Tumgik
telleenasbacchi · 3 years
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mi sono sempre concessa questi tempi di parziale cecità [...]  C'è qualcosa in me che corrisponde al vuoto del cielo sul paese nemico
Cassandra, Christa Wolf
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telleenasbacchi · 11 years
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«La fame sono io. Per fame, intendo quel buco spaventoso di tutto l’essere, quel vuoto che attanaglia, quell’aspirazione non tanto all’utopica pienezza quanto alla semplice realtà: là dove non c’è niente, imploro che vi sia qualcosa». - Amélie Nothomb, Biografia della fame
Non è ancora nato. Mi avverte con un sms, dice che se la sta prendendo comoda come noi che lo facciamo da una vita. Gli rispondo che dopotutto fa bene, non sa che cosa lo aspetta dopo, perché sarà con il primo vagito che soddisferà le prime aspettative. Gli ho risposto: per fare una cosa bene occorre del tempo, e lui lo sa. Ha già un’eredità grande sulle spalle, tu credi che ti salverà dal baratro nel quale ti trovi, ma poi hai anche paura che neppure questo servirà, e quel buco nero ti affogherà e affogherà anche lui. Siamo amici da troppo tempo, eppure così diversi, eppure così simili, intrappolati nella maglia di questa città che ci fagocita istante dopo istante, ma che non riusciamo a strapparci di dosso. Questo lei non lo capisce, nata in una metropoli in cui i destini sembrano già tracciati, se non quello, hai quello, se non quello c’è dell’altro, ma comunque puoi scegliere. Noi siamo figli di un Sud che ci condanna e guarda storto le nostre voglie, abbiamo ereditato sbagli e tradimenti, abbiamo dovuto spalare dentro strati spessissimi di fallimenti quelli di chi ha smesso di credere e ha tentato in ogni modo di tirarci dentro. Ma non ci siamo mai abbattuti, abbiamo le mani scorticate così come i pensieri. Lo abbiamo difeso con le unghie il nostro posto all’inferno. Lei mi dice: esageri come sempre, sei apocalittica. E mi suggerisce dosi di prozac e lexotan che mi insegnino un’altra me. Come se potessi smettere di essere nata qui. Tu amico mio lo capisci, provieni dallo stesso fango, dalla stessa costola mancante, e me lo dici tra un sms e l’altro mentre aspetti la nascita di tuo figlio e ti preoccupi per quando avrà 15 anni. Ti dico: vacci piano si rotola ancora nel liquido amniotico. Fortuna però che non è femmina saresti finito, geloso e pazzo ad aspettarla ogni notte per paura che incontri uno come te. E ridiamo.
Guardo l’orologio, avrei dovuto consegnare il lavoro stamattina, ma anch’io me la sono presa comoda è bastata una telefonata per farmi perdere il ritmo delle cose. Così sarà tutto lavoro inutile, il direttore non lo vorrà. E’ solo mia la responsabilità, ma è proprio come quel primo vagito: lei mi ha chiamata, mi ha urlato addosso delle cose, e in fondo aveva anche ragione, una ragione che però non ho costruito di proposito, è stata una libera associazione della mente, quel buco profondo da cui qualcosa è sgorgato: io, che mi ribello. Non amo nessun’altra, non ritornerò dalla mia ex, non cederò alle avance di vecchie amiche perché ti amo anche se fa male. Sì che la amo, altrimenti me la strapperei di dosso, e invece ogni volta ritorna come una marea e mi affoga, ed io non riesco a fare altro che bere di lei e sentire ancora sete, perché il sale, si sa, ti affama. Il sale brucia sulla pelle, il sale brucia sugli occhi, il sale infiamma le ferite. Lei è sale, ma non porta da nessuna parte. Così dopo quelle urla e il telefono sbattuto addosso il tempo ha iniziato a girare più lento, ma solo in me, mentre fuori è quasi buio ed io vorrei tanto una tazza di cioccolata calda, perché tanto per il lavoro che dovevo consegnare è troppo tardi. E anche per me. Aspetto il primo vagito amico mio [che in fondo sa un po' di  sale], così almeno oggi ci sarà qualcosa da salvare. Benvenuto al mondo.
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telleenasbacchi · 11 years
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telleenasbacchi · 11 years
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Bevo a chi è di turno, in treno, in ospedale, cucina, albergo, radio, fonderia, in mare, su un aereo, in autostrada, a chi scavalca questa notte senza un saluto, bevo alla luna prossima, alla ragazza incinta, a chi fa una promessa, a chi l’ha mantenuta, a chi ha pagato il conto, a chi lo sta pagando, a chi non è invitato in nessun posto, allo straniero che impara l’italiano, a chi studia la musica, a chi sa ballare il tango, a chi si è alzato per cedere il posto, a chi non si può alzare, a chi arrossisce, a chi legge Dickens, a chi piange al cinema, a chi protegge i boschi, a chi spegne un incendio, a chi ha perduto tutto e ricomincia, all’astemio che fa uno sforzo di condivisione, a chi è nessuno per la persona amata, a chi subisce scherzi e per reazione un giorno sarà eroe, a chi scorda l’offesa, a chi sorride in fotografia, a chi va a piedi, a chi sa andare scalzo, a chi restituisce da quello che ha avuto, a chi non capisce le barzellette, all’ultimo insulto che sia l’ultimo, ai pareggi, alle ics della schedina, a chi fa un passo avanti e così disfa la riga, a chi vuol farlo e poi non ce la fa, infine bevo a chi ha diritto a un brindisi stasera e tra questi non ha trovato il suo. - Erri De Luca, L’ospite incallito
Niente più lacrime, niente più sorrisi rimandati e vorrei senza data di scadenza, la vita è adesso e tu devi essere felice perché pelle e cuore non possono aspettare all’infinito. Vorrei dirtelo senza che le tue parole mi sbattano in faccia le morali di una vita in cui l’uno è uno, il due è una sottrazione, e l’amore un post-it con regole che non riconosco come mie. Devi essere felice anche senza me… devo esserlo anche senza te. Andare via quando la propria presenza fa stare male l’altro, è forse davvero questa la misura dell’amore, come mi dicesti tu tempo fa. Andare via senza voltarsi. È davvero l’interezza che mi hai spiegato con tanta dovizia di particolari e teoremi, in cui è l’equilibrio dell’uno è il primo vero atto d’amore da dare all’altro, quello che vuoi?! Non so, davvero, se tu abbia ragione, ma a questo punto la ragione non so dove stia. So, però, che ingannare il dolore giorno dopo giorno è qualcosa che consuma.
Le mie mani sono ancora sporche di fuliggine e pensieri. Mentre liberavo il camino da resti e rifiuti del 2012 ho sentito l’esigenza di scriverti ed eccomi qui, con macchie di un anno trascorso su una mano e qualche pezzo sulla pelle. Il capodanno è trascorso nell’assenza di entrambe, tu nel tuo mondo e io nel mio, paralleli e mai incidenti. Il conto alla rovescia, i baci, gli auguri, i giochi d’artificio, la musica, gli occhi, le mani, i tappi dello spumante, il mio nome sulla bocca di altri… ti ho cercata in ogni punto della stanza, come se potessi davvero trovarti, ma tu non c’eri. Mi sono spinta in mezzo al giardino freddo per chiamarti al cellulare, passando in mezzo ai miei amici come fossero lenzuoli stesi al sole da schivare. Il cane mi ha seguito a passo fedele sfidando il rumore dei giochi pirotecnici che spaccavano il cielo. Ha pensato che potessi difenderla, io che perdevo pezzi a ogni passo, mentre speravo squillo dopo squillo di schiudermi nella tua voce, con l’anima piccola piccola mentre ti immaginavo sola nel tuo appartamento distesa sul divano a guardare la tv con ai piedi il tuo di cane. Ho sentito il destino come una colpa da scontare. Avrei voluto sciogliermi nella tua voce, almeno quella, e dirti quanto mi mancassero i tuoi sguardi, il tuo sapore, il tuo nome sulle mie labbra il mio sulle tue. Ho maledetto il telefono perché le linee erano saltate, ho maledetto me stessa quando non rispondevi e ho visto gli squilli perdersi tra le tue stanze e il tuo corpo assente, ho immaginato il mio nome illuminare il tuo display e tu stornare lo sguardo in punto qualsiasi della stanza in cui la mia presenza si perdesse. Allora ho capito che il destino dovevo scontarlo davvero come una colpa, e che tu la stavi dando tutta a me. Tu non mi aspettavi, non volevi. Così il 2013 è iniziato con una fitta al cuore, ho perso l’equilibrio, sono caduta sull’erba bagnata e sono rimasta qualche minuto ferma sulla pelle umida, con l’odore di terra, con la notte illuminata dai fuochi sulla mia testa e una luna morsa, mentre il cane leccava le assenze sul mio viso. Mi sono alzata e ho tirato via di dosso pezzi di erba e di me. Sono ritornata agli altri a metà e ho deciso che non sarebbe stato più così, lo è stato troppe volte da quando stiamo insieme, ogni traguardo, ogni momento importante è stato inquinato dalla tua assenza e dal dolore di non averti accanto. Dal desiderarlo, dal crederlo e poi esserne delusa. Quante promesse disattese, quante voglie spezzate dal tuo giudizio. Ho guardato i miei amici e ho pensato che sono rimasta ferma, che non sono andata da nessuna parte chiusa in un girotondo di dolore e vita rinviata. Ho pensato che no ho più cercato di essere felice, come se pensassi di non meritarmelo. Non ho scattato foto pensando che poi se le avessi viste saresti stata male. Ti ho pensata quando vedevo gli altri sfiorarsi, curarsi, essere due di uno, e ho capito che era bellissimo mentre declinavo tutte le forme dell’assenza dentro e sorridevo agli altri nel dovere di padrona di casa. Mi sono fatta giullare mentre la pelle si apriva come zolle inaridite e dimenticate. Mi sono chiesta perché il nostro amore è così verboso, perché i 1200 km che ci dividono sembrano essere infiniti e mai attraversabili. Mi sono chiesta perché questo amore ha regole così dure. Forse, semplicemente non sono come te, non so sospendermi o far finta di nulla, non so muovermi così senza direzione e punti di riferimento in cui ogni tanto riprendere fiato. Non so aspettare una vita che non sembra disposta a contenermi così come sono. Mi dici che mi ami e sottolinei il modo in cui ti prendi cura di me, il modo in cui non mi prendo cura di te, e tutte le volte in cui le mie parole, parole come queste, ti fanno sentire in colpa. Pensi che non ti sia grata per le attenzioni che mi dai, quando dopo una giornata di duro lavoro rivedi le cose che ho scritto e mi dai una mano, quando cerchi di rassicurarmi. Ma questo non può bastare è il flebile atto che due amiche normalmente si concedono. Non voglio più sentire il mio reclamarti come una colpa.
Prendo fiato e mi concedo un’altra boccata di caffè mentre mi impongo di fermarmi qui, di non scrivere, di non gocciolare più questo dolore che ho ficcato di forza nella bocca del 2012 nel tentativo di avere un 2013 glorioso e felice. Ma invece mi trovo stretta in questa rabbia che mi preme sul cuore. Sono arrabbiata con te, se solo non mi avessi ammonito ogni volta che ti chiedevo di organizzarci in tempo e assicurarci quel tempo pelle a pelle. Ho lasciato che tu decidessi come sempre, per non litigare, per non sentirmi dire che rovino tutto, che sono ansiosa e negativa. Abbiamo salutato il 2012 litigando, mi hai riservato parole orribili con cui ho dovuto fare i conti e sto facendo tutt’ora. Dovrei davvero credere che tu quelle cose su di me le dica solo perché sei nervosa e spaventata? È comunque il tuo sguardo su di me. Mi stai convincendo. Vuoi davvero questo? Mi guardo allo specchio e mi chiedo chi sia quella donna consumata che vi si riflette. Mi chiami e parliamo del cane, dei due giorni di silenzio perché non stavi bene, della spesa, di tua madre, mi chiedi come è andato il capodanno, e facciamo finta che tutto sia normale. Spengo le parole sulla pelle come una cicca rovente. Mi manca il fiato e tu dei miei lunghi silenzi neppure ti chiedi, ma so che li senti e vuoi schivare il litigio. Respiro a fatica e sento una mano premere forte sul costato, così quando mi dici “ci sentiamo dopo” acconsento senza dir nulla. La mia testa si confonde tra le trame verdi di quel divano che ami tanto, il respiro è pieno di spilli che inghiotto a fatica, così non mi resta che guardare il soffitto di legno e giocare a scovare immagini tra i nodi delle travi come fossero nuvole. La stanza è silenziosa solo la voce di Dinah Washington spezza la monotonia dei pensieri.
Ho appena visto una vespa morire. È successo proprio adesso. Mentre scrivevo sono stata distratta dall’impavida vespa scalatrice. Dicono che il loro morso a volte sia letale. Ma lei non sembrava avere pensieri che contenessero altri. Tentava disperatamente di scalare la superficie fredda della finestra che dà sul giardino, forse è lì che voleva andare, credendo che alla fine lo avrebbe raggiunto. Ha tentato più e più volte, ogni volta scivolava giù  e piano svolazzava  per non finire sul pavimento, a ogni tentativo la scalata si faceva più  flebile e il percorso dimezzato. Il telefono è squillato così  mi sono alzata, quando poi sono tornata non l’ho più vista. Ho pensato fosse volata via e l’ho cercata in giro per la stanza, ma nulla. Ho pensato sarà volata via dalla porta appena socchiusa. Poi l’ho trovata in un angolo della stanza, chiusa su stessa come una pallina di carta accartocciata e dimenticata. Il giardino è oltre la finestra fredda, forse è lì che voleva morire. Così è lì che l’ho portata. E tutto questo mi ha parlato di noi, divise da una lastra anonima e intrappolate in vani tentativi che consumano distanza e amore. Sorseggio il caffè ormai freddo e avrei solo voglia di piangere la sorte delle due vespe.
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telleenasbacchi · 12 years
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«Nella saliva nella carta nell'eclissi. In tutte le linee in tutti i colori in tutti i boccali nel mio petto fuori, dentro nel calamaio – nelle difficoltà a scrivere nello stupore dei miei occhi nelle ultime lune del sole (il sole non ha lune) in tutto. Dire “in tutto” è stupido e magnifico. DIEGO nelle mie urine – DIEGO nella mia bocca nel mio cuore – nella mia follia – nel mio sogno nella carta assorbente – nella punta della penna nelle matite – nei paesaggi – nel cibo – nel metallo nell’immaginazione. Nelle malattie – nelle rotture – nei suoi pretesti nei suoi occhi – nella sua bocca nelle sue menzogne» - Frida Kahlo, dedicata a Diego Rivera
Ed eccomi qui con polpastrelli consumati dall’inchiostro, e pensieri consumati dalla tua assenza.
Come l’acino d’uva nera che si spacca nella bocca – T.S.
Mi riapproprio della mia identità Attraverso il tuo corpo. Una verginità di cui mi vergognavo E nascondevo sotto le unghie consumate del silenzio. Io che ero altra da me e Costruivo identità Come traballanti castelli di carte Dai bordi consumati.
Ho i pensieri stretti tra le tue dita Quelle che mi rianimano Quando scendono in me E aprono passaggi che pensavo di avere smarrito. Tu Che affondi materia nella mia carne nuda e assente Tu Che mi possiedi col tuo sguardo profondo e mi uccidi d’amore mentre tessi storie per il mio sonno tormentato
Lascerei scorrere il tuo sangue nelle mie vene - Spaccate come zolle di terra perduta e sconsacrata d’altri amori – E berrei il tuo seme per generarmi dalla stessa sostanza di te Che hai profanato le mie paure Con il tuo sorriso beffardo Alzandole sulla mia testa come scheletri di nuvole diradate
Sono in ginocchio su questa assenza Inchiodata a parole che sgrano con le mie dita consumate Perché in questa apnea d’amore Io vorrei soltanto respirarti E riempirmi la bocca del tuo nome rigoglioso Come l’acino d’uva nera che si spacca nella bocca Rilasciando il suo nettare aspro e caldo Ti raccolgo con la punta della mia lingua E ti assaporo piano come nelle notti in cui diventiamo nodo
Inchiostro, inchiostro Affamato d’amore Riscrivimi, riscrivimi D’una identità che a tutti negheremo
Questa distanza mi strappa E così anche stanotte io trovo riparo nell'insonnia (d’amore).
© tutti i diritti riservati
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telleenasbacchi · 12 years
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Passi consumati e stanchi li ho portati fin qui, fino alla bocca di questo foglio elettronico. Mi sono spinta sino alle asciutte cavità di un ventre che mi ha partorita a stento, che ha da tempo rimandato le sue parole, o le ha spese per altro. Un calcio al mutismo di questi anni ed eccomi qui abbandonata a questa prima corrente salmastra e lontana. E sì che in questi anni ho parlato, e sì che ho scritto, ho tratteggiato parole su parole come quei castelli che cementifichiamo nelle lingue di sabbia e onda, sulla riva dell'infanzia. Parole che poi andavano perdute se un'onda improvvisa arrivava a sorprenderci. Ho parlato a parole, ho scritto parole su parole, con una calligrafia gentile e studiata, con parole confezionate ad hoc, parole non mie, ma della maschera che indosso. Tutto è iniziato per caso, per pura sopravvivenza. Dopo i continui ammonimenti a non essere ciò che ero. Dopo la ribellione a voler essere ciò che ero, a non essere ciò che gli altri volevano che fossi. Dopo... arrivò la vita munita di forbici, ago e filo. Le cuciture non sono mai state perfette, i tagli neppure e qualcosa è andato perduto. Ho imparato, ho indossato, sono stata, sono... altro da me. E la ribellione è diventata adattamento. E l'adattamento è diventato stanchezza. E' stato sempre il resto ad abortirmi e scrivermi paure addosso, senza mai volermi vedere oltre quelle parole arrabbiate ed ostili che uscivano sanguigne dalla mia boccaferitoia. Sventolavo fazzoletti bianchi laceri e ingialliati e urlavo, urlavo: Sono qui, sono qui, guardatemi. Ma avevano paure su occhi e orecchi. Tolgo la u, aggiungo o ed elle. Parole. Eccole. Nessuno tanto mi riconoscerà se non sarò la prima io a farlo. Intanto oggi nasco qui in una corrente qualunque, la prima.
Dicembre 2008 c'è un segnale sulla prima pagina di diario che prendo e appunto qui. Una citazione di Pessoa, da 'Una sola moltitudine':
«Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera. Nessuno ha supposto che al mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso. Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; per altri ancora, essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita. Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che vogliamo è ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?».
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