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robertevansclark · 2 years
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robertevansclark · 4 years
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Aveva mantenuto un profilo basso per questi mesi e lo aveva fatto con cognizione di causa. Non perché non gli importasse più di nulla ma perché reputava che per il momento fosse la cosa giusta da fare.
Persino la maschera di Socket era stata vista con poca frequenza ma era solo per "questo" periodo per calmare del tutto le acque dopo la faccenda che riguardava sua sorella.
Ma si informava su tutto, seguiva le notizie e sfruttando il internet, deep web e roba simile raccoglieva quanti più informazioni possibili su quello che stava accadendo. Era sempre aggiornato.
E si trovava dentro la cucina del Centro SoS quando la conferenza stampa del PPD ha preso forma, vita. Le parole del capitano Nguyen gli riempirono le orecchie e risuonarono soprattutto quando era stato il nome di sua sorella quello a venir pronunciato.
Qualcosa di cui pochissime persone sapevano, di quel suo mondo, quello che lui vive ogni giorno: nessuno. È il peso dei segreti.
Quelli che nessuno deve sapere ma adesso Iphigenia Clark era viva di nuovo per tutti. E aveva messo in conto che avrebbe dovuto mentire ancora. Fingere di non sapere nulla.
Si sarebbe presentato addolorato, sollevato, arrabbiato? Non me aveva la minima idea.
"Vi chiedo di prestare attenzione sopratutto al sesto nome: Iphigenia Clark. Il suo sangue è stato ritrovato il 10 Giugno in mezzo alla baraccopoli, tra i resti di uno scontro di cui avrete certamente letto. Ha lasciato che piangeste per lei, poi è tornata a sparare alla testa nascosta sotto una maschera.
Perché è questo che fanno i criminali: mentono."
E lui farà quello che fa sempre se dovesse servire. Per sua sorella, per lei, solo per lei.
E le preoccupazioni solite, arrancano, si addensano quando è anche il nome di Khymeia a finire nella lista.
Addirittura tra i super ricercati. Chissà perché gli è venuto quasi da sorridere ma non ci sta proprio nulla da ridere. Tutto pare star caracollando intorno a loro. E una velata preoccupazioni disegna rughe sul quella fronte, impattando contro l'azzurro dei suoi occhi.
Commenta da solo. Fissando quel tablet da dove il capitano ancora parlava, parlava... E mentire, si sicuramente ha mentito sua sorella, come tutti del resto. Come anche lui.
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robertevansclark · 4 years
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Not easy
Non lo sapeva quando Chloedo gli aveva dato un appuntamento in un determinato orario, in un determinato posto. Non lo sapeva quello che avrebbe visto, quello che sarebbe successo. Faceva un freddo cane, la strada era viva o così almeno a lui pareva, tutti parevano più vivi di lui da qualche mese a questa parte, da quando la Fratellanza aveva deciso di porre fine alla vita di sua sorella. E lui con lei. Così si era ritrovato a parlottare, di cose da vedere, di qualcosa che avrebbe visto e dove sarebbe dovuto rimanere piuttosto calmo. Anche se non capiva di che cosa si parlasse. Tanto che quando la portiera del furgoncino si era aperta rivelando un’immagine identica a quella di Iphigenia non ci credeva. Pensava di essere impazzito del tutto. Chloe gli aveva stretto la mano e lui l’aveva stretta ancora di più. Chloe… Sto diventando pazzo. Glielo aveva detto. Non ci credeva che fosse davvero Effie.  Sono viva.  Lo aveva detto, le mani si erano strette contro il volto del telecineta. Era viva ma non ci credeva.
Quasi ancora non ci crede quando si scambiano i messaggi o quando la fissa cantare mentre stanno chiusi dentro al furgone con la pioggia che batte contro i vetri. Lei camuffata come se dovesse fare una rapina, lui pieno di cibo unto e fritto che le rifila. Ma è lei nel modo di fare, nelle sue mani minute, nella sua voce aggraziata quasi da ragazzina. Che indossi una parrucca, abiti larghi e un cappello in testa, niente può celarsi agli occhi di un fratello.
E se ridono e scherzano, nonostante tutto il male e lo schifo, lo fanno come se non avessero peccati di sorta, come se avessero dodici anni e il mondo fosse un bel posto. E poi lui la unge, la provoca, la priva del cibo, un po' la stuzzica solo per farla ridere o per farla lamentare. La sfama. E quando parlano di roba pericolosa, perché è sempre pericolosa e parlano del Centro SOS.. Tipo che volevo che nessun altro si prendesse una sola goccia del mio sangue, oltre te. e parlano anche degli amori e dei dolori. Della lunga lista di sentimenti e persone con la quale sua sorella si ingarbuglia ... era sconvolto. Ma è buono. E mi ama. Non quanto te.  e non si parla di facilità, perché non ci sta nulla di facile quando si parla di Iphigenia Clark, anche se lei si definisce facile. Ma sbaglia completamente o almeno così lui la pensa.
Oh baby baby, it’s a wild world
It’s hard to get by just upon a smile
Oh baby baby, it’s a wild world
And I’ll always remember you like a child, girl
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robertevansclark · 4 years
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Woah, we're half way there
Woah, livin' on a prayer
Take my hand, we'll make it I swear
Woah, livin' on a prayer
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robertevansclark · 4 years
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robertevansclark · 5 years
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From Eden
Un soffitto, perfettamente immacolato, il  ronzio di un televisore in sottofondo, Rat Baker che mangia chissà che cosa  sopra un ripiano della cucina. La maschera di Socket gettata sopra al letto,  grandi occhi azzurri cerchiati di scuro, arrossati ma che vibrano di un  azzurro intenso, vivo. Sbatte le palpebre una volta. Qualche macchia compare sopra  quel soffitto immacolato. Il silenzio. E’ totale o quasi ma dentro la sua  testa, non vi è mai silenzio, non vi è mai pace, non vi è mai serenità.
E se poi vomita tutto la sua rabbia, tutto il suo  dolore, lo fa con ferocia, perdendo ogni contatto con se stesso. Vede solo  Iphigenia. Lei canta con la chitarra e che intona quella canzone. E si sente  come impazzire per quanto durante il giorno pare quasi normale, sempre  incazzato con il mondo, sempre irruento e crudo, affilato.
E vi è stato un tempo in cui è stato allegro, gentile,  comunicativo, addirittura felice. Aveva lasciato il passato alle spalle.  Aveva dimenticato Dominic, aveva seppellito sua madre con dei bei ricordi.  Aveva una vita “normale” alla luce del sole, lontano dai fantasmi, dal dolore.
Gli anni del College avevano portato tante cose ed  erano stati una parentesi unica nel suo genere per lui. Li aveva conosciuto  Lydia. La sua donna. Le ricorda ancora come se fossero ieri quelle giornate  assieme, quello studiare assieme e pigliarsi allegramente per il culo.
La vede. Ancora. 
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“Cosa vuoi che ti dica?” è la voce di Lydia che  riempie le orecchie di Rob. Un ragazzo più giovane di qualche anno ma con un  volto ben diverso per espressione. Armato di un grosso sorriso, una dentatura  bianca e ben dritta. Seguito poi da una risata argentina.
“Guardati la faccia… Sei sporca di dentifricio” lui  fa eco poco dopo mentre tira uno sbadiglio mentre osserva la ragazza poggiato  allo stipite della porta. Lei con i suoi grandi occhi azzurri, i capelli  scuri e il corpo slanciato. Lei si guarda allo specchio e un sorriso nasce  poco dopo, una fossetta si disegna sul volto. E’ ancora con il suo pigiama  ovvero una delle magliette di Rob.
“La devi smettere, Bobbie. Non ho alcuna macchia” lo  percula, odia essere chiamato con quel nome e lei lo fa chiaramente a posta.  Muove dei passi mentre lo spinge rapidamente in camera da letto, la notte è  giovane e pure loro lo sono.
Rob in compenso fa un movimento e se la carica sulle  spalle, senza perdere troppo tempo e con la sua solita irruenza sebbene, i  modi siano gentili, affabili, lontani anni luce dalle ombre del suo presente.  Qualche passo per lanciarla letteralmente contro il materasso della loro  camera da letto. Vivevano in un appartamento non troppo grande ma pulito e  ordinato, adatto ad una giovane coppia.
“Mette un po' di musica… Una di quelle canzoni che  mi piacciono tanto” lo prega Lydia, guardandolo con una velata malizia “Una  di quelle da sveltina”.
Rob fa un mezzo ringhio divertito mentre la sente e  continua a mantenere lo sguardo mentre cattura il cellulare per usarlo come  lettore musicale. Solleva un sopracciglio “Quindi ogni volta che ascoltavamo  una di quelle erano dei messaggi subliminali per far sesso?” ci pensa su “ecco  perché l’hai ascoltata quattro volte di seguito qualche giorno fa”.
La piglia in giro mentre cerca dentro il cellulare  una di quelle preferite dalla ragazza.
“Cretino” fa eco la voce di Lydia mentre la musica  parte rapidamente e Robert la raggiunge a letto, afferrandola per le caviglie  e attirandosela a sé.
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Babe, there’s something tragic about you
Something so magic about you
Don’t you agree?
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robertevansclark · 5 years
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Se stai vedendo questo video: probabilmente ti amavo, in qualche maniera. E probabilmente sono morta. [...]
Se ti amavo, se mi amavi, non tutto è perduto.
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robertevansclark · 5 years
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Come fratello e sorella 
@october 27 - Philly, Desert. 
“Volevi parlarmi? Ma io non so chi sei… “ Iphigenia lo osserva ancora e la pausa è troppo lunga, troppo penosa per non finirla con una blanda ripetizione scoraggiata “Io non so chi sei”.
Lei si ferma, lui la osserva, tiene lo zainetto con una mano “Non potevi saperlo, Dominic non voleva che tu sapessi della mia esistenza. Me lo ha detto chiaramente a lui e a mia madre”  un’altra pausa piena quella che segue “So che è difficile credermi, ma non cambia che abbiamo lo stesso sangue, sebbene la parte più putrida” poi tira fuori dalla tasca un cellulare, il suo smartphone  “C’è una cosa che devi vedere” e preparandolo, lo passerebbe all’altra “E’ un video” poi sceglierà lei se vederlo, fatto sta che rimane con il cellulare pronto e un video da fare partire da un momento ad un altro  “Se vuoi sapere chi sono, guardalo”.
“Le cose non sono andate come voleva lui, eh?” A parlare di Dominic Clark, che nemmeno nomina, le si forma involontariamente un sorriso incattivito ed infelice sul lato destro del volto, come se l'amarezza del fallimento paterno le potesse dare una meschina soddisfazione; quando fa per prendere il cellulare dalle mani di Robert  “ Come può un video...” Sospira, non termina la frase e si arrende: preme il tasto play. 
Robert lascia che l’altra prenda il cellulare e non aggiunge altro, sembra poi intenzionato ad osservare la sua mano, vorrebbe fare tante cose ma non può. Un passo alla volta. Quando il video parte la scenetta si apre con un cielo terso, e parte di una palma. E’ una bella giornata di sole, di un tempo lontano. Vengono inquadrati alcuni dettagli, prima una macchina, poi di una rete metallica e poi un parco giochi. La ripresa poi vira ancora, inquadra il volto di Dominic per un momento. La ripresa instabile dà l’impressione che lui stia ancora mettendo a fuoco, sistemando prima di fermarsi del tutto. Poi la scena si ferma da una certa distanza, una decina di metri, mentre un gruppo di bambini giocano: altalene, scivoli, luoghi dove saltare e arrampicarsi. Per un momento, la visuale si abbassa, viene mostrata una Iphigenia piuttosto piccola, di tre, quattro anni circa, che viene lasciata andare, libera di dirigersi verso una delle postazioni di gioco. Poi l’inquadratura vira appena, lateralmente, dove vi è un tavolo di legno, con una donna e un bambino più grande, sono Robert con sua madre, lui è chiaramente riconoscibile, ha dei tratti particolari. La stessa massa di capelli castani, una maglietta bianca e gialla e dei jeans. Sopra il tavolo vi è un cesto pieno di cibo, la madre di Rob pare notare la presenza di Dominic e della bambina, tanto che va ad indicare qualcosa verso il parco giochi. La scena cambia, quando Rob, si sposta e raggiunge la piccola Effie, ed è possibile, poi vederli giocare insieme.
Iphigenia Clark deglutisce, va avanti in silenzio e preme il tasto play, limitandosi ad osservare il display del cellulare con occhi prima vacui, poi attenti, poi dubbiosi. Si riempiono delle immagini che osserva, sembra farle pezzo a pezzo, non si perde niente, aggrotta le sopracciglia ma non osa toccare il display per andare avanti, o indietro, o mettere pausa. Niente. E per un istante... sembra perfino smettere di respirare. Fino a che non capisce. Fino a che non cede il cellulare a Robert, cercando di spingerglielo addosso senza delicatezza e senza nemmeno fermare il video. “Ho capito, ho capito”  Protesta. “Potrebbe significare tutto e niente. Può significare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa. Tu... “ Lo guarda in faccia, boccheggia, sbuffa, si arrende esasperata e pigola con la voce sfinita “Cosa...”
Robert continua a fissarla, rimane in silenzio e lascia cadere tutto il resto delle affermazioni, come se non gli importasse di questo. Si mordicchia un labbro, pare teso, pensieroso ma sempre proiettato verso di lei. La mira per tutto il tempo quando lei osserva quel video, vuol dire tutto e vuol dire nulla ma questo dipende da con che occhi lo si guarda “Ascolta, con me non è stato un buon padre, anzi non è stato proprio un padre… “senza scendere troppo nei dettagli “…Possibile che tu non voglia averci nulla a che fare con me e se è questo che vuoi, io lo rispetterò. Ma volevo venire qui e sono venuto. Volevo dirti che siamo fratello e sorella. Volevo però che fossi tu a scegliere e non lui per noi” sospira piano ma cerca di apparire il più serio possibile “Ti chiedo solo di pensarci…”
Eppure, gli occhi sono ancora fermi al cellulare ancora tra le mani di Robert, assuefatti da quelle immagini che ha così alacremente allontanato dai suoi occhi. Sembra perdersi perfino le prime parole, forse nemmeno lo ascolta e torna su di lui sorpresa come se lo vedesse per la prima volta, che sembra che non si fosse accorta che era ancora lì. Boccheggia per qualche istante […]“Anche se fosse...” Deglutisce  “Anche se fosse vero che abbiamo lo stesso sangue... “ respira quasi a fatica, per questo distoglie lo sguardo. “Questo ci rende davvero fratello e sorella? Io NON SO chi sei” Ripete, il tono gretto, graffiato. Sembra parli per ferire. Forse rabbia, da come tiene fermi i muscoli nervosi.  “Che potresti volere da me” E di nuovo “Da una come me”.
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 Today
Ricorda ancora le parole che si sono scambiati quel giorno nella Desert, più di un anno fa, mese più e mese meno. E sono ritornate tutte in mente, in questi giorni. In quei giorni dove come un pazzo ha cercato sua sorella, notte dopo notte. O meglio Socket lo ha fatto. E le parole di Crawler, quelle voci che poi sono sopraggiunte con il rapimento di Echo, gli avevano dato la conferma e aveva messo insieme i pezzi. Era stato come ricevere un pugno in piena pancia. Ed il conforto era qualcosa che non poteva avere, non con quella brutta sensazione. Anche se ti stanno vicino. Anche se passi la notte in maschera a battere le strade della North. Anche se batti i siti internet, il deep web, provando ad agganciare quel maledetto sito che porta ad un angosciante countdown. Lo aveva promesso, niente colpi di testa. A Jane, A Chloe, ad Effie. Tutti gli chiedevano di non far qualcosa che potesse danneggiarlo sebbene volesse farlo, qualcosa di incredibilmente stupido, per non sentire più nulla. Non quella rabbia, non quell’ansia, non quel dolore. Non quell’orribile sensazione di impotenza, di inutilità. Nello sguardo e nel cuore solo la morte, come un velo, come un lenzuolo era calato su di lui. E durante la diretta streaming, mentre stringeva Rat Baker, portato via dal Centro SOS per prendersene cura, mentre stava nascosto nel rifugio segreto che sua sorella gli aveva mostrato, era morto anche lui. Buona parte, quella parte buona o quel poco che era rimasta in vita solo per sua sorella. Era rimasto solo il peggio, un guscio carico di sentimenti negativi e distruttivi. E aveva guardato tutto, non aveva levato lo sguardo manco per un secondo. Costringendosi e non solo per lui ma per lei. Per non lasciarla sola. Glielo ha detto con il pensiero. “Sono lì con te, Eff. Presto sarà tutto finito. Presto il dolore sarà svanito e starai bene”. Ha continuato a ripeterlo, ad abbracciarla mentalmente con i grandi occhi lucidi, con il volto arrabbiato, triste, allucinato segnato dalle lacrime. Non aveva detto nulla, le parole erano come strozzate. Ed era come rivivere la morte di Lydia ma con una maggiore lucidità. Una consapevolezza diversa “Non sei sola”.
Le parole di Rage hanno l’effetto di scavare contro il derma, affondare nella carne, recidere tutto quanto, i muscoli, i tendini, le vene, le arterie fino all’osso. E il volto si contorce, diventa pressoché una maschera colpa di disgusto, rabbia ma soprattutto odio. Infatti, Philip Rogers è riuscito nel triste primato di farsi odiare più di Dominic Clark. Qualcosa che pensava non potesse mai succedere. Ed ora, osserva sua sorella, il suo corpo minuto, che mostra tutto ciò che le è successo. Sbatte le palpebre e accarezza lo schermo. Deve essere forte per lei, almeno finchè respira ancora. E’ lì con lei. Sempre. Poi nulla, le ultime parole, quel grilletto e quel proiettile che colpisce e affonda. Il capo di Effie che finisce in avanti, come quello di una bambola rotta. Il filo si è spezzato, tutto è finito con rapidità e semplicità.
E’ tutto finito oppure è tutto cominciato. Un nuovo punto. Un nuovo inizio. Oscuro e tragico. Un enorme buco nero. E questo basta a liberare il suo potere, a scagliare oggetti contro pareti, rompendo, distruggendo.
“Devo dare una sistemata, Ef”, sbianca mentre si guarda intorno, forse rassicurato dal fatto che si sia rotto tutto, adesso il fuori è uguale al suo dentro. Sbatte le palpebre, poi si passa una mano per cacciare le lacrime, per liberare tutto quello che ha dentro e poi per urlare, urlare fino a sgolarsi, a raschiare la voce, a rendere quel suo volto arrossato, come gli occhi azzurri sgranati e febbricitanti. La vena del collo che si gonfia, il potere che esplode ancora una volta.
Alla fine, c’erano davvero riusciti loro, erano diventati come fratello e sorella.
Come fratello e sorella.
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robertevansclark · 5 years
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La solitudine è quella che si è scelto come compagna. Lo si legge ogni volta che guarda sua sorella Iphigenia, lo vede mentre stanno nascosti in un covo che sa di casa. Un posto segreto, quasi romantico, da ammazzarci la gente, magari degli innamorati troppo innamorati. Innamorati pazzi. Un posto dove si può parlare in santa pace. Dove rimane tra me e te. E non sbianca nemmeno quando glielo confida, quando sviolina tutta una serie di nomi di persone, di fantasmi del suo passato, raccolti a cucchiaino e non identificati. Non stramazza con gli occhi quando Effie ammette che se la prendono adesso l’ammazzano. Pare una statua di sale. Una di quelle grottesche che perdono definizione man mano che la vista di appanna. E non sbianca ancora quando si cita di un “padre” che non è Dominic Clark. No, non è lui. Perché lui non ha mai fatto nulla di buono nella sua vita ma era un altro padre, uno decente che le ha regalato una casa dove vivere, a lei ed Austin. Poi i Night Soldiers. La Gifted. E se da una parte si è sentito terrorizzato all’idea di perderla, dall’altra si è sentito orgoglioso di lei. Sua sorella è una guerriera che gli ha offerto un posto dove stare, una casa dopo tanto tempo. Altri nomi, altre battaglie, altre lapidi scivolano dentro a quel discorso. Che abbia ucciso, che abbia torturato, che abbia gettato corpi dentro cassonetti non gli importa davvero. Semplicemente accoglie il tutto. Lei glielo dice che lo fa per amore e lui le crede ciecamente. Del resto, è proprio da lei.
 La solitudine è quella che si è scelto come compagna. Lo si legge nella faccia nascosta dalla Maschera di Socket mentre segue echi lontane, maschere illegali. Le prime pattuglie. Le nuove alleanze. La nuova speranza. Un incontro segreto anche questo. Un contatto diretto con qualcuno di famoso. Una celebrità come lo menziona Eadha che ha le radici ben affondate dentro i suoi ideali. Un posto come un altro quello scelto ma l’arrivo di Erkling non passa inosservato. Non batte ciglio nemmeno quando si parla della Guerra alle porte ma osserva il NS come fosse una sorta di poeta. Schiacciare. La consapevolezza che non vacilli mai. L’arma più affilata. Il carattere più potente contro un indottrinamento senza cuore e anima. Gli avrebbe quasi stretto la mano ad Erkling per le sue parole, perché Socket di parole ne mette due in croce e fanno anche male molto spesso. Ma è un patto suggellato, un segreto non confidato a nessuno come nessuno è a conoscenza di chi si celi lì dietro. Ma che importa se la Causa è tutto quello che conta?
La solitudine è quella che si è scelto come compagna. Lo si legge nella faccia quando fissa Jane, quando vede le sue lacrime. Perché lui è uno che fa danno, spesso involontariamente. Con le sue parole arriva e spacca, non per ferire molte volte ma è chiaro che le sue buone azioni finiscano poi dentro al cesso. Come puoi spiegare qualcosa che nemmeno lui sa comprendere? Come se stesso? E non può dirlo. Ci son segreti che danneggiano gli altri se rivelati. Comprende sua sorella piuttosto bene al momento. E non poteva esimersi da fare danni anche oggi, quando arrabbiato ha vomitato di contro tutta una serie di verità, le uniche che poteva mai dire di un passato lontano, di un altro se stesso. E persino a Chloe glielo ha detto che i legami andavano scelti con cura e proprio lui, che non sa scegliere o che non vuole scegliere. Che vive nel passato di un amore non-morto. Che bisogna correre veloce. Bravo nei consigli per gli altri. Fate non come me. Ed è per questo che è più facile tagliare per proteggere, tenere tutti a distanza, lasciando tutti fuori e nessuno dentro. 
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robertevansclark · 5 years
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“Che ti hanno fatto?” disse lei
“Che ti hanno fatto?” disse lui.
Lei i suoi li strabuzza e tiene la testa così storta a fissare la persona in avvicinamento che gli occhiali da sole le scivolano dal naso fino ad arrivare al suolo, e quando lei salta in piedi li calpesta senza nemmeno pensarci mentre taglia le distanze piombandogli addosso, alzando le mani per cercare di agguantargli il volto e tenerlo voltato verso di lei, solo su di lei, occhi negli occhi - così simili- con uno sguardo allucinato.
“Che ti hanno fatto” Ripete, lasciandolo per tentare di stringerselo addosso dopo avergli passato le braccia attorno al collo, con forza, quasi con prepotenza.
Lui inchioda, l’aspetta questa volta. Occhi su occhi, lui un minimo contrae il volto ma vi è anche una velata tristezza dentro quell’azzurro tanto cristallino quanto ferito. Una delle sue mani va a poggiare sopra quella dell’altra, piccola in confronto alla sua. Accenna un sorriso stanco.
“Ti ho visto volare giù da un palazzo. Pensavo fossi morta” dice con un gelo nella voce, un moto nello stomaco che si contrae e si contorce e quando l’altra lo stringe, lei fa lo stesso. Chiude gli occhi, la stringe.
“Non è così facile liberarsi di me” Gli rivela con un soffio e un sorrisetto che vorrebbe essere rincuorante - non riesce, non del tutto, fino a che non pronuncia le parole magiche. “Non possono farmi niente” 'Loro', una minaccia lontana, ora che lo stringe un po' più forte.  “Non possono farci niente.” Ora che sei con me. […]
“Non dovevi venire.  Non saresti dovuto venire. E' pericoloso qui”.
“Invece dovevo”, replica chiaramente con punti di vista diversi al momento ma lui fa un piccolo cenno, accarezza la mano dell’altra. La sua è ruvida, mostra qualche callo, ma è gentile e calda in quelle piccole carezze. Probabilmente non tocca qualcuna, in questo modo, da eoni “Anche fuori da Philly, è pericoloso, Eff”.
 E quante altre cose avrebbe voluto dire alla sorella. Si era trattenuto il più possibile. C’erano tante di quelle cose, covate dentro, in quei mesi, che gli bruciavano dentro. Era come avere una sorta di malattia che ti scombussolava tutto, spostava gli organi interni, sentivi cose che nessun altro sentiva. Difficile da spiegare sebbene, fosse certo, che qualsiasi cosa avrebbe detto o non detto, Iphigenia l’avrebbe capito. La sensazione era sempre quella, che solamente lei potesse davvero sentirlo, comprendere quelle sua mancanze e deviazioni, quel suo essere vuoto e pieno allo stesso momento, quel vivere al contrario. Sottosopra. Ed in effetti, lei era l’unica persona al mondo del quale si fidava. Gli altri, erano ombre, spettri, abitatori di un mondo che non comprendeva, che non riconosceva più. Dal quale si teneva a distanza. 
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robertevansclark · 5 years
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E’ solo con i suoi pensieri, in questa notte un po' fredda, fisso, immobile, scruta una Philadelphia viva, pulsante, affilata. Le luci dei grattacieli, i vicoli stretti e puzzolenti del South e lui, fermo, sopra un grosso palazzo rovinato dal tempo e da chissà che altro, sta a Basket Court, la osserva dall’alto, come un pipistrello. I tratti dei volti affilati, i grandi occhi azzurri leggermente arrossati, e la barba che scende lungo quel volto bello ma stanco, un po' sporco. Un cappuccio occulta una massa castana, che si riversa in maniera indisciplinata in  avanti, contro la fronte, contro le tempie. Ancora guarda il telecineta, l’aria fredda gli sfalda i polmoni, rilascia zaffate calde, pensieri latenti e sentimenti morti. Rumori lontani, risate, qualche urlo lontano, qualche rissa, qualche gemito d’amore. Tutto pulsa, tutto è viva e anche lui. Seduto, con i piedi che ciondolano nel vuoto, la schiena leggermente incurvata.
Stringe i denti, serra la mascella, gioca con un coltello a serramanico, lo tiene sospeso sopra il suo palmo, la punta che si poggia contro il derma, il potere che lo stringe, lo avvinghia in una maniera invisibile, una morsa che non ha forma. Guarda ancora il campetto da basket da quella porzione periferica privilegiata. Ci ha già bazzicato in passato, qualche volto torna, un sorriso scappa. Ma di sua sorella ancora nessuna traccia. Fa una mezza smorfia, oscilla con il capo da una parte all’altra. Sente che è vicina nonostante tutto, che sta bene in un modo o nell’altro, immersa nei suoi casini, nei suoi disagi mentali ma viva e per il momento è tutto quello che gli importa.
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robertevansclark · 5 years
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Philly. Chinatown. Finally...
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robertevansclark · 5 years
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A place - Part III
Che sensazione di disgusto sta provando. Il sapore ferroso del sangue e quello della bile gli riempiono tutto il palato. Si sente uno schifo dentro e fuori. Difficile capire dove sia messo peggio. Ogni respiro è una vampata di dolore rovente, si irradia per tutto il torace che era già stato messo a dura prova precedentemente. Altro respiro, altra zaffata che si ramifica dalla spalla sinistra fino al braccio. Il nucleo centrale di tutto questo, il bossolo incastrato tra i suoi tendini e i suoi muscoli. Fissa il cielo terso, qualche stella solitaria, la luna calante sollevata oltre la sagoma delle montagne nere. Ora vi è solo il silenzio, solo l'armeggiare celere di Susan, al suo fianco, concentrata, preoccupata mentre prova a tamponare la sua ferita. Il sangue non smette di sgorgare. La nuova camicia hawaiana del mutante è pregna di fiori ormai sporchi di terra e di sangue. L'aveva trovata stesa in un vicolo. Era persino della sua taglia. Un colpo di fortuna. L'adrenalina sta scemando poco alla volta e il dolore si fa sempre più forte così come i sensi di colpa che si affacciano quando posa gli occhi azzurri in direzione del volto di Susan. Fissa quel suo occhio nero, livido, che le gonfia la palpebra superiore, che le deforma il volto e la vista. Lei si strappa parte della sua divisa da infermiera con un coltello a serramanico, fa diverse strisce lunghe.
"Ti devo portare in ospedale"
"Niente ospedale. Portami a casa tua"
La voce di Robert è bassa, gutturale, sporca ma non accetta repliche, il tono è abbastanza eloquente. Ogni respiro pare costargli fatica ma non si lamenta, solo il suo volto si contrae, gli occhi si velano, si sforza di rimanere lucido in quel dolore che sente di meritarsi. Delle volte si sente come se fosse una calamita per i guai, per i casini. Dove va succede sempre qualcosa. È la maledizione trasmessa da quel sangue marcio. Da suo padre.
Susan lo guarda intensamente, le pulsa la faccia, scuote il capo mentre le sue mani abili ma ancora tremanti cercano di sollevare il telecineta, di sederlo contro quella terra fredda e marrone. L'altro si lamenta con forza questa volta, la pelle tira dannatamente.
"A casa non avresti le stesse cure... E non ho tutto il necessario..."
"Procuratelo. Come lo giustifico un trauma balistico?" ringhia quando le bende si stringono contro la sua ferita, gli occhi pieni di vita si gettano dentro quelli caldi dell'infermiera "Se vado in ospedale mi faranno degli esami e..." esita strizzando gli occhi e serrando la mascella "scopriranno che non sono registrato".
Susan si ferma per un momento, lo guarda, scuote il capo e sospira. Desiste dunque, dopo le ultime parole di Robert, termina di bendarlo e poi si solleva, recupera la borsa gettata chissà dove e il pugnale. Aiuta il mutante ad alzarsi, stringe la sua mano. Si ritrovano in piedi, in silenzio, mano nella mano, qualche passo e fissano quel corpo ormai privo di vita.
Robert fissa la sagoma inerme, lo sguardo vuoto e spento. Non prova alcun rimorso. Certe cose vanno fatte. Per proteggere gli altri. Indurisce lo sguardo. Qualcosa si è rotto dentro di lui. Per sempre.
"Mors tua, vita mea" ripete in un sussurro. Ma non era la sua di vita ma quella di Susan. Nessun altro Dominic Clark avrebbe toccato madri e figli. Lui li avrebbe protetti tutti anche a costo di scivolare sempre di più verso l'oscurità.
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robertevansclark · 5 years
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A place - Part II
Dustin lo fissa per un momento mentre continua a preparare una sacca. Robert non dice molto, il volto è ancora scuro, la pelle ingiallita in alcune parti dove i lividi sono in fase calante, si sono riassorbiti poco alla volta. Il petto gli duole ancora ad ogni respiro, la pelle tira, la fasciatura è ancora presente.
"Quando parti?" la sua voce è leggera, fanciullesca. Il Telecineta rimane in silenzio per un momento, sistema quelle poche magliette che è riuscito a comprare in questi pochi giorni. Gli avevano fregato tutto, portafoglio, moto, pistola e soprattutto i documenti. Senza quelli non può prendere nessun fottuto aereo.
"Domani" gli sorride dopo queste parole. L'altro appare deluso, osserva prima l'orologio, poi la luce calante del tramonto. Susan è in ritardo. Se ne rende conto anche Robert. Molla la sacca, poi si issa, accarezza i capelli di Dustin, lo prende, fa la lotta e poi se lo carica sulle spalle.
"Vieni facciamo una una sorpresa a tua madre. Le prepariamo la cena"
"Sai cucinare?" domanda entusiasta montando sulla schiena del bambino.
"So fare le migliori omelette dello Stato!"
Non ci mettono molto a cucinare. Dustin mette tavola, l'altro cucina. Presto la stanza si anima, la musica in sottofondo accompagna le loro voci. Robert ha una bella voce, il bambino lo segue. Il tempo passa, tutto é pronto ma di Susan nemmeno l'ombra.
"Potrebbe aver avuto qualche urgenza in ospedale" il telecineta proferisce parola mentre mette l'omelette sul piano del bambino. Poi con del catchup disegna due occhi e una bocca sorridente. Dustin ride "Lei avvisa sempre e manda Mary, la nostra vicina"
Rob prende a guardarlo intensamente, poi sistema l'omelette di Susan, la chiude tra due piatti e infila il tutto in forno. Il loro forte aroma riempie tutta la cucina. Il mutante scivola sulla sedia, agguanta coltello e forchetta, taglia in parti uguali. Ora appare silenzioso.
"Vedrai. Tra poco arriva" la forchetta affonda.
"E se lo avesse incontrato?"
"Incontrato chi?"
"Papà"
"Tuo padre!?" é la prima volta che viene nominato.
Dustin annuisce, stringe la forchetta "Lui la picchiava".
Robert si blocca, sgrana gli occhi. Alza il volto, lo fissa e adesso appare davvero preoccupato "Shit..." gli scappa a denti stretti, prima di alzarsi velocemente dal tavolo.
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robertevansclark · 5 years
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What will you do? Will you huge me?
How will you feel? Upside down?
So don’t judme me. Please, stand by side.
Take my hand.
Dry my tears and my blood.
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robertevansclark · 5 years
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A place - Part One
"Mamma, c'è dell'immondizia che si muove".
Il bambino fa un passo indietro, chiude il cassonetto, spaventato mentre quella donna avanza, con quella falcata sicura che ha ogni madre.
"Sta lontano... Potrebbe essere un topo" lo dice prendendo un tiro dalla sua sigaretta, trattenendola tra le labbra e tirando su il coperchio metallico del cassonetto con la destra. Rimane un po' a fissare quel cumulo di buste scure, maleodoranti. Storce il naso. Sbatte le palpebre, poi una mano emerge, si muove. Pare una scena da film horror, con tutti quegli zombie che ritornano alla vita. Ed è così che Robert si rianima, dopo un pestaggio selvaggio e dopo averlo derubato, dopo averlo buttato malconcio dentro a quel cassonetto. Fa dei versi, chiede aiuto, la donna si spaventa e richiude il coperchio di getto senza pensarci due volte. Fa due passi indietro, il bambino chiede, lei intima di rimanere indietro.
“E’ un topo bello grosso?” domanda sempre il figlio, stringendo tra le mani il suo skateboard. La donna avanza ancora, tira su il coperchio e poi comincerebbe a farsi spazio ritrovandosi praticamente Robert, gonfio, violaceo sul volto e pieno di lividi sul petto, che si intravede attraverso la camicia aperta.
Rob ha il tempo di aprire l’occhio buono, il suo occhio azzurro è vivo, pulsante, nonostante tutto mette a fuoco per bene l’immagine di Lily. Capelli rossi, lentiggini, giovane. Piuttosto carina. Abbozza un mezzo sorriso. Poi sviene del tutto. Non riesce a dir nulla. Ha fatto un ultimo sforzo solo per farsi trovare. Il suo corpo è incredibilmente robusto, prende colpi ma generalmente, la sua stessa ostinata resistenza non gli permette mai di arrendersi.
Si risveglia a distanza di molte ore. La luce del giorno ha lasciato lo spazio a quella della sera, la temperatura è più fresca, la puzza è scomparsa, ora solo l’aroma del sapone riempie le sue narici. Sbatte le palpebre  mentre fissa il soffitto bianco di un appartamento modesto. Accarezza lenzuola pulite, il suo corpo è fasciato, nel torace. Si accarezza il volto. Qualche cerotto. Qualcuno l’ha medicato. Si solleva quanto basta. La sua roba sporca è scomparsa. Indossa solo dei boxer che non sono manco suoi e che gli stanno un poco stretti. Sono di una taglia inferiore. Devono averlo anche lavato oltre che medicato. Ed è fatto bene. Non sono fasciature improvvisate ma di qualcuno che sa bene quello che fa. Da lontano, da un’altra stanza, una televisione proietta un cartone animato, dalla cucina il rumore vivo di chi armeggia con le pentole. E’ una scena così naturale, così pura e viva che gli strappa un doloroso ricordo dal petto. Quella è una quotidianità che non gli appartiene che gli ricorda la sua infanzia, quando lui e sua madre vivevano felici, lontani dall’ombra di Dominic Clark. Si alza, barcolla appena ma è lucido. Segue la scia dei rumori, delle uova che friggono assieme alle patatine. Raggiunge il salotto. Il bambino è seduto su una poltroncina di pelle usurata dal tempo. Lo vede. Si alza e scatta verso la cucina.
“Mamma! L’immondizia si è svegliata!” direbbe nascondendosi subito dopo. Robert tira un sorriso sghembo, evita una macchina telecomandata, qualche altro gioco e fila dritto fino alla cucina. Ogni passo è doloroso, ogni respiro gli strappa una smorfia sofferente.
“Non è un’immondizia, tesoro. Ha un nome sicuramente…” direbbe con calma, non facendo una piega nemmeno quando si ritrova Rob mezzo rincoglionito in cucina, in mutande, mezzo fasciato e stordito. Lily indossa l’uniforme da infermiera, i suoi capelli rossi sono raccolti in una coda alta e disordinata. Mette tavola per tre mentre il bambino l’aiuta ma tenendo sotto controllo anche la mummia.
“Sono Robert. O Rob” la voce esce lui arranca fino al tavolo, ancora stordito per quello che vede “Mi hai dato qualcosa?” domanda verso la donna che in tanto si appresta a gettare le uova e le patatine nei piatti.
“Un antibiotico. Hai un brutto taglio sul pettorale, giusto per evitare che si infetti” spiega sorridendo verso di lui. “Io sono Lily. Questo bambino è mio figlio, Dustin”. Prende da bere, una birra fresca, dell’acqua, una coca. Dustin sorride, gli mancano due denti. Ha i capelli rossi come sua madre, una zazzera indisciplinata. Si siede. Poi cenano assieme, chiacchierano. Scopre che lei è un’infermiera, che il suo turno è appena finito e che ha avuto giusto il tempo per preparare il pasto per suo figlio e un perfetto sconosciuto.
Poi Dustin va a dormire e loro rimangono soli. Lily gli offre degli abiti maschili puliti, appartenuti a chissà chi, chissà quando. L’atmosfera si scalda dopo un paio di birre. E con la sua solita naturalezza finiscono a letto insieme, nonostante le fasciature. Infilarsi dentro le mutandine di una donna è una dote naturale per lui, quasi un bisogno delle volte per sentire di appartenere a qualcosa. Per cercare un contatto probabilmente. La vita.
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robertevansclark · 5 years
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Memories. Dream. Madness
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Newness (2017) Directed by Drake Doremus
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