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#sensazione di cadere
vaffanculofuckyou · 1 year
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ho un vuoto dentro e non so come uscirne.
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kon-igi · 4 days
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QUA CI SAREBBE STATO UN TITOLO ALTISONANTE MA QUESTA VOLTA NO
Trovo difficile spiegare quello che sto per raccontarvi, non perché provi vergogna o esitazione ma perché ho impiegato 23 giorni a capire cosa stesse succedendo e tutte le volte che mi fermavo con l'intenzione di parlarne, sentivo che le parole scritte non avrebbero reso il senso di quello che stavo provando.
Questa volta lo butto giù e basta, ben consapevole che le parole immiseriscono ciò che una volta fuori dalla testa non sembra poi così universale o interessante.
L'errore più grande che ho fatto in questi cinque anni (conto un anno prima della pandemia ma forse sarebbero pure di più) è stato credere di avere un equilibrio emotivo tale da poter prendere in carico i problemi e le sofferenze delle persone della mia famiglia.
Non solo, mi sono fatto partecipe e a volte risolutore dei problemi dei miei amici e una volta che sono stato in gioco mi sono reso disponibile ad ascoltare chiunque su questa piattaforma avesse bisogno di supporto, aiuto o di una semplice parola di conforto.
Ho sempre detto che una mano tesa salva tanto chi la stringe che chi la allunga e di questo sono ancora fermamente convinto.
Ma per aiutare qualcuno devi stare bene tu per primo, altrimenti ci si sorregge e si condivide il dolore, salvo poi cadere assieme.
In questi anni ho parlato molto di EMPATIA e di sicuro questa non è una dote che mi manca ma c'è stato un momento - non saprei dire quando e forse è stato più uno sfilacciamento proteso nel tempo - in cui non ho potuto fare più la distinzione tra la mia empatia e la mia fragilità emotiva.
Sentivo il peso, letteralmente, della sofferenza di ogni essere vivente con cui mi rapportavo... uno sgangherato messia sovrappeso con la sindrome del salvatore, insomma.
Sovrastato e dolente.
Mi sentivo costantemente sovrastato e dolente e più provavo questa terribile sensazione, più sentivo l'impellente bisogno di aiutare più persone possibile, perché questo era l'unico modo per lenire la mia sofferenza.
Dormivo male, mi svegliavo stanco, mangiavo troppo o troppo poco, lasciavo i lavori a metà e mi veniva da piangere per qualsiasi cosa.
Naturalmente sempre bravo a dispensare consigli ed esortazioni a curare la propria salute mentale ma lo sapete che i figli del calzolaio hanno sempre le scarpe rotte, per cui se miagola, graffia e mangia crocchette, bisognerà per forza chiamarlo gatto.
E io l'ho chiamata col suo nome.
Depressione.
La mia difficoltà, ora, a parlarne in modo comprensibile deriva da un vecchio stigma familiare, unito al fatto che col lavoro che faccio sono abituato a riconoscere i segni fisici di una patologia ma per ciò che riguarda la psiche i miei pazienti sono pressoché tutti compromessi in partenza, per cui mi sto ancora dando del coglione per non avere capito.
All'inizio ho detto 23 giorni perché questo è il tempo che mi ci è voluto per capire cosa sto provando, anzi, per certi aspetti cosa sono diventato dopo che ho cominciato la terapia con la sertralina.
(per chi non lo sapesse, la sertralina è un antidepressivo appartenente alla categoria degli inibitori della ricaptazione della serotonina... in soldoni, a livello delle sinapsi cerebrali evita che la serotonina si disperda troppo velocemente).
Dopo i primi giorni di gelo allo stomaco e di intestino annodato (la serotonina influenza non solo l'umore ma anche l'apparato digestivo) una mattina mi sono svegliato e mi sono reso conto di una cosa.
Non ero più addolorato per il mondo.
Era come se il nodo dolente che mi stringeva il cuore da anni si fosse dissolto e con lui anche quell'impressione costante che fosse sempre in arrivo qualche sorpresa spiacevole tra capo e collo.
Però ho avuto paura.
La domanda che mi sono subito fatto è stata 'Avrò perso anche la mia capacità di commuovermi?'
E sì, sentivo meno 'trasporto' verso gli altri, quasi come se il fatto che IO non provassi dolore, automaticamente rendesse gli altri meno... interessanti? Bisognosi? Visibili?
Non capivo ma per quanto mi sentissi meglio la cosa non mi piaceva.
Poi è capitato che una persona mi scrivesse, raccontandomi un fatto molto doloroso e chiedendomi aiuto per capire come comportarsi e per la prima volta in tanti anni ho potuto risponderle senza l'angoscia di cercare spasmodicamente per tutti un lieto fine.
L'ho aiutata senza che da questo dipendesse la salvezza del mondo.
Badate che non c'era nulla di eroico in quella mia sensazione emotiva... era pura angoscia esistenziale che resisteva a qualsiasi mio contenimento razionale.
E ora sono qua.
Non più 'intero' o più 'sano' ma senza dubbio meno stanco e più vigile, sempre disposto a tendere quella mano di cui sopra - perché finalmente ho avuto la prova che nessun farmaco acquieterà mai il mio amore verso gli altri - con la differenza che questa voltà si cammina davvero tutti assieme e io sentirò solo la giusta stanchezza di chi calpesta da anni questa bella terra.
Benritrovati e... ci si vede nella luce <3
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oramicurcu · 3 months
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Credo di star entrando in un periodo buio.
Credevo fosse per via del ciclo o per la sensazione di acidità che mi ha lasciato una cena a casa di gente che vorrei non vedere più (e un dolce con la ricotta acida).
Ma credo stia per arrivare un brutto momento, uno di quelli in cui piango appena qualcuno mi parla. Ma anche se non mi parla.
E lo scrivo qui, l’unico posto in cui non devo dimostrare niente a nessuno, non devo performare. L’unico posto in cui sono onesta e sincera anche con me stessa.
Domani probabilmente passerà questa brutta sensazione, ma so che sono legata a un filo di capello, pronto a spezzarsi e farmi cadere a capofitto.
E lo scrivo qua, perché sempre qua mi sono ritrovata.
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Veneziani: In treno verso il nulla, stranieri a casa propria.
di Marcello Veneziani – 13 Agosto 2023
L’altra sera ho preso un treno locale tra Foggia e Bari. Ero nella mia terra, dovevo raggiungere il mio paese natale, ho preso l’ultimo regionale della sera. Non ero in prima classe, non leggevo Proust, non ero tra lanzichenecchi, come era capitato ad Alain Elkann ed ero curioso di chi mi stava intorno. Ero l’unico anziano in un treno zeppo di ragazzi, pendolari della movida, che si spostavano per andare a fare nottata in paesi vicini. Ero su una tratta che un tempo mi era famigliare, ma mi sono sentito straniero a casa mia. No, non c’erano stranieri sul treno, come spesso capita nei locali. Ricordo una volta su un locale, ero l’unico italiano tra extracomunitari, in prevalenza neri, con forte disagio perché ero pure l’unico ad avere il biglietto. Stavolta invece ero tra ragazzi dei paesi della mia infanzia e prima giovinezza, eppure mi sentivo più straniero che in altre occasioni.
Li osservavo quei ragazzi e soprattutto quelle ragazze, erano sciami urlanti che agitavano il loro oggetto sacro, la loro lampada d’Aladino e il loro totem, lo smartphone. Si chiamavano in continuazione, la parola chiave per comunicare era “Amò”, ed era un continuo chiedersi dove siete, dove ci vediamo. Era come parlare tra navigatori che si dicevano la posizione.
Le ragazze erano vestite, anzi svestite, scosciatissime, come se fossero cubiste o giù di lì, con corpi inadeguati. Era il loro dì di festa, il loro sabato del villaggio, ma in epoca assai diversa da quella in cui Leopardi raccontava l’animazione paesana che precede la domenica. Dei loro antenati forse avevano solo la stessa pacchianeria prefestiva, ma nel tempo in cui ciascuno si sente un po’ ferragnez e un po’ rockstar. Parlavano tra loro un linguaggio basic, frasi fatte e modi di dire sincopati. Mai una frase compiuta, solo un petulante chiamarsi, interrotto da qualche selfie, si mandavano la posizione e si apprestavano a incontrarsi e poi a stordirsi di musica, frastuono, qualche beverone, fumo, e non so che altro. Li ho visti in faccia quei ragazzi, erano seriali, intercambiabili, dicevano tutti le stesse cose, ciascuno in contatto col branco di riferimento. Cercavo di trovare in ciascuno di loro una differenza, un’origine, un qualcosa di diverso dal branco; ma forse erano i miei occhi estranei, la mia età ormai remota dalla loro, però non ravvisavo nulla che li distinguesse, che li rendesse veri, non dico genuini. Eppure parlavano solo di sé, si specchiavano nei loro video, si selfavano, un continuo viversi addosso senza minimamente preoccuparsi di chi era a fianco, insieme o di fronte. Sconnessi.
Magari è una fase della loro vita, poi cambieranno; magari in mucchio danno il peggio di sé, da soli sono migliori. Però non c’era nulla che facesse vagamente pensare al loro futuro e al loro piccolo passato, alle loro famiglie, ai loro paesi, al mondo circostante; tantomeno alla storia, figuriamoci ai pensieri, alla vita interiore, alle convinzioni. Traspariva la loro ignoranza abissale, cosmica; di tutto, salvo che dell’uso dello smartphone. Anche i loro antenati, mi sono detto, erano ignoranti; ma quella era ignoranza contadina, arcaica e proletaria, carica di umiltà e di fatica, di miseria e di stupore; la loro no, è un’ignoranza supponente e accessoriata, non dovuta a necessità, con una smodata voglia di piacere e vivere al massimo il piacere, totalmente immersi nel momento. Salvo poi cadere negli abissi della depressione, perché sono fragilissimi.
Mi sono detto che i vecchi si lamentano sempre e da sempre dei più giovani, li vedono sempre peggiori di loro e dei loro nonni. Però, credetemi, la sensazione più forte rispetto a loro, era un’estraneità assoluta, marziana: nulla in comune se non il generico essere mortali, bipedi, parlanti. In comune non avevamo più nulla, eccetto i telefonini. Per confortarmi mi sono ricordato di quei rari ragazzi che mi è capitato di conoscere e che smentiscono il cliché: sono riflessivi, pensanti, leggono, studiano con serietà, sanno distinguere il tempo del divertimento dal tempo della conoscenza, hanno curiosità di vita, capiscono l’esistenza di altri mondi e altre generazioni, capaci di intavolare perfino una discussione con chi non appartiene alla loro anagrafe. Però ho il forte timore che siano davvero eccezioni. E mille prove personali e altrui confermano questa impressione. Raccontava un amico che fa incontri nelle scuole che davanti a una platea di trecento ragazzi, chiese loro se leggessero giornali, o addirittura libri, se vedessero qualche telegiornale, se sapessero di alcuni personaggi, non dico storici o i grandi del passato, ma almeno importanti nella nostra epoca. Uno su cento, e poi il silenzio. Hanno perso la loro ultima piazza, il video, ognuno si vede il suo film e la sua serie su netflix o piattaforme equivalenti, segue il suo idolo, ha vita solo social.
Qualunque cosa in chiave politica e sociale, storica o culturale, non li sfiora, non li tocca, non desta il loro minimo interesse. Certo, sono sempre le minoranze a seguire attivamente la realtà o a coltivare una visione del mondo e condividerla con un popolo, un movimento, una comunità. In ogni caso non è “colpa loro”, se sono così. E’ anche colpa nostra; anzi non è questione di colpe. E l’impossibilità di comunicare con loro dipende pure da noi. Però, mi chiedo: cosa sarà tra pochi decenni di tutto il mondo che si è pazientemente e faticosamente costruito lungo i secoli, attraverso scontri, guerre, sacrifici, fede, conoscenza, lavoro, lavoro, lavoro? Nulla, il Nulla. Sono questi i cittadini, gli italiani, di domani? Sono forse diversi, e più nostrani, rispetto agli stranieri extracomunitari che sbarcano da noi a fiumi?
Tabula rasa, zero assoluto, il postumano si realizza anche senza manipolazioni genetiche, robot sostitutivi, intelligenze artificiali e mostri prodotti in laboratorio. Quel treno della notte non portava da un paese a un altro, portava solo nella notte.
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aurozmp · 1 year
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in questo periodo non può andare nulla storto. il lavoro sta andando bene, ho le mie soddisfazioni, ho un’amica che mi ama, ho riallacciato i rapporti con persone che pensavo avessi perso per sempre, ho dei progetti, dei sogni e delle ambizioni. sto facendo sport, mi sto migliorando per quello che posso, vado dal parrucchiere regolarmente e mi prendo cura di me. cerco di mangiare in modo regolare, evito di saltare i pasti e cerco di non mettere delle cose da fare durante le ore di pausa a lavoro. mi concedo i miei caffè, le mie sigarette e qualche drink ma senza esagerare. non ho più voglia di bere come prima, o meglio, ce l’ho ma non mi fa soffocare. i miei genitori non fanno più i segni con l’indelebile alle bottiglie di alcol in dispensa, non annusano i bicchieri nella lavastoviglie e non mi fanno fare più pipì in quei cosi odiosi per fare i test. sto bene. sto bene? io credo di stare bene? eppure c’è qualcosa, anche se insignificante, che mi dice di mollare, che mi dice che non ne vale la pena, che stavo meglio quando tornavo a casa ubriaca o quando mangiavo un pacco di biscotti dopo una settimana che non toccavo cibo per poi vomitarlo per i sensi di colpa. io mi ricordo di te Denise, quando andavamo all’U2 anziché andare a scuola e prendevamo la vodka da 4€ perché entrambe non potevamo permetterci qualcosa di meglio. bevevo ogni giorno, ormai tutto era una scusa per bere, tutto era diventato un pretesto per dire “ma se andiamo lì portiamo da bere?” e quando la risposta era un “no” secco, inevitabilmente dalla mia bocca usciva una falsissima frase che diceva “non me la sento oggi di uscire, facciamo un’altra volta, promesso”. la psichiatra mi ha sempre detto che tutto questo era dovuto alla mia bassa considerazione di me stessa, che non mi vedevo mai abbastanza per essere normale, per essere come tutte le altre persone della mia età. ricordo una sera, ero a letto e stavo al telefono quando all’improvviso ho sentito un vuoto. ho percepito una sensazione simile al cadere dalle scale, al petto che si staccava dal mio corpo e alla testa che nella sua leggerezza era diventata un macigno così pesante da doverla prendere tra le mani per reggerla. mia sorella si precipitò subito a letto e chiamò i miei genitori, poi vuoto più totale. mi ricordo solo mio padre in ambulanza che piangeva mentre parlava al telefono con la mamma, ho fatto dannare così tanto i miei genitori che ora non riesco a guardarli negli occhi senza provare vergogna. quindi ora io mi chiedo: sto bene? che risposta dovrei darmi? come faccio a sapere come sto? mi sembra solo di andare avanti per convenienza, di far finta che tutto quello che sia successo non sia vero, non ho metabolizzato ancora le sgridate di mia madre quando tornavo a momenti senza sensi o come mio padre non mi rivolgeva neanche la parola da quanta vergogna provava nei miei confronti. io devo accettare ciò che ho fatto ma non posso, perché so che quella parte di me non è morta e si può risvegliare da un momento all’altro. sono arrivata alla conclusione che dico di star bene per convincere me stessa di star dicendo la cosa giusta. se sei arrivato/a a leggere fin qui ti meriti un bacino e un abbraccio.
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fee-ling · 18 days
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Odio quando ho la sensazione che la testa stia per esplodere, quando sento che sto per cadere a pezzi e la sensazione è che nessuno sarà in grado di capire.
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thecatcherinthemind · 4 months
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Stamattina mi sono svegliata con una voglia incredibile di piangere, ma non ce l'ho fatta.
Ogni lunedì mi pesa sempre di più in questo lavoro che odio, ma al momento non ho alternativa. Dire ai miei che rinuncio ad uno stipendio per tornare a studiare è una cosa che mi spaventa tantissimo e l'idea di studiare mentre lavoro non è assolutamente accettabile. Non durante questo lavoro. Non riesco a fare capire a nessuno come sto, mi sento tremendamente sola in questa lotta. Sto perdendo la voglia di fare tutto e ho la sensazione di vedere la mia vita dall'alto, come se mi stessi guardando cadere nel burrone senza alcun modo di uscirne.
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-allyouneedis- · 9 months
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Ex abrupto
Dietro a un significato apparentemente banale c'è un abisso.
L'espressione infatti significa semplicemente ''all'improvviso". Ed è così che iniziano spesso i grandi cambiamenti della nostra vita: irrompono nella nostra quotidianità come imprevisto, senza presentazioni.
La sensazione spesso, di fronte all'imprevisto, è quella di cadere, di precipitare nella paura della novità.
Non credo quindi sia un caso che il sostantivo 'abruptum" in latino significhi "precipizio, dirupo". Un abisso appunto, nel quale ci sentiamo trascinati quando le cose ci arrivano addosso, all'improvviso.
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luluemarlene · 5 months
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DANIELE
Questa sera Corso Moncalieri è popolato da un centinaio di auto che corrono verso le proprie autorimesse dopo una piacevole giornata soleggiata.
Mi muovo faticosamente in mezzo al traffico, disturbato dall'ennesima occasione persa di arrivare puntuale al luogo dell'appuntamento. Mi accompagna fin dalla partenza una inaspettata erezione.
Non ho mai visto prima
d'ora Marlene, credo che l'erezione arrivi direttamente dal mio inconscio.
Finalmente arrivo nel luogo prestabilito. Sento il mio nome vibrare nell'aria, vedo una donna poco distante.
E' lei, riconosco quella frangetta distinta che avevo già visto nelle sue fotografie. Ci scambiamo i soliti inutili baci di rito. I suoi occhi ed il suo sguardo sono pietrificanti, hanno una profondità difficile da descrivere.
Ci sentivamo da alcune settimane. Marlene non era convinta di volermi incontrare, avevo già tentato di approcciarla mesi addietro, ma non c'era stato verso.
Qualcosa però mi spingeva incessantemente verso di lei, qualcosa di intimo. Questa volta sono riuscito a trovare una piccola breccia fra le maglie della sua armatura.
Seduti ad un tavolino nella terrazza di un bar lasciamo che le nostre menti si intreccino. Sento una piacevole sensazione di accoglienza. Posso lasciar cadere la mia maschera ed abbandonarmi a lei, ai suoi occhi. I nostri visi sono a poca distanza l'uno dall'altro, provo una sensazione di totale abbandono, ha catturato il mio sguardo, non riesco e non voglio uscire da questa bellezza. E' l'infinito.
Marlene si avvicina al mio viso e mi bacia. Ciò che sento in questo momento è simile a quella sensazione che precede un orgasmo.
Ci allontaniamo e in pochi secondi siamo avvinghiati l'un l'altro. - sono senza mutandine.
Non mente. Apriamo la porta posteriore dell'auto, Marlene si stende sul sedile.
Indossa una lunga gonna e stivali di pelle nera. Non riesco a distogliere lo sguardo dai suoi occhi e quasi non mi accorgo che si sta masturbando. Avvicino la lingua alle labbra della sua fica e mi abbandono a lei, ai suoi umori. - voglio succhiarlo.
Slaccia i miei pantaloni e ingloba il mio cazzo fra le sue labbra. Lo succhia con foga, senza risparmiarne un solo
lembo di pelle.
Sono tremendamente eccitato, il mio cazzo era duro ormai da ore.
- mi hai sborrato direttamente in gola! Non riesco a ribattere immediatamente alla sua affermazione, rimango in silenzio per alcuni
secondi.
- scusami, avrei dovuto avvisarti. - non è necessario, avrei solo voluto un pò di sborra sulla mia pelle.
Nel frattempo ha ripreso a masturbarsi. Ho ancora voglia di lei, cerco il suo corpo.
Alzando lo sguardo mi rendo conto di essere nel bel mezzo di un parcheggio di corso Casale, praticamente in centro.
La mia mente era su di una spiaggia deserta.
Decido che è il momento di richiudere la patta dei miei pantaloni. Ci salutiamo dolcemente.
Marlene è un fiore raro.
Uno di quei fiori che non devono essere raccolti, nascosti nei meandri di una foresta umida, che si schiudono quando la mente si abbandona all'irrazionalità e le maschere svaniscono.
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susieporta · 3 months
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Sei di Denari.
"E se il Mondo fosse a colori?".
Le Energie di chiusura non sono semplici da affrontare.
Smettere di soffrire per il Passato non è una decisione della Mente. E' un processo delicato e profondo. Che richiede coraggio e volontà, perseveranza e amore.
Scegliere di stare bene, di riaccendere la fiamma del Cuore, riportare il sereno e il colore nella propria Esistenza, non avviene per una scelta ragionata.
Fosse così semplice avremmo già risolto le pene di un'intera Umanità spezzata.
Il motore del Cambiamento è una scintilla. Una scossa elettrica che attraversa fulminea tutta la schiena. Un bagliore interiore che mette fine all'immobilità.
Accade quando il nostro Sistema giunge ad un atto di morte e, nella paura di negare definitivamente se stesso, sceglie con un balzo di riappropriarsi della Vita.
E da quell'attimo così folgorante ed imprevedibile, si avvia l'avventura più straordinaria che un incarnato possa vivere: la Rinascita.
Con alti e bassi, piccoli traguardi e grandi cadute, momenti di esaltazione seguiti da sensazioni di intollerabile perdita.
Poi arriva la Fine.
E noi ci eravamo talmente abituati a stare dentro la perenne sensazione di "montagne russe", che fermarsi è dura.
Ci sembra di non aver fatto abbastanza. Di dover fare di più. Di avere necessità di sistemare ancora mille cassetti disordinati.
L'illusione del controllo.
Non è la "perfezione" il fine della Rinascita.
Ma la bonifica di un appezzamento lasciato incolto e abbandonato a se stesso, la semplice predisposizione di una terra sufficientemente nutriente e concimata per accogliere nuove piantine e consentirne la lenta e progressiva fioritura e maturazione.
Non sparirà il dolore dalle nostre Vite.
O perlomeno non in questa fase transitoria.
Ma sarà gestito e affrontato con gli strumenti della consapevolezza.
E non tornerà certo per dirci che siamo "sbagliati" o che non siamo degni protagonisti dell'Evoluzione.
Ma per ricordarci di riassestare il timone ogni tanto. Di mantenere ferma la rotta, soprattutto quando il mare sembra essere in procinto di accogliere tempesta.
Le "Emozioni" non sono nemici da negare, evitare, domare o nascondere.
Sono Carne e Sangue.
Sono patrimonio inestimabile dell'Essere Umano.
Sono preziose.
E coloro che vorrebbero assoggettare il collettivo, ne usano l'appiattimento per dominare e imporre il loro potere, per manipolare, per portare spegnimento e assenza.
Lo Spirito ora si fa Materia.
Il potere Divino si fa Uomo. Entra nella Carne. La rivitalizza.
L'Atto creativo si rende virtù dell'Umano Cosciente.
E si muove attraverso il grande mistero della Vita, si risolve dentro la sua immensa abbondanza, nella variopinta e complessa tavolozza dei sentimenti e delle emozioni.
In un arcobaleno di infinite tonalità di colore.
Non stiamo chiudendo con il dolore.
Lo stiamo inserendo tra le innumerevoli sfumature dell'Esistere.
Stiamo dipingendo un nuovo quadro.
Utilizzando con sapienza e ispirazione tutte le tonalità possibili, senza automatismi sterili, senza la rabbia di non essere compresi, incapaci, impotenti.
Senza la tanto temuta "sindrome del foglio bianco".
Stiamo esprimendo la Grazia Divina in un Mondo reale, concreto, presente.
Chiudere con il mondo grigio del Passato significa imprimere Passione, risvegliare i sensi, dare voce all'Anima, radicare la piena Presenza senza più paura di essere feriti o di ferire.
Un traguardo dalle mille sfumature e profumi.
Complesso. Certo.
Come complesso è l'Animo umano.
Ma è proprio questo il bello: appassionarsi alla complessità.
Uscire dallo stato vegetativo e sperimentare con ardore e curiosità il proprio potenziale, l'innato talento creativo, la capacità di amare e di essere amati, di rispettare l'Altro e di essere rispettati, di collaborare, di viaggiare, di costruire, di espandere.
Tutto.
Tutto insieme.
Senza timore di sbagliare o cadere.
Accadrà. Cadremo ancora.
Ma anche questo sarà Vita.
E ameremo quella caduta con tutto il Cuore, senza drammi, senza giudizio, senza colpe, senza vergogna.
Febbraio ci vuole passionali.
Non rabbiosi. Non rivendicativi. Non spenti o recriminanti.
Passionali.
Forza! E' tempo di spostarci dalla fossa degli zombie.
La Vita chiama a gran voce!
Non facciamola aspettare!
Mirtilla Esmeralda
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lunamagicablu · 1 year
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Siedi in silenzio e medita sul fatto che non hai confini, i tuoi limiti sono i limiti dell'universo.
Sentiti espandere e in questa sensazione includi ogni cosa: il sole sorge dentro di te, le stelle si muovono dentro di te, gli alberi crescono e i pianeti appaiono e scompaiono in questo stato di consapevolezza espanso sentiti immensamente beato.
Quella diventerà la tua meditazione. Quindi ogni volta che hai tempo e non hai nulla da fare, siedi semplicemente in silenzio e sentiti espanso. Lascia cadere i tuoi limiti. Trascendi ogni limite.
All'inizio, per qualche giorno, sembrerà una follia, perché ci siamo troppo abituati ai nostri limiti. In realtà non ci sono confini.
Il limite è un limite mentale. È tale perché noi crediamo che sia così.
Percepisci questa espansione oceanica il più spesso possibile e presto entrerai in sintonia.
A quel punto basterà un piccolo mutamento di prospettiva per far apparire quell' armonia. Ogni sera, quando vai a letto, addormentati in questa consapevolezza espansa.
Addormentati come se le stelle si muovessero dentro di te, come se il mondo aprisse e scomparisse dentro di te.
Addormentati come fossi l'universo. AI mattino, non appena ti accorgi che il sonno se ne è andato, di nuovo ricorda questa espansione, alzati come fossi l'universo. E anche durante il giorno, ricordalo il più spesso possibile.
Osho da Il libro arancione art by Vixenn69 ********************** Sit in silence and meditate that you have no boundaries, your limits are the limits of the universe.
Feel yourself expanding and in this sensation include everything: the sun rises within you, the stars move within you, the trees grow and the planets appear and disappear in this state of expanded awareness feel immensely blissful.
That will become your meditation. So whenever you have time and nothing to do, just sit in silence and feel expanded. Drop your limits. Transcend all limits.
At first, for a few days, it will seem crazy, because we have become too used to our limitations. There are actually no borders.
The limit is a mental limit. It is such because we believe it to be so.
Feel this oceanic expansion as often as possible and you will soon connect.
At that point, a small change of perspective will be enough for that harmony to appear. Every night when you go to bed, fall asleep in this expanded awareness.
Fall asleep as if the stars move inside you, as if the world opens and disappears inside you.
Fall asleep like you are the universe. In the morning, as soon as you feel sleep is gone, again remember this expansion, rise as if you were the universe. And even during the day, remember this as often as possible.
Osho from The Orange Book art by Vixenn69 
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elorenz · 2 months
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Come accade spesso la mente mi riporta a certi testi. Testi in cui le persone funzionano come un unico organismo, con le sue meccaniche complesse ma ben organizzate, con primo scopo l'uguaglianza e la lotta ai potenti, col sentimento comune del sentirsi nella stessa barca a remare in eguale direzione verso diritti vivi ed umani. Solo le persone sanno parlare con le persone. La canzone di John Lennon inizia con una frase tanto vera quanto dimenticata, una realistica visione purtroppo superata dal progresso e dalla vita agiata che hanno lasciato cadere il senso umano elevando il solo consumo di superfluità. Forse un tempo c'era un senso di comune disagio che muoveva le persone all'unione; persone che come uno scudo si proteggevano tra di loro contro i potenti. Ma questa bella sensazione di uguaglianza è morta sotto strati di contanti, decapitata dalla ghigliottina dell'impatto mediatico e dal fatto che ormai, visti i tempi che corrono, ognuno può nascondersi dietro ad uno schermo. Al tempo bastava una sola canzone a muovere le persone; un testo, un gesto, un profondo amore oppure una figura come John che, abbandonati i Beatles, aveva accolto tra le sue ali la mentalità della gente comune elevandola oltre il ruolo che la società gli imponeva. Tutto morto. Cancellato dalla superficialità di cose materiali sempre a portata di mano.
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ricorditempestosi · 1 year
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quella sensazione orribile di cadere nel vuoto mentre dormi è una delle cose che non auguro a nessuno
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pioggiadifarfalle · 1 year
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Ho come la sensazione che la vita faccia cadere pezzi di me ovunque e io sono lì, chinata a terra, che cerco disperatamente di prendere i cocci prima che vadano in frantumi
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imponderabile · 1 year
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ho 23 anni, ed ho ancora la sensazione di star sempre camminando sul bordo di un precipizio, come se bastasse un solo soffio leggero per farmi cadere e distruggermi completamente. non mi sento pronta a crescere, a creare qualcosa o diventare qualcuno sempre per colpa di questa immensa fragilità che indosso e sento sempre il rischio di spezzarmi al minimo urto del mondo. guardo intorno a me le persone che corrono veloci, puntano ad obiettivi e costruiscono strade, poi guardo me che sto appena imparando a camminare perché ogni passo mi sembra sempre ondivago e nefasto. dovrei studiare di più, lavorare di più, muovermi di più, dormire di più, sorridere di più, riflettere di più, ma nella mia vita non mi sono sentita un più, ma un infinito negativo sempre tendente a zero. ho paura, ho ansia, angoscia se penso a quello non posso diventare o creare e non ho mai avuto sogni nella vita perché ho sempre sentito di non avere il permesso di detenerne almeno uno. quand’è che inizierò a farmi bastare quello sono?
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~ Arsenico ~
Le cantine possono essere posti pericolosissimi. Pieni di insidie. Specialmente se si è disordinati ed accumulatori cronici. Se non si fa attenzione si rischia di inciampare o che qualcosa, in bilico, possa cadere e colpirti. Anche metaforicamente parlando.
Avanzo perciò con la massima cautela nel caos generale, con l'intento di uscire di lì con il testo di economia che mi serve, il corpo incolume e la volontà intatta di riordinare quel porchitorio con due euro di benzina. Tra scatole e scatoloni, impilati a cavolo, ne intravedo uno con la scritta "Libri". Bingo. Pensavo peggio dai. Pesa da cani ma riesco a trascinarlo fuori dal mucchio. Quel che resta dello scotch da imballo viene via quasi spontaneamente tant'è deteriorato, con sommo gaudio del mio semipermanente fresco di estetista. Apro con la dovuta circospezione: questo scatolo è qui da tempo immemore, niente di difficile che spunti fuori qualche odiosa sorpresina zamputa. Con estremo disappunto mi rendo conto che non sono i testi scolastici che cercavo, ma libri da lettura. Eppure avevo fatto piazza pulita di questa roba decenni fa... Con svariati bps di ritardo rispetto al mio stomaco, che s'è già stretto in una morsa, il mio cervello realizza di cosa si tratta: sono "i libri". Quelli dei quali non riuscivo a separarmi. Quelli regalati, letti insieme da vicino o da lontano. Quelli con le frasi sottolineate. Quelli che fumiamoci una Philips Morris sopra. Come fa strano vederli adesso, ingialliti dal tempo e dall'umidità.
Una persona più intelligente avrebbe richiuso la scatola in un nanosecondo. Ma io, no... Per la serie "facciamoci male" ne pesco uno a caso. 1984. Ricordo e sorrido. Apro e sulla parte interna della copertina ci sono tre dediche. La sua calligrafia. "Tuo Alex" scriveva. Mio, sticazzi eh. Come fa ridere adesso, con un paio di decenni e più di senno di poi. Chissà, forse anche lui, come me, ha continuato a pensarmi e a ricordarmi, conservando gelosamente in una sorta di sancta santorum della mente tutto di noi. Allora quel "tuo" avrebbe ancora un senso, perché una parte di lui è rimasta mia. Lo porto al viso nell'assurda speranza che un po' del suo profumo sia rimasto nel libro. Ne spruzzava sempre un bel po' tra le pagine dei libri che mi spediva. Li infestava letteralmente di Paco Rabanne. Niente. Sfoglio a vuoto senza soffermarmi su niente, arrivando al retro della copertina. C'è qualcosa scritto di mio pugno stavolta: un numero di cellulare.
Si sblocca un cluster sovrascritto nel cervello e lo riconosco. Immediata sensazione di ferita da arma da fuoco al centro del petto. Lo avevo perso, perso definitivamente quando mi avevano rubato il cellulare più o meno vent'anni fa. È passato troppo tempo, cioè voglio dire, la probabilità che sia ancora il suo numero è al lumicino. Poi penso... hai visto mai... anch'io ho lo stesso numero da trent'anni. Adesso una persona intelligente avrebbe fatto finta di niente, riposto il libro nello scatolo coperto e allineato agli altri, gettata la chiave del garage nel tombino e se ne sarebbe andata buona buona a fanculo. Ma io, no no... Per la serie "facciamoci del male - seconda stagione", ho già il cellulare in mano e sto memorizzando quel numero in rubrica sotto un nome improbabile. Non contenta, vado su whatsapp e lo cerco. Visualizza contatto. Ingrandisco la foto profilo. La ferita da arma da fuoco sanguina che è una meraviglia. Lui, con berretto e occhiali da sole, oggi come allora. Le sue braccia, sempre perfette, sono coperte di tatuaggi che un tempo non c'erano. Ne aveva solo uno ai nostri tempi, che poteva arrivare a vedere solo chi era molto intimo. Chino di profilo, espressione neutra, concentrata, mentre fa, o tenta di fare, la coda ai capelli di una bambina. Indossa anche lei occhiali da sole ed ha lo stesso naso e la stessa identica bocca di lui. È bellissima. Mi assale un brivido. Ripenso a quando diceva che non si sentiva in grado di essere un padre, che era uno stronzo, che non aveva niente da dare, e invece eccolo lì. E io per questo non gli ho mai detto che, a volte, invece fantasticavo su come poteva essere una figlia nostra. Chissà perché la immaginavo sempre femmina. Forse perché le femmine, quasi sempre, patrizzano. In uno dei suoi tatuaggi, che prende quasi tutto l'avambraccio, si legge chiaramente Giada.
Chiudo la foto e mi sposto nei cosiddetti "stati", ma non mi appare nulla. O non ne pubblica o, come vuole ma regola, non li posso vedere perché non ha anche lui il mio numero memorizzato. Si forma un nodo in gola. Mi bruciano le guance per quanto mi sento ridicola ad averlo anche solo pensato. Ovvio che mi ha cancellata. Anni e anni senza un minimo accenno di contatto. Mica sono tutti patetici come me. Ovvio.
Torno indietro e mi concentro sulla frase nelle info: "Che dolore dentro me quando piove e non stai con me". Uhm, non mi suona, decisamente non è il suo modo di scrivere questo, sarà una citazione. Copio e incollo su Google: vai bello, trovala! Detto fatto: come volevasi dimostrare, la frase è tratta da una canzone.
Arsenico
"Sigarette di plastica
vodka dentro una tanica
io non so più di te (non so più di te)
... che dolore dentro me
quando piove e tu non stai con me
...cicatrici di Venere
sul mio cuore di cenere
io non so più di te (non so più di te)
ma che dolore c'è
...spilla qui le tue lacrime
non cancellare le dediche
io non so più di te (non so più di te)
ma che dolore c'è
... io non dimentico
siamo stati un oceano
stelle che poi si infrangono
sugli scogli della tua costa nuda
io non dimentico..."
Resto imbambolata per un tempo che non saprei quantificare. Il mio stomaco è un reattore nucleare. Mi si sono rizzati anche i peli dietro al collo. Nella testa tutto e niente. Se avesse avuto un display sono sicura che avrei visualizzato il messaggio "L'applicazione cervello non risponde. Memoria insufficiente per completare l'operazione richiesta. Si prega di arrestare processi e riavviare." Immagini stroboscopiche. No. Non è. Non può essere. O forse sì? Tira il freno a mano e metti a folle ciccia. Respira. Brava così. Stai solo vedendo quello che vuoi vedere. Chissà per chi è quella canzone, a chi pensava. Stupidissima me, ancora una volta.
La chat è aperta. Il cursore lampeggia al ritmo del cuore che sento rimbombarmi nelle orecchie. Che voglia di mandargli la foto della dedica dove mi chiedeva di conservare il suo libro per sempre, scrivendogli che ho mantenuto la promessa, io. Come tante altre, io. E raccontargli tutto quello che è successo dopo noi, di come la collisione con la sua vita ha cambiato irreversibilmente la traiettoria della mia. Di cosa non ho fatto nel tentativo di dimenticarlo. Quante stronzate, che hanno gettato solo acqua bollente sulle bruciature del mio cuore. Le notti a bere lacrime fino ad ubriacarmi, le risse tra me e la disperazione, la malinconia, l'orgoglio e la voglia. La voglia di mettermi in macchina, e viaggiare per ore nella notte, solo per vederlo un'ultima volta ancora. Vedere quel ghigno perverso un'ultima volta ancora. Vedere i suoi occhi scuri un'ultima volta ancora. Stringerlo a me, forte, fortissimo, respirando il suo odore un'ultima volta ancora. E poi fargli quella domanda, che da allora mi scava dentro: perché. Perché? Senza una parola, dopo tutto quel fottuto tutto che c'era stato. Senza un addio che mi liberasse. Una spiegazione, almeno una cazzo di spiegazione, pure farfugliata, me la meritavo. O forse avrei dovuto avere le palle di andarmela a prendere veramente, costringendolo a dirmela guardandomi in faccia. Io? Questo dovevo? Ma poi sarei stata uguale a tutti gli altri, a tutti gli altri che nella vita lo hanno sempre "costretto a". Epperò, ke cazz!
Mi sento tirare per le orecchie dall'orgoglio. Siamo donne o caporali? Basta così, riprendiamoci. Mi alzo e mi sento come se mi avesse investita un autobus. Rimetto il cellulare in tasca giusto un attimo prima che arrivi mio marito.
- "Hey ma ti sei persa quaggiù?".
Oh, cazzo sì. Non sai quanto. Persa completamente.
- "Hai trovato almeno il libro?"
- "Ehm... No."
- "E quello?"
Stringo il libro a me, come se volessi difenderlo, proteggerlo.
- "No, niente, un vecchio romanzo... Lo voglio rileggere"
- "Pure! non ti bastano quelli che già hai sopra?"
- "No, questo è più bello".
Lo liquido definitivamente facendo spallucce.
- "Ok. Dai lascia stare, è inutile. Ormai è andato, chissà dov'è. È una bella giornata. Ce jamm 'a pigliá nu bell café?"
Ma di che parla?!!! Ah, il libro che cercavo. Ormai è andato. Magari fosse... È sempre qui, dentro, intorno a me, ovunque mi trovo, notte, giorno, da un paio di decenni, forse più, a questa parte. Il mio pensiero fisso collaterale. L'assenza più presente mai percepita. Maledetto.
- "Eh sì, jammuncenn!".
In fondo cos'altro posso fare se non continuare ad andare avanti? Mi ripeto mentalmente. Questo ho sempre fatto, imperterrita, granitica, nessuno ha mai saputo, nessuno potrebbe immaginare cosa mi consuma dentro. La mia vita è qui e un bel caffè sicuramente mi aiuterà a togliere questo gusto amaro, questo "arsenico" dalla bocca. Peccato solo che ho smesso di fumare... adesso ci voleva proprio una cazzo di Philips Morris Blu... chissà se esistono ancora le 100's.
Penso questo, mentre camminando mi assicuro ancora una volta che il cellulare sia in tasca, al sicuro, più per quello che adesso contiene che per il resto. Non si può mai sapere. Sento gli applausi a scena aperta di tutti i miei tormenti. Eh sì. Sono un caso perso.
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