriera editoriale. In effetti, le ‘terze’ dei quotidiani nazionali mi sembrano soggiogate dal noto, prive di idee culturali. Le chiedo un commento, alla luce della sua lunga esperienza: è così?
Mah, mi sembra che quotidiani e settimanali (i quali ultimi hanno ridotto o annullato lo spazio dedicato alla critica) si siano troppo adeguati al gusto del pubblico, gusto che anche per colpa della scuola sta scadendo nelle giovani generazioni. Penso, ad esempio, che sarebbe utile una rubrica che riportasse alla luce i grandi romanzi del passato, ancora noti o dimenticati, la più parte dei quali i giovani e anche molti lettori meno giovani non conoscono assolutamente, ma è un pio desiderio. Per esempio, quanti lettori conoscono Effi Briest di Fontane? Eppure è una gemma del secondo Ottocento. Oppure il malinconico e terribile Alla deriva di Huysmans, noto solo per Ὰ rebours. E allora perché non spiegarglielo? Oggi i giornali vogliono il libro appena uscito: c’è questa attenzione smodata alla notizia, alla contemporaneità, giustificabile solo in parte. Come se il passato fosse azzerato. E credo che ai lettori non piacciano i romanzi che fanno pensare, riflettere. Guardare dentro se stessi. Meglio evadere…
So che è stato repentinamente, anni fa, allontanato dal ‘Sole’: me ne vuole parlare?
È una vicenda spiacevole, dolorosa e umiliante, di cui preferisco non parlare.
Il grande sistema editoriale, azzoppato da esigenze di mercato, non sembra trovare la regola aurea tra esigenze estetiche e necessità di vendere. Anzi, ora pare piuttosto in svendita. Come fare? Si accettano estremismi. 
Non ci sono rimedi certi. Sarò un antenato, ma credo ancora nell’ispirazione. Oggi, se uno scrittore sfonda con un primo libro, l’editore gliene chiede subito un secondo, e poi un terzo e così via. Insomma, spremere l’autore perché produca come una gallina, o una mucca. E spessissimo il lettore ci casca. Diffidare di chi pubblica un libro all’anno. Ma, cosa vuole, oggi comanda la pubblicità, e comandano le mode. E il profitto a tutti i costi. Ma dureranno ancora, tra 100 anni, questi autori?
Nei suoi libri tocca spesso il tema dell’educazione, penso anche al modo in cui ha narrato il suo essere ‘statalino’. Forse una porzione del problema culturale è proprio la scuola. Che fare? Domanda da un milione di dollari…
Sì, è un tema da un milione di dollari. I professori dovrebbero far leggere di più. Io, quando insegnavo al liceo, a ogni classe di nuova accoglienza, davo una lista di 100 fra romanzi e racconti, aggiornandola ogni anno, e dicevo: questi sono libri sicuri: leggere quel che potete ma leggete. E quando avrete letto ditemelo e ne parleremo in classe, ognuno di un libro diverso ai suoi compagni. Funzionava. Oppure leggevo ad alta voce in classe brani di libri che loro non conoscevano. Insomma, se il professore ha passione può ancora fare molto. Ma oggi questa passione mi sembra parecchio scemata. Del resto, chi insegna è preso da mille problemi una volta meno assillanti. Le scartoffie inutili da compilare; l’ossessione della vigilanza, come se un insegnante potesse essere contemporaneamente in più posti, soprattutto al cambio di ora. Le riunioni, defatiganti, interminabili. Col rischio di soffocare l’impulso individuale alla trasmissione della passione. Che è ciò che conta.
Amo Solmi, autore scomparso, insieme a troppi altri, dall’orizzonte della discussione. Immagino che si possa compiere un così completo lavoro di cura solo se si è interamente coinvolti nell’opera dell’autore a cui si è dediti. Cosa la affascina di Solmi, cosa dovremmo ricominciare a leggere di lui?
Solmi ha saputo essere poeta, autore di prose (Meditazioni sullo Scorpione) degne delle prose dei grandi francesi, Baudelaire, Rimbaud, lo Huysmans dei Croquis parisiens. E inoltre grande critico letterario e saggista, e grande traduttore. Appassionato cultore di fantascienza, tra i primi in Italia. E critico d’arte. Mi affascina in lui questa passione per la totalità dell’arte, e la sua curiosità insaziabile per ogni fenomeno artistico. Spesso la critica ha detto che il poeta era meno bravo del prosatore. Storie. La sua poesia, che deriva da Rimbaud e dal Leopardi, ha un suo fascino particolare: la cultura che ha alle spalle affiora e come, è un poeta letterato, ma filtrata da una malinconia autunnale, dalla percezione della drammatica brevità della vita, cui possiamo opporre, come unico strumento, il culto dei sentimenti e della dignità che ogni uomo deve perseguire, e, sì, l’amore per la cultura come fonte di vita. Oggi possono apparire discorsi vecchi, ma che cosa propone di meglio l’oggi? I tatuaggi? La barba che tutti si fanno crescere? I romanzetti di puro consumo?
Quale libro la ha recentemente appassionata, quale libro consiglia a un ragazzo che si appresta all’avventura letteraria?
Uno solo: quello di Romolo Bugaro, Non c’è stata nessuna battaglia, Marsilio. Non voglio raccontarlo: leggetelo. Accidenti, stavo per scordarmi di Veronica Tomassini, che, con Christiane deve morire, ha scritto un romanzo di una purezza e di un’intensità dostoevskiana, parlando di un mondo di umiliati, di diseredati, ragazzi allo sbando nel quartiere più povero di Siracusa.
Ma poi… perché leggere? Perché scrivere? 
Anche qui dovrei rispondere scrivendo un libro. Vedo di essere breve. Dico soprattutto che un buon libro è come un amico che ci fa compagnia, e che chiudiamo col rimpianto che la storia sia finita. Ci sono tante valenze emotive nella lettura. Walter Benjamin (me lo scordavo, ma anche Benjamin mi ha molto influenzato) diceva che leggere un grande libro è come mangiare il cuore di un valoroso nemico ucciso. Insomma, si legge incorporando il libro, facendolo diventare parte di noi. Ne usciremo più ricchi, forse più saggi, o più consapevoli della vita e della morte. Si può leggere anche per evadere, certo, e non bisogna vergognarsene, ma non è tutto. Spesso la lettura, specialmente quando siamo immersi nel dolore, ci consola o ci distoglie per un attimo da pensieri tristi. In questo senso ad esempio la trilogia dei Tre moschettieri di Dumas è esemplare: e soprattutto il terzo volume, Il visconte di Bragelonne, meno letto degli altri due, forse anche perché consta di 1200 pagine, ma meraviglioso, anche se alla fine amaro come la vita quando ci si mostra nuda davanti agli occhi. Perché scrivere? Non posso generalizzare ma solo parlare di me. Scrivo solo quando sento qualcosa dentro che mi prende e che vuole uscire, un impulso che non può avvenire a comando. È un atto disinteressato: all’inizio non pensi a un editore: hai una storia che vuole nascere, spesso hai solo un titolo, che però ti ossessiona. Julien Green, altro grande, diceva che quando iniziava a scrivere aveva in mente solo la prima frase, e che il resto era la conseguenza di quella. Posso capirlo benissimo: l’impulso non è la costruzione, ma è indispensabile. Non amo gli scrittori che prima si fanno uno schema del libro, una scaletta: non siamo dei geometri. Ma che cosa siamo? Forse solo dei sognatori prigionieri della vita, come Il vagabondo delle stelle di Jack London.
*In copertina: Hermann Broch (1886-1951), autore del ciclo “I sonnambuli” e de “La morte di Virgilio”
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pangeanews · 5 years
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Ora vi spiego come funzionano i Servizi segreti. Con appendice sul romanzo che avrebbe potuto scrivere Cossiga e su quel grande romanziere (e agente) di Maugham. Dialogo con Marco Giaconi
Sull’ultimo numero del New Yorker Adam Gopkin si è rimboccato le maniche e ha messo sul tavolo tre libri di vario contenuto e incerta preparazione, per parlare di… intelligence. Ho provato a seguirlo nelle sue buffe argomentazioni, ma alla fine ho deciso di fischiare a Tornado e gli sono saltato in sella. Come Zorro. Il mio Tornado si chiama Marco Giaconi.
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Professore, che titoli ha Gopkin per parlare di intelligence, sia questa nordamericana o globale? Sul New Yorker lui ha tutti i crismi per ‘fare opinione’ perché occupa quello scranno da più di trent’anni e ha consegnato alla biblioteca di Babele alcuni libri dai titoli fantasmatici tra i quali Tante piccole sanità. L’avventura morale del liberalismo (che sembra pensato dal Vernacoliere) oltre a Parigi al chiaro di luna e Angeli del passato. Breve storia di Darwin, Lincoln e la vita moderna. Nell’articolo che vorrei commentare con lei, Gopkin fa di tutto: sfoglia l’ultimo lavoro di Andrews (The secret world) e si eccita a leggere le storie della CIA che negli anni Sessanta sperimentava l’LSD sulle sex workers per verificare la resistenza umana alla manipolazione. Insomma, capra e cavolo?
Non credo che Gopkin abbia qualche esperienza diretta di intelligence, ma ha la boria assoluta e comica dell’intellettuale, soprattutto di formazione letteraria. C’era un professorello, all’Università di Pisa, il quale diceva che, siccome tutti usano il linguaggio, allora noi professori di lettere sappiamo tutto, perché tutto si esprime con il linguaggio. Gopkin ha solo l’autorità dei salotti di Manhattan, e questo gli basta. Ecco, la droga lo eccita, ovviamente, come un vecchio sex worker di qualche università. Ma il progetto MK-ULTRA era una operazione di mind control della CIA che operava anche con l’ipnosi e altri farmaci. Una operazione, e altre simili le facevano i sovietici, peraltro allievi di Pavlov, per il controllo a distanza del pensiero, soprattutto dei leaders avversari. Cazzate positiviste cessate, grazie a Dio, alla metà degli anni ’70. I sovietici, comunque, erano più seri, poiché utilizzavano la parapsicologia. L’LSD era, poi, la molecola purificata dell’acido lisergico, la dietilammide, quella che rendeva la segale cornuta e soprattutto il suo fungo preferito, il Claviceps delle graminacee, così pericolosa per le popolazioni medievali. L’Ergotismo, l’infezione da claviceps, fu all’origine di migrazioni e rituali dell’Evo di Mezzo, tra streghe e visioni. Ecco, siamo ritornati proprio al punto di partenza.
Vorrei una definizione sommaria, caustica e cinica di questa escogitazione di Gopkin: “la regola è semplice – se avete molte informazioni segrete non per questo prenderete decisioni intelligenti. Per due motivi. Spesso, quando avete informazioni segrete, queste sono sovrabbondanti e non sapete quali contano e quali no. Inoltre, una volta trovato il modo di raccogliere informazioni, vi impuntate che i vostri nemici abbiano fatta la stessa cosa con voi e quindi vi abbiano rimpinzato di informazioni fasulle per portarvi a prendere decisioni sbagliate”.
L’intelligence non serve, quasi mai, a raccogliere singole e uniche informazioni segrete. Non c’è una perla nera e magnifica nascosta da qualche parte. Serve a comprenderle, le notizie, siano esse dati palesi o riservati. Non a caso, l’OSINT, Open Source INTelligence, è la maggiore area di attività di ogni Servizio moderno. Le operazioni coperte si fanno non per avere questa o quella notizia coperta da segreto assoluto, che non esiste, e se esiste è irrilevante, ma per condizionare e deformare gli strumenti, tutti, anche quelli palesi, dell’avversario. Le informazioni davvero segrete possono essere, comunque, anche misleading, perché hanno con la realtà lo stesso rapporto che con essa hanno le notizie comuni. Il problema non è la notizia, ma il ragionamento che ne viene fuori. È proprio quello che è esatto o meno. Questo Gopkin mi pare appartenga quindi alla setta di quelli che dicono che i Servizi non servono, tanto ci sono loro, scrittori del New Yorker, che già capiscono tutto, tra un Martini molto secco e un succo di papaya ecologico. Si calmi, comunque, Gopkin, tanto le notizie vengono verificate, e bene, non siamo mica dei giornalisti alla moda.
Secondo Lei perché adesso pure i ‘salami’ di Yale pretendono storie controcorrente che illuminino i segreti dietro le quinte, siano essi segreti di Stato o meno? Perché tanto chiasso attorno al libro di Andrews?
The Secret World di Andrew, il vecchio decrittatore, insieme a Mitrokhin, degli appunti del russo asportati dall’archivio del KGB, è una lunga e molto british storia della funzione dell’intelligence. Il “rapporto Impedian” fu poi trasferito, con tanta paura da parte degli italiani, da Servizi inglesi a tutti i Servizi collegati in Europa, almeno per quello che li riguardava direttamente. Apparve anche un vice-direttore del SISMI, un Carabiniere appena uscito dalla sua barzelletta d’ordinanza, che disse, per non avere fulmini da D’Alema, che non c’era niente di vero… Ci fu, e immagino che oggi negli Usa saranno tanti, quelli che diranno che il rapporto “era falso”, come sostennero fino alla noia anche i membri di estrema sinistra della Commissione ad hoc che il governo Berlusconi, nel 2002, riprese da un progetto del governo d’Alema. Probabilmente gli scrittori si accorgeranno, con un bagno di realtà prodotto dal testo di Andrew, che il mondo è infinitamente più complesso e, perfino, più divertente delle fesserie noiosissime che scrivono i giornalisti d’assalto per cento e cento pagine. Il problema, per chi legge Andrew, è che l’intelligence opera soprattutto come certe aziende private, crea una sensazione, uno stato d’animo universale, una idea fissa. Che diventa la verità. Ecco il vero mestiere: creare un mondo, ma non credere di arrivare alla sua verità profonda, che oggi nemmeno i massimi decisori conoscono bene. Ma, certo, l’intelligence è l’unico modo serio di semplificare razionalmente e realisticamente un sistema geopolitico.
Mi viene in mente che spesso Lei parlava di Cossiga in merito al suo culto di Botero e della ragion di Stato. Le chiederei di approfondire il punto prima di tornare a bomba ai nostri nordamericani piallati come racchette da ping pong. Ora, Cossiga era un raffinatissimo uomo di cultura: tutta, più storia che letteratura, ma la figlia avrebbe scovato nelle carte post-mortem un romanzo. Come se lo immagina, questo testo, posto che il Presidente Emerito era un battutiere e un conoscitore di uomini nel lampo di un secondo?
Me lo immagino come un Dumas sardo. Colpi di scena, un personaggio, ma non il principale, che tira le fila della storia e la spiega ai lettori, come in certi romanzi d’appendice, poi ammazzamenti, donne fatalissime (che a Cossiga piacevano molto, amava le donne, ma soprattutto quelle molto vivaci) e infine un prete che risolve i drammi di coscienza del cattivone, che poi si rivela buono come il pane. Mi correggo: non un Dumas sardo, ma un Manzoni con nonno pastore “balente”. È l’epoca, comunque, di Botero. Senza un grosso casino in ogni pagina, mi viene difficile immaginare un romanzo di Cossiga. Amava i caos, che sapeva ordinare. Probabilmente sarà anche un romanzo di quelli che si leggono d’un fiato.
E del segreto number one, di Moro? Cossiga ne aveva, all’inizio, un timore reverenziale. Poi ci dev’essere stata qualche critica, ma sempre in quel modo particolare in cui si critica un uomo che si stima. Forse Cossiga non aveva approvato il modo del ‘compromesso storico’ ma la sostanza gliel’era andata giù? Era pur sempre una fase in cui la DC avrebbe addormentato anche il leone comunista, con tanti soldi, molta corruzione, l’apparente piacere sommo e sublime del potere. Come era accaduto con il PSI. O dico male?
C’erano due problemi: evitare il condizionamento, per la DC, di un PSI che aveva, ormai, come unico progetto politico, il nuovo Fronte Popolare, ma al governo con i cattolici, che si sarebbero drasticamente ridotti. Il secondo problema: evitare che il PCI andasse al potere mantenendo i suoi links con Mosca. Non a caso, anche vedendo il Rapporto Impedian di Mitrokhin, il KGB penetrava preferibilmente i cattolici di sinistra. O certi ambienti di affari. I comunisti lavoravano già per loro, quelli dell’Est, non c’era bisogno di utilizzarli come corrieri. Cossiga ebbe dubbi seri sul compromesso storico quando si accorse che anche la gauche caviar, la più cretina di tutte, era diventata un asse di espansione del “K”. Sapeva, Cossiga, che i brigatisti venivano “selezionati” con il tramite dell’allora direttore della fighissima “Terrazza Martini” a Milano, che poi passava i fogli ad altri, che non vi dico di certo. E che la rivolta militarizzata di piazza e di sinistra, iniziata con l’aiuto del Patto di Varsavia, era diventata il piatto girevole su cui giocavano Servizi amici e nemici, ma soprattutto amici. E, mentre Moro era nella “prigione del popolo” di Roma, dopo qualche altro trasferimento, certi documenti viaggiavano dalla loro sede naturale verso bar e altri luoghi in cui, poi, i brigatisti li riprendevano, per passarli ad altri. Dopo la morte efferata di Moro, la NATO era “nuda”.
Però una cosa erano i socialisti, altra i comunisti. Dietro il PC c’era una grande potenza nucleare. Quindi da noi servì la pianificazione di una Forza di Intervento Rapido nucleare autonoma per il Mediterraneo. Lei che se ne occupò sa dirci se Cossiga ne fu contento? E gli altri?
La pianificazione di un “tridente” nucleare la feci io, su suggerimento velato, come sempre, proprio di Cossiga che, naturalmente, l’avrebbe verificata con i tecnici. Cossiga, appena vedeva una divisa (non la mia) si elettrizzava. Immaginate cosa sarebbe successo se noi avessimo avuto un’arma credibile di warning strategico come il nucleare, nel caso dell’invasione “democratica” della Libia gheddafiana. O come sarebbe cambiata la distribuzione dei poteri nel Maghreb, con o senza l’operazione USA delle “primavere arabe”. Potevamo unificare noi il Mediterraneo, con Spagna, Grecia, Francia, Balcani, magari perfino con la Turchia, che intanto stava diventando, come è ora, potenza terrestre verso l’Asia Centrale. Ma non si piange sul latte versato. Io avevo presupposto un nucleo di comando militare supremo nazionale, a seguito dell’Ok del Governo e del Presidente. Che si accordavano loro con la NATO. Ovviamente, non lo volevano né i britannici né gli altri, sarebbe stato un impedimento grave alla divisione del potere postbellico in Europa, una usucapione settantennale che, oltre a non essere contemplata dal diritto, mostra tutti i segni dell’irrigidimento cadaverico. Gli arabi, infatti, jihadisti o meno, questo almeno l’hanno capito.
Tempo fa mi disse che forse il vero romanzo che Cossiga stava scrivendo era il Servizio, argomento sommo da Tito Livio fino a Graham Greene e oltre. Caso strano, i grandi scrittori del Servizio (Maugham) erano anche ottimi agenti. Si veda il caso di Kipling o di Wodehouse, sbilenco agente infiltrato tra i nazisti. In Italia ci sarebbe qualche esempio per una storia della letteratura scritta da autori del Servizio sul Servizio?
Già, Cossiga amava l’intelligence come pochi, e la capiva benissimo. Anche quella altrui. Con questi politici cachettici, educati al moralismo ipocrita anglosassone e alla storiella dei Servizi “deviati” (ma da altri) il cappello politico sull’intelligence o è stupido o troppo oppressivo. Cossiga lo amava, il Servizio, perché la politica estera è l’anima della politica interna, e perché l’anima della politica estera è l’intelligence. Un sillogismo ancora valido. “Intellettuali” famosi contattati dal Servizio come “agenti di influenza” e che operano con Servizi collegati e amici, ce ne sono diversi, in Italia, ma nessuno, che io sappia, ha mai scritto qualcosa di romanzesco sul Servizio. Passerebbe, certamente, per “fascista”, qualunque cosa si intenda con questo termine. La Storia, probabilmente, nella quale i romanzieri non eccellono quasi mai. Qui ci vuole il british style.
Ci dà la sua top five per i romanzi di Maugham? Io propongo: In villa, Storie ciniche, Acque morte, Lo scheletro nell’armadio, La luna e sei soldi.
In Villa mi piace molto, con questo plot da Firenze anglicizzata, dopo secoli che la famiglia reale di Londra fece fallire le banche dei Bardi e dei Peruzzi, e mi viene in mente il film di propaganda “Il Re d’Inghilterra non paga”, pellicola di propaganda fascistissima, ideato dal librettista preferito di Puccini, Gioacchino Forzano. Qui, con Maugham, solita signora british un filino mignotta. Lo scheletro nell’armadio è sapiente, una analisi perfetta del sistema letterario e della naturale, e perfino prevedibile, cattiveria umana. Acque Morte, il medico drogato e sapiente. Il Beau Monde di Storie ciniche, che riesce a rendere piacevolissima alla lettura l’inutilità assoluta di certe persone. Infine la Luna e sei soldi, la storia di un piccolo borghese che va a fare il pittore, mediocre, a Parigi e poi a Tahiti, come quell’altro. Che, magari, era mediocre anche lui. La mano comune che si intravede, nel Maugham del Servizio e in quello dei romanzi, è la capacità di leggere tutti i contraddittori e sottilissimi aspetti di un personaggio.
Come commenta il modo sfuggente di Maugham di eliminare le sue opere a bruciapelo? Abbiamo la nota preziosa di le Carré che dice di un Maugham piromane: distrusse almeno sedici novelle regnante Churchill quando stavano per imbastirgli un processo stile Wilde. E poi c’è quest’altra impresa dalla biografia che Ted Morgan gli dedicò nel 1980: insieme al segretario Alan Searle, Maugham era impegnato in una sessione di falò notturni nel salotto della Villa Mauresque vicino Nizza, nel 1958. Pile di lettere finivano nel mucchio, insieme a bozze e altri manoscritti. Searle doveva provare orrore per quei materiali preziosi andati in fumo e provò a salvarne alcuni; ma la mattina dopo, trovato Maugham a colazione, questi gli disse: ‘Notte buona per lavorare, ieri. Ma ora tocca bruciare quel che hai nascosto sotto il sofà’. Che dire? Maugham sembra faccia il paio con gli avventurieri della Russia zarista, o magari con Barry Lyndon…
Snobismo. Dal quale gli anglosassoni tentano di sfuggire e tanto più ci entrano con tutte le corna. Forse qualche documento da far sparire, ma qui mi riferisco al settore Wilde, non al Servizio, qualche nevrastenia rimasta, la sua mania di perfezionismo, roba da college in cui si impara, al massimo, ad essere come Wilde. Sì, Maugham voleva essere un avventuriero, ma gli mancava la faccia tosta. E la rapida semplificazione dei caratteri.
Andrea Bianchi
(To be continued)
*In copertina: William Somerset Maugham (1874-1965), grande scrittore affratellato all’Intelligence
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pangeanews · 5 years
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“Senza di te al mio fianco la bellezza che c’è nei miei – nei nostri – libri, non ci sarebbe stata…”. Le lettere di Eugenio Corti a Vanda. Ovvero: dell’amore si ama anche la crisi, la delusione, l’errare
Di un amore amiamo i lati d’ombra, la catastrofe nello sbaglio, l’artiglio di tenebra.
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Il rapporto tra Vada ed Eugenio Corti è sotto il carisma dell’illuminazione e della letteratura. Corti, indubbiamente, la vuole – la ha riconosciuta, come si riconosce, tra tutti, chi ha destino nella vita e la travolge. Scrive da Besana, la sera del 14 luglio 1947. “Io volevo semplicemente vederti… Io volevo vederti e stringere amicizia con te… Nella mia solitudine, quando ho visto te, mi è sembrato che la tua bellezza esteriore non fosse, come molte, soltanto esteriore, ma fosse lo specchio di quella dell’anima”. Eugenio è più grande di Vanda di sei anni, è un uomo segnato dalla guerra, su cui ha appena scritto un libro, il suo primo, per Garzanti, I più non ritornano. “Quello che io sono tu lo potrai leggere in un libro che ho pubblicato in questi giorni e che trovi in ogni libreria”. Si avverte, sottile e dura, l’ambizione di Corti. “Te lo donerei io, se potessi rivederti”.
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Di un amore è la diversità ad essere amata, l’anello nero, l’enigma che è brace. Eugenio e Vanda si sposano nel 1951, l’anno in cui esce lo sfortunato I poveri cristi (“A un tratto, convinto che fosse vicina a scoppiare la rivoluzione comunista, ho deciso di pubblicare il libro oberato da quelle riflessioni mal assorbite nel racconto, e anzi qua e là addirittura accatastate: ciò perché, in caso di rivoluzione, io intendevo combattere contro i comunisti – precisamente come avevo combattuto contro i nazisti – e non sapevo se stavolta sarei scampato”, ha detto Corti), poi ripreso e uscito, nel 1994, come Gli ultimi soldati del re. Nelle “Lettere a Vanda”, che raccolgono le lettere di Corti alla futura moglie, tra 1947 e 1951, pubblicate ora da Ares come “Voglio il tuo amore”, non si nega il dissidio. Al contrario, Vanda – giovane di lunare bellezza, con le trecce lunghe, che discende dall’antica famiglia umbra dei Conti di Marsciano – investiga proprio qui: i cunei, le fratture, le mancanze. “Diversissimi anche nel carattere”, scrive lei, nell’Invito alla lettura, “lui impulsivo, forte, abituato al comando, attaccato al suo mondo che considera perfetto, sempre alla ricerca della bellezza, amante della natura e della poesia, abituato a evadere con la fantasia quando la realtà gli crea sofferenza. Anche lei ha un carattere forte, ma è concreta e razionale, timida e introversa. Scopriranno frequentandosi che una cosa li accomuna: le ferite che si portano dentro”. Vanda ne scrive come di una “bella e difficile storia d’amore”.
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Le lettere – ed è quello che cerchiamo, perché amare muove, esige abbandono e rabbia – passano dalla tenerezza al verbo brusco, la gomitata addosso. “Io, essere umano, con i miei bisogni e le mie difficoltà, non esisto per te”, scrive Vanda, è il 25 gennaio 1950. La ragazza ha capito che il suo uomo ha l’ossessione moribonda della letteratura. “Preferisco la mia arte a te? Ma vada alla malora la mia arte porca, che non m’è neanche servita ad avere da te l’ammirazione che un qualsiasi campione di sport ha dalla sua donna. Come potrebbe servirmi quest’arte schifosa ad attrarre gli uomini sulla giusta strada, come era mio fine?”.
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Vanda non sottrae l’amare a una analisi spietata, che ha candida ferocia. Il matrimonio lo descrive così: “Periodi di intensa, profonda, esaltante, di completa comprensione e dedizione reciproca, alternati a scontri e assenze da parte sua, pur essendo sempre costante la sua presenza in casa, e di irritazione e solitudine per me, difficile da sopportare. Fu in uno di questi momenti, forse il più penoso, che desiderai lasciarlo e scomparire dalla sua vita. Fu dopo l’uscita de Il cavallo rosso”. Oggi Vanda ha superato i novant’anni: la sua lucidità che non indora i fatti è stupefacente. Ancora una volta, è la letteratura a unire e a minare l’unione. “Eugenio avrebbe voluto offrirmi su un piatto d’oro il suo successo, ma il successo clamoroso non ci fu. Il libro percorreva la sua strada nel silenzio, i lettori erano sì molti, ma nella completa indifferenza della stampa ufficiale e della critica”. Vanda vuole mollare. L’unione le pare infeconda, la delusione del marito inaccettabile. Siamo nel 1993. Un libro che ha predato una vita intera, gli anni a catena – e non ha il riscontro che merita. La frustrazione agisce, virile, nelle stanze. Corti, è il 9 dicembre, ha le parole adatte a saldare l’unione: “I nostri veri figli sono i nostri libri che non vengono solo da me, ma anche da te… senza di te al mio fianco la bellezza che c’è nei miei – nei nostri – libri, non ci sarebbe stata… quei libri – anche questo tu lo sai – sono riusciti in pieno, e hanno un valore straordinario. Non tutti sono in grado di capirlo oggi, dato che hanno contro la cultura [= la falsa cultura] dominante. Ma neppure di questo dobbiamo dispiacerci: anzi io prego sempre Dio che – mentre sono in vita – non mi conceda la soddisfazione del grande successo, perché a tale riguardo sono debole, e cederei con facilità alle tentazioni dell’orgoglio”.
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Ci sono scrittori che sbranano dell’amore il volto, sono vampiri; altri s’incuneano, come serpi, dall’ombelico, e mangiano dentro, fino a lasciare senza fiato chi li ama, svuotato. Poi, i pochi, custodiscono la fiamma, facendo un casco delle proprie mani, e scrivono, raffinando la cera. (d.b.)
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Per gentile concessione si pubblica una lettera di Eugenio Corti a Vanda raccolta in “Voglio il tuo amore. Lettere a Vanda 1947-1951” (Edizioni Ares, 2019).
Besana, 18 luglio 1950
Cara Vanda,
ecco che oggi dovrei lavorare al libro, e alacremente, anche per compensare domani perché, giorno del matrimonio d’Achille, sarò a Milano. Ma la tua lettera mi ha messo un tale entusiasmo in corpo che non soltanto continuo a leggerla e rileggerla, ma non posso fare a meno di mettermi a conversare con te: come si sta bene insieme a te! Io ti benedico per le tue parole: “La donna è soprattutto bontà e amore” e tu lo sarai per me in modo completo. Tu me lo prometti in maniera solenne: guai a te, se verrai meno alla tua promessa. Dio, e la vita stessa, non ti perdonerebbero: pensa che tu non tratti con un giovincello scherzoso, ma con uno che la vita ha duramente provato, e ha riposto in te tutta la sua gioia, tutta la sua compiacenza e il suo amore. Ma io sono stupido a dirti queste cose che tu sai così bene. Te lo dico solo perché ero in stato ansioso, nelle ore che hanno preceduto l’arrivo della tua lettera, e pensavo perfino di venire a Poggio a tua insaputa per spiarti. Pensa che meschinità: per spiarti. Sì, è la vecchia paura che tu debba incontrare qualcuno che ti piaccia più di me e possa abbandonarmi. È un’idea idiota, cretina, me ne vergogno, ma ogni tanto mi capita. Viene certo da questo: che ho visto spesso succedere il peggio, nelle cose della vita; ho visto grandi cose crollare. Ma la perdita del tuo amore non la sopporterei: te lo dico dolorosamente. Ma è stupido che te lo dica, dopo la tua lettera: “Tu lo sai che nessuno, mai, anche per un solo momento, potrebbe togliermi a te. Devi avere fiducia in me come io l’ho in te”. Ho trascritte le tue parole perché mi piace trascriverle, ma anche perché tu le rilegga. Sei una ragazza di non molte parole (anche questo amo di te) e devi avere scritta una cosa simile con profonda adesione, con l’adesione di tutta te stessa. Certo che è così (ma scrivimele ancora cose simili, ti prego!), e io ti sento aderire tutta quanta a me. Che conforto pensare, sentire che mi ami: che non è un’idea, o una finzione letteraria, ma una realtà: il tuo amore, di fuori di me, viene a me come un raggio di sole, si muove intorno a me, mi fascia tutto. E io posso penetrarlo, raggiungerti, toccarti, penetrarti, creatura staccata da me che sei mia per volontà tua. Ti accarezzo tutta: la senti la mia mano sulla fronte, nei capelli, sugli occhi, sulla bocca…? Ora bisogna che smetta, perché resterei sconvolto per molto tempo da questa tua troppa vicinanza, che per ora non c’è consentita. Siamo tutti in un gran daffare per Achille e Paola: sono entrambi molto contenti ed eccitati, malgrado Achille cerchi di non mostrarlo. Io ho domani l’incarico di fare da “supremo regolatore” della cerimonia e lo farò ferocemente. Anche al matrimonio di Giovanni, quando dicevo allo sciame dei parenti: “Mettetevi lì!, Spostatevi là” lo facevano in fretta, quasi fossero spaventati. Ciao amore mio, ciao Vanda mia.
Eugenio
*In copertina: Eugenio e Vanda Corti, sposi; è il 23 maggio 1951
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pangeanews · 5 years
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“Non immaginavo che la letteratura esigesse una vita di fede fanatica”. Le lettere di Yukio Mishima a Kawabata
Avevano 26 anni di differenza, due caratteri all’apparenza opposti, uno potrebbe essere il ramo di un ciliegio l’altro la spada di un samurai. Secondo la leggenda, però, è il ciliegio a vincere il ferro. Yasunari Kawabata, nato nel 1899, è il primo Nobel per la letteratura giapponese. L’alloro gli accade nel 1968; tra i sui capolavori spicca Il paese delle nevi e Il suono della montagna, da poco riprodotto da Bompiani, nella traduzione di Atsuko Ricca Suga. A lei – nata nel 1929, di cui sarebbe bene pubblicare i deliziosi scritti – e a Mario Teti e a Cristiana Ceci e a Giorgio Amitrano – curatore, per altro, del ‘Meridiano’ che raccoglie alcuni tra i Romanzi e racconti di Kawabata – va il mio grazie, in ginocchio. Leggendo loro, infatti, so che Kawabata è uno degli autori che mi hanno segnato a fuoco.
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Kawabata, che è stato un grande lettore di Marcel Proust, Henry James, James Joyce, sul palco del Nobel cita, tra i suoi maestri, il poeta giapponese Saigyo, vissuto nel XII secolo; di lui diceva un amico che “scrive soltanto seguendo l’occasione come si presenta, seguendo l’ispirazione – è simile al vuoto del cielo che si colora al passaggio di un arcobaleno scarlatto”. Kawabata cerca tale naturalezza, per questo i suoi scritti sembrano visi istoriati nella neve: se li tocchi, svaniscono, se non sei svelto a intuirne le ombre e le opacità puoi scambiare un uomo per un falco.
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Il romanzo più conturbante di Kawabata s’intitola La casa delle belle addormentate (è in catalogo Mondadori). Il centro del romanzo è un bordello dove avventori anziani, per non dire vecchi, passano la notte dormendo al fianco di bellissime ragazze – per non dire minorenni – rese immobili dal sonnifero. “‘Scherzi di cattivo genere non ne faccia: non sta bene neppure infilare le dita nella bocca delle ragazze che dormono’, raccomandò la donna al vecchio Eguchi”. Così l’incipit. Il contrasto erotico è violento: ciò che dovrebbe morire, che ha afrore di morte – i vecchi – gode della presenza, con segreta lussuria, di chi dovrebbe mordere la vita – le ragazze – ma è arreso a un sonno artificiale.
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Il romanzo più bello, però, è Il maestro di go. Davanti al gioco di strategia tradizione, il go – più articolato, fino all’ossessione boschiva, degli scacchi – si sfidano l’antico maestro, destinato a soccombere, e il giovane, audace, fenomeno. Qui Kawabata insegna che c’è una vittoria più profonda nel cadere, una gloria più ampia nella sconfitta. Si agita, qui, la genealogia di Kawabata, erede di una decaduta etnia di samurai. Piccolo, basso, delicatissimo, quasi una fiala di cristallo, quasi inesistente – ma non è questo, ancora, il senso dello scrivere: scrivere fino a cancellarsi? – Kawabata mostra di sé l’elsa ossea, l’indistruttibile.
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La disciplina di Kawabata, che cerca una lingua pura come la luce ma capace di sezionare l’ombra, affascina il giovane Yukio Mishima, che ancora si chiama Kimitake Hiraoka: il legame epistolare tra i due – testimoniato, in Italia, da: Yasunari Kawabata-Yukio Mishima, Lettere, Se, 2002, a cura di Lydia Origlia, sia lode a lei – dura dal 1945 fino alla morte di Mishima. In quegli anni Kawabata scrive e pubblica i suoi capolavori; Mishima va elaborando il primo grande libro, Confessioni di una maschera. Kawabata, come i veri maestri, non ha vezzi da maestro: non desidera allievi o discepoli né sodali, ma amici.
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Nel 1966 Mishima pubblica La voce degli spiriti eroici e progetta il ciclo ‘Il mare della fertilità’; così scrive al maestro: “Mi pare che la letteratura abbia assunto in questi ultimi tempi un carattere tra il mondano e il pantofolaio, che mi riesce insopportabile. Non ho nessuna voglia di leggere opere di borghesi beneducati. Al tempo stesso, i trucchi e i bluff della critica letteraria hanno un qualcosa di mostruoso – segno incontestabile della corruzione di questo ambiente”. Cinque anni prima Mishima aveva proposto Kawabata per il Nobel, decrittandone l’opera: “I libri di Yasunari Kawabata coniugano la delicatezza alla fermezza, l’eleganza alla coscienza degli abissi della natura umana; il loro nitore cela un’insondabile tristezza, e sono moderne pur ispirandosi esplicitamente alla filosofia solitaria dei monaci del Giappone medioevale”.
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Nella lettera che ho ricalcato si legge l’ineluttabile della missione letteraria e la necessità di tradurre il verbo in atto. Questa vitalità è assente in Kawabata, che adotta una vita nella neve.
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La morte di Mishima, eclatante, nel 1970, strazia l’anziano maestro. “Dopo il seppuku di Mishima nel novembre del 1970, confida di sentire lo spirito dell’amico che lo chiama a sé” (Ornella Civardi). In uno degli ultimi racconti, Voce di bambù fiori di pesco, Kawabata racconta, con tratti impressionistici, dove la trama è assente, l’illuminazione di Miyagawa: nella sua gola precipita il creato tutto (“Lo sparviero era immobile. Miyagawa lo guardava trattenendo il fiato, come penetrato dalla potenza che emanava. Gli pareva che la forza dell’animale si trasmettesse anche all’albero secco… Anche l’uccello, ora che lo aveva veduto, sarebbe rimasto per sempre dentro di lui. Che cosa era venuto a dirgli? Se la sua apparizione rappresentava un fausto presagio, di che natura sarebbe stata la fortuna, la felicità che stava per toccargli?”).
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Kawabata si uccide il 16 aprile 1972, a 72 anni. Riguardo alla sua tomba, aveva detto, alcuni anni prima, “Non vi avrei fatto incidere il mio nome né alcuna data. Solo chi mi conosceva avrebbe saputo che era la mia tomba. Gli altri ne avrebbero apprezzato la tranquilla bellezza e sarebbero passati oltre”. I nomi si sciolgono, come neve, resta un gorgoglio di pietra a dire che fu un uomo. (d.b.)
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18 luglio 1945
La guerra imperversa con sempre maggior violenza, e il tavolo su cui scrivo mi sembra sempre più angusto, giorno dopo giorno: ho soltanto lo spazio per posarvi un foglio. E poiché non posso neppure appoggiarvi i gomiti, fatico persino a muovere la penna. Lavorare pazzamente, in circostanze simili, significa esser fedeli al sacro spirito della letteratura? Lo ignoro. Vado avanti solo nella convinzione quasi disperata di esser fedele a qualcosa. A dire il vero non presumo che da un lavoro così forsennato possa nascere una grande letteratura nazionale. E neppure un nuovo linguaggio, o un nuovo stile, o una nuova letteratura in genere. Mi chiedo spesso cosa significhi, nell’autentico significato del termine, “il nuovo” in letteratura. Non può trattarsi solo di “imprimervi il suggello ardente della coscienza dell’epoca”: dovrebbe significare anche saper “cantare con la calma impavida di un idiota gli attimi assurdi, vertiginosi che compongono il presente”, e rappresentare inoltre una novità nel lessico, nello stile e nella forma che superi ogni concetto di vecchio e di nuovo… Io stesso non comprendo che senso abbia questa mia situazione così terribile e complessa, e tutto quello che sono in grado di dire è che mi agito con l’arrendevolezza di un burattino manovrato dagli dèi, accarezzando un desiderio del tutto banale e comune, ossia di comporre un racconto magnifico, come nessuno è più in grado di scrivere, un racconto per cui chiunque, leggendolo, debba esclamare: “Com’è bello!”, e questo stolto desiderio mi domina con la stessa ineluttabilità di una male incurabile. Quale significato potrà mai avere? Si tratta soltanto di un triste sotterfugio simile a quello che spinge a inventare un edulcorante quando il vero zucchero viene a mancare? A cosa sono fedele nella folle, egoistica convinzione di “essere fedele a qualcosa”?
Non immaginavo che la letteratura esigesse una vita di fede fanatica e di dubbio, simile a quella di un Martin Lutero. Ho a lungo pensato che fosse fatale per la letteratura seppellire la vita quotidiana. Credevo che creare una letteratura significasse avere il tempo di vivere le esigenze secondarie per poter pensare a ciò che è essenziale. Ma ho forse il diritto di pontificare sulla “vita”?
Penso all’epoca in cui i grandi, magnifici sauri della preistoria andarono improvvisamente incontro all’estinzione a causa del rigore delle condizioni ambientali: cosa sarebbe accaduto se molti di loro fossero riusciti a sfuggire al pericolo e a riprodursi in qualche luogo? Suppongo che nelle loro abitudini e nei loro comportamenti si sarebbero ostinatamente conservate le tracce di una specie in “via d’estinzione”. E per aver vissuto quell’estinzione, ossia una condizione antitetica alla vita, sarebbero a poco degenerati. E alla fine avrebbero conosciuto l’annientamento senza alcun bisogno dell’intervento umano. Non è forse possibile riconoscere anche in letteratura l’esistenza di limiti alla vita e all’esperienza, limiti invalicabili e che sfuggono all’ambito dell’esperienza letteraria (nel senso in cui l’intendeva Rilke)? Non verrà forse il momento in cui sarò costretto alla dolorosa scelta di realizzare, al di fuori dell’ambito della letteratura, le mie fatalistiche, letterarie visioni?
Yukio Mishima
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pangeanews · 5 years
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“Caro Nikolaj, io, Thomas S. Eliot, sono stato poeta, fui l’aedo dello scrupolo critico, ho lottato contro le forze del caos”: una testimonianza letteraria eccezionale
Londra, Luglio 1962
Caro Nikolaj,
un mio amico, e venerabile sapiente, in un tempo che ormai mi appare remoto, ebbe a scrivermi: “È inevitabile che si tenti di far sfumare nell’indefinito l’eccesso di definitivo, di ultimo, di irrimediabilmente ultimo… Il raggiungimento di un limite estremo impone che si torni indietro; è il ritmo del pensiero, non meno che della vita”. E ammesso che si voglia e si possa vivere, c’è modo e modo di tornare indietro, di vivere la corsa al distacco dall’estremo, ossia dalla vita.
Lo ammetto a malincuore. Io, Thomas S. Eliot, sono stato poeta, ma non potei né volli mai passare dalla visione oggettiva dell’irrealtà della ragione a una visione realmente poetica del reale. Dalla delusione rigorosa per questo algido mito al sogno oltre la sua ombra. Rifiutai sempre i frutti esotici e amari dell’estremo, l’abisso, quella esplosiva vitalità in cui una legione di insoumis al contrario avrebbero riconosciuto l’irruzione positiva della libertà, e dell’assoluto. Quella libertà che noi critici, ibernati nel vaso del principio di realtà, chiamiamo spregiativamente l’infanzia dell’intelletto. Fui l’aedo dello scrupolo critico. Colui che amò sopra ogni cosa quella probità che smonta il visionario convertendolo all’umile prosa della realtà, alla relatività infinita, a un massimo di prosaicità. Fu una dissacrazione a getto continuo. Dove nulla è potente, e profondo, se non la volontà di conoscenza, laddove si staglia sovrano quel che è classico. Per me, Nikolaj, l’intelligenza ha sempre coinciso necessariamente con il sapere.
Ossessionato dalla probità dell’ordine classico, in quanto poeta, ho sempre temuto di essere costretto ad ammettere che una poesia potesse avere origine dal reale. E voi mi scrivete, con fervore, che da sempre ogni posizione speculativa – comune ai pagani, ai cristiani e agli scolastici, all’Illuminismo e alla tradizione positivistica – non affermi e insegni altro che a cancellare idealmente il fatto del reale. Eh sia. Accolgo tale constatazione con favore.
Sarò sincero, dato l’amicizia che ci lega. In un mio scritto ho affermato di essere molto spesso irritato quando parole dette da me, magari trenta o quarant’anni fa, vengono citate come se le avessi dette ieri, come se io, già agli inizi della mia carriera di critico letterario, avessi tracciato lo schema di una monumentale struttura critica, e avessi passato poi il resto della mia vita a inserirvi dettagli. La mia lamentela in fondo è pretestuosa, interessata. Allora difendevo una causa. Vi è dunque una profonda verità, che non sento il bisogno di ammettere pubblicamente, in chi legge la mia produzione critica e crederà di ravvisarvi una continuità di fondo. Non sono sleali, o peggio dei volgarizzatori, come giurerò e spergiurerò pubblicamente. L’algebra delle mia disposizione teorica, ahimè, non è mai mutata. L’ho tessuta come una tela di ragno, una vita intera, e con onore. Vi ho creduto con algido e austero fervore. Taluni vi ravviseranno una giustificazione dei miei errori, abbagli e sconfitte; altri, un’idea dell’arte, della letteratura e del pensiero troppo prudente. Altri ancora, infine, diranno che è una frode. Eh sia! Ma è una pia fraus, una frode fatta a fin di bene. Non sono stato né il primo, né l’ultimo. Faccio parte di una lunga catena millenaria di gloriosi defunti, e di viventi aedi del pensiero razionale.
Sì, tutto in me fu fluido, autocritico, eppure una sostanzialità e invariabilità di fondo del mio pensiero è innegabile. Le dirò di più, rappresenta il cerchio da cui non sono mai uscito. Il recinto in cui mi sono auto recluso di buon grado. L’ho affermato, lapidario: “It is essential that a work of art should be self-conscious, that an artist should constantly and consciously draw a circle beyond which he does not trespass”. Impossibile dunque ingannarsi sulla mia definizione dell’arte. Con questo termine intendo una solo cosa: una difesa contro la vita, un rifugio, un’evasione, qualcosa di superiore alla vita. È il confine con il quale ho sempre giudicato e setacciato personalità come quelle di Shakespeare, Blake, Donne, Baudelaire, Pascal, Dostoevskij; attraverso la lente dei più eterni e universali Aristotele, Virgilio, Dante, Remy de Gourmont etc. I miei eroi della mente. Ormai avrà capito, mio giovane amico, che in fondo mi trovo a casa in quel territorio speculativo dove il pensiero intelligente è tutto. Legga e capirà.
Nella vostra lettera, voi mi obbiettate che, qui, siamo nel ghetto del reale. Che questa concezione dell’arte rappresenti l’alienazione di una creatività più vasta, e che il mio scrupolo critico sia particolarmente ristretto. Volto le spalle a tutto un universo che si sa immenso e con cui non si vuole avere a che fare? Ebbene, io la chiamo assennatezza, l’ormeggio di un’aura classicistico-razionale. Un havre de grace. La più ragionevole estetica del finito, a cui legioni di pensatori, poeti, letterati, artisti, scrittori, filosofi si sono sempre attenuti.
L’esempio di Shakespeare e del suo Hamlet è emblematico. Questi rappresenta una particolare e pericolosa tentazione per alcune menti creative. Per esempio, per quella del pur classico Goethe (perfino lui, che per molti aspetti considero il simbolo, in ogni senso, della perfetta ‘salute’, così come di una curiosità universale), che fece di Amleto un Werther – e ahimè sappiamo quanti puerili suicidi provocò quest’ultimo, e come il classicismo umanista di Goethe si interessò a quella mente scura e confusa di Johann Georg Hamann, o al più torbido simbolo che alla diafana prosaicità dell’allegoria. Ma l’Hamlet fu anche la tentazione di Coleridge, che ahimè fece di sé un Amleto, un eroe personale. Probabilmente né l’uno né l’altro di questi uomini si ricordò, nello scrivere di Amleto, che il loro primo compito era solo quello di studiare un’opera d’arte. Difettarono del austero distacco dettato dal sine ira et studio. Se letto correttamente, in fondo l’Hamlet di Shakespeare è, o dovrebbe rappresentare, una semplice stratificazione degli sforzi di una serie di uomini, ognuno dei quali ha fatto quanto ha potuto servendosi dell’opera dei suoi predecessori! Ecco la lunga catena. L’ordine raffinato della cultura umanista. La nostra civiltà. La lettura dei troppo “creativi” e “personali” Goethe e Coleridge al contrario è un’aberrazione critica, nonostante il loro indubbio discernimento critico. Mentre i critici del XVII e XVIII secolo insistevano più sull’importanza dell’insieme che sull’importanza del personaggio principale, e dunque furono più vicini al segreto dell’arte drammatica in generale: in quanto opera d’arte, l’opera d’arte non può essere interpretata, nulla c’è da interpretare – possiamo soltanto criticarla secondo i modelli classici, paragonandola ad altre opere d’arte! E, quanto a interpretazione, il compito principale è la presentazione di pertinenti fatti storici che il lettore non è tenuto a conoscere.
Questo è il mio schema critico. Interpretare in senso negativo, per me, equivale a “interpretazione personale”.
Così, Hamlet è enigmatico e inquietante come nessuno degli altri drammi. Di tutti i drammi è il più lungo, ed è forse quello su cui Shakespeare spese le fatiche maggiori. E tuttavia vi ha lasciato scene superflue e incongruenti che anche un’affrettata revisione avrebbe dovuto notare. Il soggetto, Hamlet, avrebbe potuto presumibilmente espandersi in una tragedia intelligibile, in sé completa, alla luce solare. Al contrario, come i sonetti, l’Hamlet è pieno di alcune cose che lo scrittore non poté portare alla luce, contemplare o forgiare in arte. Shakespeare ha un inconfondibile tono che non è nel dramma più antico, classico. E il solo modo, in fondo, di esprimere emozioni in forma d’arte è quello di scoprire un correlativo oggettivo, una serie di oggetti, una situazione, una successione di eventi che saranno la formula di quella particolare emozione, l’adeguamento dell’esterno all’emozione, precisamente quello che difetta nello Hamlet.
Lo scacco di Amleto, a causa dell’assenza dell’equivalente oggettivo dei suoi sentimenti, è un prolungamento dello scacco del suo creatore, Shakespeare, in presenza del problema artistico. Il disgusto di Amleto lo avvolge e lo eccede. È un sentimento che egli non può capire né oggettivare, resta perciò ad avvelenare la vita e a ostacolare l’azione. La natura del problema preclude l’equivalenza oggettiva. La ‘pazzia’ di Amleto sta nelle mani di Shakespeare. Nel dramma più antico era una semplice astuzia. L’incostanza di Amleto, le sue ripetizioni di frasi, i suoi bisticci, non sono parte di un piano voluto di dissimulazione, una forma di sollievo emotivo. Vi è l’ostentazione di un sentimento che Shakespeare non può esprimere in arte.
Se perfino Shakespeare, il grande drammaturgo, è incapace di rappresentare e oggettivare alcuni sentimenti, è dunque inspiegabile e ingiustificabile quell’artista di second’ordine il cui compito principale starebbe nell’affermazione di tutte quelle differenze insignificanti che ne costituiscono la singolarità. Se si è d’accordo con questo punto di vista sull’arte, ne segue che a fortiori chiunque lo condivida non può che esprimere un punto di vista analogo sul terreno critico. Se in generale, ed entro certi limiti, l’arte assolve meglio il suo compito nell’inconsapevolezza o nell’indifferenza dei suoi fini (non fosse così avremmo un Blake con la sua filosofia personale), ciò è possibile ed auspicabile, in quanto sarà la critica poi ad introdurre una finalità in senso prospettico, una delucidazione delle opere artistiche e l’adeguamento del gusto. La critica prevale sulla creazione.
Per quel mi riguarda, la differenza tra classicismo e romanticismo è quella tra compiutezza e frammentarietà, tra età adulta e immaturità, ordine e caos. E in letteratura, come nella critica, e rispetto a ogni cosa nella vita, esistono solo due atteggiamenti. Bisogna scegliere tra l’uno e l’altro. La complessità deve essere ridotta a una più gestibile sofisticazione umana. Perché avere una visione interiore, l’ispirazione, il genio, una dote particolare, quando si hanno dei princìpi, un metodo rigoroso? Ho già espresso altrove, in quanto critico, la mia disposizione anti-romantica, contro l’ispirazione, nel mio saggio Tradition and the Individual Talent. L’ispirazione non può che portare alle artistic failures. Rammenti, mio caro Nikolaj, Huxley, nel suo saggio Do what you will, del 1929, quando definì le produzioni artistiche e le vicissitudini di Baudelaire e Dostoevskij delle “idiotic tragedies”; e quando Jean Wahl, grande studioso di Kierkegaard, definì il sottosuolo di Dostoevskij un’indegna “bambinata”. Oh, quale felice sfoggio di austera probità! Fu lo stesso Huxley ad affermarlo chiaramente: sì, certo, perché ogni tanto uno non dovrebbe perdere il controllo di sé? L’esistenza sarebbe noiosa ed estenuante se la coscienza e la volontà non avessero “a holiday”. Se non ci fossero dei “frightful games” nel corso del quale uno possa, occasionalmente, perdere la testa. E naturalmente, in questa occasionale vacanza dalla coscienza, non bisogna tradire la nostra umanità, our man-hood.
E voi affermate, statuario, sovrano, che non sapete cosa farvene di questa sterile concezione della creazione, di questo sfruttamento razionale dell’irrazionale.
Io amo sopra ogni cosa quel che definisco il “senso fattuale”, che ammiro soprattutto in Remy de Gourmont, e che ritroviamo puntualmente in ogni genere di critica non interpretativa, non personale. E, in un certo senso, tutta lo è, dato il primato che attribuiamo alla coscienza. Un critico deve possedere un senso fattuale estremamente sviluppato. È una dote tutt’altro che frequente o trascurabile. Il senso fattuale è un qualcosa assai lento a svilupparsi, e il suo completo sviluppo coincide forse con il punto più alto di sviluppo della civiltà. Le sfere della realtà da dominare sono così numerose, e l’estrema sfera fattuale, conoscitiva, di controllo, sarà circondata da fantasie narcotizzanti nella sfera inconscia. A un membro del Browning Study Circle la discussione dei poeti intorno alla poesia potrà sembrare arida, tecnicistica e limitata. E ciò unicamente perché gli artisti hanno chiarificato e ridotto a fatto tutti quei sentimenti e sensazioni che il membro di un circolo di poesia può soltanto provare nella forma più nebulosa; l’arida tecnica, per chi la possiede, racchiude ciò di fronte a cui l’artista vibra; l’unica differenza è che è stato trasformato in qualcosa di preciso, agibile, controllabile.
A questo si riduce lo strumento critico del confronto e dell’analisi. E i fatti, per essere tali, hanno solo bisogno di cadaveri da sezionare. Interpretare significa portare in superficie le parti di un corpo dalle sue profondità, e situarle nel tempo e nello spazio. Nella luce e chiarezza dell’intelligibile. Siamo noi a dominare i fatti e non il contrario. E i conti della lavandaia di Shakespeare non ci interessano. Inutile leggere la Correspondance di Baudelaire, o i Sonetti di Shakespeare. E se proprio dovete, prima assicuratevi di averli messi in acquario, sotto il giogo dell’arte. Naturalmente dobbiamo essere cauti in questo genere di giudizi! Un giorno potrebbe esserci qualche genio che potrebbe farne qualche uso. L’erudizione, anche nelle sue forme più umili, ha i suoi diritti – e sia chiaro cosa intendo con “umili”… fallite! È ovvio che dovremmo di volta in volta sapere come utilizzarla, questa erudizione, e come farne a meno. In ogni caso, il modello giusto è quello che permette di sbarazzarci dei libri realmente malsani.
Caro Nikolaj, la vita deve essere contenuta nei limiti dell’arte, del pensiero. Nei limiti di una forza impersonale e indiretta. Inumana. Certo, la passione esiste ancora, ma dentro il cerchio, dentro un confine. Sfuggire alle condizioni dell’arte significa reintrodurre la vita. L’essere umano non educato alla rinuncia, alla sottomissione, non condizionato a esprimere un pensiero sulla vita, l’equivalente emotivo del pensiero, e non la vita nel pensiero.
Nessun artista produce grande arte se si accinge deliberatamente a esprimere la propria personalità. È un fatto. Suo compito è solo di esprimere la propria personalità indirettamente. In caso contrario sarebbe arte impura, filosoficamente anarchica, dissoluta, decadente. Refrattaria a qualsiasi limite. Il decadente infatti rifiuta di essere funzionale al sociale. È questo l’atto più osceno. Shakespeare, Dante e Lucrezio – i limiti di ciascuno di loro erano tanto più evidenti quanto più la loro forma mancava, a volte, di pensiero impersonale. Shakespeare e i suoi drammi ne sono un esempio. E anche i Sonetti. E Swinburne è poeta che non pensa una differente qualità nell’emozione, l’equivalente oggettivo. Il poeta che ‘pensa’ è semplicemente colui che può esprimere l’equivalente emotivo del pensiero. E il potere creativo è sempre e solo il potere creativo di sottomettersi. Nient’altro. L’unico vero potere creativo lasciato all’uomo. Una pura – o secondo voi: “mera” – catarsi. Non si parte dalla vita, ma dal pensiero doppiato in equivalente emotivo, dal potere di un’emozione precisa, e dalla possibilità di una sua formulazione intellettuale. Da un disegno e una qualche coerenza di idee sulla vita o una qualche linea caldeggiata da seguire. Da una durata e un’universalità che portino diletto e benefici alle generazioni successive. Tale è il sommo ufficio della creazione, e della critica.
Per tale ragione, per me “grande poeta” equivale a grande Europeo. A universale nella durata grazie alla saggezza spirituale in sé. Alla condanna della vita in nome della saggezza, saldamente radicata in una dimensione storica, sociale, etica.
Nei massimi poeti saggezza e poesia sono inseparabili. È in tale dimensione, a mio avviso, che deve esprimersi la grande poesia. Quella di Dante, il poeta più universale che abbia scritto in lingua moderna, era una buona filosofia perché aveva dietro di sé il sistema di San Tommaso e il latino medievale, l’esperanto altamente sviluppato e letterario Europeo. Al contrario, Hölderlin, in certi momenti più ispirato di Goethe, non potrà mai essere una figura Europea, Universale.
Dante visse in un tempo in cui il pensiero era ordinato, forte e bello. Un coerente sistema di pensiero. Mentre Shakespeare, tra l’altro, aveva dietro di sé gli inferiori Seneca, Montaigne, Machiavelli, da cui derivano gli errori dello stesso Shakespeare. Il Bardo era limitato da una dimensione locale. Da un pensiero differenziato, frammentario, moderno, romantico. Mancava d’unità. La cultura di Dante al contrario non era quella di un paese europeo, ma quella dell’Europa. Lo ripeto: personalmente amo chi non ha concezioni personali, chi non ha un messaggio personale, chi ha una vita passibile di riduzione alla spassionata esposizione delle fondamentali passioni di ogni tempo e ogni luogo, agli aspetti permanenti e non passeggeri della natura umana. Per alcuni aspetti vitali, conservativi, è meglio essere un buon poeta che un grande poeta. Il genio, Virgilio e Dante, saranno, sì, eccezioni, poeti, eroi – ma eroi della mente. Cantano l’ordine della ragionevolezza classica.
Milton al contrario lascia insoddisfatti. Anche lui, come pensatore, rischia di essere più un vasto guazzabuglio d’incoerente erudizione. Di effetti puramente poetici. È un pessimo influsso sulla peggiore poesia del XVIII secolo. Il luccichio di una teologia che trovo in gran parte repellente, espressa mediante una mitologia che sarebbe stato meglio lasciare nella Genesi, e che Milton non ha reso affatto più gradevole. Le regioni celesti e infernali di Milton sono appartamenti scarsamente ammobiliati, e riempiti a forza di discorsi noiosi, una mitologia in cui si nota una certa inconsistenza storica. Milton tocca delle regioni oscure legate al peccato originale. Io al contrario  rifiuto la passione e l’intolleranza dell’Antico Testamento, il suo immoralismo e la sua ignoranza. Prediligo l’Eneide di Virgilio – e l’Odissea e i suoi eroi della ragione, dell’interiorità e dello spirito – all’Iliade. Nessuna porzione dell’umano può rimanere incolta. Nessuno spazio per la depravazione ‘orientale’ degli indotti.
L’immaginazione, il regno del doppio, l’eteronimia devono essere piegate all’Intelletto. A una mera finzione formale. A semplice metafora poetica, poiché criticare è inevitabile come respirare. E uno dei nostri limiti è la nostra tendenza a sottolineare, quando lodiamo un poeta, quelle caratteristiche della sua opera in cui egli somiglia meno ad altri poeti. Pretendiamo di rintracciare ciò che è più personale. Ci soffermiamo con soddisfazione sugli elementi che lo differenziano dai predecessori. Se invece noi ci accostassimo a un poeta senza alcun pregiudizio, spesso ci accorgeremmo che le parti non migliori, ma anche più personali della sua opera sono forse quelle in cui i poeti scomparsi, i suoi antenati, dimostrano con maggior vigore la loro immortale vitalità. E non mi riferisco alle opere dell’età più suggestionabile, l’adolescenza, bensì a quelle della piena maturità. E la tradizione non è una pallida imitazione del passato! Abbiamo visto troppi rivoletti perdersi nella sabbia. Il concetto di Tradizione è ben più vasto e non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare: chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. La tradizione esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico, cosa che è quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a fare il poeta dopo i venticinque anni. Avere senso storico significa essere consapevole non solo che il passato è passato, ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione. Impossibile valutare il poeta in sé. Innanzitutto va collocato, valutato, giudicato storicamente, in rapporto ai poeti e gli artisti del passato. Dell’inattuale non ce ne facciamo niente. È un principio di critica storica e, soprattutto, di critica estetica in cui è necessario che il poeta si inserisca in modo coerente, adattandosi al passato, nella coerenza tra antico e nuovo, nella concezione di un ordine, di una forma europea. Il poeta che sia consapevole di questo, sarà anche consapevole delle grandi difficoltà e responsabilità che lo attendono.
Non tema. Non è mia intenzione mutilare il poeta con un giudizio, e tanto meno proporre un precetto, ma, in mezzo a molti distinguo, e sottigliezze di equanime buon senso e di lodi ai poeti falliti, vi dico apertamente che il fatto che il poeta vi si adatti, alla catena del passato, è una prova del suo pregio. Il poeta non deve considerare il passato come massa informe (è un atteggiamento indiscriminato e inassimilabile), né deve affidare la sua formazione a una o due predilezioni personali (un atteggiamento che può coincidere con un’importante esperienza giovanile), così come non deve affidarla all’imitazione di un periodo letterario prediletto (può essere un’aggiunta gradevole e senz’altro auspicabile a una più completa formazione). Il poeta deve imparare che lo Spirito dell’Europa e del suo paese è molto più importante del suo, individuale. Il poeta deve sviluppare o acquisire la coscienza del passato e continuare a svilupparla per tutta la sua carriera. Rinuncia continuamente al proprio essere presente, in cambio di qualcosa di più prezioso. La carriera di un artista è un continuo auto-sacrificio, una continua estinzione della sua personalità individuale. Nella coscienza di questo processo di spersonalizzazione l’arte si avvicina alla scienza. La critica onesta e il giudizio sensibile si rivolgono non al poeta ma alla poesia. Non ci interessa Gogol’ ma le sue opere! Voi mi obiettate che questa disposizione sia da sempre il caposaldo di ogni pensiero razionale, sia esso cristiano che pagano, sia teistico che ateo. Ben venga. Se vuole, caro Nikolaj, è lo stesso schema che usano coloro che anziché parlare dei santi parlano della santità, o quel eterno compito della filosofia che intende trasformare la percezione oscura di tutto quel che è viscerale, il sacro, nella sua espressione chiara e lucente, in divino! È il compito più onorevole. E voi, al contrario, disprezzate questo “infame” compromesso, questa luce che giudicate nient’altro che un apaisement.
Il poeta maturo, impersonale, non perverso, disinteressato, giocherà correttamente a fare poesia in un ambiente più finemente perfezionato, in quanto più perfetto è l’artista, tanto più rigorosamente separati resteranno in lui l’uomo che soffre e la mente che crea, tanto più perfettamente la mente assimilerà e trasmuterà le passioni che sono il suo materiale. L’effetto di un’opera d’arte sulla persona che ne fruisce è un’esperienza di genere diverso da ogni esperienza non artistica. La mente del poeta è un ricettacolo che raccoglie e conserva innumerevoli sensazioni, frasi, immagini, che restano lì finché non sono presenti tutte le particelle atte a unirsi per formare un nuovo composto. Quel che conta non è la grandezza, l’intensità, dei sentimenti, cioè delle componenti, bensì l’intensità del processo artistico. L’intensità poetica è qualcosa di molto diverso dall’intensità, quale che essa sia, dell’impressione suscitata dalla supposta esperienza. Non è un caso che, qui, evocando implicitamente l’impersonalità delle scienze, uso i termini “particelle”, “composto”, “processo”.
A me interessa unicamente il processo di trasformazione dei sentimenti – non la sua origine: il sentimento, l’affettivo, l’empirico, il dato. Non a caso parlo di “effetto artistico” e di “emozione artistica” che si “avvicina molto” all’emozione del protagonista, poiché la differenza tra l’arte e gli avvenimenti reali è sempre assoluta – Benedetto Croce, con intenti analoghi, scrisse: “è un abisso”. E voi criticate sia me che Croce, per tale disposizione, che voi giudicate alienante.
Il poeta ha non una personalità da esprimere, ma un mezzo particolare, soltanto un mezzo e non una personalità, in cui impressioni ed esperienze si combinano in modi peculiari e imprevisti. Le impressioni e le esperienze che sono importanti per l’uomo possono non aver posto nella poesia, e quelle che diventano importanti nella poesia possono avere una parte assolutamente trascurabile nell’uomo, nella sua personalità. Il suo deve essere un sentimento strutturale, post-combinazione, un processo di concentrazione disinteressato. Non è per i suoi sentimenti personali, per i sentimenti scaturiti da particolari eventi della sua vita, che il poeta può risultare interessante o degno d’attenzione. I suoi particolari sentimenti possono anche essere semplici, rudimentali, banali. Il sentimento che dominerà nella sua poesia sarà invece molto complesso, ma non della complessità dei sentimenti di coloro che hanno sentimenti molto complessi o insoliti nella vita. Anzi, in poesia è un errore di eccentricità voler esprimere a tutti i costi sentimenti umani nuovi; cercando la novità dove non può che esserci il perverso.
Mio caro Nikolaj, la complessità di cui vi parlo non è l’eteronimia del donnée. Al poeta compete non di trovare nuovi sentimenti, ma di servirsi di quelli ordinari, elaborandoli nella poesia, per esprimere sensazioni che non sono presenti nella realtà dei sentimenti. Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente, e cosciente laddove dovrebbe essere incosciente. Tutt’e due gli errori tendono a farlo ‘personale’. La poesia non è un libero sfogo di sentimenti, ma un’evasione da essi! Non è espressione della personalità, ma un’evasione dalla personalità! È naturale, però, che solo chi ha personalità e sentimenti sappia che cosa significhi volerne evadere. Per concludere, è necessario fermarsi alla frontiera della metafisica o del misticismo, e limitarsi alle conclusioni pratiche applicabili da una persona responsabile che si interessi di poesia. Spostare l’interesse dal poeta alla poesia è intento lodevole, poiché esso può portare a una giusta valutazione della poesia che si legge, a definirla buona o cattiva.
Sostenere che il sentimento dell’arte sia impersonale, che sia facile apprezzare i sentimenti sinceri, ma molto meno apprezzare l’eccellenza tecnica, l’espressione di un sentimento significativo, vivo nella poesia e non nella storia del poeta, è solvente critico del reale. Lo ammetto.
Le dirò di più, con una sentenza che forse le apparirà fin troppo lapidaria. Riconosco che la sgradevole e terrificante onestà di Blake, contro cui tutti noi cospiriamo, è grande poesia. Ma… Lo è solo in parte, e grazie alla sua innocenza. Blake era sincero. Nessuna carriera letteraria o giornalistica lo corrompevano. Né ambizioni sociali, né il successo. In lui non c’era niente della persona superiore. Questo lo rendeva straordinario, un’eccezione. E il Blake maturo poi fa sospettare che l’origine della sua poesia rampolli da una sorgente meno profonda, meno equivoca. Blake aveva il potenziale del Giusto. Dell’essere virgiliano, dantesco. La totale assenza di narcisismo, di vanità, ma anche di orgoglio singolare, lo rendevano comune, per quanto in maniera imperfetta, incompiuta. Purtroppo si è perso. La mancanza del mestiere, il non essersi attenuto a un qualche rigore intellettuale, relegava Blake ai capricci dell’io. Ho stimato in Blake l’assenza di qualsiasi traccia di orgoglio, di impudenza o provocazione. Gli riconosco una potenza, per quanto artisticamente fosse un fallimento. Se non è riuscito a essere compiutamente inumano, spirituale, almeno non si era votato a conquistatore espansivo e aggressivo. Era un fallimento, ma non un cattivo fallimento. La sua mancata comunione con lo Spirito del Tempo, con la storia universale, era il frutto di una potente immaginazione allucinata che non fu mai in grado di uscire veramente da sé, dal suo moi haïssable. Era nato come poeta, ma non era nato come “poeta filosofico”. Lo perdono. Blake era scusabile. Ma era solo un poeta di genio, non un classico.
Per quanto riguarda le aree soprannaturali dell’immaginazione di Blake, così come per le supposte idee che in quelle aree abitano, non possiamo fare a meno di notare una certa povertà di cultura, mancanza di astrazione, unità e Spirito. L’assenza di un’immaginazione pilotata e dilatata all’infinito, a piacimento, da una tradizione consolidata. Blake fu solo un genio privo del rigore delle linee, delle forme e dei volumi spirituali. Un temperamento caldo e illuso, abbandonato alla sconvenienza delle visioni di un detestabile io. Fu un vicolo cieco. Materiale patologico e sensuale. Quanto di più anti-hegeliano esista.
Se l’uomo deve elevarsi all’universalità astratta, Blake al contrario cadeva spesso in espressioni personali prive di forma, nude, a causa della sua eccentricità rispetto alla tradizione latina, di cui Dante al contrario fece buon uso. Proviamo per la filosofia di Blake lo stesso rispetto che sentiamo per un mobile ingegnoso fatto in casa. Era dotato di una considerevole capacità di capire la natura umana, di un notevole e originale senso del linguaggio e della musica del linguaggio, di un vero talento per la visione allucinata. Se queste facoltà fossero state governate da un certo rispetto per la ragione impersonale, per il buon senso, per l’obiettività della scienza, sarebbe stato meglio. Il suo genio avrebbe avuto bisogno – e purtroppo invece non poté disporne – di una struttura di idee accettate e tradizionali che gli impedissero di indulgere a una filosofia tutta sua, e lo facessero dedicare esclusivamente ai problemi della poesia in generale. Confusione di poesia, di pensieri, sentimenti e visioni, per esempio, è quanto si trova in un’opera come Also Sprach Zarathustra, questo ditirambo alla solitudine, in una qualità tipicamente non latina! La forza di concentrazione che viene dal sostegno di una precisa struttura mitologica, teologica e filosofica è una delle ragioni che fanno di Dante un classico, mentre la sua mancanza fa di Blake soltanto un poeta di genio.
Il difetto forse non è di Blake, ma dell’ambiente che non gli dette ciò di cui un poeta aveva bisogno. Forse le circostanze lo costrinsero a fabbricarsi una struttura personale. Forse il poeta aveva bisogno del filosofo e del mitologo. Ma può darsi che Blake, poeta così consapevole, non avesse consapevolezza delle ragioni che lo spingevano. La filosofia è essenziale alla struttura della poesia e la struttura è essenziale alla bellezza poetica delle parti. È ciò che accade in Dante. Inoltre dobbiamo dimostrare che la filosofia viene usata in una forma diversa da quella che assume in poemi filosofici chiaramente falliti. I veri poeti, i probi, sono coloro che si sforzano di esporre un sistema filosofico, e trovare un concreto equivalente poetico del sistema: di trovarne il completo equivalente nella visione. Il vero poeta aspira a esprimere una visione ordinata della vita umana, con gran vigore di immagini veramente poetiche e osservazioni spesso acute. La Commedia di Dante è così un’educazione morale, ci aiuta a criticare il poeta romantico. In nessuna delle figure dantesche troviamo l’ambiguità del Lucifero di Milton!
La struttura, il complesso, lo schema non è necessario siano capiti quanto piuttosto giustificati da una filosofia latina (il San Tommaso di Dante), nella corrispondenza tra un valore morale e l’allegoria del reale. La Divina Commedia ne è un esempio perfetto. Quella di Dante è la più esauriente, la più ordinata presentazione di sentimenti che sia mai stata fatta, e non ipertrofia di una singola reazione.
Per me Dante è il più attento studioso dell’arte della poesia, e il più scrupoloso, accurato e consapevole professionista del mestiere, un degno e sublime servo della propria lingua per la Storia europea. Un autentico responsabile. Un Classico. Il genio non classico al contrario non fa che abusare, di tutto, anche della lingua, a tal punto da renderla eccentrica, da non poter essere di alcuna utilità per i posteri. Così Dante e Shakespeare sono entrambi dei geni. Ma il secondo, in quanto genio, si prende delle libertà che Dante, dotato di uguale genio, non si prende. Trasmettere alla posterità il proprio linguaggio sviluppato a un grado più alto, più raffinato e più preciso di quanto non fosse prima è il massimo traguardo possibile per il poeta in quanto tale. L’orrido, il sordido e il disgustoso in Dante viene esaurito ed espresso in una gamma completa di espressioni che muovono dal negativo al positivo. Negli artisti non risolti al contrario il negativo rimane sempre l’elemento più insistito, quando non piegano la loro personalità a un struttura necessaria, a un’esposizione filosofica. Così in Dante vediamo una filosofia come parte del mondo ordinato. Scopo del poeta è affermare una visione, e nessuna visione della vita è completa se non contiene l’articolata formulazione della vita che è opera delle menti umane. Ecco la catena della civiltà ragionevole, il culto superstizioso del passato storico.
Per me “completa” e “articolata formulazione” e “menti umane” richiama all’appello questa mia fondamentale disposizione, mai mutata: contro l’ispirazione, contro il genio, che non deve brillare di luce propria, promuovere la pietas, il dovere d’amore, l’umiltà, giacché in caso contrario esisterebbe solo un trasporto accidentale. Elevare il valore del pius Aeneas di Virgilio nel suo fatum ragionevole. Nel suo destino sensato, morale. Onorare quell’Enea che assomiglia in sommo grado a Giobbe, ma la sua ricompensa non è quella che toccò a Giobbe. È semplicemente l’aver compiuto il proprio destino. Sopporta in silenzio e agisce in obbedienza. Enea, uomo e destino dell’Occidente. Un eletto con un fardello, una responsabilità, piuttosto che una gloria personale. La vita è così contenuta nei limiti dell’arte, e l’attività dell’artista è intesa a trasmutare le sue personali e private agonie in qualcosa di ricco e straordinario, di universale e impersonale.
Come voi sapete, mio giovane amico, io mi trovo più a mio agio con Virgilio che con Omero. Forse sarebbe stato altrimenti se avessi potuto incominciare a leggere il poeta greco dall’Odissea anziché dall’Iliade, il poema della forza. Poiché in quest’ultima gli dèi, soggetti alle proprie passioni, privi di obiettività e sleali nella condotta, erano altrettanto irresponsabili degli eroi. Questo mi ripugnava. Il solo eroe che si sarebbe potuto lodare per la condotta e per il suo senso umano era Ettore. Così, d’istinto ho sempre preferito il mondo di Virgilio al mondo di Omero, perché il primo era più civile. Vi trovavo più dignità, ragione, ordine. Con “il mondo di Virgilio” voglio dire ciò che Virgilio stesso fece del mondo in cui visse. La Roma dell’età imperiale era rozza e brutale in abbondanza; per certi importanti aspetti era meno civile dell’Atene periclea. I Romani avevano minori attitudini degli Ateniesi per le arti, la filosofia e la speculazione scientifica; anche la loro lingua era meno pieghevole ai modi della poesia e del pensiero astratto. Ma nella propria opera Virgilio fece la civiltà romana migliore di quanto non fosse in realtà. Amo Virgilio perché dotato di una sensibilità prossima al cristianesimo di una civiltà cristiana, per questa sua lontananza dal cristianesimo primitivo, immorale e passionario. Lo spirito di Virgilio non ha quasi precedenti!
Caro Nikolaj, l’“Onde convenne legge per fren porre” di Dante, a mio avviso, rappresenta uno dei massimi meriti del poema dantesco, anzi: il massimo merito. Dante sarebbe riuscito a trattare la sua filosofia non come teoria o come suo commento o riflessione ma, in termini di cosa percepita, quasi nei termini di una modificazione fisica. È ciò che ho sempre auspicato: che i poeti scrivessero non solo con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma che fossero anche come costretti a questa coscienza. Il significato di qualsiasi singolo evento, uno stato, il massimamente poetico, è incompleto se non conosciamo il Tutto. Tutto – colore, posizione, atmosfera – prende corpo, forma nella non ambiguità dello schema, che non svanisce né diminuisce mai, e nella struttura. Nessun sentimento è contemplato per se stesso. Uno stato – quello stato che porta Blake a essere eccentrico, a cadere in espressioni prive di forma, nude, o in una forma mal scelta – in sé non è niente!
Certo, la filosofia presa a prestito da Dante sarà stata meno interessante di quella di Blake, danneggiava però meno la sua forma. Blake fu costretto a crearsi una sua filosofia e una sua poesia. Anche i suoi disegni subiscono la stessa sorte, lo stesso limite. Manca una struttura, un punto di vista impersonale. Proviamo rispetto per la filosofia di Blake, ammiriamo l’uomo – e l’Inghilterra ha dato non pochi di questi Robinson Crusoe pieni di risorse personali, di questi solitari scomodi e ribelli, di questi testardi solitari – ma non siamo poi così lontani dall’Europa, dal nostro stesso passato, da doverci privare dei vantaggi della cultura.
Criticare e interpretare, per me, significa sistemare la poesia in pura contemplazione, da cui siano rimossi tutti i possibili sentimenti personali del momento. Il problema non è tanto nello stabilire se le impressioni siano giuste o sbagliate, quanto di riuscire a isolare l’impressione, la pura sensazione, poiché l’impressione singolare ha assolutamente bisogno di collocarsi in un sistema di impressioni. Così, se l’artista – il poeta o il critico, o l’uomo empirico – è sentimentale, se si lascia andare alle associazioni accidentali e personali, se la sua persona non si fonde e annulla nel molteplice generale, è certamente un fallimento, per quanto interessante. È un mancato circuito tra impressione ed espressione. Un circolo incompleto. Il cercle vicieux. Una mancata conciliazione tra l’improprio – per dire la stessa cosa, nei miei scritti, a volte uso il termine “perversione” – e il proprio e lecito. Nella sovranità al singolare non esiste un pensiero dell’omnitudine, funzionale al sociale, ma un sentimento personale, privo di definizione, principio e struttura. Le dirò apertamente che, a mio avviso, non vi è metodo se non quello di essere molto intelligente, ragionevole. E l’autentico artista, preso dal desiderio dell’ordine, si impone imperiosamente di non lasciare all’azzardo dell’inconscio ciò che potremmo compiere a livello conscio, mentre l’artista di second’ordine, ovviamente, non può permettersi di votarsi a una qualsiasi azione comune; per lui compito principale è l’affermazione di tutte quelle differenze insignificanti che ne costituiscono la singolarità. Uno spirito libero, al contrario, è colui che accetta di sottomettersi al destino, all’amor fati, alla necessità. Colui che coltiva il disinteresse per la propria singolarità. Sappiamo che quando comprendiamo la necessità, siamo liberi perché vi acconsentiamo.
Coleridge, per esempio, che per alcuni aspetti è il più importante critico moderno, possiede un’intelligenza non completamente libera a causa della sua genuina passione per la metafisica, tanto che a un certo punto sembra lasciarsi trascinare in una metafisica da caccia al tesoro. Il difetto dello stesso Aristotele, per esempio, è dato dall’interpretazione canonica dei suoi discepoli settari. Aristotele fu un uomo dall’intelligenza universale, che poteva applicarsi a qualsiasi cosa, poiché questi non soddisfaceva gli impuri desideri ma guardava unicamente e fermamente l’oggetto che gli stava davanti. Rappresentava l’esercizio disinteressato dell’intelligenza, aveva quella che si chiama una “mente scientifica”, quel genere di mente che anche negli scienziati si incontra raramente, se non a frammenti. Tra i moderni critici, Remy de Gourmont è l’esempio più vicino all’intelligenza universale di Aristotele. Egli fu una combinazione notevole di sensibilità superiore, pura, di erudizione, senso delle cose e della storia, e capacità di generalizzazione. Infine Swinburne, colui che rappresentò un bel prototipo di critica che in realtà non è vera critica. I suoi difetti di stile personale, come il tumultuoso frastuono degli aggettivi, il precipite accavallarsi di frasi indisciplinate sono l’indice dell’impazienza di una mente disordinata. Certo, impossibile mancare di indicare anche i suoi meriti, e di leggerlo con rispettosa attenzione. Con il suo stile, Swinburne, ha il merito di non aver scritto per farsi una fama di critico, né per ammaestrare un docile pubblico, ma come poeta che fa alcune osservazioni su altri poeti da lui ammirati. A Swinburne così va assegnato un posto onorevolissimo come critico. Ma dietro l’angolo, ahimè, troviamo subito ad attenderci il limite a quello che possiamo aspettarci da lui.
Il solo rimedio per guarire dal Romanticismo, o da qualsiasi altra cosa sgradita, è quello di analizzarlo con l’analisi critica, la facoltà dissociativa superiore, ricollegandosi ad Aristotele, a Spinoza, a Dante e Remy de Gourmont, agli spiriti liberi nella necessità, e con chiunque abbia difeso onorevolmente i diritti della ragione, e della vita intellettiva, che “felicifica”! Impossibile costruire una solida impalcatura teoretica sulle proprie percezioni o su quelle altrui. Non sarebbe una vera generalizzazione, ma una sua sovrapposizione a una massa di percezioni. Non un’intelligenza veramente affinata, meno che mai una critica intellettuale. Le impressioni non formano strutture. Acquistano vita solo dopo la metallica ingegneria critica, cosciente. E nella misura in cui artisti e letterati sono intelligenti (è lecito dubitare che tra i letterati il livello dell’intelligenza sia alto come tra gli scienziati), la loro intelligenza è di questo tipo, poiché di permanente nel Romanticismo vi è solo la curiosità. La curiosità in sé può essere un bene, non altrettanto farne un uso romantico, élitario, incosciente, lirico, personale, singolare, capriccioso, frammentario, non rigoroso, non scientifico. Maleducato.
L’insufficiente presenza di “facoltà dissociative” è un difetto d’intelligenza e di sensibilità. È deficienza e immaturità. Impossibile un’opera di qualità superiore a colui che manca di austera passione, della potenza dell’analisi, della capacità di individuare infallibilmente il punto in cui si passa dall’opera d’intensità eterna all’opera semplicemente bella, e dall’opera bella all’opera semplicemente gradevole.
Infine, voi evocate Baudelaire. Un poeta e critico che ammiro, malgrado tutto. Dico “malgrado tutto”, poiché l’autore delle Fleurs du Mal, dopotutto, fu ‘solo’ un Dante frammentario, o un Goethe più tardo e limitato. Lei ha intuito il mio disprezzo, che aleggia in ogni mio scritto, per il romanticismo. Per tutto ciò che è individuale, lirico, ispirato. Conosce anche il mio disprezzo per gli eccessi di Tertulliano, per la sua mancanza di equilibrio, a la sua logica onirica. Sa che getto uno sguardo sull’innocenza teologica di Baudelaire, sulla sua oscura intuizione, e la trovo rudimentale ed embrionale. Sa che riduco la sua ennui alla psicopatologia, e qualora le accordi un qualche valore, è solo in quanto fallimento artistico emblematico, in quanto sfortunata lotta che è alla ricerca di una più sublime, trascendente, vita spirituale. Lo rubrico, insomma, sotto lo Spirito del Tempo. Depreco, infine, l’unilateralità della sua immensa forza, tutta applicata alla sofferenza, che non seppe trascendere, né sfuggire; il suo non essere convincente, e non sapersi adattare alla realtà del mondo. Per questi suoi limiti, lo considero lontanissimo dal più universale e classico Dante, che disponeva di una buona filosofia; o dal compiaciuto equilibrio interiore, formale di un Théophile Gautier. Nel caso di Baudelaire, è da una lettura dell’opera in prosa e anche dagli appunti e dei diari di questi poeti che spesso possiamo ricavare un valido aiuto: un aiuto a decifrare le discrepanze tra cervello e cuore, fine e mezzi, materiali e ideali, ossia l’incapacità di universalizzare la loro esperienza, di spersonalizzarla e spiritualizzarla armonicamente. Le cito, come a suo tempo fece Valéry, Le Balcon di Baudelaire come esempio positivo dove troviamo, sì, l’idea romantica nella sua totalità, ma non solo – anche un qualcosa di più universale, da raggiungere nella beatitudine, nel sublime. Ma nell’adattare il naturale allo spirito, il bestiale all’umano e l’umano al sovrannaturale, Baudelaire è, rispetto a Dante, un confusionario, a bungler. Il meglio che si possa dire di lui – e non è poco – è che tutto quel che conobbe fu una sua scoperta personale. La sua concezione romanticamente imperfetta, le sue poesie, hanno la forma esterna ma non interna dell’arte classica.
Voi, caro Nikolaj, dal sottosuolo della vostra depravazione slava, amate le creazioni folgoranti e devastanti, e mi imputate l’odio per l’elemento orientale del reale, per quella potente circolazione tra arte e vita, l’elemento primitivo, tipico della letteratura russa, anche di quella più raffinata. Mi rammentate l’esclamazione del poeta dalle suole di vento: “Filosofi, voi siete del vostro Occidente!” Siete scioccato da questo mio rifiuto della psicologia orientale, da questo pregiudizio esclusivo per l’Intelligenza, che voi dite essere onniavvolgente, poiché lo ritroviamo in Hegel, per cui la libertà è nella conoscenza e l’ignorante non è libero (mentre voi mi rammentate con aria di sfida che per Leopardi e Shakespeare, lo è, in quanto tale!); lo ritroviamo riferito all’Africa come alla Siberia, ai territori “fuori dalla Storia”, ancora in Hegel; e qualcosa di analogo affermò Benedetto Croce, sempre rispetto alla Russia. E voi mi rammentate, ancora una volta, accorato, che Dostoevskij lesse Hegel in Siberia e scoppiò a piangere; e che Spinoza non osò la confusione, e dunque fallì. Insomma, voi mettete sul tavolo le obiezioni della vita, nuda. Cosa vuole che le dica? I russi in fondo sono dei parvenus dell’intelligenza, della coscienza. Sono ex-mujiks improvvisamente arricchiti con il tesoro culturale, intellettuale, dell’Europa. E anche i personaggi di Dostoevskij sono tipici parvenus della coscienza. Sono ridicoli, tutti folli. Per quanto affascinante possa essere la loro follia, questi pazzi sono sempre ridicoli. Nella loro immensa incoscienza e cecità, nella rigidità dei loro umori e ferrea durezza, nelle loro monomaniache reazioni a tutto ciò che seduce la loro mania. Certi scrittori sono ridicoli perché inumani e impietosi. Inumani perché inumana è la loro pretesa di libertà.
Io ho fatto una sola cosa nella vita: leggere e inglobare questi fenomeni e questi autori nel realismo della scolastica, in nome dei valori civilizzati e della politesse – ordine, educazione, raffinatezza – del cattolicesimo occidentale. Altro non posso dirle.
Voi mi avete scritto dalla remota Kamchatka. Vi siete detto internato ormai da decenni, privato di qualsiasi aggiornamento sulla vita culturale dell’Europa che conta; dite inoltre di aver avuto accesso per la prima volta, in modo del tutto clandestino, a una esigua silloge dei miei scritti critici (lamentate infatti che gran parte del volume sia stato usato come carta per accendere il fuoco nel campo in cui vi trovate, nelle cupe notti della taiga). Spero di averle fatto cosa utile, in questa mia lettera, nel riportarle un vasto riassunto del mio pensiero critico, prendendo ad esempio alcuni di miei scritti a me più cari: Riflessioni sul vers libre (1917), Amleto e i suoi problemi (1919), Tradizione e talento individuale (1919), Swinburne poeta (1920), Blake (1920), Dante I (1920), Il critico perfetto (1920), Critici imperfetti (1916-1920), John Dryden (1921), I poeti metafisici (1921), Seneca nelle traduzioni elisabettiane (1927), Dante II (1929), Baudelaire (1930), I Pensées di Pascal (1931), L’età di Dryden (1932), Wordsworth e Coleridge (1932), Shelley e Keats (1933), Lo spirito moderno (1933), Milton I (1936), Byron (1937), W. B. Yeats (1940), La funzione della poesia (1945), Che cos’è un classico? (1945), Milton II (1947), Da Poe a Valéry (1948), Cosa significa Dante per me (1950), Virgilio e la cristianità (1951), La saggezza di Goethe (1955), Le frontiere della critica (1956), Critica al critico (1961).
Spero che questa mia lettera possa trovare il modo, pur tra le vie tortuose del destino che vi attanaglia, di giungere tra le vostre mani attraverso le comuni amicizie che ci legano.
La saluto con la più sincera amicizia.
Thomas S. Eliot
*a cura di Luca Orlandini
**In copertina: Thomas S. Eliot con la seconda moglie, Valerie; fotografia senza data
L'articolo “Caro Nikolaj, io, Thomas S. Eliot, sono stato poeta, fui l’aedo dello scrupolo critico, ho lottato contro le forze del caos”: una testimonianza letteraria eccezionale proviene da Pangea.
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