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#troppi inutili poeti
iannozzigiuseppe · 1 year
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La letteratura non salva nessuno
La letteratura non salva nessuno di Giuseppe Iannozzi Scrivere è arte quando ci si impegna a riscrivere tagliando e limando lo scritto; talvolta potrebbe essere necessario aggiungere dei particolari. A scrivere di getto sono buoni tutti, o quasi. Limare un lavoro è invece un’arte difficile che richiede tanta pazienza e disciplina. Scrivere di getto una storia è cosa che viene facile: ma quanti e…
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davidemorelli · 4 years
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Alcune poesie di Davide Morelli:
da Cuore improduttivo
Le cose
Le cose possono significare sempre qualcosa di nuovo o ricordarci qualcosa di vecchio. Noi non possiamo significare niente di niente per le cose. Possono essere utili o inutili. Possono funzionare o meno. Noi possiamo anche romperle. Noi possiamo addirittura distruggerle, ma anche loro possono ferirci a morte. Noi le usiamo, le ammiriamo. Dopo poco spesso ci annoiano. Siamo legati a loro dai gesti. Talvolta usiamo gli altri come cose o ci lasciamo usare come cose. Loro non hanno alcuna colpa. Non sono che materia inanimata. L’io si illude di relazionarsi. Tutto parte e finisce nell’io. Un giorno ci congederemo da esse. Loro sono indifferenti ed eterne. Le cose continuano a esistere, a sopportare tutto questo male: a tollerare il male del mondo. Dirò di più: loro sono il mondo.
Trasloco
Nel trasloco ho buttato via mille libri perché erano sottolineati e non potevo darli alla biblioteca. Dovevo sbarazzarmene soltanto. Non potevo fare altrimenti. Un giorno anche noi saremo superflui, ingombranti o comunque sottolineati dalla vita. Non ci sarà rimedio alcuno allora per noi.
Vivi e morti
Le parole dei poeti morti sono scolpite nell’eternità. e parole dei poeti morti sono degli oboli dal cielo. Cercate di voler bene anche ai dilettanti e ai mestieranti, che sono ancora vivi. Scusateci se le nostre parole sono approssimative e transitorie. Le parole dei vivi sono testimoni del mondo e ricompongono il presente.
Frammenti
I trapassati distillano il rosso dei tramonti. Il ricavato lo offrono a piccoli sorsi agli angeli. Il sole non parla più alle statue nei solai. Ora i solai sono chiusi e le statue distrutte. I muri ascoltano in silenzio i nostri battiti. La lascio a te questa vita così precisa. Io ne voglio una più randagia. Gli atomi della mia psiche non sono che attimi di vita vissuta e immaginata. Non preoccuparti per me. Sono atomi psichici che godono di vita propria. Le cose più belle sono quelle che sto facendo e che farò. Se penserò altro te lo dirò.
Cuore improduttivo
Oggi bisogna essere presentabili, avere esperienza e avere una funzione. Questo chiede la società. Questo chiede il mondo. Il mio cuore improduttivo assomiglia sempre più ad una fabbrica dismessa, fallita, abbandonata nel cui cortile è cresciuta l’erbaccia. La mia testa è un guscio vuoto. Troppi sono i cuori improduttivi. Troppe le fabbriche abbandonate e i negozi chiusi. Ma il mondo continua imperterrito. Miete altre vittime. Celebra altri eroi. Va avanti comunque anche senza noi.
Fata Morgana
Vado avanti e indietro per la stanza. Nella fattispecie mi appuntello alle radiazioni delle stelle, al profilo della luna. Ogni punto di vista deforma la verità e la tramuta in una realtà. La mente più aguzza si lascia ingannare da Fata Morgana. Nell’immaginario prende corpo il fantasmatico. Se il passato ritorna a riva le parole faranno da frangiflutti per il mio porto.
Aspettare
Ad una certa età non si può certo mettersi a piangere o ad urlare. Bisogna saper aspettare. Bisogna saper tergiversare. Perché dico noi e non dico io? Ogni riferimento è puramente causale. Bisogna armarsi di pazienza. Bisogna solo aspettare in silenzio. Bisogna aspettare che passi la crisi, che passi la tempesta, che venga superata la bufera. Insomma bisogna aspettare. Aspettiamo anche una idea: una idea piccola piccola che ci cambi la vita. Ma è tutta la vita che aspettiamo… Sappiamo bene che con Dio si gioca a carte scoperte.
Polvere
Il mormorio del fiume. Il sibilo del vento a cui gli steli si inchinano. Siamo al guado dell’Era. Siamo al ponte della ferrovia. Un tempo camminavamo in prossimità di un’ansa dell’Arno. Se a volte cercate la comunione tra vivi e morti non c’è bisogno di un medium. Basta passeggiare in campagna in un giorno di vento. Basta che il vento vi faccia respirare la polvere. Niente altro che questo.
Le mie parole
Dicono che le mie parole spesso abbiamo fatto male. Ma era solo qualche espressione triviale, che risultò preterintenzionale. In fondo esco dal seminato in via del tutto eccezionale. La verità è che soffro solo di incontinenza verbale. Non c’è alcun rimedio. Perciò non pensate male.
Qui
Cipressi, ulivi, canneti sono ricorrenti qui. Sulle colline vegliano le nuvole. Gli stormi si inabissano nel cielo
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pangeanews · 4 years
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Benjamin Fondane, l’uomo che ha scotennato i filosofi
Il viso sembra acquisire una personalità diversa a seconda dello squarcio da cui lo si scruta. Ciò che resta sono gli zigomi, il naso, insomma: è un viso sfuggente ma a cui non si sfugge. In una fotografia di Man Ray, il filosofo – o meglio, l’uomo, dacché siamo nel gergo dell’inafferrabile – che si chiama Benjamin Fondane – nato Wechsler o Vecsler che dir si voglia, diventò Fundoianu e poi Fondane, in un groviglio di identità che perfezionano l’assoluta individualità di BF – mira, con vigore di severità, la propria testa, che si eleva dalle mani poste a tazza. Il gioco di prestigio fotografico non ha alcuna patina da esteta – il tizio che ammira se stesso – ma una disciplina raddoppiata – misuro quanto il mio corpo sia gemella al mio pensiero.
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Il pensiero di Fondane non edifica, intendo, un corpus filosofico: è, semplicemente, corpo, carne, parola vivente, idea biologica. Lo dice Cioran, che installa Fondane tra gli Esercizi di ammirazione. “Il volto più solcato, più scavato che si possa immaginare, un volto dalle rughe millenarie, ma in nessun modo irrigidite perché animate dal tormento più contagioso ed esplosivo. Non mi saziavo di contemplarle. Mai avevo veduto prima un tale accordo tra l’apparire e il dire, tra la fisionomia e la parola. Mi e impossibile pensare alla minima frase di Fondane senza percepire immediatamente la presenza imperiosa dei suoi tratti”. Coincidenza tra corpo e parola, appunto.
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Di Fondane, filosofo dell’oltranza e dell’abisso, del non ritorno e della sfida, abbiamo in Italia libri fondamentali – grazie alla cura dedita di Luca Orlandini – ma forse non se ne è compresa la fondamentale importanza. Fondane oppone il pensare – cioè: il vivere – poeticamente alla speculazione, l’estro all’accademia, l’esasperazione e l’estasi alle interpretazioni, ai sussulti dei semiologi, alle litanie degli esistenzialisti. Nel Falso Trattato di estetica (1938, per Denoël, l’editore che in quegli anni pubblicava Céline e Artaud; 2014 per Mucchi Editore, cura e traduzione di Luca Orlandini) Fondane lancia ai poeti – egli stesso poeta, per altro – il monito: “Ma come possono dei poeti che pagano un tributo alla dialettica, avere il coraggio di osare imporre quello che il pensiero poetico e le sue stesse strutture richiedono formalmente? Ovvero: il totale abbandono del pensiero aristotelico-cartesiano, il ritorno alla follia, ai pregiudizi, alle superstizioni e all’assurdo?”.
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Incrocio due dati. Il primo è una memoria, a posteriori – lo scritto è del 1975 – di Mircea Eliade su Fondane. “Mi sono ricordato… di quella notte dell’autunno del 1943, quando cenammo da B. Fondane con Lupasco, Lică Cracanera e Cioran. Fu la prima e l’ultima volta che incontrai Fondane. Abitava nascosto assieme alla sorella, e vedeva solo pochissimi amici”. Il nascondimento pare un carisma di Fondane: pur volutamente ‘di lato’ è stato al centro del pensiero europeo. Il 7 marzo del 1944 è arrestato insieme alla sorella dalla polizia francese, è l’era di Vichy. Gli amici premono per la liberazione di Fondane, che accade: ma l’uomo va fino in fondo, appunto, non vuole lasciare la sorella – che lo sterminio sia esperienza, esperanto dell’orrore. Internato ad Auschwitz, muore, il 2 o 3 ottobre, in una camera a gas. Appunto, Fondane è il filosofo inimitabile, eletto all’elusione, che si legge riconoscendogli una esclusività che brucia. Egli è ‘al centro’: nato a Iasi, nella Moldavia rumena, nel 1898, a Parigi dal 1923, è il discepolo di Lev Sestov, frequenta Tristan Tzara, si avvicina al Surrealismo, resta, sostanzialmente in una catartica, carnefice solitudine. È invitato in Argentina da Victoria Ocampo, a cui consegnerà, nel 1939, il manoscritto delle conversazioni con Sestov (in Italia tradotto come In dialogo con Lev Sestov. Conversazioni e carteggio, Aragno, 2017, libro di fulgida bellezza), conosce Artaud e Martin Buber, frequenta Cioran, scrive di Rimbaud – Rimbaud, la canaglia, 1930; Castelvecchi, 2014 – e soprattutto il libro fondamentale, quello su Baudelaire – uscito postumo, nel 1947; come Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, Aragno 2013.
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La centralità di Fondane: nella scrittura muscolare, biologica, stratificata, come un allevamento di pitoni, in picchiata, bisogna leggere armati di biro (“Solo l’impurità conserva, ancora e malgrado tutto, l’attrattiva del doppio polo del sacro, la seduzione e il terrore”), inseguendo quest’uomo in corsa, che scrive vivendo, cioè in caduta libera. “Mi attende un battello da qualche parte (perché un battello? Sarebbe troppo lungo da spiegare). E un paese, da dove non potrò granché correggere bozze, o scrivere prefazioni, né assistere all’uscita del libro, né udire le grida di terrore di fronte al cataclisma che avrò scatenato, sia per le mie idee, o per i miei errori d’ortografia, di grammatica, per le anfibologie, o ancora, chissà, per il solo fatto di essere nato. L’errore non è mio. Non ho creato io quest’epoca e le sue miserie, le sue peripezie, i suoi disordini, la sua trama aggrovigliata, nella quale io stesso mi perdo e di cui così poco comprendo”, scrive Fondane nella nota ad esordio del Baudelaire, “Addio Francia! Scriverò la prefazione un’altra volta”. Fuga, battelli ebbri, ebbrezza, banditismo, errore ed erranza, lo sgarbo grammaticale come maceria di stile, cicatrice d’aggettivi, la miseria a mo’ di località e di danza. Baloccatevi ancora con Bataille, Blanchot, Barthes, tutti eccelsi – ma non eccezioni – e infine consolatori. Fondane condanna la nostra codardia.
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Di famiglia ebraica, escono ora di Fondane gli “Scritti sull’ebraismo”, per Giuntina (a cura di Francesco Testa e Luca Orlandini), come Tra Gerusalemme e Atene – titolo che gioca scassinando il saggio di Sestov, Atene e Gerusalemme. Il libro, come dire, funziona come primo gradino per entrare nel ‘tempio’ filosofico di Fondane: è un talamo intimo, questo, soprattutto nei testi giovanili, usciti su riviste rumene. La gita Nel cimitero ebraico di Iasi, “di fronte alle lapidi inclinate, tra cui esala la terra, i passeri tra i salici sillabano gli epitaffi balbettando”, commuove. Il vagabondaggio, a ridare memoria ai morti, si compie al fianco di “un ebreo anziano” (“accompagno il vecchio affinché mi faccia scoprire qualche lapide dimenticata, per amore della definizione”), sfocia al cospetto della tomba del padre. “Evoco mio padre con poche linee, come un disegnatore. Penso a lui e cerco un evento triste per poter piangere. Ma forse ce ne sono troppi. Tutti”. L’articolo è del 1920, ed è in questo candore (e clangore), credo, il preludio al Fondane più complesso e involuto, il filosofo che ustiona, il figlio del Minotauro.
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La porzione su Franz Kafka è tratta dal Baudelaire, ricalcata nel libro Giuntina, ha micidiale indipendenza: “tra le esperienze religiose del nostro secolo non ne esiste una più curiosa, più straziante, più nuda – e per certi aspetti così vicina a quella di Baudelaire – dell’esperienza di Kafka”. Una lettera di Geneviève Tissier, moglie di Fondane dal 1931, a Jean Ballard, racconta l’indole del pensatore, solito dire, “Se Hitler sapesse che esisto, mi farebbe arrestare… Dobbiamo sopportare tutto questo come una prova di ascetismo”. Eccolo: “Battendo in ritirata, in mezzo alla folla di rifugiati, vetture, soldati e cavalli morti, il Fondane soldato trova, tra le ricchezze di pellicce, calze di seta, gioielli perduti dalle auto in fuga… un Pascal. Lo raccoglie. E vediamo questo strano soldato sfinito dal caldo e dalla fatica, appesantito da un equipaggiamento e da una riserva di munizioni tanto ingombranti quanto inutili, battere in ritirata, oltrepassare oltre i cavalli morti e la moltitudine di oggetti, preso dal suo Pascal, che legge con passione”. Riconoscere l’essenziale nell’assenza, nella morte.
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Penso al poema di Fondane, Ulysse, a cui lavora per oltre un decennio. Che non ci sia chiara l’importanza di questo artista – se lo fosse, saremmo ancora così tranquilli, così monaci al frumento della frustrazione quotidiana? – è ovvio perfino a Wikipedia: la nota di Fondane in inglese è sontuosa, articolata, lunghissima, come quella francese; in Italia ne abbiamo, al confronto, lo sputo, uno spuntino.
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Luca Orlandini mi segnala questa frase di Fondane, un sasso contro i filosofi in teca: “Ogni filosofia non è che un consiglio alla rassegnazione… Esprimere il raccapricciante, l’orribile, senza disprezzarlo e un atto che va oltre la nostra idea di ‘sincerità’”.
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Certamente, Fondane turba perché tempesta di bestie la nostra testa. Ci obbliga a trasmutare sguardo, via, vita, ci scaglia addosso muta e mutamento. “Sosteniamo dunque che l’uomo, contro i suoi bisogni naturali, i suoi ‘dati’ intimi, biologici e metafisici, abbia concesso un potere sovrannaturale al sapere, alle idee chiare e distinte, alla necessità – in una parola: all’infelicità che, sotto il nome di ‘principio di realtà’, si è impossessata del suo spirito e non smette di comandarlo. Idealisti, razionalisti, scettici, materialisti e perfino cristiani – tutto un mondo si è inginocchiato davanti al principio di realtà, adottandolo come unico criterio dell’esperienza e come sola fonte delle evidenze umane”. D’altronde, Fondane sa che “l’uomo è più grande, più terribile, più allucinante quando pone delle domande, tuttavia, le risposte sono in genere stupide, tristi ed evasive, come se l’uomo non fosse fatto per dare risposte – come se la risposta appartenesse a un altro”. In questo ‘altro’ – accettare il lato oscuro, l’inspiegabile, l’inappagato, il feroce, il tremendo – Fondane ci getta, con fierezza. Ho citato da La coscienza infelice (1936, Denoël; per l’Italia, Aragno, 2016, e la cura di Orlandini), che mi sembra un accesso immediato – come un pugno – al suo pensiero. Altrimenti – parlo per la mia mente, ignifuga alla metafisica, spinosa al filosofeggiare – partite da Lungo le rive del fiume Ilisso, il saggio che apre le conversazioni con Sestov: ha una luce particolare, il corrusco di una guerra già detta. Fondane è geniale nel disintegrare le sicurezze erette dai sistemi filosofici, ci sgrava al selvatico della vita, senza riserve o preservativi, “per poter dormire (ovvero, nel linguaggio degli uomini: agire) dobbiamo come re Saul, sopprimere tutti gli incantesimi nel dominio del pensiero; il benché minimo pensiero è un deus ex machina in grado di scatenare i mali peggiori… La spada delle Mille e una notte araba pende sopra la storia della filosofia; ogni notte la filosofia è costretta a inventare una nuova e fantastica teodicea al fine di mantenere il nemico in sacco e respingere indefinitamente l’evento fatale che sarà comunque inevitabile. Ma la scienza, che noi mettiamo all’opera per mantenere in piedi un mondo falso di cui noi siamo la sola divinità, non è certamente quello di cui avremo bisogno al momento della morte”. Dell’inevitabile Fondane è il profeta.
*
Ha fatto lo scalpo ai filosofi, Fondane, ha scalpato i fondamenti della vita ‘civile’: si guardano sbigottiti, sorridono ebeti, scambiano il turgido fiotto di sangue per una statua, sono già morti, non lo sanno. (d.b.)
*In copertina: il cranio di Benjamin Fondane in una fotografia di Man Ray
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pangeanews · 5 years
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“Troppi poeti sono terribilmente obbedienti. Io tento di essere disobbediente, perché la poesia è una festa!”: ode a Les Murray, il “titano gentile” della poesia australiana, che non credeva nella scienza e nella politica ma si affidava a Dio
L’anno scorso, caratura del segno, aveva raccolto i “Collected Poems”, chiudendo il cerchio di un’opera miliare, cominciata nel 1965 con “The Ilex Tree”, ma soprattutto, esattamente 50 anni fa, con “The Weatherborard Cathedral”. Ora il suo editore scrive, “Piangiamo la sua creatività senza limiti, la sua visione originale. La sua poesia ha creato una repubblica vernacolare per l’Australia, un luogo dove la nostra lingua è perennemente custodita e rinnovata”. Les Murray, classe 1938, è morto sul calare di aprile, il mese crudele, ed è stato il più grande poeta australiano di sempre, uno dei grandi in lingua inglese. Ha vinto – se vi importano le medaglie – i grandi premi destinati alla poesia anglofona: il ‘T.S. Eliot Prize’, nel 1996, e la ‘Qeen’s Gold Medal for Poetry’ (vent’anni fa), l’onorificenza regale che è andata, tra gli altri, a Ted Hughes, a Philip Larkin, a Robert Graves, a Wystan H. Auden.  Era cattolico, sposato con Valerie nel 1962, aveva cinque figli. Thomas Keneally ha proposto per lui il Nobel postumo, John Kinsella, che chi legge questo foglio conosce, lo ha ricordato sul Guardian, con ferma tenerezza. Ha scritto poesie bellissime, come questa (nella traduzione di Mariadonata Villa):
Chiesa in memoriam Joseph Brodsky
Il desiderio di essere giusti ha perlopiù tagliato la corda ma alcuni vengono a Dio nella speranza di essere sbagliati.
Alto sulla parete di fondo pende il Vangelo, da prima che fosse libri. Tutti i giudizi hanno fine in lui, tutti, compreso il suo.
È sorto da una evoluzione giudea, non inglese, e ha detto che la luce che innalzava sopra tutte le nazioni era giudea.
La libertà divora ancora libertà, giustizia divora giustizia, amore – perfino amore. Un uomo ritardato ha detto la chiesa mi fa venir voglia di essere cattivo,
ma nudo in una trincea di fango con mille e mille altri, qualcuno sta dicendo il vero dio dà la sua carne e il suo sangue. Gli idoli a te chiedono il tuo.
Quando l’Italia era un paese editorialmente decente, ci fu data quasi subito notizia del talento di Murray. Nella bella antologia sulla “poesia australiana moderna”, “Da Slessor a Dransford. Mito Società Individuo” (Edizioni Accademia, 1977), lo si descriveva così: “Anti-elitista profondamente australiano in tutte le sue espressioni, Murray è un poeta che non ha perso la speranza nella Terra Promessa”. Ha avuto un passato editoriale interessante: nel 2004 l’editore Giano pubblica “Freddy Nettuno”, poi Adelphi si premurò di pubblicare l’antologia di culto “Un arcobaleno perfettamente normale”. L’anno dopo, nel 2005, in piena ubriacatura Murray, sempre Giano pubblicò la raccolta di saggi “Lettere dalla Beozia”. Ricordo che fummo galvanizzati da questo poeta libero, liberatorio, narrativo, corrosivo, che non aveva paura di ingarbugliare Dio in versi tonanti. E che vinse anche un Premio Mondello. Poi ce ne siamo dimenticati, lasciando spazio a poeti di ben più modesto talento, di ben più modeste visioni. Lo ricordiamo pubblicando parte di una bella “Conversation with Les Murray” a cura di J. Mark Smith, edita nel 2009 su “Image” (per la cura di Andrea Bianchi).  
***
Vedi una differenza tra poesia vecchio stile e poesia contemporanea?
Les Murray: Ho scritto da entrambi i lati della barricata, diciamo così. Ci sono certi effetti che ottieni solo con la poesia ‘classica’, con il suo verso. È parte dello strumento. Suoni un po’ qui e un po’ lì. Dipende poi da quando intendi con ‘vecchio stile’. Uno dei miei favoriti viene dalla Beozia: Esiodo. Poi ci sono vari latini come Catullo, Virgilio e qualche altro.
Senti il bisogno di qualcosa che risponda alle condizioni sociali che ci sono adesso rispetto a quelle, per dire, del 1980? O del 1972?
“Adesso” sarà obsoleto tra vent’anni. Non puoi farne a meno. Poi cerchi di raggiungere un posto fuori dal tempo, ma ce la fai solo poche volte. Ora mi guardo indietro e dico: quello sembrerà datato per un bel po’, ma se ci sopravvive potrebbe anche andare bene. Altre poesie che pensi siano atemporali ti potrebbero invece sorprendere e dimostrare che non erano così limitate al loro tempo.
A partire dall’esperienza con tuo figlio, pensi che l’autismo abbia legami con l’arte moderna? Che sia emblema dei suoi problemi?  
Non mi sono avventurato a pensarlo ma probabilmente è vero. Molta arte oggi, perlomeno, è autistica. Perché si dà per assodato che non devi essere sentimentale, quasi non devi avere sentimenti. Vorrebbero un’arte automatica, diamine se questo è autismo! Ho appena letto, senti, di questi tizi che scrivono contro il partito conservatore canadese e descrivono, in via di parodia, Harvard come “grande palazzo d’inverno delle moderne élite”. Senti, è tutto intelletto, i sentimenti non sono permessi.
A volte i miei studenti si lamentano che la poesia li fa sentire stupidi.
Allora meglio dargli la pappa e nient’altro. Mi ripugna sentire che la poesia non li diverta. Quando al contrario: poesia è festa.
E come scopri quel che veramente è sentimentale? 
Probabilmente consiste nel non dire menzogne. Vi è sempre del falso nel sentimentale. Quando è sentimento puro allora spaventa, non è sentimentale. Quindi è importante per gli studenti che provino qualcosa. Non la stupidità. Questo è bello e impossibile per vittime della Riforma protestante. Anche se poi ti dicono che hanno superato la religione. (…) Quanto al mio popolo, conosco gente che quando parla si aspetta sempre di essere contraddetta, e allora ripetono le cose due o tre volte perché non sono convinti di essere ascoltati. Non hanno autorità per imporsi, e nemmeno la presenza, così porgono ossequi: mentalità puritana. Il contrario è la confidenza. Ma se scoprissero la differenza tra adulazione e confidenza, sai che disperazione per loro? Gli Australiani sono portati alla codardia morale perché sono un popolo collettivo, lo stesso come i Tedeschi. O gli Irlandesi: è una cosa ancestrale. Dipendono come disperati dall’accettazione e puniscono chi li domina. Mia moglie Valerie capì da immigrata che non poteva risaltare a scuola. Le affibbiavano nomignoli come “Shakespeare” e “genietta”, e non erano complimenti… Quindi qui non ci sono eroi, ed è un impaccio per tutta la cultura.
Nella sua celebre “Preface” Wordsworth parla della poesia che segue a ruota la scienza.
Io la vedo al contrario. La scienza è arrivata alla fine della corsa, la poesia sta sorgendo. La scienza è una specie di cannibalismo: mangia se stessa e chi la pratica. In certa misura la letteratura ha già sofferto questa fase: poco tempo e le cose muoiono come obsolete; sono divorate mentre sono ancora vive. Le persone provano la stessa sensazione dei loro smartphone esauriti, ancor prima che muoiano. E la scienza, che è fiera di essere antireligiosa, deve ri-creare il mondo ogni volta. Non può prendere nulla come già dato. Allora ri-crea e divora la vecchia versione con i suoi alfieri. Arriveranno al punto che metteranno da parte anche Darwin. Questo modo di relegare le cose, mandare a morte le cose perché il meglio deve ancora arrivare, è lo stigma degli ultimi quattrocento anni.
Credi che la religione in generale – e il Cristianesimo in particolare – abbia la funzione di un livellamento sociale? Protegge – o potrebbe proteggere – le persone dall’esclusione sociale?
Davvero spero che il Cristianesimo redistribuisca la ricchezza, che sia una forza, uno scudo contro inutili primati e classifiche. È ancora possibile un elogio moderato, in giusta misura, della religione e dei suoi santi da adulare come questi lo consentono. Spero in quello che i Cristiani compiono: salvano dall’esclusione sociale, quando si ricordano di farlo. E poi le promesse, mondane e oltremondane, sono le stesse. Il Regno è qui e di là anche se incontra resistenza e sopraffazione.
Ti dici cattolico. Dati i tuoi antenati scozzesi e tedeschi, qual è la loro eredità protestante? Non-conformismo, scetticismo verso la legge? Anche l’immaginazione austera, credo.  
Sì sono un cattolico e convertito prima dei vent’anni, ma non sono lo stereotipo del fanatico neoconvertito. Mia moglie dice che sente ancora puzza di calvinista, specie quando non perdono. Forse ha ragione. Mi fondo sulla Bibbia, la lessi tutta tra i dieci e i dodici anni. Mi sembra che prima del Vaticano II questo fosse impossibile per un bambino cattolico. Io lo feci. Ma l’atmosfera calvinista, la santità personale e competitiva, il gretto vantaggio imposto sui poveri della comunità, la superiorità su loro e sugli sfortunati – questo mi disgustava. E la dottrina, allora moribonda, della predestinazione, “sei quel che hai avuto in denaro, in sesso e attenzioni”, mi faceva schifo. Eravamo i più poveri, il vento soffiava negli interstizi delle porte della nostra casa. I miei genitori affondavano nell’umiliazione. Nel cattolicesimo non hai austerità prevaricatrice o grettezza di spirito, hai cielo e terra ben collegate. Mentre i calvinisti che non perdonano sono in realtà degli snob in campo morale, se guardi bene. Molti miei antenati evitavano il peccato perché se ne sentivano indegni. Altri erano irreligiosi e disperati per lo stesso escamotage dell’indegnità. Alcuni si sentivano superiori agli Aborigeni, altri li aiutavano con lo scodellino perché gli sembravano predestinati a sopportare.
Il tuo poeta cristiano. John Donne o George Herbert?
Ammiro Donne per l’esattezza matematica, da piastrellatore, con la quale crea intrecci e rientri. Come una moschea araba. Ma George Herbert mi scuote di più, come certi poeti scozzesi e irlandesi del Medioevo. Amo alcuni inni della Riforma protestante, ma il sommo Milton non mi ha influenzato. Lo lessi nei lunghi finesettimana dei sedicenni e non ci sono più tornato. L’unico tra i suoi miti che mi piaccia è Sansone agonista. Ma Lucifero pare un broker che sia stato incastrato. Meglio Pope, mi ha insegnato la dizione barocca, a mescolare il linguaggio modellandovi le mie composizioni. (…) Certamente quasi tutto il popolo ha mollato la poesia come ha fatto con la religione. Anzi in modo anche più risoluto. Pensa però che nella vallata dove abitavo da bambino c’erano solo due persone che leggevano poesie da sobrie. Un eremita scozzese che era legato alla sua tradizione e poteva battere tutti in una notte di bevute [quando si celebra l’eroe e poeta nazionale a gennaio, Burns]. Poi c’era un allevatore inglese che sapeva tutto Pope e ha trascorso mezzo secolo a recitare mentre guidava il bestiame. Recitava Pope e aveva come panorama il culo delle vacche. Poesia!
La poesia ti ha tirato fuori dalla depressione?
Penso di sì. Anche se dicevo di non usarla come terapia. Ma ti confido che quando stai male tutto è terapeutico. È stata come un pistone per tirar su una vecchia roba ed esaminarla.
Sogni in direzione politica?
LM: Nessuno, ecco il patema. Non credo nei politici. Non penso facciano del gran bene, nemmeno quando sono in stato di grazia. Hollywood e le ideologie connesse hanno spodestato la politica, l’hanno ridotta all’obbedienza.
Faresti una distinzione tra politica e cultura?
Sì. Politica è mantenimento, tenere tutto fresco e presentabile. Amministrazione. Conservare le cose nei loro limiti e mantenere i privilegi per quelli che già li detengono. Laddove la cultura lancia in aria tutte le idee che la politica non vorrebbe vedere.
Il poeta deve seguire il cambiamento culturale?  
Negli anni Sessanta ci fu una rivoluzione bohemienne che era come una pellicola sottilissima in capo a un antico oceano di forze. E questa pellicola cambia sempre la sua forma, si allunga e si distende per le forze che arrivano da laggiù. E manda scintille! Richiama le persone. Pericoloso, ti dico, non ci puoi fare affidamento. Dunque puoi dedurre che non sono mai stato il tipo del carino facilmente avvicinabile. La gente di successo, di bell’aspetto, notano queste cose. Sono troppi impegnati a cavalcare l’onda. A restare a galla. 
Quindi la poesia opera una contro-spinta a tutte le mode?
Quasi sempre la poesia è obbedienza, come tutte le forze. Molti poeti sono terribilmente obbedienti. Io tento di essere un poeta disobbediente. Il bello della poesia è che ti lascia fare lo zuccone quando vorrebbero omologarti. Ma se tutti rispettano i valori correnti, questo è un surrogato della poesia. Disobbedire rende tutto più intricato. E più interessante. Non dovrei lagnarmi solo perché so scrivere. Chi scrive bene si oppone al flusso attuale. È come preparare il riflusso. 
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pangeanews · 5 years
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“Vorresti che l’uomo diventasse immortale?”: il questionario di Nabokov per la donna doc. T.S. Eliot, invece, s’impegnava a far pubblicare il romanzo lesbo
È uscito un altro pezzo da novanta dell’editoria griffata Faber&Faber: The letters of TS Eliot. Volume 8, £ 50,00. L’editore che fu di Eliot ne appronta l’edizione completa delle lettere. Anzi non proprio, alcune sono state scartate, le trovate qui (tseliot.com). Opera meritoria, quella inglese. Opera di pietà non solo per la storia, ma per l’uomo.
Voglio dire. Perché in Italia gli editori persistono ed insistono coi tomi monumentali ma trascurano il lato umano, talvolta umanoide e paranormale, del letterato, quello che viene fuori (se esiste) dalle sue lettere private? Una prima risposta plausibile. Siamo un popolo inguaribilmente spirituale, non ce ne f***e nulla di come si arriva a partorire l’opera. Che drammi ci sono dietro, per dire. Un italiano non capisce che se vuoi scrivere una buona biografia puoi mettere insieme fino a tre volumi e aggiungere due appendici dove copi l’elenco delle donne che frequentava lo scrittore, a pedaggio (non invento, prendere il volume terzo e ufficiale dedicato a Graham Greene).
Oppure, altro lato della medaglia. Siamo gente, al contrario, talmente crassa e materialista da dare per scontato che gli scrittori (i poeti, poi!) siano citrulli e le loro lettere un’esibizione inutile.
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Fate voi. Io decreto in una biblioteca londinese occupata da ragazze velate, ché i brit sono nei grattacieli a sonnecchiare le finanze, che le lettere di Eliot sono di estrema qualità.
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Scrive così ad esempio in una missiva inclusa nell’ultimo volume (e notare che Faber&Faber ancora rimanda l’edizione delle prose sapendo di contare sui devoti lettori di epistolari, e per Eliot ci sono ancora ventisette anni da coprire): “Sono discretamente d’accordo che ci siano in giro troppi libri, e che per la maggior parte questi siano poi troppo lunghi. C’è la tendenza dei libri a dire con sovraccarico di parole quel che si può dire in poche pagine, nessun dubbio al riguardo. E questo significa deterioramento della lettura in generale tra il pubblico, il quale diventa un bovino ruminante: può solo nutrirsi con chili d’erba, ma rifiuta cibo più concentrato e leggero”. Scritto a un articolista, poi, quindi senza riserve ipocrite come nel caso che si rivolgesse e a un lettore – anzi con tocco di rimprovero, perché chi più degli articolisti dice cose inutili e bazzecole.
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Rimedio. Proposta consueta di almeno una poesia sulla prima pagina dei giornali. Poi, più sessualità in tutti i libri, e guardate che anche un fringuello infreddolito come Eliot faceva quel che poteva nel lanciare la letteratura erotica con Faber&Faber, mentre l’editore aveva riserve per Nightwood di Djuna Barnes (Adelphi 1983; libro del 1936 arrivato da noi con Bompiani nel 1962, altro che santa Inquisizione). Ebbene Eliot ribadiva all’editore: dobbiamo farlo. Anche se è storia che parla di una lesbica. Mentre Geoffrey Faber scrive a Eliot di essersi “sempre sforzato, nel privato, di evitare di ingigantire il sesso”, la risposta del poeta è secca. “Non vedo gran senso in tutto ciò. All’opposto, tentare di mettere il sesso al suo posto è di per sé segno di instabilità”.
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Insomma. Queste lettere di Eliot, 1100 pagine da sommare alle 7600 già pubblicate, ci stordiscono per il valore e il segno di grazia e il morso con cui ti stringono e ti annullano. Perché quel che conta è lo stile di Eliot. Sebbene ripetitive nel dare suggerimenti e avvisi a colleghi e e scrittori, queste lettere ci indicano nientemeno che una lezione di condotta e gentilezza, una posa che non si rifiuta mai ad un aiuto invocato. Una dimostrazione, hanno scritto i giornali UK, di grazia posta sotto pressione.
Non lo so. Mi viene da credere che forse in Italia non ci meritiamo figure simili. Non riusciremmo a capirle. È vero che anche Eliot aveva i suoi vezzi – ad esempio, fece domanda per essere ammesso nel Servizio e giustamente fu negletto perché non affidabile (in effetti rimase un americano).
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In definitiva, Eliot fu uomo complesso, uno che nelle lettere scriveva di tutto, ricette per insalate, appunti da Henry James, spunti sull’amore animale (“senza l’amore di Dio che informa ed intensifica ed eleva gli affetti umani, non ci distinguiamo dagli affetti animali”) e sull’affetto umano: “tra due persone, quali che siano, e più intime tra loro più notevole la cosa, interviene questo – un irrisolvibile elemento di ostilità. Attrazione e repulsione giungono a fare i conti tra loro e questo compone l’affetto permanente”.
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Siccome però le lettere di Eliot sono sovrastimate per malinteso senso patriottico albionico, voglio proporvi un saggio di cosa scrivono gli altri. Prima traduco una missiva di Ted Hughes (Faber&Faber 2007). Sentimento del cielo dove in una riga parli di botte e encomi, alla fine un apprezzamento ironico delle amicizie altrui. E il destinatario della lettera era una specie di Virgilio inglese, Stephen Spender (1909-1995).
Poi un pezzo girovago di Nabokov alla moglie Vera. Si erano sposati nel ’25, lui aveva 26 anni e lei 24 ma che freschezza nella lettera, che è della fine del ’26 (stampa Penguin, 2014).
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Nota per ragazze incazzose cui gli spasimanti mandano foto di uccelli e loro a dire ‘vogliamo le lettere d’amore come le nostre nonne’. Le lettere d’amore del Novecento non sono l’equivalente delle vostre diatribe fallofore su whattsapp, mi dispiace molto ma è così una volta si scriveva nella certezza che non esiste solo l’arnese e la sua amica, e che anche la penna secerne inchiostro glorioso.
Andrea Bianchi 
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Ted Hughes a Stephen Spender, 16 novembre 1985
Ho sempre pensato che i tuoi primi lavori fossero la poesia più viva del tempo, e penso sia ancora vero. Uno dei loro problemi (delle poesie) è che divennero troppo noti all’epoca. Ma questo avvenne, ne sono certo, per una ragione molto valida, e ora la generazione dei tuoi figli risentiti e invidiosi o sta tirando le cuoia o sta acquistando lumi di buon senso, è chiaro. Questo penso. La tua poesia era ‘viva’ nel senso che eri nudo davanti a te stesso, i livelli della tua percezione, primitivi immediati, si mostrano agevolmente sulla superficie della tua scrittura. Cosa che non accade in Louis McNeice e in WH Auden occorre solo nelle poesie mezzo-sonnambule – This lunar beauty.
Ma la stessa cosa (almeno per me) si manifesta in tutto il tuo scrivere ed è ancora molto forte nei pezzi diaristici recenti. Questi sono i miei favoriti. Mi sarebbe piaciuto che tu l’avessi fatto per tutta la tua vita. Non tanto per una questione di immagini ma di tono – atmosfera, una presenza.
Ora mi aspetto che invece di essere aggiogato per tutti i giorni ad Auden in pubblico, tu ti aggioghi a lui anche nei cieli – è vero siete entrambi Pesci ma avete la luna in Gemelli, un fatto curiosisismo.
Ted Hughes
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Vladimir Nabokov a Berlino a Vera Slonim nella Foresta Nera, sanatorio di san Biagko, Berlino 11 luglio 1926
Tigrotta,
Ho finito la carta da lettere – devo usare i fogli protocollo e non mi fa sentire libero. (…) Con Raisa ho composto le domande per un questionario che ti spedisco con preghiera di farci caso. (…) Mia dolce, solo quando tornerai ti dirò quanto tu mi sia mancata, senza fine – ma ora non dovresti saperlo – “mi sto divertendo un mondo” – e devi rimetterti in forze. Mia dolce, la piccola scatola da lettere color rosso ginger sta per esplodere, è grassissima, tanto di guadagnato per te invece. Ma le rose sono scomparse dal mio tavolo: sono durate più di un mese. Per qualche ragione ora sono stato a pensare che la vita sia lo stesso cerchio di un arcobaleno – ma possiamo vederla solo in parte, nell’arco colorato. Mia dolce…
V.
Questionario per immodesti e curiosi (per nessuno obbligatorio)
1- Nome patronimico e ultimo nome
2- Pen-name e se ne hai molti segna quello favorito
3- Età ed età favorita
4- Attitudine verso il matrimonio
5- E verso i bambini
6- Professione e professione favorita
7- In che secolo vorresti vivere
8- E in che città
9- Da che età hai i primi ricordi e quali sono
10- La religione esistente che più si avvicina al tuo modo di vedere
11- Che tipo e genere di letteratura preferisci
12- Libri favoriti
13- Opera d’arte favorita
14- Attitudine verso la tecnologia
15- Apprezzi la filosofia? Come studio, passatempo…
16- Credi nel progresso
17- Aforisma favorito
18- Lingua favorita
19- Su quali fondamenta poggia il mondo?
20- Quale miracolo compiresti, se potessi
21- Cosa faresti se ricevessi improvvisamente un monte di denaro
22- Attitudine verso la donna moderna
23- E verso l’uomo moderno
24- Virtù e vizio che preferisci e disapprovi in una donna
25- E in un uomo
26- Cosa ti dà il miglior piacere?
27- E la peggior sofferenza?
28- Sei gelosa?
29- Attitudine verso le bugie
30- Credi nell’amore?
31- Attitudine verso le droghe
32- Il sogno che non hai dimenticato
33- Credi nel fato, nella predestinazione?
34- La tua prossima reincarnazione?
35- Paura della morte?
36- Vorresti che l’uomo diventasse immortale?
37- Attitudine verso il suicidio
38- Sei anti-semita? Sì, no, perché?
39- “Ti piace il formaggio?”
40- Veicolo favorito
41- Attitudine verso la solitudine
42- E verso la nostra cerchia di amicizie berlinesi
43- Dalle un nome
45- Menù ideale
L'articolo “Vorresti che l’uomo diventasse immortale?”: il questionario di Nabokov per la donna doc. T.S. Eliot, invece, s’impegnava a far pubblicare il romanzo lesbo proviene da Pangea.
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pangeanews · 6 years
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Apocalisse Italia: abbiamo troppi giallisti mediocri e pochi grandi poeti. Riflessioni sul ‘caso’ Marchesini, sui politici che non leggono, sui libri inutili che si pubblicano
La mancata pubblicazione del libro di un critico colto e intelligente, Matteo Marchesini, dopo l’annuncio con tanto di divulgazione della copertina, riapre un dibattito annoso sui misteri dell’editoria. Il caso è noto: Marchesini, nella sua raccolta di saggi Casa di carte, prevista in uscita da Bompiani, stronca Montesano, Scurati e Moresco, autori della scuderia dell’editor Antonio Franchini. Franchini interviene tardivamente, intimando a Marchesini di togliere i pezzi scomodi. Casa di carte rimane nel cassetto dell’editore e di Marchesini, che non trovano un accordo. Il Foglio ha riservato uno spazio al caso, ma soprattutto, il 5 febbraio, alla crisi della lettura, con articoli di Alfonso Berardinelli e dello stesso Marchesini. La società letteraria non nasconde lacune e manchevolezze. Imperversano l’improvvisazione e la fretta, cattive consigliere, nonché un soggettivismo in esubero. Anche l’editoria italiana non ne è immune, in un metodo di lavoro purtroppo comune dove la superficialità e il pressapochismo sono il comun denominatore.
1. Antonio Franchini è un grande editor e sa fare il suo mestiere. È serio, preparato, ha fiuto, ma non è sempre così scrupoloso, se da direttore che sceglie non aveva letto, clamorosamente, il testo da mandare in libreria. O meglio lo ha preso in mano a babbo morto, appena in tempo per accorgersi che alcuni nomi di punta della sua squadra erano stati maltrattati da Marchesini. I libri spesso non vengono assimilati neppure da chi li dovrebbe promuovere, così come centinaia di manoscritti e di pdf che arrivano nelle redazioni. Manca il tempo materiale per farlo ed è il rapporto personale abbinato al consociativismo corporativo che determina la pubblicazione degli scrittori esclusi dallo star system. Quindi, per tornare al caso Marchesini, la ragione è tutta dalla parte del critico, bocciato per l’imprudenza di non fornire il suo appoggio al lavoro della direzione della Bompiani, se questo stop non ha nulla a che vedere con il giudizio di merito su Casa di carte.
2. Non aggiungiamo altro all’inconsapevolezza e al ripensamento di Franchini, né al dispiacere di Marchesini. I principi che regolano il mercato e il potere editoriale sono invece un’occasione per riprendere la discussione. Non credo che qualcuno cerchi di convincerci, come sostiene Marchesini, che la letteratura sia “un sostegno salvifico nella vita quotidiana”. Penso invece che la letteratura sia lo specchio della realtà, se offre il gesto nel quale riconoscerci e capire meglio le proprie attitudini. Questo vale per il lettore, che soprattutto nella narrativa cerca qualcosa che gli assomigli, ma anche per lo scrittore, che rappresenta e interpreta ciò che gli sta a cuore con il suo stile e il suo linguaggio. Alberto Moravia diceva: “Scrivo per capire ciò che scrivo”. Dunque non è solo il tema che può far nascere e giustificare una stroncatura o l’esaltazione di un libro, ma appunto la capacità di scrittura che alimenta la complessità del dire, la ricreazione ambientale, la raffigurazione dei personaggi di un romanzo. Quale prodotto ci propina per lo più l’editoria perché tali elementi possano essere estrapolati con continuità, secondo una vera e propria predilezione?
3. È vero, come sostiene Marchesini, che “la sovrabbondanza di testi e immagini ha anestetizzato l’esperienza”, come è vero e senz’altro condivisibile che si avverte un bisogno insaziabile di intrattenere e di essere intrattenuti. Ma se la letteratura d’intrattenimento che soffoca un’esperienza autentica è alla base di una tendenza italiana più che decennale, questo succede perché l’editore di narrativa favorisce un genere onnivoro, ossessivamente proposto senza varianti, mutuato dal cinema e dalla televisione, dai serial americani e anglosassoni: il giallo, il noir, il thriller. Parliamo di una narrativa estemporanea e adrenalinica, di un fenomeno di marketing dove la fiction diventa falsità. La saga dei commissari à la page che emulano Montalbano e degli scrittori che si rifanno a Camilleri, occupa la metà degli spazi delle librerie. Edgar Allan Poe e Agatha Christie scavavano nei meccanismi mentali dei protagonisti e non si lasciavano dominare da sangue e mattanze di stampo fotografico. I giallisti di oggi scrivono ricalcando uno schema stereotipato, privo di creatività, che utilizza un gergo abusato. Nel 2018 un classico del Novecento come Cesare Pavese avrebbe difficoltà a pubblicare e la Recherche di Marcel Proust sarebbe rifiutata da qualunque editore. Nella storicità del romanzo il termine weltanschauung appartiene alla lingua tedesca ed esprime un concetto fondamentale nell’epistemologia, spesso applicato alla letteratura. La traduzione è “visione del mondo”, “immagine del mondo”, ed è riferita ad una persona, ad un contesto di gruppo. In fondo si narrano non solo i fatti, ma anche le idee. Cosa resta nel romanzo odierno, quando la scena madre viene assorbita dalla cronaca omicidiaria e da rappresentazioni parallele alle arti visive? Siamo in un eterno presente che non guarda all’uomo, al suo esistere. La letteratura dell’esperienza comune è soppiantata dalla letteratura del deviante, in una distorsione spettacolarizzata. Dov’è nascosto il romanzo che racconta la ferialità, la provincia, l’uomo, il lavoro, la disoccupazione di oggi? Rimaniamo nel Novecento, nell’eredità più vicina temporalmente. Dov’è finita l’epicità dei luoghi? Dov’è confinata l’utopia di Paolo Volponi e di Pier Paolo Pasolini, che biasimavano la modernità senza progresso? Dove riconoscere la corruzione borghese e lo sfilacciamento sentimentale di Alberto Moravia? Dove rivivere gli affetti familiari di Alberto Bevilacqua? Dove rileggere la tensione religiosa di Giorgio Saviane e l’illuminismo del romanzo sociale di Leonardo Sciascia, come la retrospettiva dei delusi di Antonio Tabucchi, che conservava la matrice di Federigo Tozzi?
4. Con Marchesini discordo quando afferma che la poesia è divenuta anacronistica. Lo è per vocazione, sin dalla nascita. I temi assoluti, sovrastorici (nascita, morte, amore ecc.) sono lo snodo, da sempre, di chi pubblica versi non lasciandosi inquinare da altre forme d’arte. “La vera poesia è il contrario della solitudine, perché mira a rendere più intenso il rapporto con l’altro. L’artista solitario, rinchiudendosi nella propria differenza, finisce per non sopportare più gli altri. La vicinanza di altri poeti è invece sempre benefica alla poesia. Io ne ho beneficiato tutta la vita”, disse Yves Bonnefoy in un’intervista apparsa il 5 luglio 2013 su Repubblica a cura di Fabio Gambaro, dove si capisce il fondamento di un bene comune che nasce dall’utilizzo della libertà di parola, o meglio della ricerca della libertà di parola. Dice bene Marchesini quando colpisce l’esatto rovescio del dialogo provvidenziale di Bonnefoy, che è annidato nella società mondana, attivista, nel “tribuno”, nello “scrittore uomo d’azione” e nel “modello politico-culturale velleitario e malinconico”. Penso a Giovanni Raboni, che ho conosciuto, a quella corrente interiore che gli permetteva di vedere le cose, di coglierle nell’essenza, nella sacrale conservazione di una vita passata in disparte. Il significato della morte riappare in tutta la sua emblematicità. Un orizzonte congiunge due estremi, un’associazione di idee nel travaso da un territorio all’altro, ad una metamorfosi che trattiene il tempo e lo fa vibrare (la comunione tra i vivi e i morti). Il poeta immagina il fantasma della finitudine umana e lo proietta in un estremo sentire di fisionomie e somiglianze. È questa la vera opposizione all’horror vacui, ad una paura ancestrale dell’uomo. L’assillo esistenziale si infonde in molti poeti della nostra contemporaneità, anche tra i più giovani. Proprio per questo la qualità della poesia italiana che viene pubblicata è ben più alta della qualità del romanzo. Il poeta cerca ancora l’assoluto.
5. Sul Foglio, lo stesso giorno di Marchesini, il critico Alfonso Berardinelli ha affrontato magistralmente il problema sul tramonto della lettura. L’Aie, l’Associazione italiana editori, riferiva tempo fa che il 58,8% della popolazione nazionale, durante l’anno, non apre nemmeno un libro contro il 37,8% della Spagna e il 30% della Francia. E tra i laureati, il 25% dei neodottori italiani, ricevuta la pergamena, abbandona completamente la lettura per svago o nel tempo libero. Tuttavia, rispetto alla media, sono gli eletti dai cittadini e la classe dirigente ad andare peggio. Il 39,1% dei manager, dirigenti e politici, non legge nemmeno un volume ogni dodici mesi. Scrive il romanziere Nicola Lagioia su Repubblica del 22 gennaio: “Cominciamo dalle scuole. Le biblioteche scolastiche sarebbero i luoghi perfetti per la promozione della lettura, se solo fossero sufficientemente attrezzate, se fossero attive (in molte scuole ci sono biblioteche dove in un anno non entra un libro), e soprattutto se ci fosse un bibliotecario, cioè una persona il cui compito è promuovere la lettura tra gli studenti, con strategie che variano a seconda del contesto in cui si trova”. Può essere un’idea, come gli incentivi fiscali per l’acquisto dei libri, o una promozione che parta dal ministero (Dario Franceschini finora ha speso solo vane parole) e che si concentri nelle città di provincia, non solo in qualche grande centro. Servirebbero finanziamenti mirati per creare ex novo delle fiere (almeno una per ogni regione). Bisognerebbe organizzare incontri con gli autori a cadenze mensili nelle scuole e nelle biblioteche. Ammonisce Berardinelli: “Meno si vedono lettori e più la lettura è scoraggiata. L’essere umano è un animale mimetico”. Non è neppure scontato che uno studioso di letteratura sia un buon lettore. Lo studiare non implica il leggere. Ma se non ci sono lettori anche i libri perdono significato. La provocazione di Berardinelli è di fondare scuole di lettura al posto delle numerosissime scuole di scrittura. Altro pungolo pertinente: “Se a coloro che non hanno trovato un editore si aggiungono coloro che lo cercano, si può arrivare alla conclusione che non si legge perché chi potrebbe farlo è impegnato a scrivere”. Il terzo punto dolente toccato da Berardinelli riguarda il recensire ciò che è stato già recensito, quando non c’è più niente da dire. In molti casi si scrive sul già scritto. La critica è asfittica, non rischia, non si espone. Il padre del modernismo, Charles Baudelaire, ammoniva che in fondo all’ignoto c’è il nuovo. Ma chi se ne accorgerà mai, aggiungiamo, se i nuovi autori sono infossati nelle catacombe? I non-libri risultano talismani, afferma ancora Berardinelli. Il poeta Maurizio Cucchi su Avvenire del 6 febbraio, ribadisce il concetto di confusione generato dal “pop”. Eppure dovrebbe crescere una cultura di ricerca e di élite accanto a quella di massa. Al mercato fa comodo la confusione, ma la letteratura migliore ci rimette. Siamo nella società della comunicazione spicciola e non del sapere e della conoscenza. Torniamo ai libri d’intrattenimento a discapito della qualità, ancora salvaguardata solo dalla poesia, che però ha meno lettori dei pieghevoli pubblicitari lasciati nelle cassette della posta. Et non est finis pessimus.
Alessandro Moscè
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